Dal diario di Facebook 19 marzo, ore 1.27
Come cazzo siamo messi. L’altro ieri mi è successa una cosa. Ieri anche. E oggi mi stava risuccedendo. Se non fosse per la capacità di controllare la testa.
E ora ve la provo a raccontare. Insomma l’altro ieri mi ha preso lo sconforto.
Stavo scrivendo un pezzo quando all’improvviso sono lì che scrivo, che compongo frasi, che le parole escono sulle dita come l’acqua, che la tastiera del computer suona note di guerra, quando mi prende un pensiero. Non lo so.
Sono così stanca di leggere di morti; di sapere di tutte queste vite spezzate, di ricevere messaggi dove mi fanno vedere le bare, dove c’è qualcuno che sta male; di ricevere chiamate di gente che mi porta cattive notizie, che ha qualche problema; così stanca di questo clima così teso, di queste storie così strazianti, di gente che soffre, di gente che non sa dove sbattere la testa, di persone che hanno perso il lavoro, di persone che non sanno cosa li aspetta, così stanca di sentire quattro coglioni che pensano che il 4 aprile aprano le gabbie e andremo tutti a festeggiare, così stanca di sentire qualcuno che mi dice: “speriamo finisca”, così stanca di non sapere come cazzo andrà a finire che a volte penso. Ogni tanto mi dico resisti. Vai avanti. Tieni duro. Non preoccuparti. Passa tutto. Sei lì che arranchi. Che vorresti fosse tutto un brutto sogno. Che vorresti quasi fosse un incubo. Quando trovi sempre la parola per ripartire. La frase. Quella piccola parte di schermo che ti spinge a fare.
Ma l’altro ieri. L’altro ieri ho alzato gli occhi dal pc, ho abbandonato per un attimo le dita che stavano scrivendo, mi sono accesa una sigaretta e mi sono detta: “ma che senso ha Serenella? Che senso ha? Ma tu veramente credi che si possa risolvere qualcosa scrivendo?
Ha veramente senso scrivere di queste morti? Di queste situazioni assurde. Di questi strazi. È veramente giusto? È giusto scrivere di qualcuno che è morto?
È giusto dare voce a chi non può più averne? Davvero si risolve qualcosa?”.
Poi, poi forse per una mia difesa non ho voluto star lì a esaminare ogni singola risposta. E ho atteso che la mia volontà si riprendesse il suo spazio. Che si rifacesse posto. Che tornasse da quella sua scappatella del cazzo e che si rimettesse in moto. E infatti.
Infatti così ha fatto. Brava lei. La volontà. Che non ti abbandona mai.
Sì insomma in un baleno, in un batter di ciglia, come siamo abituati ultimamente quando cambian le notizie, quando arrivano gli aggiornamenti, quando eri contenta e di colpo piombi nella tristezza mi sono detta che “sì, sì che ha senso”, “sì che dobbiamo”, ” Sì che possiamo fare qualcosa”.
Sì insomma mi sono sentita come quei musicisti sul Titanic, quando la nave stava per affondare, e loro hanno continuato a suonare.
E così, così ho continuato. Così ho continuato a comporre quella musica che ormai suona solo la tragedia e la morte degli uomini.
Mi dicevo: dai Serenella, continua a scrivere. Fai.
E poi. Poi ieri. Ancora quelle morti, ancora quegli anziani, ancora i nostri vecchi.
Che ha questa merda di virus, mi dicevo, che arriva a prendersi i nostri nonni. I nostri anziani. I nostri vecchi.
Che ha questo virus che si prende la nostra storia, la nostra memoria, i nostri basamenti, i nostri pilastri. Perché se c’è un disegno io non lo capisco. Non ce la faccio. Non ci arrivo.
Che ha questo vigliacco così bastardo, che si infila nelle cellule della gente, che si innesta, che si incunea, che che si moltiplica, che si attacca. Che ha. Che ha questo virus che trascina le persone nel basso, che blocca i sistemi, che manda in tilt gli ospedali, che stende i medici, che annienta le persone, che dimezza gli anziani, che blocca tutto, che isola la gente. Che ha.
Perché i numeri parlano. Raccontano. Non sono soltanto numeri. Sono persone, donne, uomini, desideri nascosti. Sono storie, sono genitori, sono madri, padri, sono persone che hanno donato la vita ai propri figli e ora non possono nemmeno vederli.
E idem oggi. Ogni sera alle 18 arriva la conta dei morti. Quei morti. Che prima erano 100 e ora sono diventanti 3 mila. E mi sembra tutto in così poco tempo. Un tempo così lungo. Per noi abituati a incasellarci nelle vite degli altri.
Poi alle 18 arriva la conta dei morti. E non la puoi fermare. Non puoi salire sul palco della protezione civile e dire di smettere. Non lo puoi fare. E così ogni volta aumentano. Ogni volta speri diminuiscano. Ogni volta speri che in 300 persone ce ne siano almeno dieci in meno rispetto a ieri. All’altro ieri. A ieri l’altro.
E invece. Invece niente. Invece un c.
Ogni volta che la rotella gira, ogni volta che il numero scatta, qualcuno muore o viene contagiato.
Le persone diventano morti. Le morti diventano bare. Le bare vengono messe dentro le chiese perché non ci stanno. E vengono trasportate dai mezzi militari come nei film di guerra. Perché questo è. Un lurido sporco bastardo film.
E così anche oggi. Anche oggi mi stavo chiedendo che senso avesse. Che senso avesse tutto questo. Che senso avesse scrivere. Io ho sempre mille dubbi. Solo gli stupidi non li hanno.
Perché poi. Poi non esiste più la firma. Non esiste più la comparsa. Non esiste più la fama. Esiste fare qualcosa per gli altri. Che sai che possa durare. Che sai che possa servire. Che sai che in qualche possa essere utile per qualcuno. Che sai che le tue parole possano raccontare quello che altri non riescano a vedere. E che sai che possa rincuorare. Che possano dare forza. Che possano indignare.
E allora mi sono detta che sì. Che in questo periodo. In cui ci hanno tolto tutto. In cui ci hanno tolto la libertà di movimento. La libertà di essere felici. La libertà di essere perlomeno sereni. La libertà di poter uscire e comprare un cazzo di libro nuovo, ecco, guardando questa foto, mi sono detta che sì, che ha senso, perché ora le parole sono tutto quello che abbiamo.
Continuate a scrivermi.
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