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La tragedia di Firenze rappresenta lo sfacelo del lavoro

La tragedia avvenuta nel cantiere di Firenze rispecchia esattamente lo sfacelo a cui sta andando incontro il lavoro nel nostro Paese.
Ossia quella sciagura di un operaio che esce di casa la mattina e non sa che potrebbe anche non rientrare la sera.
Venerdì 16 febbraio, ore 8.52 del mattino: alcuni operai stanno lavorando nel cantiere di via Mariti della catena dei supermercati Esselunga, a Firenze, per costruire un nuovo supermercato, quando all’improvviso uno dei piloni crolla e travolge otto persone. Otto persone. Otto. Tre muoiono sul colpo, altri tre saranno ritrovati qualche ora dopo sotto il cumulo di macerie e due risultano dispersi, ora il disperso è uno. Tutto attorno è il caos.
La polvere che si solleva da terra, il fragore, il boato, lo schianto il botto come fosse un tuono, tremendo, pareva il terremoto, e quella nuvola grigia di polvere di morte che sovrasta l’aria.
E poi le sirene, le ambulanze, i vigili del fuoco, i soccorsi. Sembra l’Apocalisse.
Nessuno sa cosa esattamente sia accaduto, perché il solaio non abbia tenuto, perché il pilone sia crollato; nessuno sa se i lavori erano stati compiuti a regola d’arte, se sia stato eseguito prima lo scavo o prima le gettate dei pilastri, o viceversa, ma quello che si sa è che lì sotto stavano lavorando alcuni operai e questi sono morti.
I sindacati attaccano e sostengono che quegli operai erano inquadrati, come metalmeccanici per risparmiare e quindi non erano propriamente edili.
E già qui ci sarebbe un capitolo da aprire. Gli operai infatti, romeni, rappresentano tutto il collasso e il disfacimento della “Aaa manodopera cercasi” nel nostro Paese.
Quanti idioti ho intervistato che mi dicevano che avevan bisogno degli immigrati, poi quando chiedevi loro quale fosse la specializzazione richiesta ti rispondevano: “Basta che abbiano voglia di fare”. E infatti, questi sono i risultati. Questi la voglia ce l’avevano. Tanto che già prima delle nove del mattino erano sul posto di lavoro a girare malta, non propriamente un lavoro leggero che si risolve in quattro cagate da scrivere su Facebook.
Ma rappresenta lo sfacelo – emblematico il crollo specchio della distruzione della cara vecchia manodopera pagata oro – perché ora ci sono alcuni datori di lavoro che cercano migranti per farli lavorare, (alcune volte in nero sia ben chiaro) e ai quali poco importa se questi prima erano idraulici, muratori, magazzinieri, trasportini delle pizze con incorporate le bibite, l’Italia accoglie questa gente per farla lavorare al ribasso, perchè ovviamente un italiano non lo fai lavorare per 5 euro l’ora – sparo una cifra a caso – e invece un migrante meglio ancora se parla poco italiano, poco poco, puoi farlo lavorare anche a 3 euro e pochi centesimi perché tanto ha bisogno. Ecco cosa ha portato l’immigrazione incontrollata, alla va là che va bene.
Nessuno si chiede se ci siano le competenze, se qualcuno abbia preso un patentino o fatto un corso per stare sotto un ponteggio, così come nessuno si chiede se i migranti passino dalla consegna delle pizze alla raccolta dei pomodori a quella degli asparagi a quella dei broccoli fino alla betoniera che gira loro davanti con tanto di malta fina da gettare per terra. Chi segue la ruvidezza e la scabrosità della cronaca, sa che in questi casi in genere si trova sempre qualcosa che non quadra. Infatti. E il paradosso è sempre quello: che gli addetti ai lavori non erano proprio addetti, che nessuno aveva controllato?, che “si poteva forse evitare?”, che la colpa non è mai di nessuno perché gli operai avevano seguito un ordine dato dal direttore dei lavori a cui l’aveva dato il vicedirettore del direttore dei lavori che aveva a sua volta preso ordini dal capo cantiere che si era interfacciato col capo del capo del vicecapo cantiere. E così via. E sempre puntualmente dopo la tragedia, chi deve cavalcare l’onda dei morti, balla sui cadaveri ancora caldi. Punta il dito senza sapere – vedi Landini – spara sentenze per sentito dire – trae conclusioni affrettate, formula teoremi basati su sospetti, su pregiudizi, su conclusioni a cui giunge troppo frettolosamente. E su queste intuizioni costruisce l’informazione e chi gli va dietro, danzando sul sangue e sulle lacrime delle vittime.
Ogni volta che accade un fatto del genere, si dice sempre che si farà qualcosa, ma lo si fa sempre post e mai pre. Ma ogni volta non cambia nulla. sì. Il crollo del pilone rappresenta sì il crollo del lavoro nel nostro Paese.
Lì in un ammasso di detriti tra polvere, grida e urla di rabbia e disperazione.

#sbetti

Ciao Giulia ❤️

L’immagine più straziante è quella del nonno di Giulia, sorretto dai parenti e che cammina a fatica sulle stampelle. La gente è incolonnata. E attende di entrare in chiesa dalla mattina presto. Sono le 8.30. Siamo in Prato della Valle, a Padova, e qui oggi nella basilica di Santa Giustina, si tiene il funerale di Giulia Cecchettin, la ragazza di 22 anni, trovata morta l’11 novembre scorso e ammazzata dal suo ex fidanzato Filippo Turetta. Come tante piccole gocce, le persone continuano ad arrivare. Ci sono padri, madri, donne, bambini, anziani, studenti, tutti si aggiungono con lo scorrer dei minuti a quella folla oceanica di gente che un po’ alla volta sta riempiendo Prato della Valle, la seconda piazza più grande d’ Europa. Incolonnati, fuori al freddo gelido, che toglie il respiro e scolora i volti, la gente attende l’arrivo del feretro. Il funerale è alle 11. Gli amici di Giulia hanno gli occhi pieni di pianto, un’amica si sorregge a un ragazzo col volto rigato dalle lacrime, qui trattenerle, oggi è impossibile.

Davanti la basilica è apparsa una gigantografia di Giulia. Viene dal comune di Vigonovo, dove Giulia abitava. “Giulia ti vogliamo bene”, c’è scritto sotto quel volto di lei così solare e allegro. La vedi Giulia, la vedi dalle foto, sempre in movimento, mai ferma, voleva vivere la sua vita, così come l’aveva disegnata lei, tratteggiando con la matita la materia dei suoi sogni. “Mia figlia Giulia, era proprio come l’avete conosciuta – ha detto il padre infatti durante la cerimonia – Nonostante la sua giovane età era già diventata una combattente, un’oplita, come gli antichi soldati greci, tenace nei momenti di difficoltà”. Qualcuno entra in un bar per riscaldarsi, oggi qui anche il cielo è coperto, al grigiore infernale di questo cielo maledetto si aggiunge il silenzio agghiacciante che sovrasta la città. Una poliziotta dai capelli neri raccolti che incontriamo al bar ha gli occhi rossi di pianto, ed è letteralmente congelata. “Non muovo più la mano”, ci dice. Sarà anche lei, qualche ora dopo, a stare sull’attenti al passaggio del feretro di Giulia. Il feretro arriva poco prima delle 11. La polizia è schierata. Ci sono oltre 200 agenti tra polizia, carabinieri, guardia di finanza, polizia penitenziaria, unità speciali anti terrorismo e anti sabotaggio. L’atmosfera è atroce, rispecchia il freddo gelido del tempo. Un’auto della polizia di Stato viene avanti con i lampeggianti mentre la protezione civile apre il varco tra la folla. Dietro, il feretro.

E a seguire le auto dei familiari. Il papa Gino, la sorella Elena, e il fratellino Davide scendono dalle vetture e vengono avanti a piedi. Si sorreggono l’un con l’altro, stretti per mano, presi sotto braccio. Il fratellino ha il volto scarnificato, consunto, protende le spalle all’indietro come a dire: ditemi che non è vero. La sorella guarda per terra, il padre cerca di farsi forza, incredulo dinanzi a quella folla. Ma quando il feretro entra in chiesa, le lacrime gli solcano il volto. Un applauso parte tra i presenti, e si propaga nell’aria, arriva dappertutto, sui balconi, sopra i tetti, dentro i bar, e tutti iniziano a batter le mani. Oggi, tutti qui, anche i taxi hanno un fiocco rosso. “Dobbiamo trasformare la tragedia in una spinta per il cambiamento – ha detto il padre Gino al termine del funerale – la vita di Giulia è stata sottratta in maniera crudele, ma la sua morte può e deve essere il punto di svolta per mettere fine alla terribile piaga della violenza sulle donne. (…). Perché da questo tipo di violenza che è solo apparentemente personale e insensata si esce soltanto sentendoci tutti coinvolti. Anche quando sarebbe facile sentirsi assolti”. Infine ha salutato la figlia, rivolgendosi direttamente a lei: “Cara Giulia, grazie per questi 22 anni vissuti insieme e per l’immensa tenerezza che ci hai donato. È il momento di lasciarti andare, salutaci la mamma. Impareremo a danzare sotto la pioggia”. All’uscita della basilica, dove erano presenti il ministro Carlo Nordio, il presidente del Veneto Luca Zaia e una quarantina di sindaci tra le zone del padovano, veneziano e anche provenienti dal Friuli Venezia Giulia, la pioggia se n’era andata. Ad attendere il feretro di Giulia c’era lo stesso scrosciante e fragoroso applauso che l’aveva atteso all’inizio della cerimonia, accompagnato da un tintinnio sonoro di campanelli e chiavi che si muovevano a più non posso. Anche il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ha ricordato Giulia: “Il valore e il rispetto della vita vanno riaffermati con determinazione in ogni ambito, circostanza e dimensione”. In Veneto è stata giornata di lutto regionale. E anche l’università di Padova fino alle 14 ha sospeso le lezioni. In tutto qui oggi si contavano oltre 10 mila persone. Poi, alla fine della cerimonia, l’immagine più straziante. Quella del nonno di Giulia che ci passa davanti, sorretto dalle stampelle e che si fa forza abbracciandosi ai parenti. Anche per lui continueremo a fare rumore.

Serenella Bettin

Pezzo uscito su Libero mercoledì 6 dicembre 2023

Libero 6 dicembre 2023

Gli abusivi possono pure menarti. Sotto gli occhi di tutti

Questo è il livido di un pugno che sarebbe arrivato a me in faccia, se l’uomo della vigilanza non mi avesse difeso.
Questo è quello che fanno gli occupanti abusivi di case. Provateci voi a difendervi in casa vostra e rischiate di finire in galera o indagati per lesioni tentati omicidi e altre figure applicate in maniera folle.
Tanto gli abusivi sono consapevoli e forti che nessuno farà mai loro niente, protetti e tutelati dai giudici, dallo Stato, dalle leggi, quasi perfino dalle forze dell’ordine. Arrivo in questa casa occupata che è quasi ora di pranzo.
L’occupante mi fa il favore di uscire inconsapevolmente, ignaro che ci avrebbe trovato. Rimaniamo tutti in auto. Non scendiamo. Lo osserviamo venire avanti. Il cameraman prepara la camera. Io il gelato. Mette in rec. Io schiaccio on. La lucetta verde si accende e in una frazione di un secondo, quando ormai è in bocca a noi, scendiamo dall’auto. In quei momenti ti giochi tutto. Tutto in una manciata di secondi che svapora via se non ti muovi. Avviene tutto in un attimo. In un attimo devi bloccarlo, fargli domande, chiedergli o chiederle conto del perché diamine sia ancora in quella casa magari con un’ordinanza di sfratto. In un attimo gli vuoi chiedere se non si vergogna a stare in una casa senza pagare l’affitto, manco il condominio, le bollette e tutto quello che ci sta dietro e se sa che in Italia la gente per bene e che lavora l’affitto se lo paga o la casa se la compra. In quel momento un vortice di emozioni ti si riversa addosso. Piomba come piomba la lava sul vulcano accesso. Non senti caldo. Non senti freddo. Non ti accorgi se piove. Se c’è il sole. Se è giorno. Se è notte. È un misto di adrenalina, energia, paura, impeto. Puoi sentire il cuore in gola. Come le gambe tremare. Puoi sentire le mani fredde. Come i piedi partire. Anche perché non sai come l’occupante possa reagire. E qui ha reagito male. Inizio a fargli domande. Non mi risponde per mezz’ora. Ma a un certo punto. A un certo punto quando capisco qual è il tasto dolente, sbrocca. Fa per tirarmi un pugno e la scorta si mette in mezzo. In un baleno lo para quel pugno. Lo ferma. Lo blocca. E se lo prende giusto qui sul collo.
Ora queste sono le reazioni sempre più violente degli occupanti abusivi. L’arroganza. La supponenza. La delinquenza. La convinzione di fottere lo Stato e nonostante questo essere nel giusto. Tanto sanno che a loro nessuno farà mai niente. Carabinieri che arrivano per far domande ai giornalisti. E non agli occupanti. Ordinanze di sfratto mai eseguite. Giudici irraggiungibili. E ufficiali giudiziari introvabili. Signori questa è l’Italia.
Invece se ti entrano in casa o in gioielleria o in tabaccheria per rapinarti mentre stai dormendo o stai lavorando logorandoti di un lavoro che ti porta ogni giorno a farti il culo, e questi ti minacciano o ti legano la moglie e i figli, non puoi fare niente, perché se per caso ti azzardi ad alzare un dito, poi se non ti ammazza il ladro ti ammazza lo Stato.
E quindi i proprietari in casa loro non possono difenderti. Invece gli occupanti abusivi – una ha minacciato perfino una mia collega davanti al carabiniere che è rimasto muto – ecco dicevo gli occupanti abusivi possono fare tutto. Possono tirarti pietre. Sassi. Coltelli. Bottiglie rotte. Possono sputarti addosso.
Menarti. Darti calci. E minacciarti.
E questo sì. Questo è sotto gli occhi di tutti.

sbetti

Picchiatore seriale. La realtà in bianco e nero

Dal diario di Facebook. 28 settembre 2023

L’aggressore seriale a Venezia.
Questa sera ho preso e sono uscita per fare una lunga passeggiata. All’inizio non voleva essere tanto lunga. Poi lentamente si è allungata. E si è fatta estesa. Distesa. Andava come vanno i tempi della televisione. Lunghi ma serrati. Prolungati ma fitti. Stretti. Ma veloci.
È una settimana che sto sotto una storia di un seriale a Venezia che vi giuro mi è venuto il voltastomaco a vedere come la gente sostanzialmente se ne frega. Anzi non la gente normale. Quella?
Quella povera soffre. Mi è venuto il voltastomaco a vedere come le istituzioni e chi dovrebbe proteggerci se ne fregano allegramente.
Ma soprattutto ho raccolto le voci di quella gente, della gente normale, di quella che ogni giorno lavora. Va a scuola. Va ad allenamento. Va in ufficio. E ha paura. Ha paura a rincasare la sera.
Mi chiedo come in un Paese che voglia definirsi normale si possa avere il terrore di tornare a casa la sera senza finire con una coltellata piantata nell’addome. Orbene.
A Venezia si aggira un seriale. Un aggressore. No. Non è finzione. Non è fiction, non è montaggio. Non è fantascienza.
Il mio servizio lo trovate su Fuori dal Coro (link nei commenti). È realtà. A Venezia si aggira da mesi e da anni un pazzo che va in giro a colpire e aggredire la gente. Che potrebbe realmente aggredire e colpire chiunque. Che entra in azione di notte. Si aggira col buio. Cammina con un coltello in mano. E nessuno, nessuno fa niente. Mi chiedo che mondo sia quello dove chiedi aiuto e nessuno fa niente. Le stesse forze dell’ordine si sentono impotenti, devono aspettare che agisca. Ma quando agisce è troppo tardi. E di vittime ormai c’è ne sono parecchie.
Con la riforma Cartabia poi è diventato tutto una barzelletta. Devi denunciare prima della decorrenza dei termini e per sporgere devi prendere l’appuntamento. E se prendi appuntamento magari i termini decorrono veramente. Così devi attendere che qualcuno ti molli una coltellata e poi ci vuole la querela di parte. E nel frattempo quello se ne sta libero, in giro, capace di colpire chiunque.
Ma mi ha fatto venire il voltastomaco la messa a tacere del fatto – shh silenzio – che facciamo brutta figura – La gente si allarma poi – i turisti – che dicono i turisti. Suvvia Venezia è la città che se ti tuffi da un ponte ti fanno un daspo (con tutto il rispetto per carità) ma se accoltelli qualcuno rimani libero. Fino a che. Fino a che non ci scappa il morto.
Poi dicono che non facciamo niente. Che non c’è sicurezza. Eh no. Infatti.
La sicurezza non c’è. E non è finzione. Non è fiction. Non è immaginazione. Non è la percezione del cittadino come ha osato dire qualcuno.
È la realtà. La dura e nuda realtà. E la realtà non è colorata. Non presenta sfumature, non ha dissolvenze, effetti speciali.
È tutto terribilmente a colori. O bianco, o nero. Ma è tutto nitido. E sta lì davanti agli occhi di tutti.
Questi giorni ho fatto appostamenti. Sono stata fuori la notte. Ho fatto ricerche, ho raccolto le testimonianze dei giovani aggrediti e ci ho visto negli occhi l’impotenza. Il terrore. Il senso di colpa. La tragica consapevolezza che non puoi far niente, che quello che ti sta capitando pare sia un incubo senza fine. Quando stasera ho decollato le mie gambe e mi sono accesa una sigaretta e poi le sigarette sono diventate due tre quattro, era tardi. Era buio. Ero sfinita. Sentivo le gambe che andavano da sole. Agli auricolari andava la musica. Mi sono rivista davanti a quelle persone che per un attimo si sono affidate a me per avere un aiuto, e mi sono detta che è questa la vita che ho scelto, quella che ho deciso, quella che dà voce alla gente che non ha abbastanza amplificatori per poter urlare. Quella che raccoglie le storie. E le fa proprie. E dopo averle vissute. Le racconta. Senza dissolvenze. Senza effetti speciali. Senza sfumature. In bianco e nero. E a colori.

sbetti

fuoridalcoro

Mestre. Quei corpi carbonizzati tra le lamiere

Guardatela bene questa foto. L’ho scattata ieri sopra il cavalcavia di Mestre. Guardate il parapetto.
Ieri mattina sono uscita di casa per girare i servizi e il cielo sapeva di cenere. Aveva il colore plumbeo, del colore del piombo, opprimente, cupo, fosco, grigio, livido.
Toglieva il fiato da quanto cupo era.
L’odore oggi, qui sopra, era quello della morte.
L’aria è quella ferma rappresa di chi non crede ai propri occhi.
Il cielo è quello grigio cinereo che sa di corpi carbonizzati tra le lamiere.
Qui martedì sera, proprio qui, in questo punto maledetto, un autobus con a bordo dei turisti stranieri, ha sfondato il guard rail e il parapetto, ormai vetusti, e che “sembrano di cartapesta”, precipitando giù dal cavalcavia e schiantandosi al suolo.
Del resto basta guardarli questi parapetti, questi guard rail, così arrugginiti, così rancidi, così sbilenchi.
Non riuscirebbero nemmeno a sorreggere una bici, figuriamoci un bus di 13 tonnellate. Peccato che un guard rail, qualora ci fosse stato in quel punto, dovrebbe essere omologato per sorreggere un autocarro di 67 tonnellate.
Il bilancio è stato pensantissimo. 21 morti. 21. E 15 feriti. Tra le vittime anche un neonato. E un neonato che invece si è salvato. Del resto è così la vita, con una mano ti dà, e con l’altra ti toglie.
Un cavalcavia vetusto questo. Che c’ha oltre 50 anni, le cui barriere di protezione che sembrano ringhiere delle galline nei cortili, dovevano essere sistemate e rifatte anni e anni fa. Ma niente è stato fatto, oggi ho parlato con assessore e mi ha detto che non c’erano i soldi, che quel cavalcavia in effetti è un obbrobrio.
Il 4 settembre scorso in questo cavalcavia sono partiti i lavori e cantavano tutti in coro: “Sicurezza nelle strade, mai più vittime”. Oggi ho letto anche nella cronaca locale che qualcuno ha detto; “Tragedia che annulla le differenze politiche”.
Ma de che? Che vuol dire?
Invece piuttosto, chiedo, perché i lavori non sono stati fatti quando dovevano essere fatti? La tragedia del cavalcavia di Mestre si poteva evitare?
Il ponte Morandi insegna.
Oggi fuori dell’ospedale c’era il viavai di gente. I giornalisti però non potevano entrare perché come al solito ti dicono quello che devi dire e scrivere. Qui è stata allestita una stanza per i parenti delle vittime. Le persone si sorreggevano l’un con l’altra. Controllavano i documenti, parlavano con gli psicologi.
Fuori dall’obitorio ero uno strazio continuo. E qualcuno mi parla di differenze politiche.
Nel triste e forsennato berciare di tutti, un miracolo però è avvenuto.
Quel neonato sopravvissuto alla strage. È rimasto inviluppato tra i rottami dell’autobus accartocciato, rannicchiato forse tra i corpi di padre e madre che evidentemente prima dello schianto, in questi istanti orribili mentre l’autobus cadeva, hanno tentato il tutto e per tutto per salvarlo.
Una reazione istintiva in questo immenso miracolo della vita che fa i conti con l’agonia della morte.
Oggi sulla Verità. E ieri sera a Fuori dal Coro.

sbetti

Ph: Serenella Bettin

Ma sei pro o contro?

Mi si avvicina un ragazzo. C’avrà all’incirca trent’anni. Che dico un ragazzo. È un uomo. C’ha gli occhi incavati che fuoriescono dal bulbo oculare. Il suo iride è a metà tra il verde e il marrone. Dipende. Se fa la faccia sorpresa gli occhi si irradiano di verde. Altrimenti si irraggiano di marrone. Spruzzano una tonalità tendente al marroncino. Il suo corpo sembra quello di un’ antilope spelacchiata che non mangia da giorni. Magro. Affossato. Incavato. Indentro. Intarsiato come si intarsia un santo nel legno. Me lo immagino velocissimo nella corsa. Ottimo saltatore. Che vive in branchi, in mezzo ad altre persone. Sorseggia una birra. Alle dita indossa degli anelli. Mi guarda con due occhi verdi spalancati e mi chiede cosa stia facendo. Gli dico che sono una giornalista. E che sto facendo un servizio sull’immigrazione. Mi risponde perché. Come mai. Qual è il senso. Il senso. Quello che ho sempre cercato in tutto quello che facevo. L’andare oltre. Il non fermarsi mai, dinanzi a nulla. Far sì che il nostro Servizio appunto Servisse agli altri.
Mi chiede se sono pro o contro i migranti. Gli rispondo che non c’entra pro o contro. C’entra che non è questo il modo di gestirli i migranti. I poveracci. I disgraziati che sbarcano sulle nostre coste pagando fior di quattrini. Mi dice perché, come mai, in fondo c’è bisogno di queste persone.
Ma perché non si possono ammassare duecento trecento persone e stiparle come polli in batteria dentro un centro perché questa non è accoglienza, è chiudere dentro un ghetto persone semplicemente per il fatto che sono straniere. Gli dico che chi non ha diritto deve tornarsene da dove è venuto e che le cooperative hanno sempre lucrato sulle spalle di questi poveracci giunti da noi credendo di trovare l’Eldorado.
Mi dice: sì ma il tuo servizio deve essere pro o contro.
Ma no ancora. Non capisci. Inutile parlare allora. Non c’è un pro o contro, serve raccontare la realtà delle cose, dar voce alle persone, è per quello sto in mezzo alla gente.
Gli dico anche che lui in un centro del genere non ci starebbe mezzo secondo dato che consuma liberamente al bar la sua birra. Mi dice che non è vero, che lui in centri come quello c’è stato. Ah sì? “Sì. Io sono di Trieste. Ho vissuto un periodo per strada. Nei dormitori, in quei posti che tu denunci”.
Lo guardo. Allora sai di cosa sto parlando. Poi d’improvviso due urla. Sta scoppiando una rissa.
Un ragazzo che sfida un vecchietto…

sbetti

Qui si sta in fila come i dannati

In fila come i dannati. La donna che mi sta davanti versa l’acqua al padre. Gli apre dolcemente la bocca e cerca di farla scivolare giù lentamente lungo la lingua. Il padre avrà all’incirca 90 anni. Il numero 90 ti fa pensare a un omone bello e grosso. E invece è un omino piccolo piccolo incanutito dal dolore, svezzato dall’orgoglio, piegato dalle piaghe del corpo. Ha le braccia esili esili. Le gambette saranno la metà delle mie. Fissa il pavimento. Chissà, penso, forse ripensa alla sua vita. A quella vita andata e passata, a lui che ha cresciuto figli, che ha amato, lavorato, sudato, a lui che ha messo su famiglia, Dio come faccio a pensare di essere ora senza forze, inerme, con quella figlia a cui davo da mangiare e da bere e ora è lei che dà da bere a me. Il suo viso sembra quello di un bambino. Ma invecchiato. Smunto.
Qui è mezzogiorno in punto. La situazione si fa calda. Complicata. Il traffico è tanto, al pronto soccorso arriva una barella dietro l’altra. La signora che mi sta accanto invece ha preso una botta in testa. Ha paura di avere un trauma. Vuole alzarsi ma l’infermiera le dice di stare ferma, che non si sa mai cosa ti possa succedere. La donna che è appena entrata invece ha una cannuccia piccola piccola che le parte dal naso e le arriva fino alla bocca. Grazie a quella può respirare. È cardiopatica. Sulla bombola che l’infermiere appoggia sopra quel letto coperto da quelle gambe di un pigiama sgualcito, c’è scritto ossigeno. Le barelle. Quante barelle. Qui le barelle arrivano come le valigie ai nastri trasportatori dell’aeroporto. Gli infermieri con una calma e una pazienza formidabili le prendono, le spostano, le accostano, fanno retromarcia, vanno avanti, si inceppano, scavalcano. Ci sono anche quelli che sollevano i malati e – uno – due – tre – al mio quattro – giù sulla barella.
E il paziente sprofonda. Questa è l’ora dei dannati, di quelli che si tengono aggrappati alla vita, di quelli che cercano cure, ripari, calori, salvagenti dell’anima in questo mare di dolori. Sofferenze atroci. Acute. Che scavano dentro. Che ti entrano appresso. Te le senti addosso. Ti rimangono aggrappate una settimana e più tenti di scacciarle più non se ne vanno. Un uomo è arrivato, aveva il catetere attaccato, lo sguardo perso nel vuoto. Poco dopo è arrivata la figlia: “Dov’e mio padre? L’hanno ricoverato”. C’è anche il giocatore di basket che dorme lì sul giaciglio di un letto preparato all’ultimo, le scarpe giacciono a terra come a dire: ora è tempo di riposare, domani starai meglio. Si alza, va in bagno, ma sbaglia porta.
C’è anche il pescatore che stava pescando sul fiume, che si è svegliato stamattina all’alba e che si è inciso un mignolo, gli si è aggrappato l’amo e Dio fa un male cane. Non vuole l’anestesia. Provano a estrargli quel pezzo di ferro così a mani nude dipingendo ondate di dolore. Ma niente. Le grida sono enormi. Immense. Le senti che si propagano come quando arrivano i cani che si gettano sulle prede, come quando l’uomo uscì dalle caverne, un ululato travolgente, inquietante, un suono fracassante, e lui che impreca in una “Babilonia di lingue” che non si erano mai udite. È troppo. Impossibile resistere. Alla fine optano per l’anestesia. E lui si addormenta nel mentre arriva un’altra sirena. Sarà la cinquantesima in 50 minuti. Le sirene spiegate. Gli uomini martoriati sulle barelle. Chi sulle stampelle. L’infermiere che controlla che sia tutto a posto, che la paziente sia legata giusta, quello che prende i dati, quello che li trascrive sul computer, quello che li detta ad alta voce, quello che arriva e ha bisogno di un consiglio, il computer che si inceppa, la bambina che piange, il figlio preoccupato per la madre, il medico che visita, che prende i valori. Gli esami del sangue, l’appello nella sala d’attesa dei condannati alla penitenza, di questa vita che è sofferenza angosce dolore.
Stupisce l’organizzazione del personale nel caos allucinante. Anche le guardie. Dio le guardie giurate, accolgono i pazienti che rimangono in attesa cercando di capire per quale motivo qualcuno ci ha messo al mondo, se poi dobbiamo stare male, soffrire, curare malattie.
Esco. La gente è fuori. Ci sono i familiari dei pazienti. I parenti. Gli amici.
C’è la gente che fa la spola. Lo senti il profumo di tabacco dei tabagisti incalliti, anestetizzati dal dolore per i propri cari che fumano come ciminiere.
Qui è un andirivieni continuo. Per medici e infermieri è normale trattare i malati. Prendersi cura degli altri. È normale aiutare chi ha bisogno. Quello di risolvere i problemi ce l’hanno nel sangue, qualsiasi persona deve trovare una risposta. Un esito, una diagnosi. Qualsiasi persona non si lascia per strada.
Così, questa sera poi sono andata in un centro Tim e il destino ha voluto che incrociassi una signora col bastone. Non riusciva ad aprire la porta? A fare il gradino. Le ho porto la mano.
Mi ha detto: “No, ho paura di tirarti giù”.
Le ho detto: “Non importa. La tiro su io”.

sbetti

Un euro per un bicchiere. Ma la paga ai camerieri l’avete aumentata?

Chiederete anche un euro per un bicchiere di plastica ma non mi risulta che abbiate alzate lo stipendio ai camerieri che sgobbano.
Questa roba dei piattini di condivisione a due euro è una roba di un disonore immenso. Per la categoria. E per l’Italia. Anche perché adesso il popolo si è svegliato. C’è internet. Hai voglia a nascondere simili obbrobri lucrativi.
L’altro giorno per dire sono andata al bar a bere un caffè e ho ordinato un caffè americano. Siccome dovevo prendere una bustina di vitamine, mi sono fatta dare dalla cameriera anche un bicchiere d’acqua. La stessa cosa ho fatto il giorno seguente in un altro bar. Nel bar del primo giorno, l’acqua mi è stata servita calda del rubinetto e quando ho detto che avrei gradito averla fresca e che l’avrei pagata me l’hanno messa in conto a un euro.
Nel secondo bar invece l’acqua mi è stata servita fresca e di bottiglia. Anche qui volevo pagarla ma non hanno voluto. Anzi. Vedendo che dovevo mescolare le vitamine con il cucchiaino, io mi stavo accingendo a mescolare la miscela con quello del caffè perché nella mia vita ho sempre evitato sprechi e da quando vivo a seconda di dove sosto, ti subentra quel principio salutare che è quello dell’economia domestica. Così ho detto alla cameriera che avrei usato lo stesso cucchiaino e lei mi ha detto: “Grazie”. Che parola sconosciuta.
Ora, questa cosa dei due euro a piattino per tagliarci un toast o per dividerci un piatto di pasta che costa 20, è una roba alquanto calunniosa e lugubre.
E non è questione di servizi. È questione di buon senso. Di rispetto per i clienti. Di rispetto per tutti quelli che ti danno da mangiare perché decidono di portare il proprio culo nel tuo ristorante. Non è la storia della torta Sacher a 10 euro e se non ti comoda puoi andare da un’altra parte. Qui è onestà professionale. Onore intellettuale.
Ho fatto la cameriera in un periodo della mia vita quando lo studio legale dove lavoravo mi sfruttava e di avvocati non ne volevo più sapere e anche uno stupido capisce che la pietanza fatta pagare 20 euro, in realtà costa 8 e il titolare, giustamente ci guadagna. Niente da dire, si paga il nome, il servizio, la pietanza, si paga l’arte e la maestria di chi compone e preparare quel piatto. Ma il piattino di condivisione. Ma il bicchiere di plastica. Ma l’acqua calda.
Ma tanto alcuni sono abituati così. E potrei dare una carrellata di esempi simili. Anzi forse è il caso che vi diate una frenata.
Locali che se chiedi di tenerti un dolce per festeggiare il compleanno della zia di Danimarca, il deposito te lo fa pagare 18 euro, con tanto di taglio ovviamente.
Locali dove se chiedi un bicchiere in più te lo mette in conto a un euro. Bar dove se chiedi un caffè americano te lo fanno pagare 10 euro. E vabbè ci può stare. Paghi il nome. Ma ci sono anche locali marci in paesi che sono buchi di culo e che se chiedi un caffè con un po’ d’acqua calda te lo fa pagare 3 euro e 50.
A Venezia ci sono locali dove se sentono che sei veneto il caffè lo paghi un euro e 10 e se sentono che sei straniero – una volta ho usato il mio dialetto innato marchigiano – te lo fanno pagare 4 euro. Quattro euro per un caffè manco buono. Così come ci sono locali che il coperto te lo fanno pagare 3 euro, da un euro sono aumentati di due. E altri locali dove se chiedi la ciotola per il cane ti fanno pagare pure quella. Ora, va bene le bollette, i rincari, la guerra, la crisi, il surriscaldamento globale e il fatto che non riusciate a raffreddare i locali; va bene anche la gente che ci scorreggia e ci respira dentro e appanna i vetri e non avete i deumidificatori o costringete le cameriere a lavorare senza aria condizionata, ma alcune di queste persone sono le stesse che col covid si lamentavano perché erano chiusi e avevano bisogno dei clienti.
Alcuni sono gli stessi che quando riaprirono le gabbie fecero le ferie, si presero il giorno di riposo, aumentarono i prezzi; questa gente – alcuni si intende ma una mela marcia nel vaso rovina anche il resto – è la stessa che non faceva uno scontrino manco a pagarlo oro e che quando ci fu la storia dei rimborsi pretendeva di percepire anche i soldi non dichiarati.
Ora va bene, la gente con voi è solidale, i commercianti, i gestori, siete l’anima dei nostri cuori così mondani e insoddisfatti, ma dinanzi a tutti questi aumenti, le paghe ai vostri dipendenti le avete aumentate?
O li fate lavorare per 7 euro l’ora e se consumano il toast per cena – ai miei tempi era così – gli scalate pure quello dallo stipendio?

sbetti

Primavalle. Anche qui ci scorre la vita

Settembre 2022.

La tipa che scende dall’auto dinanzi a me, sulla gamba destra, all’altezza del polpaccio, ha un tatuaggio. Ci sta raffigurato un uomo anziano che le sorride. Le somiglia. Credo sia suo padre. Il tatuaggio le copre tutta la parte che dal polpaccio le scende fino a giù verso la caviglia. Sgattaiola via con fare frettoloso. Sbrigativo. Spavaldo. Si vede che è insoddisfatta dalla vita. Qualcuno gliel’ha resa difficile. Qui siamo nei quartieri malfamati. Nei quartieri poveri. Nelle case popolari. Scenari di vite ai margini. Sobborghi di periferia. Intelaiate dalla malavita. Ci stanno vie ripide e scoscese che conducono a piazze che rievocano fatti di cronaca nera. La più brutta. Qui ci sono i bambini che giocano a pallone nei lotti immensi di cemento tra un palazzo e l’altro.

I vestiti appesi alla rinfusa dai balconi evocano donne insoddisfatte, buchi nella stoffa da carpentiere, felpe lunghe larghe da non far trasparire niente, asciugamani che ancora sanno di sudore. Qui si annida l‘emarginazione sociale. Le favelas. Qui i bambini in mezzo ai palazzi alti quanto navi, vociano, vociferano, chi non ha padri o madri cresce in mezzo alla strada. Fanno rimbalzare il pallone che provoca enormi tonfi. Bam. Bam. Urlano. Giocano. Si dilettano. Crescono. Troppo in fretta per essere piccoli. Accanto ci passa un gruppetto di ragazzi. C’avranno all’incirca 16 anni. Hanno tutti lo sguardo da macho, da duro. Sono tutti vestiti uguali. I jeans strappati che col cavallo toccano terra. Le catene ai piedi. Alle gambe. I capellini da baseball. Le magliette larghe, chi rossa chi nera chi bianca. Ti guardano con quell’occhio intrepido che sa di sfida verso il mondo. Scende un ragazzo. È pieno di tatuaggi. Gli chiedo se vuole fare due parole. Mi risponde che non vuole. Blatera qualcosa. Mi manda a fareinculo.

Il signore che mi apre la porta invece è gentile. Somiglia al topino delle Tartarughe Ninja. Al Maestro. Ha gli occhi incavati più incavati di un cava tappi. Le borse violacee sotto gli occhi gli rigano il volto. Ha gli occhi freddi fermi verdi. Non esprimono nient’altro che rassegnazione totale. Un uomo tradito dalla vita che la vita l’ha spremuta poco, gettandola via tra pasticche ed ecstasy. Ai piedi nudi indossa un paio di ciabatte. Dei pantaloni azzurri scoscesi che gli stanno su a malapena. Mi apre la porta con fare disinvolto. Buongiorno. Permesso. Scusi. Uscita dal quartiere è un labirinto di case. Di vie scoscese. La luce del sole riscalda i palazzi. Questi enormi colossi verdi gialli grigi e bianchi. In giro è un incrocio di culture. Droghe. Allucinogeni. Allucinanti. Il coreano che accompagna il figlio. Il messicano che lo tiene in braccio. Il marocchino che si gira la cicca alla fermata dell’autobus. È un incontro di donne nere bellissime africane con i capelli preparati e i corpi perfetti. Un incontro di market, supermercati, farmacie con le saracinesche abbassate; di suore che cercano di far del bene. Di bar che echeggiano gli stivali dei cowboy. I cigolii delle porte. È un incrocio di culture diverse. Di giovani che provano a crescere. A inventarsi qualcosa, sorvolando dai tetti ai garage delle auto. Luci psichedeliche. Cervelli sbiaditi in fumo. Allucinazioni. Ragnatele. Sale da musica rock. Gente da borghi di periferia che vuole emergere. Sui muri scrivono poesie. Frasi. Dipingono cuori. Anche qui ci scorre la vita.

#sbetti

Il mio servizio con Giordano Giusti qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/la-storia-del-rom-di-primavalle_F311547501038C07

Eccesso colposo di legittima difesa

La vicenda del carabiniere di Padova rischia di evolvere in un bell’ ECCESSO COLPOSO DI LEGITTIMA DIFESA. Ripetiamolo assieme: eccesso colposo di legittima difesa. Ripetiamolo ancora: eccesso colposo di legittima difesa. Per chi non avesse ancora capito: eccesso colposo di legittima difesa.
È stata infatti aperta un’inchiesta in tal senso che ipotizza questo reato.
E i fatti sono i seguenti.
È venerdì 14 luglio. Sono le due del pomeriggio. Quando ai carabinieri di Padova arriva la telefonata di una donna allarmata perché il suo ex, Haxhi Collaku, 55 anni, albanese, è sotto casa armato di coltello. I militari dell’arma salgono in auto, sirene spiegate e arrivano sotto casa della vittima, spiegando, perdio che, lì sotto, lui non ci poteva stare, perché aveva già avuto un divieto di avvicinamento alla ex moglie. Ma lui pare non sentirci.
Sale sul furgone. Ingrana la marcia e investe uno dei due carabinieri. Preme l’acceleratore, lo schiaccia e lo minaccia col coltello. L’altro carabiniere, vedendo la scena, prende, impugna l’arma e spara quattro colpi. L‘uomo viene colpito alle gambe e all’addome. Arriva l’ambulanza. Alle 17 l’albanese muore in ospedale. L’altro carabiniere ferito a terra viene trasportato d’urgenza al pronto soccorso, perde molto sangue, non c’è tempo da perdere, la corsa è disperata.
Nella notte tra venerdì e sabato viene sottoposto a un delicatissimo intervento di sette ore in Chirurgia vascolare. Oltre alle fratture e alle ossa rotte, anche il sistema vascolare è compromesso. Troppo forte l’impatto. Ora è in condizioni critiche. E rischia l’amputazione della gamba.
Lo ripeto: l’amputazione della gamba.
Il curriculum di Collaku invece, l’uomo che ha investito il militare, ha un che di inquietante.
Cinquantacinque anni, era già stato denunciato nel 2009 ed era stato condannato per maltrattamenti in famiglia. In 14 anni nonostante altre denunce e nonostante un ammonimento del questore di Padova, non aveva mai smesso di stalkerizzare e pedinare la moglie.
Ora mi raccomando.
Processate le forze dell’ordine.

sbetti

Michelle. Primavalle. Quelle vite ai margini

Michelle. Sono stata a Primavalle a settembre scorso, per seguire il caso di Hasib, il rom disabile che per sfuggire a un controllo dei poliziotti scappò dalla finestra.
Ricordo che quel giorno mi chiesero – per fare il servizio – se avessi avuto bisogno della vigilanza. Dissi di no. Che ce la saremmo cavata da soli.
E infatti così è stato. L’atmosfera però in quel quartiere non era delle migliori. Ricordo ancora il tizio fermo al bar che pareva c’avesse un coltello conficcato nei pantaloni. O tutti quei bengalesi che mi guardavano con fare minaccioso. Così come ricordo quell’uomo che ci disse: “occhio ragazzi all’auto. Non lasciatela qui”. In effetti avevamo tutta la attrezzatura dietro. D’un tratto pareva di essere entrati nel bronx. Un quartiere popolato dove ricordo ancora quelle case piene ma vuote.
Vite ai margini, gente disperata, uomini con addosso flaconi di alcol e sonniferi, donne sciatte, insoddisfatte e tradite dalla vita che lentamente si squaglia come il gelato sotto il sole.
Le vedi queste vite gettate lì tra pasticche e super alcolici. Tra panni stesi, ancora sporchi, e finestre e persiane rotte dove ci batte quel sole sbiadito tipico di chi non alza più nemmeno le tapparelle.
Le senti le parole di quelli che si lamentano. Di quelli che si contorcono. Di quelli che la vita li ha traditi e hanno perso tutta la loro fiducia.
E qui Michelle è morta. Michelle è morta per mano di un cingalese che prima l’ha accoltellata e poi ha tentando di sbarazzarsi del corpo chiudendolo dentro a un sacco dei rifiuti e lasciandolo su un carrello della spesa.
Quando l’hanno beccato aveva ancora le scarpe piene di sangue, quanto l’hanno visto ancora il carrello grondava. Sanguinava. Come i pifferai ha tracciato la strada col sangue della vittima. Le ha sferrato coltellate al collo, all’addome, al busto. Forse un rifiuto. Forse 30 sporchi euro di debito. Qualcuno ipotizza che dietro a questo omicidio ci sia l’ombra delle baby gang. Nel profilo di lui, lui fuma spinelli. Pubblica video mentre fuma hashish. Postava droga e pistole. Del resto questo è il nostro divenire. Il nostro essere ora. Ragazzi in preda a deliri costanti. In preda a spasmi quotidiani. A picchi di insoddisfazione. Di nervosismi. Di nevrosi. Picchi adolescenziali che si macchiano dei più tremendi atroci delitti. In un mondo dove tutto è permesso ormai. Tutto è garantito, in un mondo dove la nostra società si basa su condivisioni like modelli da seguire. In un mondo dove se accoltellai la professoressa è vieni bocciato i tuoi genitori presentano ricorso: “perché l’avete bocciato mio figlio? Perché? Suvvia che ha fatto mio figlio? In fondo ha solo accoltellato la professoressa”.
In un mondo dove se spari in faccia alla prof pallini ad aria compressa ti promuovono quasi col 10 e passa il messaggio che per prenderlo quel dieci avresti dovuto prendere la mira. Questo è il mondo. Quando ho seguito la storia delle baby gang sapete cosa mi hanno i ragazzi? Che i prof tacciono perché hanno paura.
Viviamo nella paura costante di avere paura. E questo produce solo violenza. Su uno di quei palazzi a Primavalle, sul muro c’è una scritta: “Racconteremo di te, del guerriero che eri”. Non so a chi sia riferito. Mi piace pensare che sia per tutti quelli che non ce l’hanno fatta.

sbetti

Il mio 8 in condotta

Era il 2002. L’anno della quarta liceo. L’anno dei 18 anni. Quando diventi maggiorenne e inizi a chiederti cosa voglia dire. Quel giorno stavo facendo una lezione di danza – per prendermi qualcosina insegnavo danza ai più piccoli – quando mi arrivò un messaggio sul cellulare. “Serenella hai 8 in condotta”. All’epoca non c’erano i telefonini quelli belli di adesso. Quelli dove qualcuno ti poteva mandare la foto. E se trovi qualche idiota di foto te ne manda 35 in serie. All’epoca c’erano delle casse che parevano computer di bordo. Non c’erano le app, i registri elettronici dove ci mettono il becco i genitori, e gli studenti sanno tutto in tempo reale, anche se il giorno dopo il prof di italiano abbia il cagotto o meno.
All’epoca c’erano i voti che uscivano in bacheca che li metteva la bidella aprendo con la chiavetta quella vetrina, che durante l’anno si riempiva di circolari, corsi di lingue e annunci teatrali. Ricordo che finii la mia lezione di danza e che finita, ormai erano le sette di sera, presi di corsa lo scooter e andai subito al liceo. Volevo vedere con i miei occhi quell’8 in condotta che mi avevano comunicato. Non può essere dicevo. Alla fine mi sono sempre fatta il mazzo tanto. Prima, infatti, ai licei si studiava con un altro ritmo. Non come adesso che se dai una versione in più per casa ti condannano per violenza privata.
Il liceo stava a 35 chilometri di distanza da dove abitavo; quando scelsi la scuola, scelsi quella il più possibile distante da casa perché volevo cavarmela da sola. Durante tutto il tragitto, tirai lo scooter oltre il limite del consentito ma comunque consentito dal codice della strada, per arrivare in tempo. La scuola era aperta fino alle otto di sera e non potevo andare a letto se prima non avevo visto. Chiamai anche il mio ragazzo dell’epoca e gli dissi che per motivi x che a lui non riguardavano quella sera non ci saremmo potuti vedere. Lui ci rimase male ma sono cose che capitano a tutti, prima o poi passano anche le delusioni amorose.
Arrivai davanti la porta del liceo, erano le 19.57. Lo ricordo ancora. La bidella che non so se fosse quella che aveva affisso i voti con la chiavetta nella bacheca dove durante l’anno ci finivano i corsi di lingue, stava chiudendo il portone. Lasciai lo scooter in mezzo alla strada. Tolsi con fretta il casco, e mi precipitai sopra le scale, trovai la porta a vetri chiusa e la bidella che dal vetro mi faceva cenno: “mi dispiace figlia mia, ho già chiuso”. Le feci il gesto di aprirmi per favore, “la prego mi apra, ho fatto 35 chilometri in scooter, non mi lasci andare via senza prima aver visto i voti, per favore, la scongiuro”. Mi scese una lacrima. E lei, forse madre, forse zia, forse nonna, si lasciò intenerire e mi aprì. Sembrava la governante di qualche collegio austriaco. “Non un minuto di più mi disse”. Mi precipitai davanti la bacheca. Cercai la classe. 4. Ap. Ap. Ap dicevo, dov’è la 4Ap. La trovai. Scorsi in fretta i nomi. Ero la terza, quarta non ricordo esattamente. Seguii con il dito la riga dei voti. E tac eccolo. L’8 in condotta con la media dell’8.47. In diritto avevo 9. Anche in latino. Rimasi di sasso mezzo secondo. La bidella mi richiamò all’ordine. Mi disse: “devo chiudere!”. E me ne andai. Non versai una lacrima. Tornai a casa e lo dissi ai miei genitori. I miei mi dissero: “Rifletti sul perché te l’hanno dato e qualche volta morditi la lingua”. Era proprio così.
Ora i tempi – paradossale perché non ho 80 anni – sono cambiati, ma mi chiedo cosa avrebbero dovuto fare quei ragazzi che hanno sparato pallini in faccia alla prof per avere un 8 in condotta o meglio la bocciatura?

sbetti

Baby gang. “Noi vestiti di nero così non si vede il sangue”

“Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo”. Sono “ragazzini”, hanno tutti dai tredici ai sedici anni. A volte anche otto. Li incontro un sabato notte accanto alla stazione di Padova. Sono in quattro, tutti vestiti uguali, zaini in spalla, guanti neri, i cappucci delle felpe che avvolgono le teste. Il capetto, quello più basso e tarchiato, ma assai sveglio, mi viene incontro senza indugio. Abbiamo invaso il suo territorio. E si sente minacciato. “Fammi vedere i tuoi documenti, chi sei? Cosa vuoi sapere?”. “Chi siete? Cosa fate?”, chiede. “Noi facciamo parte della baby gang AK47, hai presente il fucile? Ecco quello. Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo. Il nostro divertimento è bere, fumare, picchiare”.

Mi addentro in mezzo a loro. Sono quasi tutti stranieri. “Ragazzini di seconda generazione”, come li chiamano i progressisti.

Qui a Padova in zona stazione c’è un vero e proprio formicaio. Ma anche in Prato della Valle o in pieno centro. Sono divisi in gruppi a seconda delle nazionalità. Ci sono albanesi, marocchini, tunisini, romeni. I capetti li riconosci subito. Sguardo duro. Schiena dritta. Spalle fiere. Hanno intorno una nuvola di adepti che li segue. Se non fai come il gruppo sei tagliato fuori. Se li guardi più di mezzo secondo comincia la sfida e c’è da aver paura. In Prato della Valle, un gruppo ci spiega che “ci sono i Maranza, a Milano vengono chiamati Zanza. Bisogna essere tutti vestiti uguali e soprattutto di nero perché bisogna picchiare la gente e se picchi qualcuno non si vede il sangue”. Ci sono maschi, femmine. Quando si menano è proprio la vista del rosso vivo che li eccita. Il pugno preso in faccia. Il calcio. Il fatto che se rispondi, “l’altro ti rispetta”. “Ti senti invincibile – mi dice un bullo pentito – ti sale l’adrenalina nelle gambe ed è bellissimo”. “Una volta hanno fatto Verona contro Padova”, mi dice un ragazzino. Avrà all’incirca 12 anni. Accanto una ragazzina con addosso un piumino e sotto seminuda dice che “qui è normale e ogni weekend scoppia la rissa”.

A Mestre nel veneziano, la situazione non è diversa. I teppisti si annidano attorno al centro commerciale. Molti urlano, danno fastidio alle persone, sputano. Una banda turca, in pieno centro, mi mostra la maglia rossa con scritto “Turkey”. Hanno dai 13 ai 17 anni. “Urliamo per fare casino. Se uno inizia a fissarci io vado lì e lo colpisco. Per entrare nel nostro gruppo devi essere turco e nato in Turchia, siamo sempre i migliori e puntiamo i più grandi. Siamo dei criminali”. “Loro – mi dice un altro indicando due giovani – sono stati presi e schedati dalla polizia. Hanno menato un ragazzo perché ha insultato la loro patria e la loro madre”. Un ragazzo mi passa accanto con la bottiglia di vino in mano. “Noi siamo baby gang. Siamo tutti moldavi. Questa sera beviamo perché domani abbiamo un incontro. Siamo 30 contro 5. Da noi si usa così”.

Infatti. I vandali delle bande giovanili stanno tenendo sotto scacco intere città. Milano, Torino, Udine, Bologna, Roma. Bevono, si menano e hanno armi. Si organizzano nei social, Tik Tok, Instagram, si danno appuntamento in un luogo all’ora x e comincia la rissa. Albanesi contro marocchini. Tunisini contro romeni. Turchi contro moldavi. Neri contro bianchi. Bianchi contro neri. A Padova è anche accaduto che prendessero a bottigliate dei clienti seduti ai tavolini di un bar. Altre volte prendono di mira qualche coetaneo e non c’è verso di fermarli. Un ragazzino di 14 anni che intervisto nel Polesine, quest’estate è stato pestato a sangue. “Mi hanno fermato per chiedermi se avessi sigarette e soldi – racconta – mi hanno rubato 15 euro. Erano in quattro, poi c’erano altri sei, sette ragazzi. Alcuni avevano la mia età. Altri due più piccoli. Il ragazzo più piccolo mi diceva: “se mi incolpi un’altra volta io ti ammazzo”. Mi hanno picchiato, ho perso sangue e sono finito in ospedale. Avevo una lesione alla mandibola sinistra. Non è la prima denuncia che prendono, più di una volta hanno picchiato qualcuno”.

Un investigatore privato che raggiungo Giuseppe Tiralongo, a Roma ha “sventato” un omicidio. Ingaggiato dai genitori del ragazzino, italiano, ha scoperto che costui stava pianificando l’uccisione di un uomo con alcuni amici. Avevano già la pistola. “Qui non si parla più di baby gang – dice – sono vere e proprie bande di criminali. Ragazzini annoiati, anche della Roma bene”. Una nota del ministero dell’Interno del 7 ottobre scorso parla di baby gang come “una realtà in aumento in Italia”. Transcrime, il centro di ricerca tra la Cattolica, Alma Mater e l’Università di Perugia, il mese scorso ha pubblicato uno studio sulle Gang giovanili nel nostro Paese. “Nella maggior parte dei casi i membri sono italiani”, quelle “composte in prevalenza da stranieri di prima o seconda generazione sono più frequenti nel Nord del paese rispetto alla media nazionale. Mentre situazioni socioeconomiche di marginalità e disagio sono evidenziate in prevalenza nelle regioni del Sud”. Il report del Servizio analisi criminale della Polizia criminale sui minori, a febbraio scorso, parlava di 25 mila minori denunciati o arrestati nel 2021, con un +10%. In aumento del 20% i reati di lesioni personali, danneggiamento, minacce, omicidio doloso, rapina, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. In crescita anche i traffici di stupefacenti e la percentuale degli stranieri all’interno di queste bande: dal 44 al 46 %. Ragazzi violenti, gruppi criminali, iniziano ad armarsi sul web e poi spaventano le piazze.

Serenella Bettin

La Verità – sabato 26 novembre 2023

Durante il servizio girato per Mediaset con il cameraman Carlo Brotto siamo stati colpiti da dei sassi lanciati dai ragazzi

Il nostro servizio qui 👇 clicca il link.

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/vita-da-baby-gang_F311547501046C05

E questa la mia intervista a un bullo pentito.

Intervista inedita ad un ragazzo che racconta la sua esperienza passata all’interno di una baby gang 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/confessioni-di-un-ex-baby-violento_F311547501046C08

Immagini inedite