La tipa che mi sta davanti ha la gola tagliata. Si muove con fare spagnolesco e continua a ripetere che dentro di lei c’è un mostro. “C’è un mostro dentro di me”, farnetica in preda alla droga e ai fumi dell’alcol. “Guarda la mia gola tagliata”, fa a quell’altro che gli sta davanti in piedi. Lui indossa una pelliccia marrone fino ai piedi. Lei indossa un giubbino nero e quando va a testa in giù per scacciare il mostro, il giubbino le copre la testa, le scopre la pancia e lì inizia la sua danza. Comincia a roteare e inarcare il corpo e poi ad avere una specie di convulsione che non riesco a capire bene, perché avvicinarmi pare impossibile. Fino a due minuti prima si stavano cucinando il crack, lì in pieno centro, in pieno giorno, in una laterale di via Zamboni, il cuore della città universitaria di Bologna. Mi fermo a parlare con qualche residente e becco due genitori che sono andati a trovare la figlia. La figlia studia qui a Bologna. I genitori vengono dal Sud, cari i genitori che fanno studiare i figli, e mi dicono che sono qui in trasferta. La madre mi dice che non sembra una zona tranquilla, la figlia invece, capello corto sbarazzino orecchino al naso e alla bocca, molto più aperta e globalizzata mi dice che sì, che non c’è niente di male, che alla fine quei due sono due persone senza tetto che hanno solo bisogno d’aiuto.
L’aiuto, chi glielo dà l’aiuto. Viviamo in un mondo dove tutti sono pronti a farsi i cazzi degli altri, ma se sei un poveraccio e tiri a campare, per la società sei un rifiuto, un fallimento, un morto di fame e meriti di fare la vita che fai. Che pena questo mondo così schifoso. Faccio due metri e mi ferma un ragazzo di colore. Vuole vendermi fumo, roba, maria, hashish, droga, coca. “Come – gli dico – così qua a cielo aperto, voi spacciate?”. Mi sembra di essere Salvini, non ci voglio manco pensare, e quindi con fare più accomodante gli chiedo se fanno così tutti i giorni. Mi risponde: “Sì, certo”. “Ma sempre?”, “Sempre”. Gli dico che non voglio niente. Accanto a noi ci sono due ragazzi che suonano il djambè, quel tamburo a calice che usano in quei Paesi tipo Mali, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal. Le mani che battono sopra il tamburo, una canna, la droga che scorre a fiumi e quelle bottiglie di birra che si ammucchiano a ogni minuto. Una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Mi incammino verso i portici della zona universitaria, qui siamo nel cuore di Bologna, la Dotta. Ma faccio cinque passi che mi ferma un ragazzo. “Fica, fica, fica”, comincia a dirmi. E un altro. “Dove vai? Vuoi fumare? Vieni qua”. Dopo un po’ decido di andarmene e mi trasferisco in zona stazione. Le sentinelle dello spaccio sono a ogni dove. Si muovono con fare felino, furbo, a tratti perfino mansueto. Qualcuno ti ferma per venderti hashish. Venti, trenta, quaranta, cinquanta euro. Qualche altro per venderti maria. Qualche altro finge che sia tabacco e ti chiede se vuoi fare un tiro. Poi, mentre mi addentro in un parchetto isolato, al buio, con la scorta che mi controlla da lontano, incrocio un ragazzo e mi ci fermo a parlare. Mi dice che lui non ha i documenti, che è irregolare, che non trova lavoro se non lavorare in nero. “In nero? E lo trovi il lavoro in nero?”. “Certo che lo trovo”, mi dice. “Trovo sempre qualche giardiniere o qualche muratore o qualucuno che monta scale che mi dà da lavorare”. Eccoli penso. Eccoli i farabutti del lavoro. Quelli che gli immigrati non li vogliono, ma che se serve loro per evadere il fisco allora vanno bene anche gli stranieri, meglio se non parlano italiano così almeno possono sfruttarli meglio.
Poi poco più in là ci sta un tipo. Mi parla in arabo. Grazie alla scorta riesco a capire che voleva vendermi roba grossa, tagliata fina, roba buona, dama bianca, polvere sottile. Sullo sfondo una banda di ragazzini ha cominciato a fare casino: “Arrivano i serpenti”, dicono. “Arrivano i serpenti”. I serpenti per loro sono i poliziotti. Uno mi si avvicina. Mi chiede se sono una sbirra. Ormai si è fatta notte. È sceso il buio. Mi guardo attorno, la città si è dissolta lasciando posto ai colori notturni e ai luccichii di quelle poche auto rimaste che si specchiano sulle pozzanghere della pioggia appena caduta. I lampioni smorzano la luce, le luci delle case a poco a poco si spengono. In giro rimangono soltanto loro. Senzatetto, tossicodipendenti, sbandati, persone a cui la vita non ha ancora concesso un riscatto. E noi. Qui a riprendere e documentare. Mi volto, mi guardo in giro, mi accendo una sigaretta. Sono tesa. Il giorno dopo devo andare a incontrare lo stupratore, ma questa è un’altra storia…
#sbetti