Il cielo di Roma è più bello

Il cielo di Roma ha un che di diverso.
Me l’aveva detto un giorno una persona a me molto cara. Eravamo in treno. Eravamo appena arrivati e scrutando fuori dal finestrino mi disse: “Lo vedi questo cielo che è diverso. È azzurro. Di un azzurro intenso”.
Quando sono scesa alla stazione ho subito cercato la conferma. Sono uscita dal lato dove non si prendono i taxi e ho alzato lo sguardo. Il cielo qui è veramente diverso. Ha il sapore dello zucchero a velo. Dello zucchero filato. Di quel gusto gelato che d’estate piace tanto ai bambini. Ha i colori del mare. Delle sottane che piacciono tanto alle donne. È vero, sincero, non ha quel grigiore tipico della pianura padana dove è tutto offuscato, grigio, pigio.
Dove d’estate è soffocato e assetato dall’afa e d’inverno è gonfio e gravido di pioggia e di nebbia.
Qui è un azzurro dove ti ci perdi. Ti ci rifletti. Ovunque ti guardi ti si apre uno squarcio, un varco, un raggio di luce.
Di notte ci scorgi perfino la luna tra le cupole.
Una città fatta di santi e di lampioni, di ponti e di cupoloni. Di torri. Statue. Obelischi.
Quelle statue che sembrano spostarsi quando ci passi. Le puoi osservare. Stare a sentire. Se non sei troppo sana ci puoi anche parlare…

sbetti

In Kosovo la guerra non è mai finita

Sono atterrata a Pristina una sera di fine settembre di qualche anno fa. Era prima. Prima del covid.
Quando atterrai all’aeroporto e sentii due persone parlare in napoletano subito mi ci aggrappai. Scoprii dopo che erano due militari nella stessa base dove alloggiavo.
Un sogno il Kosovo che avevo fin da piccola. Quando guardavo Carmen Lasorella in televisione e quando scoppiò la guerra continuavo a ripetere: “Pristina, Pristina, Pristina”.
Soffrivo tremandamente per via della guerra, mi chiedevo se i bambini come me, quelli al di là del fronte, avessero da mangiare e da bere.
Un fazzoletto, il Kosovo, grande quanto l’Abruzzo. Dove ci convivono sei etnie differenti: albanesi, serbi, turchi, rom, bosniaci e gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo meridionale e di religione musulmana originario di Gora, a sud di Prizren. La bandiera del Kosovo, quel lenzuolo blu, infatti ha sei stelle: ognuna delle quali corrisponde alle sei etnie.
Quando sono arrivata avevo subito capito che fosse una terra particolare. Una tela piena di buchi, di ombre, di simboli e segnali, che rendono difficile e quasi utopica la parola “pace”.
La guerra civile qui non è mai finita. E il fermo immagine che ho nella testa sono quei cimiteri pieni di tombe che spuntano lungo le strade quando ti sposti da una città all’altra.
Qui non ci sono sfumature di grigio. Ogni etnia ha la sua truce e distinta tonalità. In alcune zone la guerra pare sia finita ieri e invece è finita vent’anni fa. Ancora ci sono le case completamente sventrate, bruciate; ci sono zone dove i bambini cucinano i peperoni per strada, o enormi distese di verde cenere dove la furia dell’uomo e delle bombe ha lasciato la terra incolta e arida. Non ci cresce più niente. Nemmeno la gramigna.
Una popolazione che è un caleidoscopio di fiammelle colorate che esplodono tutte. La tensione nell’aria la senti benissimo. La percepisci. La agganci. La fai tua. Ci convivi giorno e notte.
La apprendi quando capisci che per pronunciare Pejë, città del Kosovo occidentale, devi cambiare accento a seconda se hai a che fare con un albanese o con un serbo.
Una regione martoriata, squarciata, fatta a brandelli.
Sono figli della stessa terra e ancora si fanno la guerra. Quando a Sarajevo intervistai un ragazzo bosniaco gli chiesi: Perché tutto questo odio ancora? “Troppo male è stato fatto”, mi rispose.

sbetti

📸 Pristina settembre 2017

Roma. Grande amore

La prima volta che vidi Roma erano anni fa. Qualcosa come il 1900 di cui ora non ricordo le ultime cifre.
Ricordo che quel giorno pioveva. Pioveva che Iddio la mandava.
Quando scesi dall’autobus, che mi accompagnava, rimasi subito impressionata dalla magnificenza della città. Splendida. Particolare. Suscitava una tale ammirazione che era impossibile resisterle.
La sua bellezza ti accecava. Il suo incanto ti stravolgeva.
Il primo giorno non vidi molto. Diluviava troppo. Il secondo nemmeno. Il terzo, la mattina, riuscì a fare un giro veloce prima di ripartire.
Passai davanti l’Altare della Patria e rimasi estasiata di così tanta e tracotante meraviglia.
Uno splendore incastonato nel bianco, disarmante, immane, immenso, che non ti dà la capacità di esprimerti a pieno.
Ti senti così piccolo. Lì decisi che quello sarebbe stato il mio monumento, il mio monumento in assoluto. Ero così incantata nel vedere quel tricolore sventolare, quelle guardie in piede immobili, che parevano mummie e quelle fiammelle che lentamente bruciavano e facevano sventolare l’aria. Rimasi sbalordita dal fatto che il fuoco si muovesse e le guardie no.
Ero piccola, ma nemmeno tanto, ero già in grado di scegliere cosa avrei voluto e cosa no. Avrò avuto all’incirca 13 anni, forse 12, 11, ora non lo ricordo esattamente. Era uno di quei viaggi organizzati, dove capisci che se vuoi vedere il mondo ti ci devi in qualche modo infilare e infatti mi ci sono infilata. Lì scoprì anche cosa fosse il palazzo di giustizia, il palazzaccio come lo chiamò la guida che ci accompagnava. Una professoressa di storia dell’arte molto scrupolosa e molto severa. Era di una tale magrezza che mi chiedevo come facessero a starci tutte le informazioni che possedeva.
Mi piaceva Roma, Dio se mi piaceva, da quel giorno decisi che sarebbe diventata la mia città più bella del mondo, e lo è, lo è per davvero…

sbetti

Mancano lavoratori. Pochi giovani. L’asparago sparirà dai nostri menù

Ho passato una giornata con chi lavora la terra. Probabilmente l’asparago non sarà più tra i nostri piatti. Alcune aziende agricole lo stanno eliminando perché è un ortaggio troppo faticoso. Richiede fatica. Voglia. Costanza.
La raccolta si fa uno a uno, stando accovacciati per terra, metro dopo metro, passo dopo passo, riga dopo riga. Un mestiere faticoso che segue gli andamenti del tempo. E in natura il tempo non lo puoi ammanettate. Non lo puoi ingabbiare. Lo devi lasciar scorrere. Con i suoi sfoghi e le intemperie. Con i suoi doni e le sue rovine…
Un mestiere che vede sempre più stranieri. Nelle aziende dove sono andata ho visto molti marocchini, tunisini, bengalesi. Molti giovani si stanno (ri)avvicinando a questo mondo, le braccia Rubate, diventano braccia Restituite.
L’Istat nel 7* censimento generale dell’Agricoltura calcola che i ragazzi fino a 29 anni a capo di una azienda agricola sono 18.923; 6.399 le donne.
Ma da qui a cantar vittoria ce ne passa. Perché le realtà giovanili rimangono sempre troppo poche. L’Ue sta intervenendo con finanziamenti. Nel Pac 2023- 2027 l’obiettivo è quello di consentire il ricambio generazionale in un settore che ha un forte bisogno di ragazzi e ragazze. Non di mercenari.
Servono voglia, passione.
Serve quella famosa fiamma negli occhi…
il mio reportage su La Ragione

Pezzo uscito su la Ragione il 26 maggio 2023

Massimo controlla che sia tutto a posto. La spia sta a indicare che la doppia trazione è inserita. Salgo con lui sopra il trattore. Cinture allacciate. Doppio sedile. Radio. Se hai freddo c’è anche il riscaldamento. Dietro di noi, sul rimorchio ci sono sei ragazzi. Tutti stranieri. Marocchini. Romeni. Stanno seduti in riga composti. Il loro lavoro consiste nel pulire le piantine di cappuccio. Una per una. Poi ci pensa la macchina a piantarle a terra. Riga dopo riga. Metro dopo metro. Il lavoro procede ai ritmi della natura. Funziona così in agricoltura. Il tempo non lo puoi forzare. Non lo puoi ammanettare. Lo devi lasciare scorrere. Con i suoi sfoghi e le intemperie. Con i suoi doni e le sue rovine. Damiano Bellia, 34 anni, conduce questa azienda di famiglia a Scorzè nel veneziano, insieme al fratello e al padre. Sa bene cosa voglia dire svegliarsi la mattina alle cinque e rincasare la sera quando fuori è buio. Sa bene cosa voglia dire fare fatica. Prendi la raccolta degli asparagi per esempio. Vanno raccolti uno a uno, centimetro dopo centimetro. “Stiamo eliminando questi ortaggi – racconta a La Ragione – perché troppo faticosi”. Le file di asparagi che abbiamo davanti in questa immensa distesa di campi sono le ultime della produzione. L’anno prossimo non ci saranno più. “La gente ha ancora in mente l’agricoltura come veniva fatta una volta, ma non è più così”. L’asparago è una di quelle colture dove non ci puoi mettere la tecnologia, l’innovazione. Rimane un’arte. Che se non hai la sapienza nelle mani ti conviene mettere da parte. Damiano la sapienza ce l’ha ma non trova personale che fatichi a 360 gradi. “Ormai l’agricoltura si fa con i macchinari, ed è questo che spinge molti giovani a (ri)avvicinarsi a questo mondo”. Le Bra di questi tempi, infatti, non sono braccia Rubate, sono braccia Restituite. Su una mano tengono la pergamena di laurea. Sull’altra tengono la zappa. L’Istat nel 7* censimento generale dell’Agricoltura calcola che i ragazzi fino a 29 anni a capo di una azienda agricola sono 18.923; 6.399 le donne. Tra i 30 e i 44 anni le aziende gestite da uomini sono 92.854. E quelle gestite da donne 34.131. I titolari, laureati, under 40 sono 20 mila e di questi: 15 mila hanno un titolo non inerente all’agricoltura e 4.700 hanno una laurea specifica. Sempre più università propongono corsi per agronomi o specializzazioni nel settore. Ma da qui a cantar vittoria ce ne passa. Perché le realtà giovanili rimangono sempre troppo poche. L’Ue sta intervenendo con finanziamenti. Nel Pac 2023- 2027 l’obiettivo è quello di consentire il ricambio generazionale in un settore che ha un forte bisogno di ragazzi e ragazze. Non di mercenari. Servono voglia, passione.

Serve quella famosa fiamma negli occhi. Una delle misure è l’acquisto di terreni per i giovani agricoltori a condizioni favorevoli. “Devi avere tanta voglia”, dice Massimo Terzariol. Lui nei campi ci è nato e cresciuto. È maturato come maturano i pomodori al sole. Entro dentro il loro stabilimento. Ci sono una trentina di giovani, uomini, donne. Qualcuno ha portato le paste. Si festeggia un compleanno. Oggi è festa per tutti.

Serenella Bettin

I fatti raccontati a metà. Perché fa comodo

Come di consueto accade si prendono piccoli frammenti di narrazione e sopra ci si costruisce un film a seconda di quello che fa comodo. Spostando i vari pezzi, rendendoli intercambiabili, ci puoi pure cambiare l’inizio, il finale, ci puoi fare quello che straminchia ti pare, l’importante è girare il sugo al verso del proprio padrone.
Ora, le scene del pestaggio della persona – frega poco se sia uomo donna, trans, italiana o straniera – ecco quelle immagini hanno scosso tutti, in effetti prendendo così la scena si vede la persona seduta a terra, a piedi scalzi, che inerme e indifesa viene colpita più volte con varie manganellate.
Uno pensa che se uno indossa una divisa deve sapere tenere a bada l’ormone della virilità e la foga della rabbia perché altrimenti una divisa non la dovrebbe indossare. E tanto meno tenere un’arma in mano. Ma è così. A volte il potere crea disastri ormonali.
Ma è tutto quello che ci sta prima che da alcune narrazioni viene coscienziosamente omesso per tirare l’acqua al proprio mulino.
Ossia.
Chiariamo i fatti: la persona picchiata è una persona già segnalata alle forze dell’ordine, si è già resa colpevole di alcuni reati e quella mattina era stata vista nelle vicinanze di una scuola da alcuni genitori ed era intenta a denudarsi. Dicono gridasse anche “vi infetto, ho l’aids”. La gente lì è esasperata. Così racconta una mamma. Questa persona si prostituisce nel parco dei bambini. E dicono sia solita fare queste cose. Anche le forze dell’ordine sono esasperate. Cosa devono fare? Quando sono arrivati i vigili, costoro l’hanno presa e caricata in auto, solo che questa poi ha iniziato a tirare una testata, ha finto un malore e ha tirato una ginocchiata addosso a un vigile dandogli 15 giorni di prognosi, in più ha provato a scappare. A Milano checché ne dica Sala, ne accadono di tutti i colori. Qualcuno ha gridato ai manganelli del passato. E quando si racconta la storia, questa va raccontata tutta, dall’inizio alla fine.
Il sindaco Sala ha detto che quello che è successo è un fatto grave. Certo. Come è grave anche lo stupro in stazione, lo stupro di gruppo il giorno di capodanno, il tentato rapimento di un bimbo nella zona vip meneghina; è grave anche che quando scendi in stazione c’hai la massa di disperati davanti che sosta e vomita sulle panchine. È grave anche che qualcuno tenti di venderti la droga. O provi a sfilarti il portafoglio. Ma queste cose meglio non dirle.

sbetti

“Le loro idee camminano sulle nostre gambe”

Avevo 8 anni quando morirono Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Non ero troppo piccola ma nemmeno abbastanza grande per capire cosa fosse veramente accaduto. Cosa ci fosse veramente sotto.
Ricordo però che quel giorno – e me lo ricordo come fosse ieri – ero al supermercato con i miei genitori e all’improvviso si interruppe la musica.
Andò l’edizione straordinaria del telegiornale. La gente mollò i carrelli, i pacchi di pasta, gli etti di prosciutto, e tutti cominciarono a guardarsi l’un con l’altro. Erano le 17.58 del 23 maggio 1992. Trentuno anni fa.
Perfino la cassiera rimase con il contenitore dell’olio in mano senza dire niente. Perfino la salumiera smise di affettare i formaggi.
Al telegiornale dissero che c’era stato un grosso incidente. Un attentato.
Chiesi a mia madre cosa fosse successo e mi dissero che forse avevano ammazzato un giudice.
“Hanno ammazzato un giudice”, mi disse tra gli scaffali di quel supermercato ormai freddo, gelido, sgomento.
Quando tornammo a casa volli subito guardare la televisione. Giovanni Falcone morì poco dopo. La moglie verso le dieci di sera.
Ricordo che per giorni continuarono a susseguirsi alla le immagini della strage, dei processi, dei giudici, di quelle auto accartocciate su se stesse, irriconoscibili, sventrate. Per me erano tutti fotogrammi che si susseguivano l’un con l’altro, in attesa di dare loro un senso.
Il senso gliel’ho dato quando al liceo capii che volevo studiare Legge.
Che volevo barcarmenarmi nei meandri della giustizia, delle toghe, dei tribunali.
Poi mi resi conto che la vita non sempre ti dà quello che vuoi, ma quello di cui hai bisogno. Quello per cui sei portato.
Lì capii che i principi che avevo dentro di me erano universali. Il senso di giustizia. La legalità. Il coraggio.
Il rinnegare il “puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”. E il sentire invece “la bellezza del fresco profumo della libertà”.
Falcone diceva: “Che le cose siano così, non vuol dire che debbano sempre andare così. Solo che quando si tratta di rimboccarsi le maniche e incominciare a cambiare vi è un prezzo da pagare, ed è allora che la stragrande maggioranza preferisce lamentarsi piuttosto che fare”.

sbetti

A mani nude nel fango

In questa terra di alluvioni si scava a mani nude nel fango. L’alluvione ha messo in ginocchio l’Emilia Romagna. L’ondata di maltempo ha causato 15 morti, 36 mila sfollati, quasi cento comuni colpiti, 46 fiumi esondati, 300 frane, oltre 500 strade chiuse, cancellazioni e ritardi dei treni, frane di colline, ferrovie interrotte, la A 14 che fino a qualche giorno fa era impraticabile. In 24 ore sono caduti 300 millimetri d’acqua. E anche la sanità è in affanno. A Forlì hanno dovuto rinviare 30 operazioni chirurgiche, in alcuni paesi iniziano a scarseggiare i generi alimentari e alcuni pronto soccorso sono stati chiusi. Scena di guerra. Ora, raccontarla così in poche righe non rende il dramma di quella povera gente. Il disastro è davanti agli occhi di tutti. Repubblica Venerdì scorso titolava “Nove miliardi stanziati nel 2018 per combattere il dissesto ideologico in Emilia Romagna non sono stati spesi”. E che lo scriva Repubblica fa riflettere. Le vasche di laminazione che dovevano essere fatte e che sono quelle che hanno permesso al Veneto di salvarsi cinque anni fa, non sono state costruite. I fossi non sono stati ripuliti perché bisognava salvaguardare i diritti degli istrici; su 23 progetti finanziati con 190 milioni di euro, ne funzionano solo 12. Tra il 2015 e il 2022 la regione ha ricevuto 190 milioni di euro per realizzare queste casse di espansione, queste opere di contenimento delle acque, qui dove servono pulizia dei fiumi, cura dei boschi, ripristino dei fossati di scolo, messa in sicurezza degli edifici. Le abbondanti piogge, infatti, sono sempre esistite solo che adesso si è diventati più trozzaloni, ora ci sono i deliri degli ecologisti, di quelli che usano l’iPhone anche al gabinetto e sono preoccupati per il cambiamento climatico. Se si rompe un argine ha detto il capo dei geologi dell’Emilia Romagna, è colpa della manutenzione, non del climate change. Ma la spinta ambientalista e verde e giallorossa all’interno della regione in questi anni ha sempre bloccato tutto. Come lei, elly Schlein. La neo diva del Pd. Era lei che fino a sette mesi fa aveva la delega a quello che una volta chiamato Ambiente. In una intervista a Repubblica ha dichiarato che quello che è accaduto è colpa del cambiamento climatico, “su cui questo governo è totalmente indifferente”. Mi chiedo dove abbia vissuto in tutti questi anni, quando ancora questo governo non era in carica. E quando invece lei la carica ce l’aveva eccome. Spero che quando farete le passerelle in mezzo agli alluvionati, abbiate il coraggio di guardare in faccia questa povera gente.

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Foto Adnkronos

In Trentino fioccano le disdette per l’orso

Quella che vedete qui è la schermata di un portale di un albergatore che sono andata a trovare in Trentino Alto Adige.
Dal giorno dell’aggressione di Andrea Papi – chiamiamo le persone con il loro nome – Andrea Papi è Andrea Papi non è il runner – così come l’orso si chiama Jj4 e non si chiama Gaia – ecco dicevo dal giorno dell’aggressione ha iniziato ad avere una serie di disdette. E sono tante. Interminabili. Non finiscono più. Ogni giorno se ne aggiunge una.
Quando me l’ha detto aveva quasi le lacrime agli occhi. Lui di questo lavoro ci campa. Un bed & breakfast in un posto magnifico fantastico incontaminato che ha la sfiga di avere accanto il bosco, così come tanti altri.
La struttura tenuta insieme alla moglie è bella, carina, a conduzione familiare. Una di quelle che quando ti svegli la mattina ti fa trovare il caffè latte e le more sopra la tavola. Le cancellazioni sono una dietro l’altra. Anche i tedeschi. Anche gli stranieri. Hanno paura. Se devono andare in Trentino per vedere i boschi dalle stanze d’albergo vanno da un’altra parte. Lui non è l‘unico con cui ho parlato. Ce ne sono molti altri che hanno avuto e stanno avendo problemi. Uno mi accompagnato su su in cima alla stanza d‘albergo. Ha aperto la finestra e mi ha detto: “La vedi questa zona qui? Ecco questa è tutta frequentata dall’orso. Ma questa è casa nostra capisci? Casa nostra?”.
Io ora non sono contro l’orso. Non lo sono mai stata. E questa cosa di disdire le prenotazioni mi pare un tantino esagerata, dato che se cade un aereo non è che tutti si mettono a disdire i voli. Ma dovremmo forse calibrare di più questa eccessiva umanizzazione dell’orso. Questo trattare il plantigrado come fosse un essere umano. Questo chiamare Jj4, Gaia. E un ragazzo, runner. Questo non riuscire a comprendere che l’orso ha fatto l’orso e che mai potrà adeguarsi alle esigenze ed esistenze di un uomo. Io ci sono stata in Trentino. Ho parlato con questa gente. E quando ti trovi davanti un esemplare del genere devi solo pregare che ti vada bene. Quest’uomo per le cancellazioni era disperato. Prima il covid. Poi le chiusure. Poi le restrizioni. Ora gli orsi. La natura va lasciata libera ma anche tra animali e umani ci sono dei patti. Un equilibrio che deve essere trovato.

sbetti

Trentino Alto Adige – maggio 2023

Reportage. “Noi, in tenda contro il caro affitti”

Valentina ha 21 anni. Viene dalla Colombia. È giunta qui in Italia due anni fa e da un anno dorme sul sofà. 

Una valigia pieni di sogni che ogni giorno disfa e ridisfa non avendo un armadio. 

Una sua amica le ha prestato il divano perché lei da un anno non trova una stanza. “È difficile – ci dice quando la avviciniamo davanti al politecnico di Milano – è impossibile per uno studente pagare 800 euro di affitto, non me lo posso permettere anche perché non lavoro”. 

Il suo sogno è quello di laurearsi in fretta per non pesare sulla famiglia. “Se lavoro per potermi pagare l’appartamento come faccio a studiare?”.

Già. L’eterna lotta che ha sempre diviso e spezzettato le vite degli studenti. La lotta che abbiamo fatto tutti. 

Studio. Lavoro. Lavoro. Studio. Basta un esame perso per far slittare la tabella di marcia. Ma l’università non è proibitiva. Sono gli affitti che sono molto alti. 

Così martedì 2 maggio è iniziata la protesta. Ci ha pensato Ilaria Lamera a piantare la prima tenda. Lei studentessa del Politecnico di Milano ha detto basta. “Da quando ci sono state tolte le lezioni online, tantissimi studenti come me si sono ritrovati a cercare un alloggio nei pressi dell’università a condizioni assurde, arrivando a pagare anche più di 600 euro al mese di affitto”. 

A ruota, anche per solidarietà, l’hanno seguita altri studenti e così le tende da una sono diventate due, tre, quattro, cinque, sei. Tredici gli studenti che hanno dormito fuori le prime notti. E le tende poi hanno iniziato a moltiplicarsi, si sono aperte, gonfiate, e come tante onde hanno invaso e attraversato l’Italia. Milano. Bologna. Napoli. Cagliari. Roma. Firenze. Torino. Padova. Se ne stanno tutti qui gli universitari seduti per terra tra i libri, a cavalcioni, perché nonostante questo la vita scolastica va avanti. “Noi dobbiamo studiare – ci dice un ragazzo – siamo qui, ma il nostro obiettivo è finire l’università”. Stessa cosa per Riccardo che scartabella il libro di Economia Aziendale per la prossima sessione.

Jacopo Maria Pasqualin, invece, ha 20 anni, studia Ingegneria energetica al “Poli”, come dicono qui, e vive in un appartamento con la sua ragazza che studia Ingegneria biomedica.

A lui l’affitto è aumentato di 100 euro quest’anno e ora aumenterà di altri 100. “Spendo 500 euro mensili, spese escluse – racconta – gli affitti a Milano ogni anno aumentano sempre più e il tutto è lasciato alla libera speculazione del privato”.

“Non saprei più definire il confine esatto tra un appartamento dignitoso e un tugurio – ci dice Andrea Canessi – anch’io a Milano mi sono adeguato a diverse circostanze. Una volta, il mio coinquilino ha alzato la tavoletta del water ed è schizzata un’anguilla. Fortunatamente vengo dal delta del Po e ho una certa dimestichezza. Quella sera abbiamo mangiato anguilla alla griglia”. 

In effetti per uno studente potersi permettere una stanza a Milano è praticamente impossibile. Per una camera si arriva anche a 900 euro al mese. Per 22 metri quadri, 1100. Per buchi improponibili con tavoli sotto le scale, letti incastonati tra le pareti, stanze senza finestre, maniglie e porte rotte, si va dai 600 euro al mese ai 1100. 

Non va meglio a Bologna. Qui cercare casa per alcuni è diventato un incubo. “Ci ho messo quattro mesi – ci dice Nicolòquando lo incrociamo in via Zamboni – ma i prezzi sono folli: 800, 900 euro al mese”.

Rebecca invece, che viene da Venezia, per riuscire ad accaparrarsi una stanza l’ha pagata per quattro mesi senza metterci piede dentro. “Avevo paura – racconta – di rimanere senza per l’inizio delle lezioni e i miei genitori hanno deciso così”. 

Anche Luigi di Faenza cerca casa ma non ha trovato nulla. “Faccio il pendolare ma il problema sono i trasporti”.

É vero che se risparmi soldi in affitto poi li spendi in autobus o treni, ma è anche vero che le lezioni non iniziano alle sei del mattino. Gli studenti però sostengono che “se non puoi abitare in zona, l’università diventa solo un privilegio per i figli di papà”. 

Anche Alice è agguerrita. A lei è capitata una stanza “piena di muffa. Abbiamo avuto problemi igienici e sanitari”. 

Ci spostiamo a Roma.

Davanti al Rettorato della Sapienza gli studenti si fanno sentire. 

Elettra Luna Lucassen è al terzo anno di Pedagogia. Ha 21 anni. Viene dalla provincia di Viterbo e per raggiungere l’università impiega due ore, tra treno e navetta. “La prima lezione è alle 8.30 – ci racconta – dovrei prendere il treno alle 5.45. Ora mi sono trasferita e pago 400 euro, ma con le spese arrivo a 600. In più è aumentato tutto”. Lei lavora. Fa il servizio civile e la cameriera nei weekend. “Mi devono aiutare comunque i miei genitori. I libri sono una cosa vergognosa, non meno di 80 euro per ogni esame e considera 4 – 5 esami a sessione. Poi il trasporto. Da agosto aumenterà anche quello”. Lei, venerdì scorso, con altri ragazzi si è accampata davanti al ministero dell’Università e Ricerca. La loro proposta fatta al Miur è quella di “istituire il reddito studentesco per garantire il diritto studio alle fasce popolari”.

Anche Norma è fuori sede. Studia lingue, 21 anni. Ora vive di straforo con altri quattro coinquilini. “Non posso permettermi un contratto abitativo perché lavoro in nero come cameriera e non ho garanti”. 

Mirko Giuggiolini, 19 anni, studia Giurisprudenza e vive in provincia di Viterbo. “Pensavo fosse sostenibile fare il pendolare, ma ogni giorno sono tre ore tra andata e ritorno. Se ho lezione alle 8 mi devo svegliare alle 5 e quando finisco alle 19.30, rientro alle 22. Così ho iniziato a cercare casa per settembre ma ancora non ho trovato nulla”.

Ci guardiamo attorno. Ha iniziato a piovere. Le tende gocciolano. Sarà un’altra notte qui sotto.

Serenella Bettin

✍🏻 Questo articolo è uscito su Grazia, 19 maggio 2023

Cambiamento climatico? Al paese dei miei ci sono le liane

Al paese dei miei genitori in Veneto ci sono le liane che crescono nei parchi, i fossi ricoperti d’erba e volete dare ancora la colpa al cambiamento climatico?
Ma per piacere.
Come sempre puntualmente accade, quando c’è una nuova tragedia, anziché fare mea culpa si preferisce ballare sui morti ancora caldi.
L’ Emilia Romagna è stata letteralmente travolta da una ondata di maltempo che ha invaso le strade, sradicato i ponti, fatto crollare le colline. La gente è arrivata a mettere le auto sopra i cavalcavia per salvare il salvabile. Ci sono 24 fiumi esondati, comuni isolati, città inondate; dove prima c’erano le strade ora ci sono il fango, la melma, fiumi d’acqua che si sono appropriati degli spazi umani.
Il bilancio è terribile: 14 morti e oltre 36 mila sfollati. In 24 ore sono caduti 300 millimetri d’acqua. Una quantità d’acqua di due mesi, concentrata in due giorni. Di tutto questo disastro ovviamente, essendo una regione a traino Pd, a finire sul banco degli imputati c’è il cambiamento climatico.
Un modo molto comodo per scrollarsi le responsabilità di dosso. Il cambiamento climatico signori c’è sempre stato. Se avete fatto le scuole elementari e non eravate stupidi, ricorderete sicuramente quei disegnini che mostravano l’evoluzione e il cambiamento della Terra dalla preistoria a oggi. Ci sono cambiamenti pensate, che sono avvenuti, anche quando l’uomo rozzo, che deturpava l’ambiente, non c’era e tanto basta.
È molto comodo dare la colpa al cambiamento climatico, soprattutto se la regione è a traino sinistra che è risaputo, delle disgrazie umane non ne ha mai colpa.
Poi poco importa poi se scopri che la già vice presidente della Regione, tale Elly Schlein, avesse la delega per il coordinamento delle politiche di prevenzione sul clima.
Opere mai fatte. Misure mai realizzate. Una roba questa, ho potuto notare, di cui i comuni, destra o sinistra che siano, si riempiono tanto la bocca. Fanno le conferenze stampa dove ti ci infilano di tutto: dal progetto super mega figo di riqualificazione energetica e risparmio di suolo o – barra – sicurezza, alla riqualificazione edilizia, efficientemente energetico, lampioni super mega tattici che si accendono quando non devono e si spengono quando dovrebbero restare accesi, il tutto per favorire un uso sostenibile dei nostri luoghi onde evitare sprechi. Queste robe trite e ritrite te le ritrovi in tutte le campagne elettorali di quattro sprovveduti che si presentano alla guida di un paese senza manco sapere dove si trovi. Nel comune dei miei per dire, da quando se n’è andato l’altro sindaco, stanno crescendo le liane in paese, ci sono prati e giardini dove se ci mandi i bambini manco li vedi perché l’erba è talmente alta che li sovrasta. I fiumi sono sporchi. L’erba non viene tagliata lungo gli argini.
Ci sono zone, che anche se piove come se il gatto pisciasse per strada, puntualmente si allagano. Il comune aveva chiesto i fondi per fare delle opere di bonifica ma quei soldi sono andati al sud e non al nord.
Ci credo che un territorio si allaghi. E poi, ma di cosa stiamo parlando. Ci siamo dimenticati di tutte le alluvioni che ci sono state negli ultimi anni? O di eventi atmosferici eccezionali? Il tornado che nel 2015 colpì la Riviera del Brenta. La tempesta Vaia nel 2018. L’acqua Granda a Venezia nel 2019. Non ci credete? Torniamo indietro. Era 2011 quando i paesi del padovano e del vicentino vennero letteralmente travolti e sommersi dall’acqua: ricordo che andavo all’università e c’erano miei compagni di corso di quelle zone che venivano a lezione con gli stivali. In facoltà organizzavamo la raccolta dei viveri e delle coperte perché la gente dormiva nelle palestre. O ancora, l’alluvione del Friuli. Quello di Sarno: 160 morti. O l’alluvione del Piemonte: 70 vittime. Era il 1994. E ancora: anno 1973, devastante, dal 1 gennaio a ottobre decine e decine di alluvioni in Emilia Romagna. E potrei andare avanti chissà quanto a ritroso. Anche un’altra volta di cui conservo la memoria, si allagò tutta una parte dei paesi del veneziano, tanto che da Treviso con l’autobus impiegai nove ore a tornare a casa. Lì però gli argini tennero, fu l’enorme quantità di pioggia caduta a provocare squilibri. Li non si diceva sempre no. Non c’erano deliri ambientalisti. Si faceva manutenzione. Pulizia. Si costruivano dighe. Opere. Infrastrutture.
Oggi tutto questo non c’è più.
E il peggiore imputato è diventato il cambiamento climatico. Alla faccia.

sbetti

Chi sono i fascisti?

Ieri al Salone del Libro un gruppo di fascistelli di sinistra ha impedito al ministro Eugenia Roccella di presentare il suo libro e di parlare.
Il suo manoscritto doveva essere presentato anche dall’avvocato Annamaria Bernardini de Pace.
La presentazione però non ha avuto luogo perché un gruppo di squadristi antidemocratici si è messo di traverso e ha iniziato a gridare “Fuori i fascisti dal Salone”.
Un po’ quello che era accaduto a Fausto Biloslavo all’università di Trento. E a Daniele Capezzone all’università La Sapienza.
A questo ammasso di illiberali c’era anche un gruppo di femministe, attiviste di Extinction Rebellion e “Non una di meno”, che ribadiva in coro il suo: “il corpo è mio e decido io”.
Un po’ come quelle che quella volta a Verona lanciavano assorbenti in faccia ai poliziotti. Ancora me le ricordo. Se avessero potuto mi avrebbero dato fuoco.
Ora.
Provate voi a immaginare cosa sarebbe accaduto se anziché la sinistra fosse stata la destra a impedire di manifestare il proprio pensiero – perché di questo si tratta – a un autore del politicamente corretto.
Cosa che non accadrà perché per rinvigorirsi non c’è bisogno di zittire gli altri.
Invece loro sì.
Io la conosco bene questa gente. C’ho avuto a che fare.
Ho subito un licenziamento da parte di quelli che si definiscono democratici e altruisti col sedere degli altri. E tutto questo, a distanza di anni, continua a insegnarmi una cosa.
Che la libertà non esiste. Te la devi conquistare e proteggere. E una volta conquistata la devi sempre difendere. La sinistra, che continua a dirsi preoccupata perché questo governo non tollererebbe il “dissenso”, ha svelato chi sono i veri fascisti.
Questa è gente che sei libero solo se sei come loro.

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I nostri Occhi della Guerra

Post scritto la notte del 5 luglio 2017.

Lo riposto a 36 anni dalla morte di Almerigo.

“Questa mattina mi sono svegliata con in mente la foto dell’Armata Rossa che si ritira dall’Afghanistan.
L’ho vista ieri alla mostra a Trieste, al Museo di guerra per la pace “Diego de Henriquez”, curata da Fausto Biloslavo e Gian Micalessin in ricordo del loro amico e compagno di avventura Almerigo Grilz.
Una mostra a trent’anni dalla morte di Almerigo, primo giornalista italiano caduto su un campo di battaglia dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, che il 19 maggio 1987, a Caia, in Mozambico, rimase ucciso colpito da un colpo d’arma da fuoco alla nuca, mentre riprendeva uno scontro a fuoco tra i soldati governativi e i ribelli della Renamo, la Resistenza Nazionale Mozambicana.


Nel documentario video inserito all’interno della mostra si vede perfettamente il momento della morte di Almerigo.
Quello durante il suo ultimo reportage, mentre filma i guerriglieri e corre.
Si vede la corsa e si percepisce il fiato che avanza, si vedono le riprese a tutto campo e poi all’improvviso un colpo secco.
Una caduta a terra e la cinepresa che continua a riprendere, inquadra il piede di lui e poi si ferma. Fissa. Immobile.
Il piede forse già quasi inerme.
La macchina continua a riprendere quel campo giallo e verde e quel cielo così grigio azzurro senza spegnersi.
Come a dire “mi avete ammazzato” ma qualcuno continuerà per me.
E Fausto Biloslavo e Gian Micalessin hanno continuato.


Se per un attimo ci si ferma davanti una foto e ci si immerge, se si pensa che quella foto è stata scattata da qualcuno che si trovava così in quella posizione o forse accovacciato o forse steso a terra e che in quel momento stava rischiando la vita, ecco se si prova a immaginare questo, vengono i brividi.
Soprattutto nel vedere quanto vicini si siano spinti per fotografare uomini, donne, bambini, anziani, feriti, guerriglieri, combattenti, soldati.
Solo in quel momento si capisce quanto sia importante qualcuno che faccia questo lavoro. Qualcuno che decida di indossare questo mestiere.
Che decida un giorno di partire, lasciando a casa gli affetti e raggiungere le vite nel mondo.
Una mostra che è un documentario con pezzi di storia memorabili e foto fantastiche.

Sono andati ovunque.
In ogni luogo dove c’era la guerra, o dove c’è la guerra loro sono stati o loro ci sono.
Hanno ripreso e raccontato i più terribili conflitti, le più temibili battaglie.
Sempre in prima linea, sempre in mezzo a chi combatte e si difende per raccontare vivendo quello che succede.
Anche le guerre dimenticate, quelle che il mondo non sa nemmeno esistano.
Sempre con elmetto, giubbotto antiproiettile, un taccuino per raccontare e una macchina fotografica per scattare.
Delle storie che qualcuno deve pur raccontare, un mestiere che qualcuno deve pur fare mi ha detto Fausto ieri alla mostra. Una mostra che è un capolavoro che va dagli anni di Almerigo fino alla tremenda battaglia di Mosul. E quindi: Afghanistan, Etiopia, Filippine, Vietnam, Mozambico, Iran, Cambogia, Birmania, Libano, Libia, Siria, Iraq.
Quelle 90 tele esposte su quei pannelli, ti entrano dentro e ci rimangono.
Fisse. Impresse.
Foto scattate da Almerigo, da Fausto e da Gian Micalessin che rendono l’idea di cosa sia questo mestiere.
Ma che soprattutto raccontano le vite degli altri, le vite di chi meno fortunato nasce in un posto in cui vive e cresce sempre costantemente in guerra.


Perché non è vero che si vive lo stesso senza sapere cosa accade dall’altra parte del mondo. Sono loro i nostri occhi della guerra.
Dio solo sa la fortuna che abbiamo nell’averli.

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Fausto, Almerigo e Gian

Ho iniziato a fare la pendolare a 14 anni

Ho iniziato a fare la pendolare a 14 anni. Che non mi veniate a dire che difendo gli studenti di sinistra perché non sapete manco di che minch.. state parlando. E mi viene perfino da ridere quando sento che qualcuno impiega un’ora per andare all’università. Prendevo l’autobus alle 6.50 del mattino e mi svegliavo alle 5.45.
Il più delle volte prendevo sonno ed erano corse. Per un anno poi, siccome non ci stavamo tutti dentro lo stesso stabile (era ancora l’epoca dove le culle erano piene) me ne andavo a 40 chilometri da casa, a 15 anni, cambiando due autobus e battendo il culo al freddo, di mattina presto, quando era pieno inverno. Ed era ancora buio.
Rifarei tutto. Viaggi compresi. Quelli mi consentivano di studiare.
E la scuola fuori dalla mia città mi ha permesso di svegliarmi e di ampliare i miei orizzonti.
Quando alcuni miei compagni mi chiamavano alle tre del pomeriggio e avevano già digerito, io, come tanti altri, in quel momento scendevo dall’autobus.
Stessa cosa all’università non ho mai preteso di vivere sotto la facoltà. Anzi. Al licelo mi ero puntata che volevo quello. E volevo andarmene in città. La vedevo più bella. Più accogliente. Più alla mia portata. Ero stanca della campagna dove la gente pensa a uscire il sabato sera, farsi la macchina e metter su famiglia.
La protesta degli studenti con le tende, più che legittima ripeto, non è la protesta, degli studenti con le tende e basta, ma è la protesta di tutti. Delle famiglie con le pezze al sedere che non arrivano a fine mese. Dei ricercatori dottorandi che se hanno deciso di fare ricerca in Italia sono condannati a fare i morti di fame.
Ma la gente non guarda al di là del proprio naso. Guardare in faccia al problema non significa assecondare le proteste degli studenti anche fannulloni e che impiegano 15 anni per finire l’università con i soldi nostri e di mamma e papà.
Ma significa mettere mano a una questione che non può più rimanere irrisolta. Dato che è un dato di fatto che gli affitti a Milano siano lievitati a dismisura. Non significa stendere il tappeto rosso agli universitari che trovano il tempo per accamparsi sotto la pioggia.
Il punto, è, rendetevene conto, che ci sono voluti quattro studenti, ma veramente quattro, che trasformassero le università in tendopoli per far venire fuori il problema del caro affitti.
Rendetevi conto di come siamo presi.

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