“C’è anche domani”

Io non ho l’autorevolezza per scrivere un commento su Ennio Doris ma entro in punta di piedi come si entra dentro le storie degli altri.
Ho ricevuto questo libro in un giorno di dicembre. Ero passata in Banca Mediolanum dal mio consulente finanziario e avevo deciso di mettere da parte alcuni sogni.
Era il dicembre 2019. Quello prima del covid. Quello quando era tutto bello e avevi una marea di sogni ambizioni progetti viaggi. Quello che per la nostra generazione, caduta in braccio alla crisi del 2008 e caduta in braccio al covid, si trovava a poter finalmente vivere serenamente.
Noi nati senza pensione. Noi nati schiacciati da due braccia che si contorcono tra loro.
Ho sempre sentito parlare bene di Ennio Doris. Lui. Veneto. Sorriso cordiale. Con ancora quegli occhi da bambino che dentro ci vedevi il mondo e i sogni attorno. E ho sempre sentito parlare bene di Banca Mediolanum. Sarà perché mia sorella ci lavora dentro, ma in Veneto lo sanno cosa vuol dire avere a che fare col mondo delle banche.
Io lei la vedo felice contenta gratificata. E nel lavoro è la cosa più bella che ti possa capitare. Quando non lo sei, vattene.
Mi ricordo ancora quell’aneddoto raccontatomi da qualcuno in banca dove Ennio Doris aveva pagato la scuola a una ragazza del suo paese che non poteva permettersi gli studi.
Lei poi è morta di un male incurabile e lui è andato al suo funerale. Figuratevi. Lui va al funerale, il presidente di Banca Mediolanum, e a questo mondo c’è gente che manco risponde al telefono.
Tutti sanno da dove viene Ennio Doris.
Tombolo.
Un paesino di tremila e seicento abitanti a venti chilometri da Padova che mio Dio quando ci sono andata c’ho visto i cartelli in piazza e le statue dei famosi mediatori.
I mediatori sono quelli che compravano bestiame. Contrattavano, facevano. “Parlavano un gergo tutto loro”. Un paesino sconosciuto al resto del mondo ma che è diventato uno dei centri di commercio di bestie più importanti d’Italia.
Ricordo ancora quando mi dettero questo libro.
Io ero scettica, pensierosa, non sapevo se fare o meno qualcosa, se crederci o no. Noi così senza appigli. Così senza ganci.
Ricordo ancora la borsa che indossavo quel giorno. Era bella. Colorata. Di una me bizzarra, io, vestita sempre di nero. Ero contenta di metterci i miei sogni. Ma non sapevo se avessi potuto avere una prospettiva che si proiettasse sul futuro e che mi consentisse di dare spazio e forma ai miei bisogni.
Così il mio family banker – si chiamano così i consulenti finanziari di Banca Mediolanum – vedendomi sospesa mi disse: “Lo sai cosa dice Ennio Doris?”
“No cosa?”.
“Che c’è anche domani”.
Ma qualche mese dopo arrivò il covid e io pensate feci in tempo a conoscere Pirovano. L’attuale presidente. E a parlarci assieme. Un uomo tutto d’un pezzo. Serio. Di ghiaccio. Aveva la mandibola che non la muoveva mai. Nemmeno quando parlava. Era marmoreo. Scultureo.
Quando Ennio Doris chiamò Luca Zaia per fare una grossa donazione per le terapie intensive in quel momento al collasso, mi venne un nodo in gola.
Ho sempre sentito parlare di Ennio Doris come una persona altruista. “L’altruismo è la miglior forma di egoismo”, diceva.
E conoscendo molti family bankers so che questo principio è stato preso appieno.
Le parole negative sono escluse dal vocabolario in Banca Mediolanum. Se tu entri in una filiale c’è voglia di fare, c’è entusiasmo, zero lamento, c’è anche da scherzare per non prendersi mai troppo sul serio. Se qualcuno sbaglia. Si va avanti. Perché a rimarcare sull’errore si fanno solo più danni. Rimanendo umili.
Perché questo era Ennio Doris. Umile. Lui cresciuto in assoluta povertà. Lui che andava a dare da mangiare alle mucche. Lui che da piccolo viveva con la sua famiglia in due stanze e la mattina si svegliava con i muri ghiacciati. Così la madre di buonora accendeva il fuoco e metteva i vestiti di Ennio per la scuola davanti alla brace.
Lui che aveva sempre lo stesso vestito perché la famiglia non se lo poteva permettere, lui che studiava come un matto, che metteva in pratica i principi del padre.
I suoi genitori gli avevano detto: “Qualunque cosa tu faccia, devi farla molto bene. Devi sempre dare il meglio di te”.
Quando il padre da piccolo ebbe mezzo sentore che Ennio avesse potuto anche solo pensare di avvicinarsi alla politica gli disse: “Figlio mio nella vita non guardare i “partiti”, guarda gli arrivati”.
Lui, veneto, robusto, fibra solida. Che delle parole come riconoscenza gratitudine, coraggio e orgoglio ne aveva fatto la sua bussola. Catapultato e proiettato in un mondo in cui prendono forma i sogni, senza perdere mai di vista le proprie radici. La propria cultura. Le proprie tradizioni.
Per lui Tombolo era il paese più bello del mondo. I suoi capisaldi erano: famiglia, onestà, trasparenza, libertà, centralità della persona.
Sua sorella lavorava 14 ore al giorno. Erano i tempi in cui la sua famiglia doveva contare anche le fette di formaggio.
Quando Ennio si diplomò entrò in banca. Non conosceva sabati domeniche, ferie, il suo viaggio di nozze lo fece partendo all’improssivo, non sapeva cosa volesse dire Ferragosto. I suoi sabato e le sue domeniche e le sue sere le passava in giro dai clienti, le prime consulenze a domicilio, a vedere di cosa avessero bisogno questi. Perché per lui prima veniva la persona, e poi il conto in banca. “Non erano anonimi numeri di conto su un tabulato di un computer – diceva – ma persone”.
E dietro quelle persone c’erano sogni. Desideri. Progetti.
Quando si era trovato a lavorare l’ultimo dell’anno era orgoglioso. Perché “lo stipendio era una benedizione”. Perché si sentiva fortunato. “Perché – diceva – eravamo orgogliosi del nostro lavoro. Della nostra professione. Ci sentivamo fortunati e lo eravamo davvero”.
Mica come oggi che ti chiedono di non lavorare il sabato. Mica come oggi che ti chiedono di non lavorare di domenica. Mica come oggi che ti chiedono di lavorare in nero o non lavorare perché così prendono i sussidi e il reddito di cittadinanza.
L’unico giorno che marinò il lavoro, dice Ennio, fu quando gli dissero che non avrebbe dovuto fare il servizio militare. Era contento perché così avrebbe potuto dedicarsi al suo lavoro.
Il primo viaggio con gli amici si concesse il lusso di un gelato pagato venti lire.
La sua prima busta paga fu di 47 mila lire.
Licenziato e poi riassunto perché la banca dove lavorava non voleva accollarsi la convalescenza.
Ecco chi era Ennio Doris.
Sorriso cordiale. Visionario.
Appassionato di ciclismo, lui sapeva benissimo cosa fossero le salite, le discese, le volate, “nella vita ci sono le estati gli inverni, la notte il giorno, momento di crisi e di serenità”.
Lui che a tutti, lì dentro, ha dato vita e motore, infondendo le capacità e caparbietà di andare avanti, sempre e comunque, di superare le paure, di non farsi scoraggiare dalle tempeste.
Ma di attraversarle.
Ecco chi era Ennio Doris.
Quando quel 30 maggio 1953 andò col padre a sentire la radiocronaca del Giro d’Italia al bar del paese. Lui tifava Coppi. Il ciclismo in Veneto ha sempre catalizzato tutti. Pure me che alle gare ci facevo la Miss.
“La radio tra un collegamento e l’altro – raccontava Doris – gracchiava. Quello che accadeva era lasciato all’immaginazione”.
Ma quel giorno.
Quel giorno il rivale di Coppi era Koblet. C’erano i passi da affrontare, Pordoi, Sella, quelli che ora i motociclisti fanno in moto.
Nella discesa tra le due cime, Koblet scatta e allunga. Ma sulla salita Coppi rimonta.
Sembrava fatta. Ma sulla strada verso Bolzano, Koblet rimonta e arriva con Coppi sul traguardo, mantenendo la maglia rosa.
Ennio Doris, allora bambino, era disperato.
Senza parole. Senza energia. Privo di qualsiasi entusiasmo.
Sulla strada lungo il ritorno il padre lo prende tra le braccia e gli dice: “Ennio ricordati che c’è anche domani. C’è anche domani”.
Che tanto ricorda quello che mio padre mi ripete sempre. Sarà un vezzo veneto. “Serenella hanno fatto Venezia in mezzo all’acqua”.
Il 31 maggio 1953 Coppi nella tappa Bolzano – Bormio, stacca Koblet e vola da solo verso il traguardo. Aveva compiuto il miracolo.
Quello diceva Doris, fu il suo più grande insegnamento di vita.
“A patto di essere pronti e preparati”, sì.
C’è sempre anche domani.
Il sogno non finisce oggi.

#sbetti

Ci sono posti dove tornerò sempre

21 novembre 2020

Dal diario di Facebook del 21 novembre 2020

Ci sono dei posti dove tornerò sempre. Casa. Oggi a Venezia è la Madonna della Salute. Ci sono dei posti che mi riappareggiano l’anima. Che me la cullano. Me la caricano. Me la riappianano.
Quando devo pensare adoro sfinirmi e farmi male. Devo sentire che le gambe corrono da sole. La mia testa deve essere completamente concentrata sul corpo. Devi avere la mente annebbiata dal freddo e dalla fatica per vederci chiaro.
E allora ci sono dei posti dove da qui se ti sporgi un po’ più in là ci vedi le montagne, che giocano a nascondino con le nuvole, che invece quando il cielo è chiaro limpido perfetto le vedi bene, alte, erette, dritte. Immerse sullo sfondo creano figure dipinte nel cielo. Svettano verso l’alto. E sei lì che te le immagini. Te le immagini le montagne quando ti avvicini. Te le immagini di starci appresso. Di salirci addosso. Quando respiri l’aria, l’odore il sapore di montagna. Quando la sigaretta non ti sembra la stessa perché è quella che senti fredda secca gelida. È quella che sa di montagna. Che sa di fresco. Che sa di aria incontaminata. Quella che le dita ti si rattrappiscono dal gelo.
E ci sono quei posti dove gli alberi li vedi tingersi di rosso arancio arancione. Che sagomano figure lungo il cielo, con il sole che tramonta dietro. Ci sono posti che sanno di casa. Che sanno di casa sempre. Per noi abituati a sentirci a casa ovunque. Posti dove il sole tramonta e sorge sempre. Anche nella notte. Questi sono i posti dove mi piacere camminare. Correre. Sentire che i pensieri scivolano via lungo le gambe e il corpo si rigenera tutto. La mente spazia. Si apre. Coltiva nuove idee. Acquista nuova forza. Assume nuovo vigore.

#sbetti

Quando avevo 25 anni non mi fecero entrare in discoteca

Ricordo che una sera, tipo dieci anni fa sono andata in una discoteca a Jesolo, quando ancora si poteva, ed essendomi dimenticata la carta d’identità perché dovevo fare la figa con la borsetta, non mi hanno fatto entrare.
Avevo 25 anni. Ma il tipo buttafuori, in tutti i sensi, credeva che io di anni ne avessi 16.
Del resto ho sempre dimostrato meno.
Il mio cervello però era già all’epoca così talmente evoluto che me ne tornai in auto e mi misi a dormire, aspettando i miei amici che nel frattempo erano andati a divertirsi.
Non me ne sono andata in piazza a scimmiottare e gridare alla dittatura perché non mi hanno fatto entrare in una discoteca.
Anzi. Ci ho anche guadagnato in soldi di biglietto e in ore di sonno. E mi sono risparmiata una di quelle classiche serate dove gli asparagi giganti e le oche giulive starnazzano a bordo pista nell’attesa che qualcuno abbocchi.
Ora io davvero non riesco a comprendere perché la gente fa tanto rumore per un certificato. Qualcuno mi ha detto che sono giovane. Io invece dico che qualcuno è rincoglionito. Perché se per entrare in discoteca ti chiedono un documento, è anche assai probabile che in una situazione di emergenza quando la gente cantava dai balconi e guardava i morti sopra i carri diretti al campo santo, qualcuno voglia anche essere sicuro che dentro qualche locale ristorante bar pizzeria teatro cinema, anche al lavoro, visto che bisogna mangiare, ecco non ci sia qualche covidizzato senza vaccino e ripeto senza, che ti attacca il virus e poi tu lo attacchi a qualcun altro e via discorrendo.
Ora questo pararsi il culo dei no pass per cui secondo loro sarebbero sì vax ma no pass e per cui alcuni sì vax sarebbero no pass, veramente non sta in piedi. È tempo perso.
Anche perché il certificato verde non è altro che la prova che hai fatto il vaccino. O il tampone. O il covidino.
Quindi se uno non è contro il vaccino non si capisce bene per cosa protesti. Voglia di fare casino.
Ma consiglio di mettersi sul balcone anche stavolta con le pentole e vedrete quando casino viene fuori.
Mentre in famiglia volano porchi perché lo smartworking, la dad, eccetera eccetera.
Se proprio non volete poi, vi danno tre possibilità.
A: puoi fare il vaccino ed è gratuito.
B, puoi farti un tampone e te lo devi pagare, a meno che qualche datore di lavoro che è sempre il primo ad arrivare e l’ultimo a uscire, non decida di pagarlo di tasca propria – Giusto perché poi dite “imprenditori di merda, potere al popolo-.
C, ti danno anche l’opportunità di prendere il covid.

#sbetti

Giù le mani dai bambini, ma chi li usa i bambini?

Libero 25 ottobre 2021

Giù le mani dai bambini”. Appunto. Ma chi li usa i bambini? Sabato scorso a Padova alla manifestazione dei no Pass, alcuni bimbi sono stati fatti salire sul palco dei manifestanti che intonavano in coro “giù le mani dai bambini”. 

Ora pare logico che lo slogan “giù le mani dai bambini”, debba significa anche non usare i bambini stessi mettendoli sopra un palco per innescare una protesta. Inculcando loro che quella sia la scelta giusta. Ovviamente i fanciulli non hanno gli strumenti per comprendere cosa stia accadendo, come è giusto che sia. Però così è andata durante l’ennesima lotta per il certificato verde, il Green pass.

Erano un migliaio i manifestanti scesi in piazza a Padova armati di bandiere cartelloni e volantini. Molti dovevano essere a Trieste ma, visto l’annullamento della manifestazione da parte del Comitato 15 ottobre per il rischio di infiltrazioni da parte dei violenti, hanno deciso di rimanere in città. Stesso copione nella città di Treviso dove alle cinque di sabato pomeriggio piazza dei Signori appariva piena di persone, che a vederle sembravano tante, ma erano poco più di 700. “Trieste chiama, Treviso risponde”, intonavano in coro. E poi ancora cartelloni e manifesti “no vaxismo” “governo assassino”, e toni del genere. La cosa non è andata tanto a genio ai commercianti e ai gestori dei locali che piangono ancora i danni da covid e che sul più bello che potevano contare sulle riaperture vedono le vendite ostacolate da quelli che dal movimento “Io apro” sembra siano passati al movimento “Io chiudo”. La manifestazione oltretutto non era autorizzata, tanto che il sindaco di Treviso Mario Conte si è infuriato. E non poco. E ha detto: “adesso basta”. “Queste manifestazioni sono una mancanza di rispetto – ha fatto sapere scusandosi con i turisti appena arrivati e i negozianti – per chi tenta di ripartire. L’anno scorso a quest’ora stavamo chiudendo le città. Oggi che potrebbero lavorare, per volontà di pochi rischiamo di subire gli stessi danni economici”. Perché i più arrabbiati sono proprio loro. I negozianti. E infatti bastava passeggiare per le vie che conducono al centro del capoluogo della Marca trevigiana per vedere negozi vuoti, plateatici semi deserti, bancarelle strozzate da una accozzaglia rumorosa di gente che protesta; cori, tamburi, megafoni, casse, microfoni. Tutti senza mascherina ovviamente. Tanto quella come ci insegnano quelli che stanno facendo di tutto per farci richiudere non serve. Il titolare di un bar ha dovuto mandare a casa tre dipendenti su otto per la carenza di lavoro. In giro si vedeva gente alzarsi dai tavolini, sbuffare, mandare al diavolo tutti e andarsene. Insomma non la cronaca tranquilla di un sabato pomeriggio da trascorrere in famiglia passeggiando per le vita della città a suon di caldarroste e tè caldo.

Anche a Milano ci sono stati disagi. Non pochi. E alla fine con le vie chiuse e il traffico in tilt, chi ci ha rimesso sono stati sempre i negozianti e i gestori dei locali. “Giù le mani dal lavoro”, gridavano i manifestanti imboccando corso Vittorio Emanuele, non capendo che proprio loro in quel momento bloccavano il guadagno di chi al sabato fa il 20% del fatturato. Ergo di chi anche al sabato porta a casa la pagnotta. In piazza c’erano 8 mila persone tra cui anche esponenti del gruppo Do.Ra., comunità militante dei Dodici Raggi di Varese ma anche esponenti dell’estrema sinistra. Ha sfilato anche l’ex brigatista, Paolo Maurizio Ferrari. Ma soprattutto ci sono stati denunce, segnalazioni e un arresto. La polizia ne ha identificati e denunciati nove del gruppo Do.Ra, emettendo nove fogli di via obbligatori dal comune di Milano. Dovranno rispondere di: apologia di fascismo, manifestazione non preavvisata, interruzione di pubblico ufficio e violenza privata. L’arresto è di un egiziano di 22 anni, già inutilmente colpito da un ordine di allontanamento e con numerosi precedenti a carico, e fermato per resistenza a pubblico ufficiale. Oltre a 40 persone identificate per “comportamenti insidiosi e violenti”. A Trieste invece la protesta si è sgonfiata. E al porto, questa bellissima conca sul Golfo, non c’è più nessuno. Se non gente che lavora, navi che arrivano, camion fermi ai varchi che caricano e scaricano, e una squadra della polizia che controlla e sorveglia. C’è anche un addetto alla viabilità che avviciniamo. Lui è uno di quelli no vax e no pass. “Non esiste. Io il vaccino a mio figlio non glielo faccio fare, ancora non ha 18 anni. E quando ne avrà 18 spero mi stia a sentire”.

Ma la libertà non dovrebbe valere per tutti? “Giù le mani dai bambini”, gridavano a Padova. “Giù i bambini dal palco”. Grida il buon senso. 

Serenella Bettin

Che ci fosse il pericolo di infiltrazioni lo sapevano tutti, tranne Lamorgese

Libero 23 ottobre 2021 – la mia intervista a Filippo Dellepiane, uno dei fondatori del movimento Studenti contro il Green pass

Che durante le manifestazioni dei No pass ci fossero anche infiltrazioni di estremisti, lo sapevano anche i sassi. Solo il ministro dell’Interno Luciana Lamorgese sembra essere caduta dal pero. Il che, dopo la sua brillante relazione alla Camera e al Senato sui disordini a Roma del 9 ottobre scorso, con il poliziotto intento averificare, citiamo testuali parole, “la forza ondulatoria scaricata sul mezzo”, la dice lunga sulla capacità di gestione dell’ordine pubblico.Anche Filippo Dellepiane, 20 anni, studente universitario di Filosofia, uno dei fondatori del movimento Studenti contro il Green Pass l’ha detto. E per farlo ha scelto la sede di Piazza Pulita in onda giovedì sera su La 7. Cosa ha detto. “Noi sappiamo che ci sono delle infiltrazioni, le responsabilità sono certo nostre, quando organizziamo le piazze e dobbiamo capire quali sono le persone pericolose e potenzialmente facinorose; però ci sono delle responsabilità da parte delle istituzioni perché anche l’audizione che c’è stata in Parlamento nei confronti della Lamorgese fa vedere delle grosse lacune”. A cosa si riferisce Dellepiane. Noi di Libero l’abbiamo rintracciato al telefono.

È vero che voi sapevate delle infiltrazioni?

“Si lo sapevamo, chiaramente dopo un anno che si viene a creare un movimento e ora da qualche mese un movimento contro il Green pass è chiaro che uno conosce le componenti e le forze in campo. Non essendoci una grossa organizzazione alla base, sapevamo ci fosse questo rischio e infatti noi avevamo la direttiva nazionale di non scendere a Roma il 9 ottobre scorso. Se qualcuno avesse voluto scendere, avrebbe dovuto farlo a titolo personale, slegandosi dal movimento”. 

Quando parla di organizzazione cosa intende? Da parte di chi?

“La gestione dell’ordine pubblico è stata scorretta. Chiaramente se lo siamo venuti a scoprire noi che c’era una possibile infiltrazione è chiaro che automaticamente lo poteva sapere, anche molto megliodi noi, il ministro degli Interni. C’è stata una generale impreparazione”. 

Impreparazione, superficialità? 

“Non so quanto, né voglio sapere quanto si fosse a conoscenza o meno dei possibili accadimenti. Chi ha sbagliato è chiaramente la Lamorgese perché le manifestazioni nazionali devono essere presidiate da un numero congruo di poliziotti e di forze di polizia. Alcune scene viste alla Cgil a Roma lasciano esterrefatti. Quindi c’è un problema di disorganizzazione a livello generale sull’ordine pubblico e sulle dinamiche di piazza che ricadono per forza di cose sulle responsabilità del ministro in questo momento”. 

Quando lei vede gli idranti cosa pensa? 

“Capisco che è un’immagine simbolica. Io credo che lì ci sia stata la volontà di far vedere che lo Stato sa usare il pugno forte. Chiaro che lì c’è stata un’esagerazione nell’utilizzo della forza, e chiaro che erano manifestanti particolarmente pacifici, che hanno manifestato una minima resistenza alle forze di polizia. Anche il modo in cui si è mosso il dirigente della polizia, con i tre richiami, “in nome della legge disperdetevi” sono immagini da Codice Rocco degli anni Trenta. Mi sembra che talvolta ci sia un’esagerazione sia nei toni sia nei metodi”. 

Lei ha ascoltato la relazione della Lamorgese? Quando ha parlato di lacune, durante l’audizione, a cosa si riferiva?

“Sì anche a quella storia del poliziotto che controllava la forza ondulatoria del blindato…Per fortuna o per sfortuna non lavoro al ministero degli Interni, ma essendo io una persona che c’è stata alle manifestazioni, secondo me non si è gestito in modo corretto l’ordine pubblico. Non è una tragedia a volte capita. Lì c’era una frangia violenta; ma ci sono anche state lacune da parte del ministero degli Interni e di chi doveva occuparsi della sicurezza quel giorno”. 

Serenella Bettin

Murano chiude: bollette stratosferiche

Libero 13 novembre 2021

Il Maestro prende in mano la canna e la infila dentro al forno. Estrae una palla infuocata di vetro, rosso giallo arancione rubino. Posiziona la canna sopra un appoggio e inizia a ruotare. La manovra, la governa, la destreggia, dipinge sfumature color ambra dorate. Il vetro se ne sta lì aggrappato alla canna. Incandescente, liquido ma non troppo. Non molla. Scende da una parte e dall’altra. Il Maestro lo riacchiappa con l’abilità di un mago. Capisce l’attimo e inizia a creare. Questo è l’attimo perfetto che crea un capolavoro. Un pezzo unico. Un mestiere che sta scomparendo. Sempre meno i giovani. Nonostante qui a Murano, l’isola famosa per i suoi tizzoni ardenti, ci sia la scuola del Vetro. Durante il lockdown il turismo era scomparso. Ora che è riapparso, sul più bello, è arrivata la batosta finale. Quella dell’aumento delle bollette del gas. Per la produzione del vetro viene usato il gas metano. Il processo di fusione inizia la sera prima. Alla sera si caricano i forni. La miscela fatta di silice, soda che abbassa il punto di fusione, e calce che lo stabilizza, viene messa nei contenitori chiamati crogioli. A quella si aggiungono anche gli ossidi minerali per le colorazioni. Anche questi aumentati del 15%, come altri prodotti del 70%. Ma le bollette del gas sono stratosferiche. Impossibile resistere. Meglio chiudere. La Effetre Murano è l’unica fornace qui che fa semilavorati in vetro. Ossia rifornisce le vetrerie di Murano, poche ormai, del prodotto finito. Sono l’inizio dell’anello di questa catena d’arte e maestranza. L’ultima loro bolletta del gas, per il periodo che va dal primo ottobre 2021 al 31 ottobre 2021 è di 170 mila e 860,16 euro. Fino a giugno era di 39 mila e 706,38. Il titolare ieri, Cristiano Ferro, ha deciso di chiudere i forni, tranne uno per le ultime consegne, fino a data da destinarsi. I dipendenti in cassa integrazione. Un’azienda gestita dalla sua famiglia dal 1996, ma aperta dalla fine dell’Ottocento. In tutti questi anni nessuno ricorda il blocco della produzione per l’aumento delle bollette. “Con questi costi – dice Ferro a Libero – impossibile andare avanti. Non possiamo rovesciare il costo sul consumatore perché ci portiamo fuori mercato. Resistiamo tre mesi. E tutto questo è inconcepibile perché dopo tutto quello che abbiamo vissuto con la pandemia, proprio ora che si ricominciava a lavorare. Il costo del gas al metro cubo è slittato dai 23 centesimi di settembre ai 96”. I forni qui viaggiano a una temperatura di 1400 gradi. Fa caldo. La temperatura scotta. Il vetro viene su che sembra un dolce. Un lavoro faticoso. Che richiede attenzioni. Forza fisica. Resistenza. Prestanza. Non ci sono donne nelle fornaci, a differenza dei Paesi dell’Est. Anche Simone Cenedese, 48 anni, da 32 nella vetreria fondata da suo padre, ha ricevuto la batosta delle bollette del gas. Da 13.105,52 euro a 48.671,61. Lui rappresenta la sua categoria in Confartigianato Venezia. Ogni mattina alle cinque apre la porta della sua vetreria e inizia a lavorare. “La prima cosa che ho visto – ci racconta – dopo la sala parto è stata la fornace”. Ha 20 dipendenti. Otto forni. “Dall’estate – dice – sembrava esserci una ripresa, la cosa pareva andare bene, quasi ci fossimo dimenticati del covid, e ora questo aumento. Per aziende come la nostra è esagerato anche perché non facciamo beni di prima necessità. Per metterci al pari ho dovuto aumentare i costi del 20% e molti hanno annullato l’ordine. Ma così come facciamo?”. Le vetrerie a Murano sono 65. Danno da mangiare a 600 persone prevalentemente veneziane. Solo questo mese, otto hanno bloccato la produzione chiudendo i forni. “La maggior parte del vetro “tarocco” – ci dice Cenedese – viene dalla Cina. In Cina ora non hanno questi aumenti di gas”. Un mestiere secolare che si tramanda di padre in figlio, che diventa uno stile di vita, che annusi, che o ce l’hai dentro o non ce l’hai. Un Maestro capisce in quattro minuti se puoi diventare mastro vetraio o no. Intanto la palla di fuoco continua ad ardere. Il vetro si contorce. Scende. Risale. Bisogna fare in fretta. E allora il Maestro ricomincia. E con gli arnesi disegna.

Serenella Bettin

Ma quali stipendi più bassi

Oggi leggevo una nota dell’Inps in cui si dice che gli stipendi delle donne sono più bassi di quelli degli uomini.
Io non so l’Inps dove tiri fuori certe immense cagate che piacciono tanto al popolo di sinistra e compagnia cantante.
Fatto sta che recita la nota “le donne hanno avuto in media retribuzioni del 31,2% inferiori a quelle degli uomini. Lo stipendio aumenta al crescere dell’età ed è costantemente più alto per gli uomini (23.859 euro contro 16.285 euro)”.
Dati che da soli non vogliono dire na beata minchia dato che può benissimo essere che gli stipendi delle donne siano più bassi perché gli scatti di anzianità degli uomini siano di più. Ovvero gli uomini che lavorano hanno più anni.
Sinceramente non trovo tutta questa discriminazione che il popolo rosso e giallo reclama. Anzi.
Prima di fare la giornalista di mestieri ne ho fatti tanti. La segreteria, la cameriera, la promoter, la baby sitter, la vesti modelle, l’insegnante, la Miss alle gare ciclistiche, e sinceramente non ho mai trovato uno stipendio o una busta paga inferiore a quella del sesso maschile. Anzi. Molte volte siccome eri donna ti “pagavano” pure di più, tipo alle gare oltre alla busta ti regalavano le creme cremette i mazzi di fiori e il bacio del ciclista.
Quando facevo la cameriera idem. I miei stipendi mensili, alti devo dire, lavorando tutte le sere con straordinari, erano uguali a quelli dei camerieri maschi. Quello che lavorava con me prendeva uguale. Anzi molte volte erano le donne ad avere tutti i problemi del mondo. Come andare in bagno ogni due ore tra una portata di pizza e l’altra. L’uomo invece poteva benissimo resistere senza pisciare per l’intera serata.
Quando ho fatto la praticante invece. In qualche studio patavino ho visto la donna uscire a cena con l’avvocato. Il dominus come si chiamava. E l’uomo invece cornuto e mazziato che ci rimetteva pure i soldi delle marche da bollo.
In tutto questo ora mi pare che non ci siano queste discrepanze.
Una giornalista prende la stessa cifra sia che giornalista termini per A sia che termini per O. – Giornalisto è la nuova battaglia condotta dalla Boldrini – Se di pari livello ovviamente. I contratti sono quelli. Così come un medico. Un farmacista. Un veterinario. Un’insegnante con l’apostrofo o senza. Un avvocato.
Non ci sono parcelle che variano in base al sesso.
Non ci sono nemmeno quelle che variano in base al quoziente intellettivo.
Cosa invece di cui ci sarebbe bisogno.

#sbetti

I ladri lo sanno che possono entrarti in casa

Ammazza oh. Il buio arriva prima e i ladri hanno la mascherina.
È da un po’ di anni che assistiamo alla comparsa dei ladri quando la gente va in letargo. Anzi nei periodi di quarantena, grazie alla grassa e incolta sinistra padovana, abbiamo assistito anche ai “pusher non vanno in vacanza”, per la regia del sindaco Sergio Giordani.
Ma è da un po’ di anni che in Veneto e in altre parti d’Italia, i ladri imperversano facendosi beffe di tutto e di tutti. Ricordiamo gli episodi delle rapine in villa. L’orrore di Gorgo al Monticano.
Così come ricordiamo gli anni in cui i topi d’appartamento ti entravano in casa alle cinque del pomeriggio e tu non potevi farci nulla.
Il mio primo pezzo di cronaca nera al Gazzettino, nel 2013, fu proprio una rapina a casa di un vecchietto di domenica, in pieno giorno.
Ricordo ancora che quella mattina mi ero appena alzata e andai a fare il servizio in pigiama tanto che quando i carabinieri dentro casa del malcapitato mi chiesero se avessi voluto togliermi il cappotto, io declinai l’invito, perché sotto il cappotto nero lungo fortunatamente fino ai piedi, avevo una vestaglia verde con i fiorellini rosa che non mi pareva il caso di mostrare in pubblico.
Mi avevano chiamato all’improvviso e mi avevano detto che un anziano vecchietto era stato rapinato, così io, che avevo guardato i film dove il giornalista prendeva e partiva, sono partita e sono andata, nell’esatto stato in cui mi trovavo. È successo anche altre volte.
Ma quante ne ho viste di queste scene.
Ricordo bene gli anni 2014, 2015, 2016 e oltre – soprattutto dopo con la bomba immigrazione – ogni settimana facevano razzie e mambassa in ogni appartamento o casa. O attico. O villetta. Soprattutto quelle in centro. O in periferia. Ormai poco importa. Con le luci spente e i giardini aperti.
Con tanto di allarmi sofisticati ma che nessun effetto sortivano contro questi delinquenti da quattro soldi. Non nel senso che non fossero esperti. Ma nel senso che ti entravano in casa per rubarti quattro soldi per davvero.
In anni di cronaca nera ho visto i cittadini dotarsi dei più potenti mezzi di sicurezza, impianti sonori, acustici, allarmi, pentole in giardino collegate con le forze dell’ordine, la CIA, i servizi segreti, l’esercito, l’FBI, che nemmeno Saw l’enigmista avrebbe saputo creare un sistema così tanto ingegnoso.
Ma ogni anno i ladri sono tornati. Nemmeno le ronde. O gli spari in aria. Perché se per caso spari per aria perché hai sentito un rumore nel cuore della notte e sei in mezzo ai campi, dove la prima casa accanto sta su Giove, ti sequestrano le armi (è successo per davvero quest’estate nel veneziano), perché prima di sparare in aria devi sincerarti che il ladro o il rapinatore sia armato e abbia intenzione dì ammazzarti.
Ne ho intervistati di personaggi che hanno avuto i ladri in casa e si sono visti legare moglie e figli. Questi, secondo i nostri illustri giudici, a cui non è successo niente nella vita se non la rana che salta il fosso, avrebbero dovuto assicurarsi e controllare se il ladro avesse avuto la pistola giocattolo, il mestolo da cucina, un coltello (arma sempre più usata) o una pistola vera, e solo in quest’ultimo caso controllare anche se fosse carica e poi eventualmente, prese con il goniometro le misure, e calcolata la direzione dell’arma puntata addosso dal ladro, dopo essersi assicurati che l’intenzione è sparare in testa, allora avrebbero potuto premere il grilletto a meno che il delinquente intanto non ti abbia fatto secco.
Per ovviare a tutti questi problemi, nel corso degli anni ci si è avvalsi dei controlli di vicinato, che qualcosa hanno fatto, ma che ormai i ladri hanno capito e non si lasciano di certo intimorire da un segnale stradale a forma di centrotavola che indica che il territorio è sorvegliato da mamma chioccia e i suoi pulcini.
Così come ogni anno, a inizio novembre, pronti sotto il preannunciato Albero, nei gruppi dei controlli di vicinato, dove ormai ci finiscono i gatti abbandonati e i cani, e qualcuno che si lamenta delle cacche, arrivano i compiti per casa. Come fossimo un branco di deficienti.
E così inizia la solfa: “Fate attenzione ora il buio arriva prima e i ladri hanno la mascherina! Occhio che i ladri non vanno in letargo. Occhio che i ladri non vanno in quarantena. Occhio che i ladri non hanno la carrozza che si trasforma in zucca. E quindi si raccomanda di: lasciare le luci accese. O le tv o le radio accese, – con tutto quello che costa l’energia adesso! – evitare di lasciare porte e finestre aperte – grazie fossimo scemi – luci accese ovunque, nei giardini, tendoni, porticati, – suvvia fiato alle trombe ! – non aprire agli sconosciuti. E cose di questo tipo.
Cioè la casa, nel mentre non siamo in casa appunto, dovrebbe diventare una sorta di grande fratello o di trappola alla “Mamma ho perso l’aereo”, che dovrebbe servire come deterrente per i ladri.
Queste sono ottime indicazioni. Peccato però che i ladri lo sanno. Che possono benissimo entrarti in casa. Senza suonare. Senza chiedere permesso.
E se ti difendi per caso, tu rischi le pene dell’inferno e loro ti alzano il dito medio.

#sbetti

La chiamano libertà. Io la chiamo ignoranza

Trieste 6 novembre 2021

Ieri ho seguito le proteste a #Trieste – oggi trovate il mio servizio su Libero – e mentre guardavo quelle scene mi chiedevo che senso avesse.
La verità è che se avessero chiamato il vaccino con un altro nome, chessò io “farmaco miracoloso anti covid”, “farmaco che protegge dal virus” – con tutte quelle boiate di cui si imbottisce la gente, dai dimagranti anti culo, alle barrette pro tette, anti fame, agli integratori alimentari – se avessero messo qualsiasi coglione a fare un video dal Giappone – è veramente accaduto durante il primo lockdown – che indicasse “miracolo! Il farmaco che protegge dal virus è arrivato”, la gente avrebbe cominciato ad andarlo a comprare, e le chat si sarebbero riempite di messaggi, e le chat su whatsapp avrebbero cominciato a rimbalzare, e quelli che oggi protestano e che l’anno scorso ti scrivevano dolenti indolenziti disperati perché erano chiusi, ti avrebbero scritto: “Ciao scusami se ti disturbo, hai visto che in Giappone hanno trovato il nuovo farmaco? Perché in Italia no?? Non è che c’è tutto un complotto sotto?”. Quanti ne ho visti di questi messaggi. Quanti ne ho visti di questi video obbrobri.
Certo. E lì le nubi avrebbero iniziato a roteare, e i fulmini a deflagrare, e il cielo si sarebbe riempito di lampi tuoni e pioggia e avremmo potuto rispondere: “Ciao, nessun disturbo tranquilla anche se sono le quattro di notte, ma anche in Italia e in tutta Europa abbiamo il farmaco anti covid, ma la gente non lo vuole e scende in piazza a manifestare”.
Allora ieri mi sono chiesta che senso avesse questa massa, vegetazione spontanea anarchica, sedotta da brigatisti ed estremisti, che scende in piazza e che impedisce a commercianti, ai negozianti, lavoratori, baristi, cameriere, di lavorare. Che impedisce alle persone, alle famiglie, ai padri di famiglia che si fanno il culo durante la settimana, di poter godere di un sabato tranquillo.
Del resto mi sono detta, qui si vedono i riflessi sociali che le situazioni più devastanti generano nel genere umano.
Ci sono sempre state quelle persone che rotolano al contrario, credendo di essere controcorrente e invece vivono per distruggere.
Sempre. Queste persone, sono quelle che per giustificare la loro azione sovversiva, danno la colpa a qualcun altro, si avvalgono di fantomatiche teorie, complotti, danni esistenziali; riprendendo drammi storici senza avere rispetto di chi quei drammi li ha vissuti per davvero.
Sono entrata dentro la chat dei manifestanti e ho provato un profondo senso di tristezza, sgomento, schifezza.
Quelli che pensano di essere i geni incompresi, sono nient’altro che disadattati, che vogliono sentirsi tali. Gente che non va più a lavorare, gente che non ha più soldi, gente che aveva un impiego e che ora fatica a vivere, che si propone di fare da badante, baby sitter, sit dog, qualsiasi lavoro purché “no, no, no, no, il Green Pass non lo voglio”. Questi sono quelli che fanno rotolare al contrario il mondo. Quelli che non troveranno mai pace perché non la vogliono. Quelli che credono di lottare per le ingiustizie e invece lottano solo per loro stessi. Questi sono quelli che rivendicano uguaglianza e democrazia e dividono il mondo.
Dove erano queste persone quando gli imprenditori si ammazzavano perché costretti a chiudere? Quando i giovani non venivano considerati? Quando le famiglie faticavano e faticano ad arrivare a fine mese? Quando i pensionati prendevano e prendono 500 euro al mese? Quando lo Stato pagava i sussidi perfino ai terroristi (visto io con i miei occhi). O le coppie faticavano e faticano a mettere al mondo dei bimbi?
Senza considerare i risvolti e i danni economici che tutto questo comporta. Dato che il sabato per molte categorie è il giorno di maggiori incassi, ma anche i vaccinati hanno diritto di poter frequentare le piazze. Anche i Green passati hanno diritto di passeggiare in piazza a Trieste, Milano, Padova, Torino, senza vedersi rompere i coglioni da quelli che protestano perché credono che il vaccino li renda invisibili. Dov’è la libertà che tanto rivendicano? Se impediscono alla gente di vivere, di passeggiare, di lavorare. Ci sono commercianti sull’orlo della disperazione perché quando l’anno scorso eravamo chiusi, la gente protestava perché voleva fossimo aperti, e quest’anno che siamo aperti, la gente protesta forse perché vorrebbe fossimo ancora tutti chiusi.
Ma questa è gente, mi duole dirlo, che prende la laurea in Medicina frequentando la scuola di specializzazione di Facebook.
La chiamano libertà.
Io la chiamo ignoranza.

#sbetti

L’ipocrisia della sinistra che ha sempre accolto tutti

Libero 2 novembre 2021

Ho avuto uno scambio di battute con alcune persone per la mia intervista a Jair Bolsonaro.
Io credevo di poter condurre la conversazione nei termini rispettosi del dialogo e invece non c’è stato verso. Curioso come chi predichi pace poi non la rispetti.
Si può non essere d’accordo con Bolsonaro ma è un capo di Stato. Eletto democraticamente. Quando viene in Italia o va in qualsiasi altro Paese rappresenta il suo popolo.
Qualcuno mi ha detto anche che nutre per me un profondo disprezzo. Poco male. Me ne frego.
Pochi sparuti che pare abbiano vissuto in Brasile per cinquant’anni, quando il Brasile non l’hanno contemplato nemmeno in cartolina.
Persone che Bolsonaro non l’ha nemmeno mai visto, io almeno, scusate, una fetta di “sopressa” con il presidente del Brasile l’ho mangiata.
Ma sinceramente Bolsonaro è un capo di Stato, non sta a me giudicarlo.
E a meno che uno non vada in Brasile a documentare e vedere non può sapere come stanno le cose.
Ma la sinistra ipocrita che tanto si scandalizza, poi nella storia è andata a braccetto con tutti, anche con quelli che i gay li perseguitava veramente.
Perfino le vie a Tito hanno intitolato e tanto basta.
Ma qui sono diventati tutti brasiliani. Esperti di diritto. Politiche sociali. Natura. Ambiente.
Tutti portatori della pace nel mondo.
Questi sono quelli che le mogli indossano le borse fatte con le dita dei bambini in India, in Messico, in Brasile o chissà dove. E saranno quelli che ti dicono “che atrocità quello che sta facendo Bolsonaro! Che atrocità!”.
E poi vanno in giro con le borse cucite dai bambini che lavorano in fabbrica 15 ore.
Bolsonaro è uno di quelli che non ha partecipato al lancio della monetina dei giganti del pianeta in gita sui sette colli di Roma. L’ha lanciata il giorno prima prendendola di tasca propria. Anziché coniata dallo stato per l’occasione.
Al lancio della monetina oltre a XI e Putin, non pervenuti, mancava anche Biden impegnato a dimostrare come inquinare l’ambiente con le sue 85 macchine.
Lo staff di Bolsonaro al ristorante è arrivato in pullman. Qualcuno mi ha anche detto: con 1200 pagine di faldoni di indagine, dubito sia innocente. Ingenui.
È un capo di Stato. Non un santo. Le avessero mai lette poi le 1200 pagine di faldoni quelli che commentano comodi sul divano.
Ma io faccio la giornalista.
E se arriva un Capo di Stato sono curiosa di andarlo a conoscere. Di parlarci. Di fargli domande. Di avere risposte. Anche quelle scomode. Di guardarlo negli occhi. Lui che con il suo giubbino che non si è mai tolto ha mangiato polenta e baccalà, pranzo tipico semplice veneto.
Una persona mi ha attaccato senza nemmeno aver letto l’intervista. Dicendo che lui di persone come Bolsonaro ha il massimo disprezzo.
Non lo so.
Io quando vado a conoscere qualcuno non ho questo odio represso.
Ho provato a intervistare un uomo e raccontare quello che vedevo attorno.

#sbetti

Ph Sbetti

👉 https://www.google.it/amp/s/www.liberoquotidiano.it/news/esteri/29289965/jair-bolsonaro-prove-dove-sono-attacco-sinistra-dittatore-brasiliano.amp

In Italia abbiamo sempre piegato il sedere a 90, invece per Bolsonaro…

Dopo che in Italia abbiamo sempre accolto tutti, piegando per bene il sedere a novanta, coprendo anche le statue sgradite ai musulmani, ieri il vescovo di Pistoia non si è presentato all’incontro con Jair Messias Bolsonaro e Matteo Salvini.
Oggi su Libero il mio pezzo.
Imbarazzante.
Perfino il giorno dei morti.
Cioè il 2 novembre, il giorno della commemorazione dei defunti, la curia di Pistoia anziché commemorare i defunti ha trovato il tempo di mandare un comunicato dicendo di finirla con questi spettacoli e richiamando tutti a “far sì che si torni a un clima più adeguato alle solennità”.
Mi viene da ridere.
Mi viene da ridere se penso che il giorno prima a Padova, quei buontemponi dei centri sociali, cattocomunisti, grillini, nulla facenti, quelli che di sabato vanno a urinare davanti le vetrine dei commercianti, si sono impegnati per regalare alla città e al mondo intero uno spettacolo indegno. In piazza, in Prato della Valle con manifesti fumogeni, lanciavano oggetti ai poliziotti. Loro che predicano “no alla violenza”.
Pagliacci.
Ma come sempre accade in questa Italia affetta da una particolare amnesia strabica, come scrive oggi Gianluca Veneziani su Libero, è sempre stata la sinistra ad andare a braccetto con i dittatori. I cattivi. Eccetera. Eccetera.
Ci siamo dimenticati di Fausto Bertinotti quando inneggiava ed elogiava Fidel Castro.
Ah per la cronaca dopo le proteste dei cattocomunisti, ragazzotti dei centri sociali, antagonisti, facinorosi, violenti, eccetera eccetera eccetera, nessuna nota è stata diffusa dalla Curia per prendere le distanze da simili atteggiamenti e per “far sì che si torni a un clima più adeguato alle solennità”.
Nel giorno dei Santi. E in quello dei morti.
Vi auguro buon pranzo.

#sbetti

Non so cosa si provi a intervistare un Capo di Stato. Ma a me è successo

Non ve lo so dire cosa si prova a intervistare un Capo di Stato. Fatto sta che lunedì mi è successo. La mia intervista e le foto le trovate sull’edizione cartacea di Libero.

Unica giornalista italiana a entrare al pranzo di Jair #Bolsonaro.
Quando sono arrivate le guardie brasiliane a prendermi. E i colletti dell’esercito verde – oro, non ci volevo credere. Imbottiti, possenti, muscolosi, solidi. Con questi occhi neri che sembravano palle ovali d’inchiostro che ti scrutavano a più non posso. Ero dentro. La pioggia. L’attesa. Il momento. Quello giusto.
Poi.
Poi quando mi sono trovata davanti Bolsonaro, le mie gambe si sono addormentate.
Ingarbugliata com’ero, tra il registratore, la pioggia appena presa, e le domande da fare.
Ma mi facevano cilecca non per Bolsonaro, ma perché dovevo concentrarmi sull’intervista.
Questo, mentre i buontemponi dei centri sociali imbrattavano il centro di Padova.
All’inizio Bolsonaro era sulle sue. Mi ha guardato. Mi ha scrutato. Impettito. Con la bocca fine e gli occhi attenti. Vispi. Azzurri. Corpo solido, ex militare. E si vede, distante un miglio. Il suo volto è molto semplice. Con quello sguardo all’inizio truce, pensieroso, poi sorridente, energico.
Abbiamo iniziato a parlare. E lui è diventato un fiume in piena… il mio racconto su Libero…

#sbetti