Galleria

Bologna, la Dotta: qui lo spaccio è a cielo aperto

Bologna febbraio 2024

La tipa che mi sta davanti ha la gola tagliata. Si muove con fare spagnolesco e continua a ripetere che dentro di lei c’è un mostro. “C’è un mostro dentro di me”, farnetica in preda alla droga e ai fumi dell’alcol. “Guarda la mia gola tagliata”, fa a quell’altro che gli sta davanti in piedi. Lui indossa una pelliccia marrone fino ai piedi. Lei indossa un giubbino nero e quando va a testa in giù per scacciare il mostro, il giubbino le copre la testa, le scopre la pancia e lì inizia la sua danza. Comincia a roteare e inarcare il corpo e poi ad avere una specie di convulsione che non riesco a capire bene, perché avvicinarmi pare impossibile. Fino a due minuti prima si stavano cucinando il crack, lì in pieno centro, in pieno giorno, in una laterale di via Zamboni, il cuore della città universitaria di Bologna. Mi fermo a parlare con qualche residente e becco due genitori che sono andati a trovare la figlia. La figlia studia qui a Bologna. I genitori vengono dal Sud, cari i genitori che fanno studiare i figli, e mi dicono che sono qui in trasferta. La madre mi dice che non sembra una zona tranquilla, la figlia invece, capello corto sbarazzino orecchino al naso e alla bocca, molto più aperta e globalizzata mi dice che sì, che non c’è niente di male, che alla fine quei due sono due persone senza tetto che hanno solo bisogno d’aiuto.

L’aiuto, chi glielo dà l’aiuto. Viviamo in un mondo dove tutti sono pronti a farsi i cazzi degli altri, ma se sei un poveraccio e tiri a campare, per la società sei un rifiuto, un fallimento, un morto di fame e meriti di fare la vita che fai. Che pena questo mondo così schifoso. Faccio due metri e mi ferma un ragazzo di colore. Vuole vendermi fumo, roba, maria, hashish, droga, coca. “Come – gli dico – così qua a cielo aperto, voi spacciate?”. Mi sembra di essere Salvini, non ci voglio manco pensare, e quindi con fare più accomodante gli chiedo se fanno così tutti i giorni. Mi risponde: “Sì, certo”. “Ma sempre?”, “Sempre”. Gli dico che non voglio niente. Accanto a noi ci sono due ragazzi che suonano il djambè, quel tamburo a calice che usano in quei Paesi tipo Mali, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal. Le mani che battono sopra il tamburo, una canna, la droga che scorre a fiumi e quelle bottiglie di birra che si ammucchiano a ogni minuto. Una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Mi incammino verso i portici della zona universitaria, qui siamo nel cuore di Bologna, la Dotta. Ma faccio cinque passi che mi ferma un ragazzo. “Fica, fica, fica”, comincia a dirmi. E un altro. “Dove vai? Vuoi fumare? Vieni qua”. Dopo un po’ decido di andarmene e mi trasferisco in zona stazione. Le sentinelle dello spaccio sono a ogni dove. Si muovono con fare felino, furbo, a tratti perfino mansueto. Qualcuno ti ferma per venderti hashish. Venti, trenta, quaranta, cinquanta euro. Qualche altro per venderti maria. Qualche altro finge che sia tabacco e ti chiede se vuoi fare un tiro. Poi, mentre mi addentro in un parchetto isolato, al buio, con la scorta che mi controlla da lontano, incrocio un ragazzo e mi ci fermo a parlare. Mi dice che lui non ha i documenti, che è irregolare, che non trova lavoro se non lavorare in nero. “In nero? E lo trovi il lavoro in nero?”. “Certo che lo trovo”, mi dice. “Trovo sempre qualche giardiniere o qualche muratore o qualucuno che monta scale che mi dà da lavorare”. Eccoli penso. Eccoli i farabutti del lavoro. Quelli che gli immigrati non li vogliono, ma che se serve loro per evadere il fisco allora vanno bene anche gli stranieri, meglio se non parlano italiano così almeno possono sfruttarli meglio.

Poi poco più in là ci sta un tipo. Mi parla in arabo. Grazie alla scorta riesco a capire che voleva vendermi roba grossa, tagliata fina, roba buona, dama bianca, polvere sottile. Sullo sfondo una banda di ragazzini ha cominciato a fare casino: “Arrivano i serpenti”, dicono. “Arrivano i serpenti”. I serpenti per loro sono i poliziotti. Uno mi si avvicina. Mi chiede se sono una sbirra. Ormai si è fatta notte. È sceso il buio. Mi guardo attorno, la città si è dissolta lasciando posto ai colori notturni e ai luccichii di quelle poche auto rimaste che si specchiano sulle pozzanghere della pioggia appena caduta. I lampioni smorzano la luce, le luci delle case a poco a poco si spengono. In giro rimangono soltanto loro. Senzatetto, tossicodipendenti, sbandati, persone a cui la vita non ha ancora concesso un riscatto. E noi. Qui a riprendere e documentare. Mi volto, mi guardo in giro, mi accendo una sigaretta. Sono tesa. Il giorno dopo devo andare a incontrare lo stupratore, ma questa è un’altra storia…

#sbetti

Eccola qui l’Eurabia: piazza Duomo, Milano. Capodanno 2024

Pezzo uscito su Libero, 2 gennaio 2023

Oriana Fallaci lo aveva predetto. E la sua non era un’invenzione. Eccola qui l’Eurabia. Piazza Duomo. Milano. Capodanno 2024. Allo scoccare della mezzanotte – noi di Libero eravamo presenti – non c’era nemmeno un italiano a pagarlo oro. Eccola qui l’Eurabia che prende forma, che riempie le nostre piazze, che si impossessa delle nostre tradizioni e ci impone i suoi costumi. Eccola. Una piazza italiana, come quella meneghina, dove a festeggiare sono solo gli stranieri. Sono loro che si sono presi le nostre piazze. La lunga processione verso il cuore di una delle città più belle d’Italia comincia già alle cinque del pomeriggio. Scendiamo in stazione Centrale e miracolosamente non è come tutti gli altri giorni, quando appena metti il naso fuori, devi fare lo slalom tra gli immigrati che dormono per terra e bivaccano sui marciapiedi. Qui, oggi, si sono già messi tutti in cammino per raggiungere la piazza dove sorveglia la Madonnina. Le bottiglie rotte per terra. La città spenta e frastornata dal fragore dei primi petardi. Le loro grida. Le loro forsennate urla. E le bandiere. “Milano oggi – per loro – è come Baghdad”, scrivono nei video che circolano in rete.

A mezz’ora dalla mezzanotte li vedi gli immigrati entrare in Galleria Vittorio Emanuele II per andare ad ammassarsi in piazza Duomo. Arrivano a frotte. Non li ferma nessuno. Sono dieci, venti, cento, mille. Sono tantissimi e come in un pullulio costante e intenso invadono lo slargo. Acquartierate attorno alla piazza, ci sono le baby gang e le bande dei ragazzini di seconda generazione. Fumano. Bevono. Girano canne. Urlano. Gridano. Il Capodanno è il loro. La piazza anche. “Io italiano! Io italiano! Questa casa mia”, ci grida in faccia un ragazzo marocchino. C’avrà all’incirca 16 anni. Attorno a lui i suoi amici con bottiglie di birra, pezzi di vetro e petardi in mano. Poco distante una famiglia di stranieri, forse inconsapevole di quello che sarebbe stata piazza Duomo, con i figli piccoli accanto, attoniti e frastornati dal rombo dei botti. Il boato si propaga in galleria. E il frastuono spacca i timpani. Ma manca veramente poco, la polizia di Stato è schierata in tenuta antisommossa. Caschi, scudi, manganelli. In Galleria ora non fanno entrare più nessuno. Chi fa il furbo viene ripreso. I ragazzini stranieri, prevalentemente arabi, sono tantissimi. La polizia avanza tra la folla. E procede verso la piazza. Noi dietro di loro. Formano un cordone tutto attorno per cercare di sedare gli animi e di scongiurare il peggio. Come quello che era accaduto due anni fa. Capodanno 2022. Ce lo ricordiamo tutti. Lo stupro di gruppo. Il taharrush jamai, una pratica conosciuta nei paesi arabi che significa molestia collettiva. Passata la mezzanotte, i ragazzini espletano i loro bisogni accanto alle colonne della piazza. Lo spettacolo è indecente. E come al solito è lo scontro di civiltà che esplode. Nel quartiere San Siro, scoppia la guerriglia. Lo scontro, ancora una volta, è tra la polizia e gli immigrati. I giovani cercano di aggredire gli agenti. E i fatti più gravi avvengono nella zona di via Zamagna, una delle strade più pericolose del quartiere. Alcuni qui avevano accatastato mobili e rifiuti al centro della strada per fare un falò allo scoccare dell’anno, ma gli uomini della polizia di Stato sono intervenuti nel giro di breve. Pochi minuti dopo, i poliziotti vengono presi a sassate e il furgone che li trasportava viene danneggiato: uno dei vetri va in frantumi, fortunatamente senza danno per i passeggeri. Molti di questi episodi di violenza sono stati ripresi nei video divenuti virali sul web. In uno addirittura si vede un ragazzo che spara dei colpi in aria con una pistola. “In alcuni quartieri di Milano le tensioni e l’odio verso la polizia crescono – scrive Silvia Sardone, consigliere comunale d’opposizione di Milano che ha postato il video – nel disinteresse della giunta di sinistra in città”. E ancora: “San Siro da tempo sembra fuori controllo, con sempre più stranieri e giovani di seconda generazione ostili alle forze dell’ordine e che fanno della delinquenza il proprio mestiere”. Nei video spuntano anche le scritte “Baghdad”, come a dire che Milano, questa notte, è come la capitale irachena. Il bilancio della nottata ha visto oltre 1500 persone controllate e 3 denunciate per il porto di oggetti atti a offendere. Più una persona denunciata per accensione ed esplosioni pericolose. Altri sei giovani sono stati accompagnati in Questura perché sprovvisti di documenti. Sì era vero quello che diceva Oriana. Un nemico “che scorrazza a suo piacimento”, senza esibire alcun documento.

Serenella Bettin

Libero, 2 gennaio 2023

Ciao Giulia ❤️

L’immagine più straziante è quella del nonno di Giulia, sorretto dai parenti e che cammina a fatica sulle stampelle. La gente è incolonnata. E attende di entrare in chiesa dalla mattina presto. Sono le 8.30. Siamo in Prato della Valle, a Padova, e qui oggi nella basilica di Santa Giustina, si tiene il funerale di Giulia Cecchettin, la ragazza di 22 anni, trovata morta l’11 novembre scorso e ammazzata dal suo ex fidanzato Filippo Turetta. Come tante piccole gocce, le persone continuano ad arrivare. Ci sono padri, madri, donne, bambini, anziani, studenti, tutti si aggiungono con lo scorrer dei minuti a quella folla oceanica di gente che un po’ alla volta sta riempiendo Prato della Valle, la seconda piazza più grande d’ Europa. Incolonnati, fuori al freddo gelido, che toglie il respiro e scolora i volti, la gente attende l’arrivo del feretro. Il funerale è alle 11. Gli amici di Giulia hanno gli occhi pieni di pianto, un’amica si sorregge a un ragazzo col volto rigato dalle lacrime, qui trattenerle, oggi è impossibile.

Davanti la basilica è apparsa una gigantografia di Giulia. Viene dal comune di Vigonovo, dove Giulia abitava. “Giulia ti vogliamo bene”, c’è scritto sotto quel volto di lei così solare e allegro. La vedi Giulia, la vedi dalle foto, sempre in movimento, mai ferma, voleva vivere la sua vita, così come l’aveva disegnata lei, tratteggiando con la matita la materia dei suoi sogni. “Mia figlia Giulia, era proprio come l’avete conosciuta – ha detto il padre infatti durante la cerimonia – Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà”. Qualcuno entra in un bar per riscaldarsi, oggi qui anche il cielo è coperto, al grigiore infernale di questo cielo maledetto si aggiunge il silenzio agghiacciante che sovrasta la città. Una poliziotta dai capelli neri raccolti che incontriamo al bar ha gli occhi rossi di pianto, ed è letteralmente congelata. “Non muovo più la mano”, ci dice. Sarà anche lei, qualche ora dopo, a stare sull’attenti al passaggio del feretro di Giulia. Il feretro arriva poco prima delle 11. La polizia è schierata. Ci sono oltre 200 agenti tra polizia, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria, unità speciali anti terrorismo e anti sabotaggio. L’atmosfera è atroce, rispecchia il freddo gelido del tempo. Un’auto della polizia di Stato viene avanti con i lampeggianti mentre la protezione civile apre il varco tra la folla. Dietro, il feretro.

E a seguire le auto dei familiari. Il papa Gino, la sorella Elena, e il fratellino Davide scendono dalle vetture e vengono avanti a piedi. Si sorreggono l’un con l’altro, stretti per mano, presi sotto braccio. Il fratellino ha il volto scarnificato, consunto, protende le spalle all’indietro come a dire: ditemi che non è vero. La sorella guarda per terra, il padre cerca di farsi forza, incredulo dinanzi a quella folla. Ma quando il feretro entra in chiesa, le lacrime gli solcano il volto. Un applauso parte tra i presenti, e si propaga nell’aria, arriva dappertutto, sui balconi, sopra i tetti, dentro i bar, e tutti iniziano a batter le mani. Oggi, tutti qui, anche i taxi hanno un fiocco rosso. “Dobbiamo trasformare la tragedia in una spinta per il cambiamento – ha detto il padre Gino al termine del funerale – la vita di Giulia è stata sottratta in maniera crudele, ma la sua morte può e deve essere il punto di svolta per mettere fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. (…). Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti”. Infine ha salutato la figlia, rivolgendosi direttamente a lei: “Cara Giulia, grazie per questi 22 anni vissuti insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. È il momento di lasciarti andare, salutaci la mamma. Impareremo a danzare sotto la pioggia”. All’uscita della basilica, dove erano presenti il ministro Carlo Nordio, il presidente del Veneto Luca Zaia e una quarantina di sindaci tra le zone del padovano, veneziano e anche provenienti dal Friuli Venezia Giulia, la pioggia se n’era andata. Ad attendere il feretro di Giulia c’era lo stesso scrosciante e fragoroso applauso che l’aveva atteso all’inizio della cerimonia, accompagnato da un tintinnio sonoro di campanelli e chiavi che si muovevano a più non posso. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato Giulia: “Il valore e il rispetto della vita vanno riaffermati con determinazione in ogni ambito, circostanza e dimensione”. In Veneto è stata giornata di lutto regionale. E anche l’università di Padova fino alle 14 ha sospeso le lezioni. In tutto qui oggi si contavano oltre 10 mila persone. Poi, alla fine della cerimonia, l’immagine più straziante. Quella del nonno di Giulia che ci passa davanti, sorretto dalle stampelle e che si fa forza abbracciandosi ai parenti. Anche per lui continueremo a fare rumore.

Serenella Bettin

Pezzo uscito su Libero mercoledì 6 dicembre 2023

Libero 6 dicembre 2023

Una volta quando il prof entrava in classe ci si alzava in piedi

Da Libero del 1 dicembre 2023

Se a voi sembra normale tutto questo. In una scuola media in provincia di Treviso, una professoressa ha dato una nota a un alunno e questo con altri suoi compagni l’ha aspettata fuori. Qui sarebbero volate frasi come: “Te la faremo pagare, non permetterti mai più”.
La prof sconvolta, ed evidentemente prostrata per l’accaduto, ha deciso di scrivere una bella lettera alla scuola e, intenzionata ad andare fino in fondo, ha scritto anche al comune chiedendo a gran voce un intervento di sensibilizzazione delle famiglie.
Il comune si è reso subito disponibile a indagare sul caso, e anche eventualmente a denunciare.
Ma dopo un primo braccio di ferro tra istituto comprensivo e amministrazione, la scuola ha deciso di procedere internamente. So ragazzi suvvia. Che sarà mai. Hanno solo aspettato fuori un professore.
Così l’altro giorno sono riuscita a mettermi in contatto con il preside dell’istituto scolastico il quale alla mia domanda: “Ma allora non è vero che la prof è stata minacciata”, ha tergiversato dicendo che alla mia domanda non avrebbe potuto rispondere.
Quando gli ho fatto notare che quello che hanno fatto gli alunni è molto grave, mi ha risposto: “È una grave forma di ineducazione. Sono dei ragazzini, la prego di considerare che sono dei ragazzini”. E quindi che vuol dire? Che è meno grave? Vuol dire che i “ragazzini” hanno fatto bene?
Aspettare una prof fuori dalla scuola, non può essere considerata una bravata, una semplice ragazzata, una cosa da ragazzini, suvvia sono minori, “dobbiamo garantire il garantismo, la scuola mira ad educare”.
Il fatto che degli studenti aspettino l’insegnante fuori dalla scuola – anche qualora non ci fossero state minacce – perché questa, ahimè, ha osato mettere una nota, la dice lunga sul futuro che stiamo costruendo. Ragazzini sempre più violenti e spavaldi. Genitori convinti di avere piccoli geni che difendono in tutto e per tutto le nefandezze dei loro figli.
Una volta – e non è retorica – quando l’insegnante entrava in classe ci si alzava in piedi. E fino a che tutti non fossero stati in piedi, l’insegnante stava fermo lì, dritto sulla porta. Me lo ricordo bene il mio professore di matematica alle scuole medie. Stava lì fermo impalato fino a che tutti non fossero in posizione eretta zitti e muti.
E una volta si dava del lei ai professori. E se qualcuno portava a casa una nota stampata sul diario con la penna rossa, i genitori non fiatavano e gli alunni anche.
Ora, la narrazione racconta storie di maleducazione e violenza e il quadro che ne esce è alquanto preoccupante.
Oltre che inquietante.
Non solo. Quando ho chiesto se i genitori fossero stati convocati, dato dato che sono passati ben 15 giorni, ho scoperto un mondo nuovo che non conoscevo, fatto di comunicazioni protocollate, carte da riempire, tempi burocratici da rispettare.
“Guardi, le regole della scuola – mi ha detto il dirigente – sono cambiate. Non sono le stesse di trent’anni fa. Ora le note si vedono dal registro elettronico. Ai genitori, che saranno convocati nel consiglio straordinario, arriva la comunicazione dell’ avvio del procedimento disciplinare. E poi le posso dire? I costumi sono molto cambiati. Io ogni giorno lavoro con genitori e ragazzini che mi danno del tu”.
Sarà. Ma a noi non pare un bel costume.
Preferivamo le note rosse con la bic.
Il lei ai docenti. E quando il prof entrava in classe, tutti in piedi. Ora si alzano, per minacciare i professori.
Il mio pezzo su Libero

sbetti

L’arroganza dei ladri di case. La casa come fosse la loro

Da Fuori dal Coro di mercoledì 15 novembre 2023

Noto che c’è una certa arroganza – barra – prepotenza – barra – tracotanza – barra – spocchia – da parte degli occupanti abusivi di case, nel considerare la casa che occupano come casa e cosa loro. Impressionante.
E noto che c’è anche una certa disinvoltura – barra – sfrontatezza – barra – sfacciataggine – a chiamare le forze dell’ordine non appena arrivano i giornalisti che vogliono fare delle domande. Come fossimo noi dalla parte del torto. Come se in Italia la stampa fosse considerata al pari di un ladro, che appena lo vedi lì fuori incappucciato componi il numero di emergenza della caserma più vicina. Cosicché passa il messaggio che l’occupante abusivo ha diritto a occupare la casa, e invece il giornalista che giunge sul posto è un pezzo di m.
Il diritto di occupare del resto ancora non l’avevo mai sentito. Non credo manco sia scritto.
E non credo sia nemmeno riconosciuto a livello costituzionale, ma siccome i cambiamenti sono dietro l’angolo e avvengono nel giro di un batter di ciglia, non mi stupirei se qualcuno possa averlo previsto. Che ne so. Qualche talebano col cervello innaffiato dal politicamente corretto potrebbe aver proposto, in un momento di buio neuronale, un emendamento dove si prevede per l’occupante il diritto a occupare.
Orbene.
L’altro giorno, girando un servizio sulla casa occupata a Castellarano in Emilia Romagna, ho sostenuto una conversazione assurda ma così talmente assurda con l’occupante abusivo Doku (ve lo ricordate l’indemoniato) che a un certo punto mi sono chiesta se fosse tutto vero o no. Credevo di essere finita su Scherzi a Parte.
L’occupante sosteneva che quella fosse casa sua. E che stabiliva lui quando dare le chiavi.
“Cosa fai tu davanti casa mia anche oggi”, mi ha chiesto l’occupante che nella maggior parte dei casi è straniero.
“Ma questa non è casa tua”, ripetevamo in coro io e la proprietaria. Non è casa tua.
E lui niente. Silenzio. Zitto.
“Ti ho detto tu vieni il 25”, mi ha detto.
“Il 25?”, ho chiesto.
“Ma perché il 25?”. Niente. Zero risposte.
“Io ho detto il 25”.
Sì perdio figlio mio ma perché. Perché il 25 ho chiesto io. Niente.
Il 25 quindi, probabilmente, perché queste situazioni così talmente assurde e paradossali – che viene da chiederci perché diamine le persone normali lavorano una vita e pagano l’affitto e si comprano casa – saranno risolte dalle istituzioni nel migliore dei modi.
Dove il migliore dei modi non è dare alla proprietaria i soldi degli affitti non pagati e degli arretrati, ma è trovare una casa magari a nostre spese all’occupante e alla sua famiglia. Cosicché la proprietaria dopo un po’ è andata dai carabinieri. E si è sentita dire che se l’occupante ha detto che consegna le chiavi il 25, dobbiamo attendere il 25. In Italia quindi il fuorilegge detta la legge.
Decide lui quando dare le chiavi, in che modo e dove.
È l’illegalità.
Bellezza.

sbetti

La vita di Almerigo Grilz diventa un film

“Why not”.

Lo ripeteva spesso Almerigo Grilz. Tanto da farlo diventare un motto.

“Lo ripeteva”, racconta l’inviato di guerra, nonché il suo amico fraterno Fausto Biloslavo “nelle situazioni più impensabili, quando si trattava di mangiare una brodaglia ammuffita fra i ruderi di Beirut, non essendoci altro da mettere in pancia, o davanti all’obbligato travestimento musulmano, con tanto di turbante e lunghe tuniche, per entrare clandestinamente nell’Afghanistan occupato dall’Armata rossa”. E ora la vita di Almerigo Grilz diventa un film. “Albatross”, il titolo, le cui riprese sono iniziate a Trieste mercoledì scorso. Primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quel giorno Almerigo, il 19 maggio 1987, era a Caia in Mozambico, e stava riprendendo uno scontro a fuoco tra i soldati governativi e i ribelli della Renamo, la resistenza nazionale Mozambicana. Gli ultimi appunti di Almerigo, custoditi in agende che lui usava come diari di guerra recitano: “La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (…) Fa freddo, l’erba è umida e c’è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l’effetto di una fiammata in gola”. Nelle sue agendine lui annotava scrupolosamente tutto, ogni momento, ogni testimonianza, ogni racconto, il tutto accompagnato da disegni e mappe. “In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (…) Il vocione del generale Elias (…) li incita a muoversi: Avanza primera compagnia! Vamos in bora!”. Da qui più niente. È il 18 maggio 1987. Il giorno dopo Grilz sarà ucciso. Aveva 34 anni. Il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca. Nel documentario video inserito all’interno di una mostra che gli inviati Fausto Biloslavo e Gian Micalessin hanno ideato e curato, si vede perfettamente il momento della morte di Almerigo. È lì che corre, mentre filma i guerriglieri. Il fiato che avanza. Le riprese a tutto campo e poi all’improvviso un colpo secco. Almerigo cade a terra. La cinepresa continua a riprendere, inquadra il piede di lui e poi si ferma. Fissa. Immobile. Il piede già quasi inerme. La camera continua a riprendere. È lì fissa su quel campo giallo e verde, su quel cielo azzurro che sa di grigio, come a dire: “Mi avete ammazzato ma qualcuno continuerà per me”. E Biloslavo e Micalessin hanno continuato.

(…)

“Why not – racconta Biloslavo – divenne un motto, che assieme a Gian Micalessin ci portò a viaggiare in mezzo mondo raccontando la cosiddetta “pace” degli anni Ottanta, ovvero guerre terribili e spesso dimenticate, ultimi bagliori dello scontro senza quartiere fra le superpotenze”. Chi lo sa. Magari oggi se gli avessero chiesto: “Almerigo facciamo un film?”, lui avrebbe risposto: “Why not”.

Serenella Bettin

Continua qui per leggere il pezzo 👉 https://www.laverita.info/almerigo-grilz-film-libro-2666233403.html

Biloslavo, Grilz e Micalessin

L’occupante abusivo non dà la casa ma un panino 🥪 (e sentite cosa risponde la presidenza della Repubblica)

Robe folli. La presidenza della Repubblica invita la proprietaria di casa a prendersi cura della sua salute.
E i carabinieri chiamano la polizia locale per segnalarci come sospetti.
Di come si possano accettare certe situazioni è un mistero.
Sono tornata da Doku, l’occupante abusivo ghanese che la scorsa settimana mi urlava dietro mentre gli chiedevo conto sul fatto del perché non lasciasse la casa di Monica Ternelli dato che ha un’ordinanza di sfratto e dato che deve a Monica oltre 16 mila euro.
E si vede che gli abbiamo rotto così tanto che pare abbia deciso di andarsene.
Ma la cosa folle che abbiamo scoperto è questa.
La proprietaria Monica aveva avviato uno sciopero della fame per riavere indietro la propria abitazione.
Un giorno due crackers. Un giorno due biscotti. E passava la giornata. “Vi assicuro che si sta malissimo”, ci aveva detto. L’occupante per sfotterla le aveva detto che qualora lei avesse avuto fame, lui le avrebbe dato un pezzo di pane.
Monica così ha scritto alla presidenza della Repubblica, la quale per il tramite dei suoi preposti le ha così risposto: “La invito inoltre a voler desistere da iniziative che potrebbero compromettere il suo stato di salute. Con i migliori saluti”.
Sti cazzi.
Uno ti scrive che mangia due cracker, perché diamine quella è la sua pensione.
Perché ha bisogno di quei soldi. Perché non vive altrimenti.
Non sa di che campare. Perché il figlio è costretto a mantenerla e non può farsi una famiglia e questi le porgono i migliori saluti.
Del resto funziona così in Italia.
In Italia accade che se vai a indagare in qualche casa occupata, l’occupante abusivo chiama i carabinieri.
Robe da matti. E se i carabinieri arrivano poco possono fare. Anzi magari in torto ci finisci tu.
Questa volta è accaduto – e Dio mio vi prego giuro sembra una barzelletta – che l’occupante abbia chiamato i carabinieri. I carabinieri sono passati ma non trovandoci più, ci hanno segnalato come auto sospetta.
Quando siamo tornati nel frattempo è passata la polizia locale che ci ha fermato.
Alla mia domanda: ma chi vi ha segnalato la nostra auto. La loro risposta è stata: “i carabinieri”.
Nel frattempo l’occupante continua a rimanere lì.
Ancora per poco…
(Vi consiglio se avete perso il servizio su Rete 4, di guardarvelo su Mediaset Infinity).

Ecco il link 👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro/ladri-di-case-labusivo-non-paga-alla-proprietaria-offro-un-panino_F312803501009C17

sbetti

ladridicase

Non paga da 15 mesi. Alla proprietaria deve oltre 16 mila euro

Guardate come mi aggredisce quest’uomo. Indemoniato. Questa gente pretende di aver ragione. Protetti dallo Stato e coccolati dai talebani dell’accoglienza.
Il mio servizio a #fuoridalcoro

sbetti

Per vedere il servizio completo 👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro/ladri-di-case-abusivi-senza-vergogna-non-pagano-da-un-anno-e-mezzo_F312803501008C16

Grazie a Simon Barletti per riprese 🎬 e montaggio.

Aveva gli occhi che pareva un demone infuocato e mi urlava dietro

Aveva gli occhi che parevano quelli di un demone infuocato. Guardateli questi occhi. Guardateli.
Sono stata sabato scorso a trovare questo signore a Castellarano di Reggio Emilia. Castellarano è anche una bella cittadina. Che nemmeno te la immagini. Ci si arriva prendendo l’autostrada che attraversa Modena. Sassuolo. Eccetera. Eccetera. Passi anche per una cosa chiamata CeramicLand. Perché qui sta il cuore della produzione della ceramica.
Castellarano invece in zona collinare sulla riva sinistra del fiume Secchia, è un borgo storico fluviale molto suggestivo, tra vicoli in pietra, slarghi e piazzette restaurate, case e palazzi ben tenuti. Solo che. Solo che anche qui ci sono le case occupate.
Arrivo a casa di questo signore ghanese che non paga l’affitto e che ha il contratto scaduto da oltre un anno e mezzo che è quasi mezzogiorno. La proprietaria gli suona il campanello. Ma lui non vuole scendere. “Vieni tu su”, le dice. Io lì per lì sono titubante poi dico: “Ok andiamo. Andiamo su”. L’aria era pure solforosa. Pressante.
Gli chiedo perché non se ne sia ancora andato, come mai con un contratto scaduto da oltre un anno lui sia ancora lì. Gli chiedo perché nonostante un’ordinanza di sfratto lui continui a rimanere fregandosene di tutto. E di tutti. Fottendo la gente. Fottendo lo Stato. Poi. Poi gli dico: “Allora tu riconosci di avere un debito verso questa donna”. Donna che tra l’altro è disperata. Non sa come fare per tirare a campare. Questa casa era la sua pensione. E ha fatto perfino lo sciopero della fame. Lui mi dice: “Sì sono 3 mila euro”. Io gli dico di no. Gli dico che gliene deve oltre 16 mila. Ma lui. Lui in un baleno esplode. E i suoi occhi si fanno rossi. Vermigli. Cremisi. Sembravano palle infuocate che saettano nel cielo. In un lampo sembrano deflagrare. Paiono venire fuori dalle palpebre che contengono gli occhi. Le sue pupille erano dilatate. Il suo iride era ingigantito di rabbia e violenza. I suoi nervi hanno iniziato a ingrossarsi. E le sue vene erano gonfie di collera. A un certo punto ha iniziato a gocciolare sudore e a me son tremate per un attimo le gambe. È esploso in un “No! No! No! Nooooooo”. E lo diceva così bilioso, iracondo, che pareva impossibile tenerlo. Da lì ha iniziato a farneticare. A gesticolare. E in preda a un violento turbamento ha iniziato a bestemmiare. Gli ho detto: “Stai bestemmiando e dici anche di essere cristiano”, e lui ha continuato. Credeva di incutermi timore ma non ho fatto né un passo indietro. E nemmeno un passo avanti. Sono rimasta di marmo. Ho continuato a fissarlo dritto negli occhi. E lui all’improvviso. All’improvviso ha iniziato a guardarmi. A fissarmi. A squadrarmi. Mi guardava il volto. Il seno. Le gambe. Le braccia. Mi fissava come a dire: “Io sono un uomo. Tu una donna”. Ma non gli ho dato retta. Aveva lo stesso sguardo che un felino riserva alla sua preda. Questa non è gente che viene in Italia e si converte al Cristianesimo di punto in bianco. Nel loro profondo la donna è considerata un essere inferiore. Come fosse una gallina. Fatto sta che questo signore continua a occupare una casa che non è sua. Continua a non pagare soldi alla proprietaria. Continua a fottersene di tutto. Tanto da che può chiedere sei mesi e il giudice magari glieli concede. Sa che avrà lo Stato dalla sua parte. Sa che i suoi diritti, a differenza della proprietà privata, sono garantiti dalla sciatteria e dal pressapochismo e dall’inefficacia e inefficienza delle nostre leggi. Questa è tutta gente che i talebani dell’accoglienza proteggono.
Buonisti col culo degli altri. Fino a che non occupano casa tua.

sbetti

Picchia tutti. Ma non si può far niente

Ecco chi è il picchiatore seriale di Venezia.
Qui l’anteprima del mio servizio andato in onda su #FuoriDalCoro il 27 settembre scorso.

Per continuare 👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro/immigrati-lirregolare-violento-che-terrorizza-venezia_F312803501004C24

Riprese e montaggio di Giuseppe Vassallo Francesco Bortot, Caterina Carbognani, Manuel

#Fuori dal coro

I migranti dentro le scuole. Follia

In Veneto hanno messo i migranti dentro le scuole. Mi chiedo come un comune e una prefettura arrivino a poter pensare anche solo lontanamente di partorire il pensiero di mettere dei migranti dentro le scuole che qui riprendono, tra l’altro, tra una settimana.
Il giorno 13 settembre.
Io ci sono entrata dentro quelle scuole prima che mi sbattessero fuori perché lì dentro è proibito entrare.
L’Italia, infatti, prendi nota, è l’unico Paese dove tutti possono entrare e tutti possono uscire assolutamente indisturbati, ma se una persona per bene che svolge una professione intende documentare cosa accade all’interno di una scuola dove tra pochi giorni dovranno tornare i vostri figli, vi bloccano, perché no. Non potete.
Non potete entrare. È necessaria l’autorizzazione. È proibito.
Perfino nelle ex caserme adibite a bed&breakfast per i migranti – nel mio servizio vi racconto anche queste, nessun sindaco è riuscito a entrare – E nel servizio che ho fatto per #FuoridalCoro vi mostro cosa ho trovato.
Il sindaco di Padova e il prefetto della città patavina l’altro giorno in grande pompa magna davanti ai cronisti locali impegnati e riportare pedissequamente le loro parole, hanno assicurato che i migranti se ne andranno il 7 settembre, cioè ieri, per esseri messi chissà dove.
Il portavoce del sindaco con cui ho parlato il giorno 29 agosto mi aveva detto, proprio il 29 agosto, che i migranti se ne sarebbero andati dalle scuole per la fine di agosto e inizi di settembre.
Ora, la fine di agosto è passata da un pezzo. E gli inizi di settembre… ormai tra poco siamo a metà. Mi chiedo come come in un Paese normale, scusate non me ne vogliano loro signori se uso questo aggettivo, ecco mi chiedo come in un Paese normale si possa arrivare a mettere dei migranti dentro le scuole che poi saranno usati dai ragazzi.
Alla mia domanda: “Ma questi usano le strutture che saranno usate dai ragazzi e dai bambini”, mi sono sentita rispondere: “E quindi, qual è il problema”. Così l’altro giorno sono tornata davanti queste scuole e allegramente e simultaneamente ho visto le docenti e la preside uscire dalla prima riunione.
Subito dopo i migranti.
Che bellezza. È l’Italia.
Welcome.

sbetti

Il mio servizio andato in onda il 6 settembre scorso per Fuori dal Coro , Mediaset

👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro/immigrati-boom-di-arrivi-i-clandestini-finiscono-nelle-scuole_F312803501001C12

“Chi ha ucciso mio figlio non ha fatto un giorno di carcere”

Quando i genitori di Davide mi ricevono a casa è una mattina di settembre. Lo senti in questa casa che manca qualcosa, qualcuno. Il ricordo di Davide è lì presente, fisso, costante, è impregnato ovunque. Nelle pareti, nell’aria, negli occhi dolci della madre e in quelli mesti del padre.
Aveva 17 anni Davide. Tempo un mese e ne avrebbe compiuti 18.
Una vita piena di sogni. La fidanzatina Lucrezia. Il fratello più piccolo. L’essere così legato a lui come vivessero in simbiosi. I genitori. La motocross. La scuola. Le sue passioni. Il fratello gli diceva sempre che avrebbe voluto mettere su un’officina. “Io sto dietro con la tuta – gli diceva – tu studia, stai davanti, fai meccatronica”.
Accanto al tavolo del salone c’è una foto che parla di loro: ritrae Davide con il fratello.
“È un inferno quotidiano”, mi dice la madre piangendo. “Davide non c’è più”.
Il dolore è impossibile da cancellare. Soprattutto se sai che chi ha fatto del male a tuo figlio è ancora libero. E lo sarà sempre.
Al braccio destro la madre ha tatuato il nome del figlio. Al collo indossa la catenina con la sua iniziale.
Davide Pavan è morto la sera dell’8 maggio 2022. Aveva passato la serata dalla fidanzatina. Stava rincasando con lo scooter quando a Paese, comune del trevigiano, è stato centrato in pieno da un’ auto. Davide è praticamente morto sul colpo. A causare l’incidente un poliziotto risultato poi positivo al test dell’alcol e che viaggiava a velocità sostenuta. L’agente ha patteggiato una pena di 3 anni, 6 mesi e 10 giorni. Ma praticamente non ha fatto un giorno di galera.
Anzi ai genitori del ragazzo è arrivata una fattura di 183 euro da parte della ditta incaricata dal comune di Paese per pulire la strada rimasta sporca del sangue del figlio e per levare i rottami dell’incidente.
Quando il padre mi parlava si vedeva che aveva tanto da dire. Avrebbe voluto dire di più. Ma qualcosa lo smorzava. Non ce la faceva. Era come se si fosse rassegnato. I soldi che hanno avuto di risarcimento dice sono soldi sporchi. Si sentono anche in colpa a spenderli. “La casa poi”, mi dice. Questa casa è troppo grande. Troppo grande senza Davide. “Brucerei tutto”.
A un certo punto suonano alla porta. La madre si alza. “Scusi devo rispondere”.
“Signora non si preoccupi”.
“È uno dei soccorritori di mio figlio…”
La mia intervista su La Verità.

👉 https://www.laverita.info/pavan-vedelago-ingiustizia-2665710414.html

sbetti

La Verità – 21 settembre 2023

“Signora qui è la polizia, sua figlia sta male, ha bevuto troppo”

Reportage uscito su La Verità.

Due whiskey per favore”. “Prego?”. “Sì, due whiskey”. Sono le cinque del pomeriggio. Lungomare Gramsci di Porto San Giorgio, in provincia di Fermo. Pieno agosto. Due ragazzini, all’incirca di quindici anni, si avvicinano al bancone dello chalet in spiaggia. Ordinano da bere. Roba forte, insolita per due ragazzi di quell’età. Il barista serve loro due bicchieri. Sghignazzano, sogghignano, il volto si corruga di un sorriso beffardo e sarcastico, poi spifferano qualcosa. Uno afferra il bicchiere, lo ghermisce tra le mani, lo abbranca, non sa come tenerlo. L’altro lo guarda. Agguanta il bicchiere anche lui. Pronti, mezza via, e giù a rotta di collo. A bere come forsennati. Come disperati. Uno, quello che pareva più borioso, più smargiasso, si sbrodola tutto, quel whiskey alle cinque del pomeriggio fa fatica ad andare giù. Poi tradito dall’orgoglio ormai ferito, si acciglia, molla un rutto che emette un suono come un tuono, l’altro lancia una bestemmia e lasciando il bancone immondo e inzuccherato, insieme prendono e se ne vanno. Il barista prende lo sparrone e pulisce i loro rimasugli.

Passa qualche giorno e la sera di Ferragosto in pieno centro le scene si ripetono. Si fanno eclatanti. Vistose. Ragazzini che barcollano sul lungomare con la bottiglia di vodka in mano, ragazzine svestite adagiate su una panchina in evidente stato di alterazione psicofisica. Minorenni che si raggruppano in spiaggia o ai giardinetti dei bambini e consumano alcol come fosse acqua. Fanciulli con ancora i denti da latte che si sorreggono l’un con l’altro. E poi via. Giù a bere, come se non ci fosse un domani, come se quel liquido fosse l’unico motivo del loro ritrovo. Li vedi quando vengo avanti. Tutti vestiti uguali, i jeans abbassati che a momenti si vedono le natiche, le scarpe da jogging ai piedi, i capelli laccati, impiastricciati, impomatati, le risate che si fanno sempre più forti, e poi diventano deliri, isterie, nausee, ubriacature solerti, mal di pancia conturbanti, voltastomachi nauseabondi. Fino a stendersi, fino a sdraiarsi per terra, fino all’amico che ti tiene la testa con la mano mentre vomiti davanti l’abitazione di qualcuno che manco conosci. Fino a quelle luci dell’alba che si elevano sul porto quando ormai si fa giorno. O fino a quelle luci. Le più tremende. Le luci blu. Gemiti di minori ubriachi, sirene che sopraggiungono nel cuore della notte, infermieri bardati di strumenti e valigette: misura la pressione, controlla la lingua, solleva le palpebre, tasta i polsi, carica, porta via in barella. Le porte dell’ambulanza che si chiudono e via in ospedale.

È successo anche l’altro giorno. A pochi chilometri da qui dove mi trovo ora. Ma accade in tutta Italia. Qui ad Ascoli Piceno la settimana scorsa, una ragazzina è stata portata al pronto soccorso dopo aver alzato decisamente il gomito: non si reggeva in piedi, barcollava, ciondolava, sbarellava, stava male, delirava. Le forze di polizia hanno chiamato i soccorsi. “Signora, qui è la polizia, sua figlia sta male, ha bevuto un po’ troppo, la stanno portando in ospedale”. Ma la risposta della madre lascia sgomenti. Ce lo racconta una nostra fonte.“Eh io sono a una festa adesso, il tempo che ci vuole ad arrivare”. Nessun allarmismo. Nessuna indignazione, nessuno scalpore. Nessun trauma o shock di quelli che ti vengono quanto ti chiamano per dirti che un parente ha avuto un incidente e tu sei lì che vorresti parlarci, sentirlo, vorresti entrare dentro a quel telefono e toccarlo con mano per vedere che sta bene. E fino a che non lo raggiungi ti disperi, ti vengono mille pensieri, mille dubbi, mille angosce, tutte in un minuto, in un secondo. Qui è normale, ci dicono. Per alcuni finire in ospedale dopo una sbronza sta diventano la normale consuetudine. Del resto sono sempre più. Basta ascoltare i racconti di qualche festa per concepire lo slabbramento dei rapporti, la tracimazione delle relazioni.

Ci si spinge sempre più in là, sempre un pezzetto oltre, per provare l’abuso, lo stato di euforia, l’ eccitazione, il furore. Ci si slabbra fino a stare male e si finisce riaccompagnati a casa senza sapere dove si sia stati, cosa sia accaduto. “Sono arrivato a casa l’altro giorno – ci racconta un ragazzo – e mi sono trovato a dormire in giardino, non so nemmeno perché”. Come non lo sai? Ma che è successo? Che hai fatto? “Boh guarda, eravamo tanti, tantissimi, siamo andati a casa dei genitori di un nostro amico e abbiamo preso da bere perché non ce lo vendono, aveva anche bottiglie di Scotch, roba forte, poi non ho più capito niente, uno ha iniziato a riempire i bicchieri, ci siamo fatti uno shottino, poi un altro, un altro ancora, poi abbiamo preso una bottiglia di Absolut, poi la vodka, oh bro – fratello ndr – dovevi vedere, c’era anche una mia amica che si passava il liquido sul dito e se lo infilava in bocca”. Ma e poi che è accaduto? “Non lo so. Mi sono trovato in giardino”. “Io se voglio scopare – ci dice un’altra ragazza – devo per forza bere, sennò non riesco a partire, a cominciare, io ho problemi col mio corpo e quindi bere mi toglie ogni inibizione”.

Anche qui due giovani la notte di Ferragosto sono finiti in coma etilico. E poi risse, malori. Feste in spiaggia con tanto di zaini con dentro gli alcolici. Funziona così. Una ragazza voleva prepararci uno spritz, senza nemmeno la soda, l’acqua, niente di niente, solo alcol, bottiglie di Campari e Aperol a nastro, e fiumi di prosecco da 3 euro da far venire il cerchio alla testa. La polizia era in borghese a controllare il rispetto delle norme sulle somministrazioni degli alcolici, ma i giovani sono più furbi del legislatore e quindi se non si possono vendere drink ai ragazzi, ci si porta l’alcol da casa. Ma siccome in giro nei precedenti weekend è successo il disastro, il sindaco di Porto San Giorgio, Valerio Vesprini, ha emesso un’ordinanza “contingibile e urgente” che imponeva di vendere per asporto “bevande alcoliche e superalcoliche in qualsiasi contenitore”, tra le 20 del 19 agosto e le 6 del 20 agosto scorso. Il punto è che l’ordinanza era per tutti, non solo per i minorenni, cosicché siamo entrati al supermercato e trovandoci il cartello davanti addio birra per gli amici che venivano a mangiare la pizza.

Del resto, mali estremi, estremi rimedi. Ma servirà? Il problema alcol nei giovani è da un po’ che va avanti, è esploso così dopo il covid e ancora non se ne parla abbastanza. L’anno scorso, era il mese di luglio, un ragazzino della provincia di Alessandria è stato portato in ospedale al limite del coma etilico dopo avere bevuto abbondanti quantità di rum durante una serata con gli amici. Prima di lui, era gennaio 2022, un’altra quindicenne, a Roma, è stata ricoverata in gravi condizioni sempre dopo una “abbuffata” di alcolici.E non si tratta di casi isolati: il fenomeno, avvertono gli esperti, è in preoccupante aumento.Nel caso del ragazzino, a chiamare i soccorsi è stata la madre. Le condizioni del ragazzo, avevano fatto sapere alla centrale operativa, “erano quasi al limite del coma etilico con un principio di ipotermia”. Anche ad aprile scorso, sempre qui nelle Marche, una ragazzina minorenne frequentante un istituto superiore era giunta in classe alle otto del mattino già ubriaca. Furono le insegnanti ad allertare i soccorsi. Ed era il 29 luglio scorso quando a La Spezia un ragazzino di 15 anni è finito in coma etilico per aver bevuto vodka acquistata in un minimarket etnico insieme a dei coetanei. Il negozio è stato sanzionato. Il ragazzino, vivo, giaceva lì su una panchina di piazza Verdi, bruciando la sua vita.

Serenella Bettin