Le parole ora sono tutto quello che abbiamo

Dal diario di Facebook 19 marzo, ore 1.27

Come cazzo siamo messi. L’altro ieri mi è successa una cosa. Ieri anche. E oggi mi stava risuccedendo. Se non fosse per la capacità di controllare la testa.
E ora ve la provo a raccontare. Insomma l’altro ieri mi ha preso lo sconforto.
Stavo scrivendo un pezzo quando all’improvviso sono lì che scrivo, che compongo frasi, che le parole escono sulle dita come l’acqua, che la tastiera del computer suona note di guerra, quando mi prende un pensiero. Non lo so.
Sono così stanca di leggere di morti; di sapere di tutte queste vite spezzate, di ricevere messaggi dove mi fanno vedere le bare, dove c’è qualcuno che sta male; di ricevere chiamate di gente che mi porta cattive notizie, che ha qualche problema; così stanca di questo clima così teso, di queste storie così strazianti, di gente che soffre, di gente che non sa dove sbattere la testa, di persone che hanno perso il lavoro, di persone che non sanno cosa li aspetta, così stanca di sentire quattro coglioni che pensano che il 4 aprile aprano le gabbie e andremo tutti a festeggiare, così stanca di sentire qualcuno che mi dice: “speriamo finisca”, così stanca di non sapere come cazzo andrà a finire che a volte penso. Ogni tanto mi dico resisti. Vai avanti. Tieni duro. Non preoccuparti. Passa tutto. Sei lì che arranchi. Che vorresti fosse tutto un brutto sogno. Che vorresti quasi fosse un incubo. Quando trovi sempre la parola per ripartire. La frase. Quella piccola parte di schermo che ti spinge a fare.
Ma l’altro ieri. L’altro ieri ho alzato gli occhi dal pc, ho abbandonato per un attimo le dita che stavano scrivendo, mi sono accesa una sigaretta e mi sono detta: “ma che senso ha Serenella? Che senso ha? Ma tu veramente credi che si possa risolvere qualcosa scrivendo?
Ha veramente senso scrivere di queste morti? Di queste situazioni assurde. Di questi strazi. È veramente giusto? È giusto scrivere di qualcuno che è morto?
È giusto dare voce a chi non può più averne? Davvero si risolve qualcosa?”.
Poi, poi forse per una mia difesa non ho voluto star lì a esaminare ogni singola risposta. E ho atteso che la mia volontà si riprendesse il suo spazio. Che si rifacesse posto. Che tornasse da quella sua scappatella del cazzo e che si rimettesse in moto. E infatti.
Infatti così ha fatto. Brava lei. La volontà. Che non ti abbandona mai.
Sì insomma in un baleno, in un batter di ciglia, come siamo abituati ultimamente quando cambian le notizie, quando arrivano gli aggiornamenti, quando eri contenta e di colpo piombi nella tristezza mi sono detta che “sì, sì che ha senso”, “sì che dobbiamo”, ” Sì che possiamo fare qualcosa”.
Sì insomma mi sono sentita come quei musicisti sul Titanic, quando la nave stava per affondare, e loro hanno continuato a suonare.
E così, così ho continuato. Così ho continuato a comporre quella musica che ormai suona solo la tragedia e la morte degli uomini.
Mi dicevo: dai Serenella, continua a scrivere. Fai.
E poi. Poi ieri. Ancora quelle morti, ancora quegli anziani, ancora i nostri vecchi.
Che ha questa merda di virus, mi dicevo, che arriva a prendersi i nostri nonni. I nostri anziani. I nostri vecchi.
Che ha questo virus che si prende la nostra storia, la nostra memoria, i nostri basamenti, i nostri pilastri. Perché se c’è un disegno io non lo capisco. Non ce la faccio. Non ci arrivo.
Che ha questo vigliacco così bastardo, che si infila nelle cellule della gente, che si innesta, che si incunea, che che si moltiplica, che si attacca. Che ha. Che ha questo virus che trascina le persone nel basso, che blocca i sistemi, che manda in tilt gli ospedali, che stende i medici, che annienta le persone, che dimezza gli anziani, che blocca tutto, che isola la gente. Che ha.
Perché i numeri parlano. Raccontano. Non sono soltanto numeri. Sono persone, donne, uomini, desideri nascosti. Sono storie, sono genitori, sono madri, padri, sono persone che hanno donato la vita ai propri figli e ora non possono nemmeno vederli.
E idem oggi. Ogni sera alle 18 arriva la conta dei morti. Quei morti. Che prima erano 100 e ora sono diventanti 3 mila. E mi sembra tutto in così poco tempo. Un tempo così lungo. Per noi abituati a incasellarci nelle vite degli altri.
Poi alle 18 arriva la conta dei morti. E non la puoi fermare. Non puoi salire sul palco della protezione civile e dire di smettere. Non lo puoi fare. E così ogni volta aumentano. Ogni volta speri diminuiscano. Ogni volta speri che in 300 persone ce ne siano almeno dieci in meno rispetto a ieri. All’altro ieri. A ieri l’altro.
E invece. Invece niente. Invece un c.
Ogni volta che la rotella gira, ogni volta che il numero scatta, qualcuno muore o viene contagiato.
Le persone diventano morti. Le morti diventano bare. Le bare vengono messe dentro le chiese perché non ci stanno. E vengono trasportate dai mezzi militari come nei film di guerra. Perché questo è. Un lurido sporco bastardo film.
E così anche oggi. Anche oggi mi stavo chiedendo che senso avesse. Che senso avesse tutto questo. Che senso avesse scrivere. Io ho sempre mille dubbi. Solo gli stupidi non li hanno.
Perché poi. Poi non esiste più la firma. Non esiste più la comparsa. Non esiste più la fama. Esiste fare qualcosa per gli altri. Che sai che possa durare. Che sai che possa servire. Che sai che in qualche possa essere utile per qualcuno. Che sai che le tue parole possano raccontare quello che altri non riescano a vedere. E che sai che possa rincuorare. Che possano dare forza. Che possano indignare.
E allora mi sono detta che sì. Che in questo periodo. In cui ci hanno tolto tutto. In cui ci hanno tolto la libertà di movimento. La libertà di essere felici. La libertà di essere perlomeno sereni. La libertà di poter uscire e comprare un cazzo di libro nuovo, ecco, guardando questa foto, mi sono detta che sì, che ha senso, perché ora le parole sono tutto quello che abbiamo.
Continuate a scrivermi.
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Alzano Lombardo: qui si contano solo i morti

16 marzo 2020

Alzano Lombardo è un comune di poco più di 13 mila abitanti. Sta poco più su di Bergamo, la punta di quel triangolo della morte tra Lodi e Lecco. Immerso nella natura, fa parte della comunità montana della Valle Seriana. Qui c’è anche un parco, il Montecchio, e vari sentieri. Fino a poche settimane fa la vita scorreva “normalmente”, i bambini andavano al parco, i ragazzini in biblioteca, le mamme passeggiavano, la gente stava in mezzo alla natura e c’erano anche quelli che facevano jogging. Ma adesso. Adesso è un andirivieni di carri funebri, un viavai di ambulanze, di sirene; adesso è un coro soffocato e disperato di richieste di aiuto. Perché adesso, adesso qui non si contano nemmeno più i contagi, si contano solo i morti. Morti, morti, soltanto morti.

Negli ultimi venti giorni solo ad Alzano sono morte 50 persone, il che vuol dire di media due persone al giorno. Anche a Telgate, un comune di appena 5 mila abitanti, che sta a venti minuti da Alzano, sono messi così. Sabato sono morti in cinque. Ogni ora si sente un’ambulanza passare. Ogni ora speri che dentro quel suono soffocato di sirene a tutto spiano ci sia qualcuno che ce la faccia. Che rimanga su questa terra.

A ogni ora si sente un’ambulanza – mi racconta Elena Battistello – la messa viene trasmessa in diretta Facebook, gli ospedali sono pieni e inavvicinabili, tutte le attività stanno chiudendo e l’autostrada A4 è vuota, deserta, a ogni rotonda ci sono vigili e carabinieri. È assurdo ma purtroppo è tutto vero”.

Il quadro è molto drammatico – mi spiega il sindaco di Alzano, Camillo Bertocchi – i numeri dei contagi ormai non ci vengono nemmeno più dati, hanno perso di significato. In venti giorni abbiamo perso cinquanta persone. La situazione è molto difficile, e il problema grande non è solo quello degli ospedali, ma anche dei trattamenti a domicilio. Gli operatori e i sanitari non hanno possibilità di andare nelle case in modo efficace, sta diventando difficile fornire anche l’ossigeno”. Un ospedale quello di Alzano con 90 posti letto che è stato trasformato completamente per i casi Covid, in piedi è rimasto solo il reparto psichiatria. E il problema riguarda anche la mancanza di protezioni. Di presidi individuali. Mascherine, guanti, tute. Tutto quello che può servire per proteggersi da questo bastardo. “Zero protezioni – dice ancora Bertocchi – non si trovano mascherine, mancano non solo per i medici ma anche per tutto il personale sanitario e per quelli delle onoranze funebri”. Un comune quello di Alzano che di media conosceva 110 funerali l’anno, ma ora, ora sono troppi e più passano i giorni, più aumentano. Abbiamo tante salme collocate nelle camere mortuarie – conclude il sindaco – e noi come Comune ci siamo attrezzati. Siamo noi a dotare i medici dei presidi. La nostra è una richiesta di aiuto perché la situazione è molto drammatica; i morti non tendono a diminuire, anzi più i giorni passano, più i decessi aumentano. Senza dispositivi di protezione individuale poi diventa difficile operare. Si rischia di ammalarsi, sia il personale medico, sia quello delle onoranze funebri”.

Coronavirus: la spesa si fa solo in fila come i dannati

Dal diario di Facebook 16 marzo, ore 1.43

La spesa si fa solo in fila come i dannati. Sono tutti lì. In coda. In coda aspettando di poter entrare dentro quel luogo che darà loro da mangiare. Aspettano fuori al freddo. Alcuni imbacuccati. Altri no. Alcuni indossano la mascherina. Altri no. Aspettano in fila. Uno per uno. Passo dopo passo. Metro dopo metro. Hanno tutti quanti un carrello. Vuoto. Che riempiranno una volta dentro. Poi. Poi una volta dentro la scena è triste. La gente non è più spensierata come una volta che si ritrova tra gli scaffali, che gioca a mosca cieca tra i carrelli, che fa la spesa per mangiare allegramente. Con le cose buone. Per farsi una pizza in compagnia. No. La gente è travolta dall’angoscia. Assuefatta in così breve tempo dalla fretta. Non si fa più la spesa per mangiare. Si fa la spesa per sopravvivere. Si fa la spesa per restare.
Le persone che prima navigavano felici con litri dorati dentro ai carrelli di aperol, patatine e salatini, ora comprano pacchi di pasta, carta igienica, scottex, quattordici polli da congelare, comprano riserve per la primavera. Per l’inverno che sta finendo. Comprano riserve per questo tempo del cazzo che stiamo vivendo.
Non ci si guarda più in faccia. Non si ride più. Non posso nemmeno sbattere addosso a un figo col carrello. Le parole sono misurate. Strette. Calibrate. Nessuno più dice niente. Stanno tutti sospesi nell’attesa che passi.
Tra gli scaffali ci si schiva. Gli sguardi sono sospettosi. La gente litiga anche per un litro di latte. In molti scaffali mancano prodotti. Ed è già iniziato l’aumento dei prezzi.
I colori che prima ti sembravano belli, ora sembrano smorti, smorzati, appannati. Sai solo che devi fare la spesa. E ti devi muovere.
“Si prega di mantenere la distanza di sicurezza – recita l’altoparlante del supermercato ogni quarto d’ora – si prega di mantenere la distanza di sicurezza”. E poi ancora. “Si prega di non avvicinarsi al bancone, qualora la distanza di sicurezza non venga rispettata, l’operatore non potrà servirvi”. Sembra di stare in guerra. Gli altoparlanti. Le sirene. I clacson. I vigili che girano. I lampeggianti. Sembra di vivere un tempo sospeso quando ti rendi conto che è quello che stiamo vivendo. Qui. Adesso. Ora. E non conta il passato. Non conta il futuro. Qui ora fa paura a tutti. Quello che stiamo vivendo ha annebbiato i ricordi. Ha innervosito gli animi. Ha disteso gli affetti. Li ha fatti riemergere. Li ha fatti scolare. Li ha ripresi con lo scolapasta tenendo la scorza. La parte più dura. Quella che dobbiamo mantenere. Ma quella che abbiamo abbassato. Non distinguiamo più tra pubblico. E privato. Tra casa. E lavoro. Tra pigiama o divisa. Siamo tutti nella stessa barca, portando il culo salvo a casa. Quello che prima era strano. Ora è diventano normale. La gente canta sui balconi. Si fa le riprese davanti le televisioni. Canta a più non posso. Per sconfiggere il bastardo. Si fa vedere in casa. Apre la casa ai fan. Apre la casa all’Italia. Non ci sono più vip e meno vip. Siamo tutti isolati, ma più vicini. Più intensi. Più vulnerabili.
Tutto questo penso mentre sto in coda col carrello. “Si prega di mantenere la distanza di sicurezia”. “Si prega di mantenere quella fottutissima distanza di sicurezza”.
Fanculo penso.
Poi. Poi pago. La commessa in piedi sulla cassa indossa i guanti. C’ha la mascherina fino a sotto sugli occhi. E c’ha gli occhi tappati con gli occhiali. Non alza mai lo sguardo. Non dice mai una parola. Si vede che ha paura. Muove le mani con fare meccanico. Sempre quello. Sempre quello. Un movimento costante. Passa la merce come passano le bottiglie sotto il rullo compressore. Quando arriva il momento di metterle dentro la busta, le prendi una a una. Come facesse schifo. Come se a ogni cosa imbustata ti entrasse dentro qualche microbo. Gesti cauti. Lenti. Non con la foga dei vecchi tempi.
Poi, prendi il portafoglio. Tocchi quei soldi sporchi, presi in mano da chissà che altro e paghi.
Quando esci, ti meravigli. È uscito il sole. Prendi l’auto. In giro non c’è anima viva. Solo un gatto attraversa la strada. Solo rondini in volo ti passano davanti. Il sole taglia a metà il cielo. Lo squarcia dal basso. Apre un varco di luce. La luce inonda le case. I balconi. I vetri. I campi. Una luce riflessa che spunta al tramonto.
Premi l’acceleratore. Non sai perché ma hai un’aria contenta. Speranzosa. Va bene. Ti dici. Guardi l’ora. Accendi una sigaretta.
Sono le sei e mezza. Apri il finestrino.
Entra l’aria.
Schiacci ancora e torni verso casa.
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Coronavirus: “muoiono soli, vengono messi in un sacco e non li puoi più vedere”

14 marzo 2.28

L’altro giorno ho intervistato un tecnico di radiologia dell’ospedale di Cremona che ha contratto il virus. L’hanno dimesso martedì scorso.
Lui è Carlo Giussani. E adesso vi racconto.
Insomma mi ha detto che ha iniziato ad avere i soliti sintomi influenzali. Tosse, febbre, ma niente di che. Poi. Poi la situazione si è aggravata, la febbre è salita e Carlo ha iniziato ad avere difficoltà respiratorie.
Così va in ospedale, nel giro di tre giorni si sente sempre peggio, gli fanno la respirazione artificiale e gli mettono uno strumento che gli induce una certa quantità di ossigeno.
Una procedura questa che arriva prima dell’intubazione.
Un lavoro difficile quello di Carlo che lo porta a essere sempre esposto. A contatto con le persone.
“Nel nostro reparto – mi racconta – afferiscono persone dall’esterno costantemente. Medici, colleghi, infermieri. Uno dei lavori più esposti”.
Allora provano a capire da dove può essere partito il virus lì dentro. Ma dare un’ origine alla cosa sembra veramente impossibile.
Mi racconta un po’ del suo lavoro. Di come sia facile contagiarsi. Di come vedi così tante persone che tenerle a mente tutte poi è impossibile. Quando.
Quando mi dice che quando è entrato in ospedale con lui c’era un nonnetto. Un anziano. Avrà avuto all’incirca 80 anni. E che è durato un giorno. Un giorno. Un giorno per fare le ultime cose. Un giorno per salutare i nipoti. Un giorno per salutare i figli. Un giorno per dire qualcosa che non si è mai detto.
Un giorno. Ma non un giorno in cui i figli e i nipoti li puoi vedere. Li puoi toccare. Li puoi baciare. No.
Un giorno per salutarli sullo smartphone. Per vederli in diretta. Per fare una videochiamata.
“È stata la cosa più brutta – mi racconta – sono entrato che avevo un signore accanto a me, una persona che è durata un giorno e poi è morta. Quello è stato un colpo, nell’arco di una giornata se n’è andato, e questo è un ulteriore passaggio drammatico della situazione. È banale dire che si muore soli, ma il fatto di non aver alcun tipo di contatto parentale nel momento in cui stai peggio in assoluto, non senti nessun appiglio, nessun calore, nessuno che ti tira su da un baratro”.
Già. Quel baratro dove finiscono i morti. Quel baratro da dove si sentono le grida dei condannati a morte. Le urla di chi non ne vuole sapere. Gli spasimi di chi sa di non avere più tempo. I respiri di chi sta per andare. Le anime si aggrappano, vogliono leggere un ultimo messaggio. Un’ultima videochiamata prima di abbandonare la vita terrena. Muoiono da soli. In isolamento. Non li puoi vedere. Non li puoi toccare. Non li puoi nemmeno salutare.
“Muoiono così – scrive una collega di Claudio su Facebook – da soli… abbandonati, lontani dai propri cari. I parenti non possono entrare.
Muoiono soli e poi vengono messi in un sacco e non li puoi più vedere. Neanche da addormentati. Non so voi ma questa cosa a me mette un’angoscia terribile. Genitori, nonni che per la loro famiglia hanno dato tutto, MUOIONO DA SOLI! Neanche il vostro cane lo lasciate morire da solo perché lo accompagnate sul ponte”.
“Se questa cosa non viene capita – mi dice Claudio – è veramente drammatico. Ognuno si renda responsabile dei propri gesti che possono portare a queste conseguenze. Non bisogna aver un parente così per capirlo”.
Poi. Poi la collega continua. “State a casa… non diffondete il contagio. Non fateli morire da soli nel letto di un ospedale circondati da amuchina e mascherine. Vi prego… nessuno merita di morire cosi. SIATE RESPONSABILI !!!”.
Già perché poi ogni sera alle 18 arriva la conta dei morti. E non la puoi fermare. Ogni giorno speri che siano “pochi”, che non siano tanti, che non ci siano numeri enormi. Invece. Invece più 160. Invece più 180. Invece più 168. I morti diventano numeri.
I numeri diventano bare.
Bare isolate perfino dentro le chiese.
State a casa.
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📸 LaPresse

Coronavirus: questa è la Guerra

Stigliano, 13 marzo 2020

Dal diario di Facebook, 13 marzo 2020

Questa è la guerra. Le strade deserte. Le vie vuote. Le serrande abbassate. I negozi spenti. La gente in coda per il pane che attende fuori dalla porta a un metro di distanza l’uno dall’altro.
Questa è una guerra. La peggiore. Questa è una guerra contro un nemico invisibile che dobbiamo combattere. Le imprese sono in crisi. Le fabbriche ferme. Gli aeroporti chiusi. Le piazze sono vuote.
Sono affollati solo gli ospedali. Il settore dei servizi, del commercio, del turismo, dell’industria stanno pagando un prezzo altissimo da tutto questo. Professionisti. Artigiani. Imprese. Piccole. Medie. Grandi. Questa è una guerra che ci ha colto. E nemmeno di soppiatto.
E allora oggi sono andata a fare la spesa. In alimentari. Rischiano anche loro. Un cartello ti dice: “capienza massima otto persone”.
Lì. Lì dove una volta ce ne stavano cinquanta. Lì dove la gente si ritrovava per scambiare due parole. Ora si fatica perfino a guardarsi in faccia. Ma non per maleducazione. Ma per rispetto. Per amore. Quell’amore di cui parlava sul Giornale il mio collega Vittorio Macioce. Si sta a distanza per precauzione. Per fratellanza. Nessuno vuole essere infettato. Nessuno vuole infettare. Perché in questa cosa ci siamo tutti dentro.
E allora fa strano incontrarsi e sapere di condividere tutti lo stesso momento. Le stesse ansie. Le stesse paure. Le stesse preoccupazioni. Quasi gli stessi pensieri. Fa strano. Fa strano condividere gli stessi momenti e non potersi abbracciare. Non potersi avvicinare.
Il clima é teso. Gli sguardi anche. Le parole misurate. Calibrate. Dentro é apparso solo un uovo di Pasqua a rallegrare la stanza.
Il cielo è grigio fuori. Scalzo. Brumoso. Annebbiato.
Ma poi Poi esco dal negozio, alzo lo sguardo e vedo che su quel cielo grigio sovrastano i primi fiori di primavera che spuntano sugli alberi.
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Coronavirus: da lì si sentono le grida dei condannati a morte

Dal diario di Facebook del 13 marzo 2020, ore 1.58

Prima ci togliamo sta roba meglio è. Allora questa sera guadavo quel video di quegli autotrasportatori diretti verso l’Austria e in coda da giorni. Alcuni non sanno dove andare a mangiare. Dove lavarsi. Dove bere. Dove dormire. Rimangono lì come bestie nell’attesa che tocchi a qualcun altro il controllo della peste.
Li controllano al confine uno a uno.
Dannato dopo dannato.
Lo guardavo e ho provato una profonda tristezza. La nostra Italia. Quella che i nostri padri hanno costruito, quella che i nostri nonni hanno voluto. Lo guardavo e mi chiedevo se l’Italia merita tutto questo. Se la nostra storia sia così talmente insignificante da poter essere presa e spazzata via in un soffio.
Da poter essere presa e calciata. Falciata. Trucidata. Se la nostra Italia possa essere presa, squartata, ridotta in brandelli, sanguinante, boccheggiante, con un pezzo dello stivale che rischia di affogare. Di calarsi nell’abisso.
Perché giù dentro quel buco finiscono i morti. I cadaveri. Quelli che non ce l’hanno fatta. Quelli che contiamo ogni giorno. Alle 18 arriva il bollettino di guerra. E loro sono già scivolati dentro la fossa. Da lì si sentono le grida dei condannati a morte. Le urla di chi non ne vuole sapere. Gli spasimi di sa di non avere più tempo. I respiri di chi sta per andare. Le anime si aggrappano a questa Italia rotta e devastata, tentano di aggrapparsi ma il morbo li risucchia via. Giù. Senza vedere nessuno. Senza toccare niente. Muoiono da soli.
Questa è l’Italia di questo marzo 2020.
Un’Italia che non ha più ponti. Che non ha più porti. Che non ha più aerei. Più treni. Più aeroporti. Rimangono quelli essenziali. Un’Italia che ha i negozi chiusi. Le attività commerciali anche. Che ha chiuso i parchi. I giardini. Un’Italia dove non puoi vedere nemmeno le stelle.
Allora fate girare questo messaggio. Fate presto. Perché non c’è più tempo. È un’Italia che sanguina. Un’Italia sbrandellata. Un’Italia schiacciata da dolore. Dalla mancanza di lavoro.
Ho commesse che mi scrivono che al supermercato rischiano. Bariste che hanno perso il lavoro. Estetiste in crisi. Parrucchiere anche. Dipendenti degli alberghi che mi mandano le lettere di licenziamento. L’ultima l’altro giorno ad Abano. “A causa della tristemente nota situazione relativa alla diffusione del Covid 19 e a causa del repentino e drammatico calo delle prenotazioni in albergo, ci troviamo costretti a comunicarle il suo licenziamento a far data dal 6 marzo 2020”.
Ho mamma preoccupate che non sanno dove tenere i figli. Ho neo-mamme che hanno già perso quel posto che avevano. Ho commesse a cui non sarà rinnovato il contratto. Impossibile. Troppi danni ha già fatto tutto questo. Ci sono ristoratori in crisi. Dipendenti in cassa integrazione. Aziende non solide già sull’orlo del fallimento.
Ci sono i medici che sono stremati. Senza forze. L’altro giorno ne è morto un altro. Era stato presidente dell’Ordine dei Medici di Varese, Roberto Stella; una perdita importante per il mondo della medicina. Perché si sa, ogni volta che se ne qualcuno l’umanità perde un pezzo. Ci sono padri in pensiero per come andranno le cose. Giovani madri che non sanno se riusciranno a garantire un futuro ai figli. Imprenditori e commercianti che devono pagare l’affitto e negozianti che chiedono la sospensione delle tasse del 16 marzo.
L’altro giorno una titolare di un bar mi ha detto che ha l’affitto da pagare. E che non sa come fare. Giovani imprenditori che non sanno come andare avanti. Commesse che vengono messe in stand by. Ordini disdetti. Clienti in cerca di nuovi fornitori.
Allora io non credo che l’Italia meriti ancora di essere stuprata, e poi fatta a pezzi.
Ho immaginato un’Italia senz’acqua. Senza luce. Senza gas. Senza calore. Un’Italia dove non arrivano i camion. Dove non arrivano i viveri. Dove non arriva la prima distribuzione.
E mi sono detta che bisogna fare presto.
Che bisogna fare in fretta.
State a casa per salvarla questa Italia.
Per tirarla su. State a casa. Ripartiremo domani più forti di prima.
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#Coronavirus: vi dico com’è vivere isolati in un isolato

Dal diario di Facebook 12 marzo 20.49

Vi racconto com’è vivere isolati in un isolato.
Allora oggi sono uscita dalla porta di casa per fumare una sigaretta. La mia delle varie sigarette. Ma vi racconto quella del quarto d’ora prima di pranzo.
Dovevo sgranchire le gambe. Raccogliere le idee. Spolverarle. Prendere aria. Rigenerare la mente. Rinvigorire il cervello.
Così ho fatto il giro dell’isolato. Non del paese. Non del quartiere. Dell’isolato. Se lo capite. Lo capite.
Allora ho iniziato a fare un gioco. Cioè appena esco dalla porta di casa accendo la sigaretta. E cammino veloce. Quando cammini veloce tutto lo sporco che hai accumulato nella testa scende. Se cammini piano invece si accumula.
Calcolando che il mio isolato sono 476 passi per un totale di 319 metri, sette minuti e dodici calorie (nemmeno un biscotto), ecco prevedo che se giro l’isolato dieci volte al giorno di metri ne faccio 3190, di passi 4760 per 70 minuti e 120 calorie. Lo yogurt del mattino.
L’obiettivo è quello di riuscire a finire la sigaretta nell’esatto punto in cui l’avevo iniziata perché vuol dire che avrò camminato veloce.
Senza fermarsi a parlare. Anche perché nel mio isolato stanno tutti a casa. Sono bravi.
Li senti solo fare le pulizie al mattino, passare l’aspirapolvere, qualcuno chebcanta, qualche altro che spara musica dance a tutto volume, alza il volume che sale anche l’umore, oppure senti quelli che si parlano da pianerottolo a pianerottolo. Dio come li amo.
Ecco dicevo, facendo questi conti dovrei fare un buon allenamento.
E così oggi ho provato. Nessuno in giro ovviamente. A quell’ora nemmeno nessun rumore. Il paesaggio era grigio. C’erano solo le distese dei campi quasi semi verdi al di là del canale, e poi alberi impilati come fucili oltre le steppe.
In fondo si percepivano solo le montagne. Non c’è un colore. Non c’era niente. Non si sentivano nemmeno le campane.
Così svolto. Svolto un’altra volta. Risvolto.
Il percorso è quadrato, quando mi imbatto in un ragazzo che sta battendo col martello sopra un gazebo. Sta rifacendo un tetto.
Alzo lo sguardo. Io sono tutta imbacuccata. Ho i guanti tagliati. Ho il cappotto lungo. Ho le scarpe da ginnastica. Non il pigiama ovviamente. Un po’ perché non mi piace. Io mi trucco quel poco anche per stare in casa. Cioè non è che le persone che vivono con te siano dei leoni o animali da circo e meritino di vederti presa allo sfascio.
E due perché a pensarci bene non ho nemmeno un pigiama.
Ma dicevo svolto. Timidamente alzo lo sguardo. E vedo gli occhi di quel ragazzo colorati d’azzurro. Sono un raggio di colore nel grigiore di questo inverno.
Lo seguo. Lo osservo. Lui mi guarda. E mi pronuncia un timido ciao. Io ricambio.
Ci scambiamo due sguardi. Io mi richiudo nei miei capelli. E lui continua a battere il martello.
Un colpo. Poi un altro. Un altro ancora. Un martellare che sento da casa e che scandisce le ore di questo tempo così folle che passa.
E poi dicono che l’isolamento non è bello.
Vi aggiorno.
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Coronavirus: alla faccia della libertà

Dal diario di Facebook 12 marzo 0.33

Il prossimo che mi dice che in Italia si sta male io lo inc…. perché vi hanno dato quattro regole da rispettare e avete fatto quel caz che avete voluto.
Alla faccia del non poter essere liberi. Ingrati.
Mai avrei pensato la sera di un 11 marzo 2020 di sentire il presidente del Consiglio parlare a reti unificate davanti la Nazione per dire che l’Italia diventa un Paese dove si chiude tutto. Tutto. Sembrava la guerra. Uno di quei film con Shirley Temple che attende alla radio l’annuncio delle bombe o che la guerra finisce.
Questo per l’incoscienza e la delinquenza – sì secondo me chi se ne è strafregato è un delinquente – di giovani e non solo che anziché comportarsi secondo le regole si sono fatti prendere dalla “bella stagione” e sono andati al parco, in piazza, al mare, a giocare a briscola, a campi.
Sono andati a fare shopping. A farsi gli spritz. A farsi gli aperitivi.
Avete gridato nei social per anni che pretendevate il rispetto delle regole da parte degli immigrati. “In Italia si rispettano le leggi”,’ diceva qualche cazzone. “Qui vige il principio di legalità!”, diceva qualche altro facendo la voce grossa e ingoiando un oboe.
“Qui siamo abituati così”, diceva qualche altro cornuto. E poi.
Poi quando vi hanno chiesto in ginocchio di rispettare quattro regole in croce. Quattro. Ve ne siete fregati. Ve ne siete strasbatutti. Siete andati al pascolo. Siete andati a pascolare. Del resto solo quello sapete fare. Come tante “teste di cazzo”, in fila indiana, in massa, in mucchio, siete andati dove non si poteva andare, in barba alle norme. In barba alle recenti disposizioni. In barba ai decreti urgenti. Chiedetevi perché la Corea migliora giorno per giorno. Sì il Governo li aiuta, ma
loro stanno in silenzio. Obbediscono.
Mi meraviglio anche di come certa gente possa essersene strasbattuta di una normativa del genere.
Vi hanno detto di non andare ai centri commerciali, avete affollato bar e ristoranti. Hanno chiuso i ristoranti vi siete ammassati nelle piazze. Hanno chiuso le piazze siete andati nelle spiagge. Che stolti che siete. Come tante pedine impazzite a non sapere stare al proprio posto.
E allora oggi parlavo con una persona che mi ha telefonato per sapere come stavo e a un certo punto mi ha detto: “sai Serenella, qua il problema è che molti non hanno fatto il servizio militare”. Già. Vi sarebbe servito.
Ci sarebbe voluto un po’ di servizio militare. Per tutti. Quello con le contropalle. Bastavano anche solo due settimane. A me ne è bastata una all’Aquila e una in Kosovo per capire il rispetto. La gerarchia.
Il momento di stare zitti e andare avanti.
E invece tutti qua. A cinguettare dietro le farfalle.
Zaia ha detto che vuole vedere le piazze vuote. Che non vuole vedere gente in giro. Che non vuole vedere nessuno. Che non dovete uscire, andare a giocare a pallone, a carte, a tombola, a chissà che cazzo. E ancora la gente chiede su Facebook se può uscire con i bambini al parco, se può portare il cane a prendere il sole, se può andare a prendere una boccata d’aria.
Ora lo volete capire che dobbiamo stare a casa. Lo capiamo? Lo capiamo una volta per tutte?
Il virus non aspetta. Il virus non sta lì a pensare a quando attaccare. Il virus attacca e basta. Può starsene ovunque. Può saltellare di qua e di là. Siamo noi che lo portiamo in giro. Il virus non fa nessun chilometro se noi non lo trainiamo. Il virus non prende treni. Non prende aerei. Non sale sugli autobus da solo.
Sale se qualcuno ce lo accompagna. Sale se qualcuno ce lo porta.
I ragazzini che credono di essere in vacanza e vanno a farsi il giro in centro, io manderei a spalare la merda ai genitori. La merda che vedono i medici in ospedale questi giorni.
Non avrei mai pensato nel2020 di vivere un simile scenario. Di assistere a delle simili decisioni da parte di un premier. Di parlare alla Nazione implorando l’isolamento. Mai. Non può essere che gli anziani non lo capiscano. Non può essere che padri e madri non lo capiscano. Avete messo al mondo dei figli. Fatelo per loro. Non può essere che noi figli non lo capiamo. Non può essere che i ragazzi non lo capiscano. Ora sono loro che devono salvare i nonni. Quelli con cui giocavate d’estate quando avevate due tre anni. Quelli che vi hanno sempre detto sì. Quelli che vi hanno portato a mangiare il gelato. Quelli che vi hanno insegnato a leggere. Quelli che vi hanno preparato da mangiare. Quelli che non vi hanno mai fatto morire di fame. Ora non può essere. Non può essere che se hanno bisogno allora voi ve ne strasbattete. Non può essere che siamo così ingrati.
Il virus, quel mostriciattolo maledetto che ho sempre immaginato come un essere appiccicoso che si attacca e non si stacca e che si innesta sulle cellule dell’uomo, non cammina da solo.
Se sta da solo muore.
Facciamolo questo sforzo.
Facciamogli patire quello che ora patiamo noi.
Stiamo da soli per ammazzarlo.
#sbetti
#Coronavirus
#Storie2020

Telecamere termiche in Corea per sconfiggere il virus

Corea

11 marzo

Questa notte vi voglio raccontare di una ragazza di Milano, Giulia Brambilla, che sta in Corea e che mi racconta come la Corea sta affrontando l’emergenza Coronavirus.
Allora questa ragazza mi scrive che: “la situazione in Corea è grave, ma contenuta, e migliora di giorno in giorno. Il governo sta investendo tantissimo. Hanno persino inventato dei test pronti in 10 minuti, tipo mc donald drive”. Sì. Entri con l’auto in dei mega campi, ti misurano la febbre e fanno i tamponi senza mai scendere dall’auto. Le aziende, che producono mascherine sono state messe al lavoro anche nei weekend e i costi sostenuti dallo stato. Infatti. “Gli infetti vengono tracciati – mi dice – ne tracciano i movimenti, ora per ora. Disinfettanti ovunque, disinfezioni ovunque. La gente vive tranquilla. La paura c’è, ma le attività non si fermano”.

Io rimango basita. E le chiedo di spiegarmi tutto. Lei fa un super lavoro.
Mi invia foto. Video e quant’altro. Con tanto di spiegazioni.
Le telecamere termiche stanno agli ingressi dei locali, dei grossi centri, come per noi può essere La Rinascente, e misurano la temperatura a quelli che passano. Basta l’occhio della telecamera. Se passi e hai la temperatura sopra i 37, ti bloccano, e chiamano l’ambulanza. Poi detergente ovunque per tutti. Qui abbiamo le amuchine in vendita a 200 euro. Solo l’altro giorno in un supermercato, mi pare l’Emisfero, ho visto il disinfettante libero per tutti.

E poi il top. il top. Il Governo ha suddiviso per le persone per fasce d’età e ognuno sa quando può andare a prendersi la mascherina. Giulia che è nata nel 93, può andare a prendere le mascherine fornite dal Governo al mercoledì. In tutto questo la Corea è in recessione per il virus. Le attività produttive lì continuano. L’Italia invece per numero di contagiati schizza in alto. Ieri la Corea era a quota 7313, con un aumento di 272 casi. Qui in Italia con la banda delle “teste di cazzo”, i numeri sono schizzati. Quota 7375 con un aumento di 1492 casi. Numeri catastrofici che potrebbero peggiorare.
Allora noi non abbiamo mascherine fornite dal Governo, non abbiamo telecamere termiche. Non abbiamo i giorni suddivisi dove possiamo andarci a prendere le nostre protezioni.
Abbiamo solo una cosa per ora per sconfiggere questo virus maledetto. Stare a casa.



Italia deserta. Italia 2020

Italia 2020.
La strada è deserta. C’è un unico semaforo. Segna il rosso. Sempre quello. Stavolta però non c’è nessuno. Stavolta non c’è nessuno che smadonna in colonna per passare. Stavolta non c’è nessuno che ti taglia la strada. Stavolta non c’è nessuno che non ti lascia passare.
Stavolta il semaforo segna il rosso per l’asfalto. Diventa verde. Scatta l’arancione. Un dispositivo automatico.
Sempre quello. Sempre costante. Sempre a scandire il tempo di questo tempo che stiamo vivendo.
Si esce solo per fare la spesa. E il paesaggio è spettrale. Sembra quello di quei film dove i mutanti ti modificano i geni.
Attorno c’è silenzio. Non fiata nessuno. Nessuno che parla. Nessuno che canta. Nessuno che ride. Nessuno che vocia dall’altro lato della strada.
Mancano le grida dei bambini. Il canto degli adulti. Il borbottio delle madri.
Mancano il ronzio delle automobili. Il clacson dei forsennati.
In negozio, per terra ci sta il nastro isolante. Appeso alla cassa ci sta un cartello rosso come il semaforo. “Rispettare la distanza di un metro”. Non ci si avvicina al bancone. Non si parla con la gente. I due venditori indossano la mascherina. Una protezione per te che gli stai davanti, che ordini il prosciutto, che loro te lo tagliano e te lo incartano.
Se per caso devi passare si presta attenzione. Fai il giro dall’altra parte. Oppure senza guardarsi nel volto, coprendosi la bocca, ci si passa comunque a distanza di un metro.
Per mettere la spesa dentro la borsa ci si protrae in avanti. Si incurva la schiena e facendo terribilmente attenzione a ciò che si tocca si iniziano a infilare le cose dentro una a una. Lentamente.
Non puoi più permetterti di fare trecento cose contemporaneamente. Rispondere al telefono. Leggere la mail mentre aspetti lo scontrino. Aprire whatsapp. Segnare l’appuntamento.
Ora ogni gesto assume il suo valore.
Pensi ai singoli gesti con la paura di rimanerci. Poi.
Poi si paga. Entrano due persone.
Buongiorno. Buonasera.
Si apre la porta. Ci si saluta. Si esce.
Mi viene voglia di fumare una sigaretta.
Ma torno a casa.
Mi lavo le mani.
E tiro fuori l’accendino.
Lo faccio scattare.
E tiro su le mascelle.
#Coronavirus
#Sbetti
#Storie2020

“Io scampato a Ebola, so cos’è questa paura”

Gian Micalessin, inviato di guerra

Dal diario di Facebook del 10 marzo 2.38

Ora voglio condividere con voi una cosa.
Che mi auguro possa farvi riflettere sulla gravità della situazione.
Senza ansia. Senza panico. Senza assalti ai supermercati. O ai treni.
Allora l’altro giorno leggo un tweet del collega Gian Micalessin.
Lui da 35 anni racconta le guerre nel mondo.
Lui fa l’inviato di guerra.
Il giorno che sono stata a Vo’ Euganeo, nella zona rossa, ero in preda alla paura.
Tornando a casa lungo quei tornanti di notte, al buio, da sola, senza trovare nulla di aperto dove potermi appoggiare per scrivere il pezzo, mi veniva da piangere.
Mi chiedevo chi me lo fa fare, stare qui di sabato sera, con la paura, con il rischio. Con l’angoscia.
Non sapendo bene cosa fosse – ma non lo sappiamo nemmeno adesso – credevo addirittura di averlo respirato.
Che mi fosse entrato dentro l’auto. Boh. Non so. Da qualche parte. Sulle bocchette. Continuavo a tirarmi su la sciarpa per coprirmi tutta.
Poi. Poi ho trovato un posto. Molti chilometri dopo. Mi sono lavata le mani. Mi sono seduta su un centimetro quadrato. Ho preso un caffè e ho scritto due pezzi.
La sera tardi però quando sono tornata a casa non riuscivo a starmene tranquilla. Forse sono esagerata mi dicevo.
Così ho preso e ho scritto a Gian Micalessin.
Durante il viaggio mi erano tornate in mente le parole del suo libro scritto con Fausto Biloslavo, Guerra Guerra Guerra, dove diceva che quando scese a Kikwit, nel 1995, nello Zaire, andò incontro all’Ebola.
“Capii che ero da solo – aveva detto – Eravamo io e e le mie paure”.
Una frase che durante il giorno mi era rimbalzata in testa più volte.
Lungo i tornanti, avrei voluto girare i tacchi e tornarmene indietro, sfrecciare da un’altra parte, ma la forza che mi trainava in avanti era più forte, e così mi ripetevo: “dai Serenella, altri cinque chilometri, quattro, tre, due, un altro chilometro, schiaccia l’acceleratore, fai quello che devi fare e vai via”.
E così ho fatto.
E allora dicevo la sera ho scritto a Gian Micalessin e gli ho detto che avevo ripensato a quella sua frase del libro e che mi era servita tantissimo.
Lui mi risponde che nel pezzo del Giornale racconta come le cose non siano molto diverse.
Perché pensavo lungo il tragitto: se vai in guerra le bombe le senti. I proiettili li vedi. Quando ti ha sfiorato sai che non ti ha colto.
Qui no.
Qui il virus potrebbe essere ovunque. Potrebbe esserti accanto. Potrebbe starti addosso. Potresti portartelo dentro le case. Nei maglioni.
Potrebbe aspettarti tra le strette di mano.
Negli abbracci. Potrebbe stare nelle maniglie. Nell’auto. Ovunque.
Nel respiro. Nell’affanno. Quando non conosci il tuo nemico le pensi tutte.
E infatti.
“Bombe e proiettili si vedono e si sentono – scrive Gian – Il virus no. In guerra se ti colpiscono sai subito com’è andata. Con Ebola no, devi aspettare due o tre settimane. E intanto lui può esserti entrato dentro”.
“E così il contagio diventò un’ossessione – continua raccontando della sua esperienza – un fantasma, un tarlo che rubava il sonno, dominava gli incubi, accompagnava ogni istante della giornata. Durò per sei giorni e sei notti, s’impadronì delle mie viscere, dei miei pensieri, della mia forza d’animo”.
Un morbo quello dell’Ebola, misterioso e letale, passato, come il Coronavirus, dagli animali all’uomo.
Ma passa qualche giorno, le notizie si accavallano, dal panico passiamo alla rassicurazione e io mi tranquillizzo.
Poi. Poi l’altro giorno ho visto il suo tweet.
“Nel 1995 – scrive Gian Micalessin – trascorsi una settimana a Kikwit epicentro della seconda grande epidemia di Ebola in Zaire. Non mi sarei mai aspettato di rivivere sensazioni simili in Italia 25 anni dopo”.
Ecco.
Allora qui. Allora qui ho capito che la situazione è grave.
E che ora solo noi possiamo fare qualcosa.
Il virus non prende treni e aerei da solo. Non si attacca alle persone se noi non lo facciamo attaccare.
La situazione è drammatica.
State nelle vostre case.
Per favore.
#sbetti
#Coronavirus
#Storie2020

👉👉👉 PEZZO https://m.ilgiornale.it/…/io-scampato-ebola-so-cos-questa-p…

Ho detto a una mia amica di stare attenta a quando fuma: mi ha ringraziato

Dal diario di Facebook, 9 marzo 20.57

Oggi ho detto a una mia amica di stare attenta quando fuma. Di lavarsi le mani prima di accendere la sigaretta.
Mi ha ringraziato. Non ci aveva pensato.
È dal 21 febbraio che ogni minuto siamo concentrati sul Coronavirus.
Ascoltiamo le persone. Sentiamo medici. Parliamo con gli infermieri. Intervistiamo i professori.
Scrivo. Leggo. Mi documento. Confronto i dati. Raccolgo.
Guardo le curve salire.
Guardo quelle scendere.
Me le faccio spiegare.
La sera la testa ti scoppia.
Si va di fretta. Si lavora velocità della luce. Cercando anche di dare il proprio supporto. Il proprio sostegno. Le persone ti scrivono. Ti raccontano. Ti prendono come punto di riferimento. Qualcuno ha bisogno di una parola.
Oggi a una madre ho detto di stare tranquilla: mi ha mandato un cuore.
Io intanto ascolto. Capto. Sento. Raccolgo. Parlo a distanza. Parlo con l’iPhone. Faccio le riunioni via Skype. Faccio le call su whatsapp. Mi sono attrezzata.
Ho Mac, tablet, cellulare.
Non è semplice vivere in questo clima. Teso. Di tensione. Dove le notifiche arrivano ogni minuto. A tutte le ore. Dove arrivano i morti. Gli infetti. Gli infettati. I contagiati. I guariti.
Dove arrivano le parole dei virologi. Dei politici. Di tutti.
Dove le telefonate si accavallano. Dove i tweet avanzano.
Attendi le 18 e vorresti non arrivasse mai quel momento. La conta dei morti. La linea che sale. La curva che non scende.
La percentuale che aumenta.
È una situazione surreale.
Ma non molliamo.
Non molliamo adesso.
Scrivetemi.
#sbetti
#Coronavirus
#Storie2020