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C’è tutto un sottobosco di guardoni per quelle che non pagano le tasse

Soldi facili come loro. Guadagni vertiginosi come i loro tacchi. Profitti da capogiro come la testa che fan girare agli uomini.
Signori benvenuti nel nuovo regno del porno. Il paradiso dei vecchi. Degli stagionati. Antichi. Decrepiti. Decrepiti dentro.
Sono tornata a indagare il mondo delle escort e stavolta anche delle influencer che fanno soldi su Onlyfans. Correva l’anno 2016 e ancora il mondo non poteva sapere a quali cataclismi e drammi sarebbe andato incontro nel 2020 e così Tim Stokely si metteva in testa la sua meravigliosa idea.
Perché non creare una piattaforma per pubblicare contenuti di varia natura.
A chiunque chiedi come sia nato Onlyfans ti risponde sempre con sta menata colossale delle ricette solo che dopo, le ricette sono diventate bocconcini di panna montata che mostrano le tette, capezzoli turgidi in bella vista, mone al vento, culi in sovrimpressione. Gente che scopa. Gente che va. Gente che viene. In tutti i sensi. Durante la pandemia poi non ne parliamo.
I cornuti e le cornute, costretti a stare in casa, dovevano pur trovare un modo per sprofondare sul divano e costruire una realtà virtuale collettiva, sprofondando e immaginando una vita immaginaria e digitale. Lo sprofondo dello sprofondo.
Chi già trombava poco ha trovato un oppiaceo in questo disturbato marchingegno dove devi digitare un indirizzo mail, inserire i dati della tua carta di credito – l’ho fatto per lavoro – e non appena ti connetti con una – mi sono spacciata per un uomo – ti compare il messaggino vocale sensuale e suadente che dice: “Ciao, hai voglia di conoscermi un po’? Ho un po’ di tempo da dedicarti”. Dopo il primo pompino virtuale praticamente la tipa ti chiede di aprire una foto per la bellezza di 35 dollari. Se la apri il giochino va avanti, altrimenti risprofondi nel divano in cerca di un altro culo.
Solo che così la gente dopo la pandemia ha smesso di trombare e a suon di foto che si aprono e di pompini fatti senza sudare ha detto: sai che c’è. C’è che se posso scopare stando a guardare culi e tette che mi appaiono davanti come fossero caramelle in una bancarella di dolciumi, al diavolo anche trovarsi, spogliarsi, baciarsi, accarezzarsi, amarsi.
La gente, così, ha smesso di amare veramente e trova sollazzo in queste cose adatte a un mondo di masse ormai apatiche scontente infelici fiacchi indifferenti. Ma le giovani regine del sesso spinto, nel mondo reale, ahimè, si sono dimenticate di pagare le tasse. Non hanno dichiarato i soldi percepiti al fisco – e sono tanti – ed è scattata l’indagine. L’accusa è di maxi evasione.
Quando ho parlato al tel con una delle indagate, questa mi ha risposto che ha sbagliato il commercialista e, insomma, “ma quale maxi, sono stati dati numero a caso!”.
Un business quello di Onlyfans che muove 5,6 miliardi di transizioni l’anno. Perché al di là delle ragazze che si spogliano nude, c’è tutto un sottobosco fatto di gente morta, di anime castrate dalla depressione, di esseri mostrificati da questa vita poco vissuta, che stanno lì a guardare. Ed è la legge più antica del mondo: dove c’è l’ offerta c’è anche la domanda.
Un mondo di guardoni che magari la mattina dopo te li trovi al bar incravattati.
A cui dirai: “Hai sentito di quella indagine su Onlyfans?”.
“Che brutta cosa”, ti risponderanno.

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Quando sentite gli scarponi battere, è lì che dovete andare

Questa mattina sono andata a fare colazione in un bar in cui non andavo da tempo. Mentre uscivo dopo avere bevuto il caffè ho visto entrare un uomo. L’ho subito riconosciuto. Era il mio vecchio preside delle scuole medie. Ci siamo sbertucciati un attimo sulla porta. Passo io. Passa lei. Passa lei. Passo io. Alla fine è passato lui. Lui mi guarda. Io lo fisso. Sono lì che vorrei dirgli qualcosa e lui volge il capo dall’altra parte noncurante del fatto che lo stessi per salutare. Ma si sa. Per noi il preside era uno. Per il preside invece i ragazzini erano tanti. Così sono uscita dal bar. Ho chiuso la porta. Mi sono fermata fuori a fumare una sigaretta e pensavo a quello che avrei voluto dirgli. Volevo andare lì e ringraziarlo. Correva l’anno 1998 e io dovevo decidere le scuole superiori. I miei genitori mi avevano iscritto al liceo classico a dieci minuti da casa. Ma io al liceo classico non ci volevo andare. Mi piaceva anche come scuola. Ma uno era vicino casa. Due: avrei rivisto ogni mattina sempre le stesse facce che vedevo alle medie. Tre: non mi sono mai piaciute le cose comode.

Funzionava così all’epoca, andavano tutti nella cittadella della scuola dove c’erano tutti gli istituti e lì ci si ritrovavano tutti.

Ma io non ne potevo più. Io volevo evadere. Andarmene lontano da casa. E le alternative erano Padova o Treviso. Così scelsi la scuola che più distava dalla mia dimora. E scelsi Treviso. Quando lo dissi ai miei genitori non volevano mandarmi. “Dove vai a 14 anni in una città come Treviso”. “Hai un’ora di strada ad andare. Una a tornare”. Così una mattina, già ribelle e determinata, chiesi udienza al preside che mi ricevette nel suo studio. Lo pregai di non mandare la mia preiscrizione al liceo classico e gli dissi che quella prescrizione avrebbe anche potuto prenderla e stracciarla perché giuro non ci sarei andate nemmeno con i carabinieri. Il preside chiamò mia madre, la quale capii che ero veramente convinta di prendere la mia strada. Parlò con mio padre e mi lasciarono libera di decidere.

Ora a distanza di anni, penso che se tornassi indietro lo rifarei altre mille centomila volte. Passare da un paese di campagna a una città mi ha aperto la testa. Ha cambiato le mie abitudini. I miei modi di vedere e di pensare le cose. Mi ha portato a fidarmi più di me stessa quando la mattina avevi due ore per ripassare e facevi le nottate e ti svegliavi alle cinque. O quando uscivi da scuola che era tardi e sapevi che dovevi per forza prendere quella corsa del bus altrimenti avresti aspetto altre quattro ore. Mi ha aperto un mondo che non conoscevo. Mi ha fatto conoscere persone nuove a 14 anni. Mi ha ampliato gli orizzonti. Quando incontrate qualche ostacolo ma sentite che quella è la vostra strada, andate avanti dritti. Indossate gli scarponi. Sentite il loro battito. È lì che dovete andare.

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Più bestia dell’orso, c’è soltanto l’uomo

Jurka (madre di JJ4), trasferita nel 2010 nel parco della Foresta Nera

Era andato a fare una corsa nei boschi vicino casa, a Caldes. Provincia di Trento. Ma nella discesa era avvenuto l’incontro con Jj4. Dapprima lui aveva cercato di fuggire, poi di difendersi. Ma è stato tutto vano. L’orsa l’ha aggredito e Andrea Papi, 26 anni, è morto. Era il 5 aprile scorso.

All’indomani della sua morte i suoi social, tra i tanti commenti di dolore e condoglianze, erano stati riempiti di offese e insulti. I parenti hanno denunciato e ora ci sono 18 indagati.  Un malcostume sempre più diffuso quello di prendere posizione nei social, di parlare di cose senza averle viste. Nel dibattito becero e superficiale che dimentica di scavare il possibile e il difficile equilibrio tra la natura e l’uomo, c’era chi sosteneva che era stato Papi a invadere la terra dell’orso e chi sosteneva che era stato l’orso a invadere la terra di Papi. Quando accadono queste cose, come in una grande partita allo stadio, gli utenti del web si dividono in tifoserie e non c’è verso di fermarli. 

La morte di Papi aveva esasperato i toni, mettendo in risalto la natura di noi esseri umani – a volte più orsi degli orsi stessi – facendo emergere meccanismi perversi e manipolatori. Chi aveva seguito i social in quelle settimane poteva rendersi conto di come qualunque persona potesse dire la sua, arrivando a calpestare il dolore di una famiglia. Ma il terribile dibattito, diviso tra chi vedeva l’orso come Yoghi e il runner come carnefice, era carico di odio. Molti avevano insultato e offeso quel ragazzo costringendo la famiglia a scrivere una lettera.

“Visto il comportamento degli haters – avevano scritto – la famiglia ritiene ora di dover tutelare la memoria di Andrea richiedendo all’autorità giudiziaria di verificare la correttezza o meno di ogni singolo commento postato in rete da coloro che, senza rispetto alcuno per la memoria di Andrea, lo descrivono nei modi più beceri. La famiglia Papi, che ama gli animali e la natura, ha sempre chiesto rispetto e giustizia per sé e per Andrea”. Per i familiari, l’odio riversato era come “un secondo dolore derivato dalla moltitudine di commenti aggressivi, sconsiderati e denigratori della memoria di Andrea”, che, a detta di genitori, sorella e fidanzata, “muore per la seconda volta, vittima ora non tanto dell’orso ma dei leoni da tastiera”. E di leoni infatti, più che di orsi, ce ne sono tanti. Tanto che ora la procura di Trento ha chiuso le indagini e ci sono 18 indagati per diffamazione. Tra queste c’è anche Daniela Martani, ex hostess Alitalia e personaggio televisivo e radiofonico. Martani ha scritto su Facebook: “Sono stata denunciata dalla famiglia di Andrea Papi, il ragazzo ucciso dall’orsa (?) per aver espresso un parere che metteva in dubbio la veridicità della questione, una follia. Ormai la denuncia per diffamazione è diventata un’arma per intimidire chi contesta o ha una visione diversa dei fatti. Chiunque sia stato denunciato, mi contatti, ho già messo in piedi una strategia legale con il mio avvocato che può difenderci in blocco”. La Martani ha chiesto aiuto per una tutela collettiva. Ma dinanzi a questo, la fidanzata di Andrea, Alessia Gregori, non ha esitato a farsi sentire e nei suoi social ha scritto: “Adesso chiede solidarietà, invece sarebbe necessario collegare il cervello prima di parlare, invece che piangere sul latte versato adesso è ora di pagare tutto il dolore che avete causato, tu e tutti gli altri”. La Martani è stata denunciata per aver messo in discussione la veridicità dell’accaduto. Definendo la morte di Papi una “speculazione del dolore” e affermando che l’animale non avesse colpe. E c’è un altro post che all’epoca fece discutere. Scrive la Martani il 20 aprile scorso: “Andrea Papi non era andato a correre ma si era addentrato nel bosco per cercare l’orsa con i cuccioli e fotografarli? Guardate l’ombra nel suo ultimo video postato poco prima di morire. Si vede chiaramente che indossava un cappotto da appostamento pesante”.

Ieri, dopo la chiusura delle indagini, la Martani scrive così: “La fidanzata di Andrea Papi è una ragazza piena di odio e livore, rispecchia in pieno la personalità di chi è stato rieletto in Trentino. Vuole a tutti i costi vendetta”. Poi il post è stato cancellato.

Serenella Bettin

Libero 14 marzo 2024

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Mestre: un quartiere in mano agli stranieri

Una laterale di via Piave

Davanti a me ci sono cinque uomini. Cinque africani. Uno sta dietro al bancone del bar. Gli altri quattro siedono su dei tavolini luridi unti bisunti e malconci. Sono lerci di untume e di grasso. Non mi fido a entrare. Cerco un bagno. Ma decido di andare nell’unico hotel che offre una garanzia di sicurezza e una parvenza di normalità. Sono a Mestre. Zona stazione. Quartiere Piave. Nel bar con i tavolini luridi unti bisunti e malconci. Lerci di untume e di grasso, fanno pure le insalatone. Ci stanno due tabelloni fuori con scritti gli ingredienti e i prezzi che a guardarli – gli ingredienti – mi viene male. Chissà se qui fanno i controlli penso. Poco più in là ci stanno due spacciatori. Spacciano. Cercano clienti. Li vedi che hanno gli occhi guardinghi. Procedono con passo felino. E lanciano occhiate agli altri due che fan da vedette. Funziona così qui. In pieno centro. Con un quartiere totalmente in mano agli stranieri. Percorro via Piave una due tre volte, avanti e indietro indietro e avanti. Qui i negozi italiani, quei pochi coraggiosi e temerari, li conti sulle dita di una mano. Gli altri sono tutti pieni di immigrati. Bengalesi. Africani. Cinesi. C’è il negozio di elettronica che parla mandarino. Il negozio di vestiti che veste China. Il parrucchiere bengalese. Il negozio di souvenir di Venezia che di Venezia non ha nemmeno il nome. In giro si vedono uomini con il turbante in testa. Donne velate che procedono passo passo con infilati addosso orrendi sacchi neri. Ci sono ragazze che indossano occhiali da vista moderni, scarpe alla moda, jeans, ma sopra sono ricoperte da quella stoffa che pare tanto una tenda. Ci sono i bar tenuti da nordafricani. Dentro non ci entra nessuno. Se non loro. Una donna africana con la tuta rosa e un borsone esce da un locale, sta gridando al telefono con qualcuno. Blatera qualcosa che non capisco. Poi le si avvicinano altre due donne. Anche loro di colore. Anche loro con quel volto perso nel vuoto, incapaci di vedere un futuro. Accanto mi passa una ragazza bionda. Bella. Alta. Dell’Est. Indossa un piumino corto. Jeans larghi e una borsa di stoffa con dentro dei libri. Alcuni ragazzini sfrecciano in bicicletta ficcandosi in alcune vie laterali. Entro da un tabacchino per prendere le sigarette ma la donna, che non capisco se sia thailandese, peruviana, o cosa, non mi ascolta. È troppo intenta a parlare e urlare al telefono, che quando le chiedo “Rothmans slim” per favore, mi dice che non ci sono nemmeno. In realtà sono dietro al bancone. Qui si consuma il suicidio di civiltà dell’uomo. Vite ai margini, esistenze sul bordo di una finestra che dà sul vuoto, sguardi persi, defraudati esclusi, masticati dalla vita e dalle promesse di un futuro migliore. Sono quelle persone che vivono nell’ombra, in una città in cui cresce l’indifferenza.

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La baruffa chioggiotta per la casa agli immigrati

Libero 13 marzo

La lite emersa tra la nota immunologa Antonella Viola e la Cgil, su di chi sia il merito per aver trovato la casa a una famiglia di immigrati, sembra la storia di quello che fa la carità in chiesa e sulla busta ci mette il suo nome, così da far sapere al prete che il donato proviene da lui. Una classica storiella all’italiana dove quando si fa del bene non lo si fa per farlo, ma per dire che lo si è fatto. Il caso dell’aiuto ai comuni terremotati, per esempio, seguito dal comunicato stampa. Del resto, questa è l’Italia, bellezza.

Ma cosa è successo. 

La storia risale all’autunno scorso. Siamo a Padova. E una famiglia di tunisini fatica a trovare casa. Lui è un operaio edile. Lei ora ha da poco trovato lavoro come cameriera. E insieme hanno due bimbi piccoli. Quando sono arrivati in Italia erano stati inseriti nel sistema di accoglienza, solo che poi lui ha trovato lavoro con tanto di contratto con una ditta del padovano e quindi il Cas che prima li aveva accolti, li ha poi “rilasciati” per strada. Per mesi hanno faticato a trovare casa, arrivando a dormire anche in auto. O a giacere davanti a un bar, così da poter scaldare l’acqua per il latte in polvere della figlia più piccola. Poi la macchina della solidarietà si è mossa e la famiglia ha finalmente trovato una abitazione. 

Ora, la notizia dovrebbe essere che questi due bambini e i loro genitori finalmente hanno un tetto sopra la testa e invece no, perché, nel mondo dove contano più i like che la sostanza, è diventata una baruffa – quasi chioggiotta alla Goldoni – tra chi ha fatto cosa e perché. 

La storia della famiglia è stata raccontata sul portale Collettiva.itdella Cgil nazionale, lunedì scorso, e fa così: “Haddad e Asma hanno due bambini piccoli. Vengono dalla Tunisia, lui è un operaio edile, lei ha da poco trovato lavoro come cameriera. Sono usciti dal sistema di accoglienza perché Haddad ha firmato un contratto per una ditta dell’alto Padovano, eppure per mesi non sono riusciti a trovare una casa per loro e per i loro figlioletti”. E fin qui tutto. Ok. Solo che poi la Cgil ha scritto: “Poi la Fillea Cgil, insieme a Caritas e Avvocati di strada, è riuscita a trovare una soluzione”. Da qui apriti cielo. Antonella Viola nel leggere queste parole è sbottata. Forse giustamente. E ci ha messo il carico da 90. 

“Avevo deciso di tenere questa cosa assolutamente privata e riservata – scrive la Viola nella sua pagina Facebook- ma oggi l’indignazione è tale che mi sento di raccontare la verità. Io e mio marito abbiamo tolto dalla strada la famiglia di Asma, portandoli dapprima in casa nostra, dove abbiamo convissuto per un mese, e poi comprando un appartamento che andasse bene per le loro esigenze per poterlo affittare a un prezzo onesto. Non ho mai visto la Cigl, né la Caritas né alcuna altra associazione. Ho speso tantissimo tempo nel girare di agenzia in agenzia per trovare una soluzione confortevole, rapida e alla portata delle mie risorse economiche. La situazione di questa famiglia l’abbiamo risolta io e mio marito, senza ricevere alcun aiuto. Ho voluto farlo in silenzio perché le cose importanti non si fanno per raccontarle ma per il loro valore. E mai ne avrei parlato se non avessi letto queste falsità. Assurdo speculare sul dolore. Assurdo prendersi meriti inesistenti”. 

La Viola inoltre ha anche ripreso parte della nota della Cgil scritta nel sito Collettiva.it, commentando: “Bellissimo, peccato che sia tutto falso”. Così la Cgil ha corretto il tiro aggiungendo all’articolo le parole: “Una soluzione si è trovata grazie all’interessamento di una privata cittadina”. Insomma da un lato la Cgil che dice che si sono adoperati loro per trovare casa a questa famiglia. E dall’ altro la Viola che rivendica la paternità dell’opera pia compiuta con il marito Marco Cattalini. La Cgil quindi si è scusata e la Viola nella serata di lunedì ha scritto: “Per correttezza voglio farvi sapere che abbiamo ricevuto le scuse da parte di Fillea Cgil per il testo poco opportuno col quale si accompagnava per altro un video molto importante. Va bene così. Da parte mia sono solo felice di aver dato una mano a una famiglia nel momento del bisogno. Quindi buon lavoro a tutte le donne e gli uomini di buona volontà”. La Cgil poi ha fatto sapere che c’è stato un malinteso e che loro volevano solo accendere i riflettori sul tema dell’emergenza abitativa. Solo che ora i riflettori si sono accesi su un’altra questione. E invece per noi Viola o Cgil poco importa. La cosa essenziale è che questa famiglia ora abbia un tetto sopra la testa. 

Serenella Bettin 

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In Italia la donna vale quanto un semifreddo

L’altro giorno passavo davanti a una macelleria e affisso sulla vetrina ci stava un cartello: “Oggi per la festa della donna, fantastici involtini di carne in padella con sughetto”.
Wow, mi sono detta. Che bello.
Che bello che la festa della donna si celebri con fantastici involtini di carne in padella con sughetto. Del resto se a Genova hanno avuto la brillante idea sfociata in una rilevante figura di merda di celebrare la giornata delle mimose con tre gusti di gelato.
Non ci credete?
Sì. A Genova, il comune ha deciso di onorare l’unicità delle donne inserendole in tre varianti di gelato così talmente buone da leccarsi i baffi.
Il Val d’Oro e Ibisco, con agrumi e un infuso di tè rosso e ibisco; il Women, un sorbetto di mirtilli e spumante con variegatura di passion fruit e buccia di limone grattugiata e la Primavera Rosa, un semifreddo striato con purea di frutti di bosco e decorato con pan di spagna. Ebbene sì.
Mentre gli altri Paesi lottano per dei diritti seri – vedi la Francia – sì l’aborto è un diritto- qui la donna ha lo stesso valore di un semifreddo.
E poco importa se da inizio anno ci sono stati 18 femminicidi, poco importa se nel 2023 ce ne sono stati 120, l’importante nel 2024 è avere il macellaio sotto casa che ti offre fantastici involtini di carne.
O come quella fantastica proposta di far entrare le donne gratis – per la giornata dell’ 8 marzo – in musei, parchi archeologici, complessi monumentali, castelli, ville e giardini storici e altri luoghi della cultura.
Prego animali in via di estinzione, acculturatevi, oggi donne entrate tutte gratis.
Ma torniamo alla macelleria.
Stavo per prendere a testate la vetrina ma alla fine ho optato per una sigaretta e mi sono calmata.
Tempo dieci minuti e mi arriva un messaggio. Sono quei messaggi boiate immense che ti arrivano dai famosi pr della zona che cercano di raccattare su un po’ di disperati per fare serata.
Il messaggio fa più o meno così: “Donne questa sera serata speciale ingresso libero”. Anche qui mi sta girando immensamente quello che Dio non mi ha dato. E penso che ci debba essere veramente tanta tristezza in giro se l’obiettivo è uscire la sera dell’8 marzo incelofanate con dei sacchi a pelo di paillettes per entrare in un locale gratis pieno di palloncini rosa che giuro se li avessi davanti li esploderei a uno a uno.
O come quel bar.
“Oggi per la festa della donna due caffè e il terzo ve lo offro io”. Giuro mi stava venendo il vomito.
Questo è lo stesso che faceva lavorare le ragazze d’estate senza aria condizionata e quando una di loro si lamentò lui la lasciò a casa. E questo è anche quello, mi dicono, che chiede a una donna se ha famiglia, se ha il ragazzo, se ha intenzione di trovarsi il moroso – come se trovarsi il ragazzo fosse qualcosa che programmi tramite app del telefono – perché sai io qui ho bisogno di gente che lavora – anche i sabati e le domeniche – e se ti prendo e poi mi resti a casa e io ti metto in regola io ci perdo.
Ecco, queste sono le battaglie che andrebbero condotte. Perché non ci perde il datore di lavoro, ci perde la donna costretta a scegliere tra casa e lavoro lavoro e famiglia e qualora tu scelga la carriera sei una snaturata perché lasci i figli dalla mamma o perché li vedi così talmente poco che a sto punto potevi fare a meno di farli. Se invece per caso i figli non li fai direttamente – sì è un diritto anche questo – sì sono libera se farli o meno – si mi vergogno quando sento che la missione principale di una donna debba essere quella di sfornare pargoletti – sì quelli che ci dicono di fare figli sono quelli che hanno le famiglie più disastrate al mondo – ecco se decidi di non farli i figli verrai sempre etichettata come quella che i figli non li ha fatti.
Come quella egoista. Come quella che non vuole responsabilità.
Ma soprattutto come quella che non ha ancora capito il vero significato della vita.
Mi auguro allora lor signori lo abbiate compreso voi il significato della vita. Voi.
Voi che offrite involtini scrausi andati a male che sanno di rancido. Voi che offrite biglietti gratis.
Voi che offrite caffè.
Ma soprattutto mi auguro l’abbiano capita quelli che celebrano la donna con tre palline di gelato, chissà che il gusto limone grattugiato con l’avanzar dell’estate non possa rinfrescarvi in qualche altro posto.

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Perdonali Gino. Il mondo è pieno di odiatori

Gino Cecchettin

Perdonali Gino.
I commenti denigranti e denigratori su Gino Cecchettin, il padre di Giulia trucidata in quel modo da quello che avete descritto “un bravo ragazzo” “le faceva i biscotti”, mi hanno fatto venire i conati di vomito.
Del resto c’era da aspettarselo in questo Paese di rosiconi, che odia tutti, perfino il vicino che ha l’erba più bella.
E in quel Paese che ora venderebbe la madre pur di avere un millesimo della visibilità che hai tu Gino, non capendo che, tu Gino, di questa visibilità avresti fatto volentieri a meno. Che avresti preferito non averli i giornalisti davanti casa a tutte le ore del giorno e della notte per un mese, ricordandoti ogni secondo che tua figlia è stata ammazzata.
Volevi startene lì tranquillo in quella casa di campagna, in quel paesello tranquillo di quel fazzoletto di terra che è il Veneto. Fare le tue cose, lavorare, curare il tuo giardino, dar da mangiare al cane. E invece il destino si è messo di traverso. E tu ne hai tratto insegnamento, dando una forma e un volto al tuo dolore e scrivendone un libro.
Ma questo agli odiatori sociali non va bene.
Ho letto di quelle cose così talmente orrende e mostruose che davvero mi chiedo se dietro le tastiere ci siano degli uomini o degli animali.
Perdonali Gino.
Perché forse il fatto di stare dietro a uno schermo li rende asettici, freddi, insensibili.
Perché la gente è così.
Odia le persone senza un motivo, scarica tutta la sua rabbia prepotente e arrogante su un mezzo con le luci riflesse e non si accorge che dall’altra parte c’è un essere umano. Una persona. Che vive. Respira. Ama. Si innamora. Soffre. Cade. Si rialza.
E soprattutto le persone parlano di storie che non conoscono, di uomini e donne che non hanno mai visto, di argomenti seri che non approfondiscono, trattandoli come fossero chiacchiere da bar, imperversando come fossero scimmie parlanti.
Io mi ricordo di Lei (ora Le do del Lei) fuori da quella casa e dentro quel bar. Mi rimase impressa la sua garbatezza e delicatezza nel dirmi che in quel momento non mi voleva parlare. E mi colpì quella sua calma quando per un mese ha avuto giornalisti da tutto il mondo fuori casa. La riprendevano anche se andava a portare via le immondizie. Milioni di persone incollate alla televisione per vedere se per caso quel giorno fosse uscito a portare fuori il cane e ora quelle stesse persone la odiano perché lei ha dedicato un libro a sua figlia ed è andato a presentarlo da un noto conduttore.
Quale atrocità ha commesso Gino. Quale.
Ma la gente non sa. Non capisce.
Imbalsamata nelle loro posizioni, ingessata nei loro stereotipi, rincitrullita dai social; la gente nemmeno si pone il problema di cosa possa significare per un padre perdere la figlia in quel modo. E la moglie due anni fa. La gente non lo comprende. Stenta a capirlo. Nemmeno ci prova. Non prova empatia. Tatto, sensibilità. Veniva lì fuori casa a curiosare. A cercare di soddisfare la propria curiosità morbosa. E poi. Poi quando avrebbe bisogno di sostegno le dà la zappa sopra i piedi.
Odiatori. Frustrati. Avviliti. Depressi. Anemici. Finti. Invidiosi.
La gente non sa che ogni mattina le manca il fiato e la sera quando va a dormire anche. Non sa che scrivere serve a elaborare il lutto. A vivere due volte. A far rivivere.
Almeno, lasciatelo in pace.
Un padre che perde una figlia ha tutto il diritto di scrivere un libro, di presentarlo, di ricamarlo, di diffonderlo.
O volete togliergli anche questo?

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“Prima almeno fammi pisciare”

Udine centro

“Prima almeno fammi pisciare”.

Entro in un locale a Udine che saranno le quattro del pomeriggio. È appena uscito il sole e vedo gente in maniche corte. Come è bizzarra la vita. Esci di casa col temporale, con l’acquazzone che non lascia scampo nemmeno ai tombini che si riempiono tutti, e ti ritrovi dopo qualche ora e qualche madonna di troppo col sole primaverile che quasi spacca le pietre. Qui la gente ha già iniziato a fare l’aperitivo. “Ci sarà un motivo” mi disse una volta uno dei miei più cari amici che fa il medico “se le cliniche per i trapianti di fegato sono tutti al nord. Sarà che i beoni sono tutti lì”. “Può essere”, gli avevo risposto. Ma all’epoca ancora non mi interessavo dei risvolti sociologici della città. Detta tra noi. Me ne sbattevo altamente il cazz. E vivevo meglio. Insomma vedo sta gente che alle quattro del pomeriggio di pieno lunedì fa l’aperitivo che si preannuncia bello lungo. Ordino un caffè. La troupe anche. E mi infilo un attimo in bagno. Con la coda dell’occhio continuo a fissare quella ragazza che mi sta dietro e che continua a guardare lo schermo del telefono con davanti un bicchiere di rosso. Sembra abbarbicata qui da tempo. Ha le labbra carnose. I capelli che le cordonano il volto. Una salopette di jeans. E sotto indossa una maglia gialla. Che tristezza penso. Qualunque sia il motivo del suo essere così da sola, così davanti a quel vino rosso, credo non ne valga la pena. Soprattutto se fosse un lui. Vorrei andarglielo a dire ma la mia discrezione per le storie degli altri mi impone di rimanermene zitta. Vado in bagno e ci sono quelli con la turca. Dopo di me entra un padre con il figlio e veramente non capisco come faccia a farlo pisciare lì. Esco dal bagno e all’improvviso la gente inizia ad arrivare a frotte. Non capisco nemmeno dove vadano. Chi ordina un prosecco. Chi un rosso. Chi uno spritz. Chi pane salame e quant’altro. Davvero non capisco come facciano a mangiare e bere tutto quello e sono solo le quattro del pomeriggio.

Un uomo fuori, con la pancia da birra, si è appena levato la felpa. Ora boccheggia in maniche corte tracannando vino bianco a più non posso. Un altro indossa un cappello e mi pare già abbasta su di giri. Mi avvio verso la stazione dei pullman. Sono qui che stanno le baby gang. Così le chiamano gli studiosi dei fenomeni sociali che etichettano le persone, funziona un po’ così. Li prendi e li incaselli dentro a dei riquadri e poi vedi se hanno le stesse caratteristiche. Ma di baby questi, non hanno proprio niente. Catene ai Jeans. Orecchini. Capelli tirati. Laccati. Accenti a noi sconosciuti. Parole in arabo. Dove non capisci una mazza. Appena mi avvicino a un ragazzo questo si alza in piedi e mi dice: “Scusi, scusi”. Cacchio penso devo fare proprio così paura. Così mi raccontano che sono egiziani. Che vivono in comunità. Che vogliono i documenti. Che stanno dentro la casa accoglienza. Ma che vogliono andarsene per lavorare e fare soldi. Poi ci sono i tunisini. Qui fanno le risse quasi ogni giorno. Faccio un giro, paro con gli autisti degli bus. Con i controllori. Le persone. I pendolari. Quelli che vanno a lavorare. Quelli che tornano dallo studiare. La gente ha paura. Torno indietro. I ragazzini si sono messi difronte a me. Urlano qualcosa in arabo che con tutta la mia più buona volontà fatico a comprendere. In questa babele di lingue mi viene in mente quell’altro. Quell’altro di prima. In dialetto stretto: “Prima almeno fammi pisciare”.

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Vannacci paragona i genitori alle scarpe e alle ciabatte

Sinceramente spero vivamente che si smetta di parlare del neo divo generale Vannacci. Lo spero vivamente. Non mi sta nemmeno simpatico, neanche un po’. Troppo autoritario per me, troppo illiberale e intollerante. Troppo indirizzatore di un percorso delineato da lui. Con me non resisterebbe nemmeno mezzo minuto. L’ho intravisto qualche volta in televisione e non mi è parso un granché, anzi, quando si è trattato di dare una mano al gioielliere di Cuneo non mi pare si sia sbracciato. Se ne stava ingessato senza dire niente davanti a una persona che sperava almeno in una pacca sulla spalla. Ma ho notato che alla gente in realtà di come stai e cosa stai passando frega poco niente. Con il suo fare austero e fermo e inflessibile – io personalmente non lo avrei voluto nemmeno come mio migliore amico. Manco come capo da cui imparare qualcosa. Dato che se uno limita la tua libertà, non è libero nemmeno lui – ecco dicevo con il suo fare austero rigidamente fermo e inflessibile, parla di un mondo al contrario senza sapere quale sia quello dritto. E che non sia libero nemmeno nelle sue posizioni lo si è visto dalle teorie espresse. Che secondo me non avrebbero dovuto manco essere riprese.

Uno che paragona i genitori alle scarpe e alle ciabatte, tanto basta.

“Gli otto miliardi di persone che sono al mondo sono nati da un uomo e da una donna: perché privare i bambini del diritto di avere un padre o una madre? Certo, uno può perdere un genitore in un incidente, o per un divorzio. Ma se faccio la maratona parto con due scarpe, non con una scarpa e una ciabatta. Io, come molti, cerco di orientare le mie figlie verso l’eterosessualità”, ha detto ad Aldo Cazzullo in un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera.

Un libro dove lui parla in modo abbastanza impositivo a tratti anche volgare di omosessuali, immigrati, ambientalisti, trans, prendendo come esempio quello che lui definisce “normali”, mi chiedo normali rispetto a cosa. Parole diciamocelo qua indifendibili per un uomo in carica alle Forze Armate. Perché hai poco da dire che Vannacci esprime la maggioranza silenziosa – sono tutti silenziosi quando c’è da tirar fuori le palle – con la finta illusione di poter dare nutrimento a un pensiero alternativo alla minoranza rumorosa. Oggi per esempio girando un servizio, ben due testimoni che avevo beccato hanno deciso all’ultimo di tirarsi indietro quindi davvero credetemi non capisco come certa gente possa adorare Vannacci e comportarsi da coniglio. La verità è che Vannacci rappresenta se stesso, tanto da apparire su Chi in copertina e con la posa da velina di chi spruzza l’acqua con la gamba, interessato solo alla sua figura e alla sua persona. Alla gente appare come una guida, un guru uscito dalle trincee della guerra e dai covi più austeri delle istituzioni che la gente si chiede perché mai non abbia parlato prima. Il suo libro che non è libero in quando limita la libertà altrui, è una efficace operazione di marketing per dar da mangiare alla popolazione sfolta e denutrita di buon senso credendo che i maggiori problemi del nostro paese possano essere relegati in alcune pagine spiegate solo attraverso le teorie di un essere umano che vorrebbe mettere le museruole a chi la pensa in modo contrario, che vorrebbe imporre la sua posizione, che vorrebbe cordonare le varie scene del crimine da lui descritte. Una volontà di non tenere conto dello scorrere del tempo, dello spazio, dei confini che non sono più confini ma linee da maneggiare e destreggiare con cura perché è ovvio che non ci stiamo tutti che gli italiani non fanno più figli ma è anche ovvio che quelli all’ Esselunga che sono morti erano romeni venuti in Italia a fare certi lavori che ahimè gli italiani non sanno più fare. Una cosa mi dispiace ed è vedere che ancora i media danno spazio al generale invitandolo ovunque usandolo come ariete – e lui non se ne rende conto – e accendendogli i riflettori addosso che se non sta attento tra un po’ si brucia. Vannacci è libero di pubblicare tutte le prodezze che vuole, di scriverle, di pensarle, di partorirle, può anche metterci nove mesi per partorire i suoi pensieri, può anche fare studi sul genoma dei gay e mettersi a studiare medicina e chirurgia o biologia ma se smettessimo di dargli così tanta visibilità Vannacci rimarrebbe uno come tanti che ha sentito il bisogno di esternare il suo pensiero spacciandolo come fosse anche quello degli altri.

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Bologna, la Dotta: qui lo spaccio è a cielo aperto

Bologna febbraio 2024

La tipa che mi sta davanti ha la gola tagliata. Si muove con fare spagnolesco e continua a ripetere che dentro di lei c’è un mostro. “C’è un mostro dentro di me”, farnetica in preda alla droga e ai fumi dell’alcol. “Guarda la mia gola tagliata”, fa a quell’altro che gli sta davanti in piedi. Lui indossa una pelliccia marrone fino ai piedi. Lei indossa un giubbino nero e quando va a testa in giù per scacciare il mostro, il giubbino le copre la testa, le scopre la pancia e lì inizia la sua danza. Comincia a roteare e inarcare il corpo e poi ad avere una specie di convulsione che non riesco a capire bene, perché avvicinarmi pare impossibile. Fino a due minuti prima si stavano cucinando il crack, lì in pieno centro, in pieno giorno, in una laterale di via Zamboni, il cuore della città universitaria di Bologna. Mi fermo a parlare con qualche residente e becco due genitori che sono andati a trovare la figlia. La figlia studia qui a Bologna. I genitori vengono dal Sud, cari i genitori che fanno studiare i figli, e mi dicono che sono qui in trasferta. La madre mi dice che non sembra una zona tranquilla, la figlia invece, capello corto sbarazzino orecchino al naso e alla bocca, molto più aperta e globalizzata mi dice che sì, che non c’è niente di male, che alla fine quei due sono due persone senza tetto che hanno solo bisogno d’aiuto.

L’aiuto, chi glielo dà l’aiuto. Viviamo in un mondo dove tutti sono pronti a farsi i cazzi degli altri, ma se sei un poveraccio e tiri a campare, per la società sei un rifiuto, un fallimento, un morto di fame e meriti di fare la vita che fai. Che pena questo mondo così schifoso. Faccio due metri e mi ferma un ragazzo di colore. Vuole vendermi fumo, roba, maria, hashish, droga, coca. “Come – gli dico – così qua a cielo aperto, voi spacciate?”. Mi sembra di essere Salvini, non ci voglio manco pensare, e quindi con fare più accomodante gli chiedo se fanno così tutti i giorni. Mi risponde: “Sì, certo”. “Ma sempre?”, “Sempre”. Gli dico che non voglio niente. Accanto a noi ci sono due ragazzi che suonano il djambè, quel tamburo a calice che usano in quei Paesi tipo Mali, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal. Le mani che battono sopra il tamburo, una canna, la droga che scorre a fiumi e quelle bottiglie di birra che si ammucchiano a ogni minuto. Una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Mi incammino verso i portici della zona universitaria, qui siamo nel cuore di Bologna, la Dotta. Ma faccio cinque passi che mi ferma un ragazzo. “Fica, fica, fica”, comincia a dirmi. E un altro. “Dove vai? Vuoi fumare? Vieni qua”. Dopo un po’ decido di andarmene e mi trasferisco in zona stazione. Le sentinelle dello spaccio sono a ogni dove. Si muovono con fare felino, furbo, a tratti perfino mansueto. Qualcuno ti ferma per venderti hashish. Venti, trenta, quaranta, cinquanta euro. Qualche altro per venderti maria. Qualche altro finge che sia tabacco e ti chiede se vuoi fare un tiro. Poi, mentre mi addentro in un parchetto isolato, al buio, con la scorta che mi controlla da lontano, incrocio un ragazzo e mi ci fermo a parlare. Mi dice che lui non ha i documenti, che è irregolare, che non trova lavoro se non lavorare in nero. “In nero? E lo trovi il lavoro in nero?”. “Certo che lo trovo”, mi dice. “Trovo sempre qualche giardiniere o qualche muratore o qualucuno che monta scale che mi dà da lavorare”. Eccoli penso. Eccoli i farabutti del lavoro. Quelli che gli immigrati non li vogliono, ma che se serve loro per evadere il fisco allora vanno bene anche gli stranieri, meglio se non parlano italiano così almeno possono sfruttarli meglio.

Poi poco più in là ci sta un tipo. Mi parla in arabo. Grazie alla scorta riesco a capire che voleva vendermi roba grossa, tagliata fina, roba buona, dama bianca, polvere sottile. Sullo sfondo una banda di ragazzini ha cominciato a fare casino: “Arrivano i serpenti”, dicono. “Arrivano i serpenti”. I serpenti per loro sono i poliziotti. Uno mi si avvicina. Mi chiede se sono una sbirra. Ormai si è fatta notte. È sceso il buio. Mi guardo attorno, la città si è dissolta lasciando posto ai colori notturni e ai luccichii di quelle poche auto rimaste che si specchiano sulle pozzanghere della pioggia appena caduta. I lampioni smorzano la luce, le luci delle case a poco a poco si spengono. In giro rimangono soltanto loro. Senzatetto, tossicodipendenti, sbandati, persone a cui la vita non ha ancora concesso un riscatto. E noi. Qui a riprendere e documentare. Mi volto, mi guardo in giro, mi accendo una sigaretta. Sono tesa. Il giorno dopo devo andare a incontrare lo stupratore, ma questa è un’altra storia…

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“Se mi lasci ti rovino”

Bologna centro

“Se mi lasci ti rovino”.

Sta scritto in una via centrale di Bologna.

L’ho visto sto cartello per puro caso mentre dopo aver girovagato per ore, cercavo un bar dove poter andare in bagno e dove bere un caffè che non mi facesse dormire.

Ci sono venuta a Bologna per raccontare il tentato stupro di quella ragazza studentessa universitaria che la notte del 6 febbraio scorso è stata aggredita in pieno centro da un richiedente asilo somalo che ha tentato di violentarla. Lui poi l’hanno rilasciato ma siccome la figura di merda era tanta, allora hanno deciso di rimetterlo dentro.

“Se mi lasci ti rovino”, sta scritto nelle nostre strade dove le donne vengono aggredite.

“Se mi lasci ti rovino”, sta scritto nel bel mezzo di una strada a caratteri cubitali su sfondo rosa.

In un mondo dove ogni settimana ormai contiamo un morto. L’ultima a Padova, si chiamava Sara Buratin. Anche lui non “accettava la fine della relazione”. Come il caso delle altre due donne, madre e figlia, a Cisterna di Latina.

Come se la fine di una relazione debba essere accettata.

Ancora questa grave mancanza di rispetto delle parole. Come se la fine della relazione implicasse quasi una sorta di benestare, di nulla osta, di accettazione.

Lui non accettava la fine della relazione. E lui ha fatto fuori la madre di lei, la sorella, e ha risparmiato la sua ex.

Era un maresciallo della guardia di finanza Christian Sodano. “La faccia da bravo ragazzo”, hanno detto. Quale bravo ragazzo.

Dietro a queste storie si nascondono mostri, fantasmi, maniaci, pazzi criminali. Dietro a queste storie si celano le più grandi turbe dell’essere umano incapace di bastare a se stesso e di stare da solo.

Lui prima ha ucciso la mamma della ex, Nicoletta Zomparelli, poi non contento ha finito con due colpi di pistola la figlia di Nicoletta, ossia la sorella della ex, Renée Amato, “perché – ha detto – si muoveva ancora e non volevo che soffrisse”. La sua ex invece l’ha risparmiata perché si è chiusa in bagno. Ma lui, una furia vivente, ha tentato di raggiungerla anche in bagno. Lei è fuggita allora in camera della sorella, è uscita dalla finestra fuggendo in mezzo ai campi. Nel frattempo madre e sorella erano già morte. L’altro giorno un servizio al telegiornale faceva così: “Lui non ha pianto”. Grazie. Ci mancherebbe.

“Lui non accettava la fine della relazione”. “Lui aveva la faccia da bravo ragazzo”.

“Se mi lasci ti rovino”, sta scritto nelle strade di questo pianeta quando ogni giorno raccontiamo storie di donne ammazzate o maltrattate. Quando ogni giorno raccontiamo storie di donne che per essersi ribellate o per voler essere libere pagano con la vita il prezzo della loro libertà. Anche a Cisterna di Latina.

Lui era uno di quelli: “Se mi lasci ti rovino”.

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