L’abbandono di un figlio è il frutto del nostro retaggio culturale

Stamattina vicino al cimitero del Tempietto di Ormelle in provincia di Treviso hanno trovato un feto morto. Macabro, un feto morto vicino al cimitero di un tempio. Il parroco l’ha battezzato Giovanni, dal nome della chiesa. L’anno scorso a Santa Maria di Sala, una neonata veniva abbandonata davanti la canonica. Quella neonata adesso è viva. Si chiama Martina e sta bene. Questo non è un mestiere che ammette commozione, ma Giovanni forse poteva salvarsi se provassimo a toglierci questo retaggio culturale che chi non può tenere un figlio è un genitore snaturato. Senza cuore. Abbandonarlo per vergogna anziché chiedere aiuto non è frutto della cattiveria. È frutto della nostra società malata che non ammette che le cose possono andare in un’altra maniera rispetto a quello che fin da piccoli vi hanno insegnato. Perché le cose sono cambiate e le famiglie della Mulino Bianco esistono solo in televisione. Prima ve ne discostate meglio è per voi e per tutti.

E questo link è ciò che scrivevo a fine anno su Martina.

Buona giornata, per quanto buona possa essere.

Sorgente: Un batuffolo abbandonato davanti la casa di un parroco

Il caso di Doina Matei, fin dove si spinge la semi libertà 

Allora Salvo Riina no, e la Matei sì. É il 27 aprile del 2007. Tra undici giorni saranno nove anni fa. Soltanto nove. Vanessa #Russo, 23 anni romana, sta camminando nel tunnel della stazione metro …

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Quei ragazzini senza ribellione

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Scendo a comprare le sigarette e trovo un gruppetto di ragazzini appollaiato sulle panchine dei “cari bei vecchi tempi”. Quelli di quando eri liceale e a parte i commenti in nota alle versioni di Seneca te ne fottevi dei commenti di tutti. Io mi ricordo quei sabati pomeriggio passati su quelle panchine. Si stava sopra le selle dei motorini a cercare di catturare lo sguardo del ragazzo che ti piaceva. Poi scoprivi che era uno stronzo e così diventavi più stronza di lui. Questo ha prodotto con l’andare degli anni un moltiplicarsi di stronzi e stronze.

 

Ma ai miei tempi si avevano sogni, progetti. Negli occhi c’era la vita e l’arroganza di chi non si piegava. C’erano i desideri. C’era la consapevolezza che gli anni più belli, quelli dei trenta per intenderci, dovevano ancora arrivare. Era come una sorta di preparazione a quel “il meglio deve ancora venire”. Mi ricordo di quei sabati dove si fumava il più possibile perché poi quando tornavi a casa non potevi farlo. Si fumava qualche sigaretta. Qualche altra. E con il fumo che ti inaspriva gli occhi si parlava del mondo che non andava. Un po’ come adesso quando con gli amici passi le notti a parlare del mondo che non va. Solo che a 13 anni lo facevi di pomeriggio. A 30 lo fai di notte perché nemmeno di sera hai tempo.


Ai miei tempi si parlava delle grandi rivoluzioni, degli scioperi, delle scappatelle fuori porta. Si parlava di come fare per non soggiogare al potere, convinti che solo la ribellione ci potesse salvare. 
Adesso i ragazzini stanno sui motorini. A volte sono stronzi, a volte tappetini. Le ragazze sono diventate stronze solo con quelle del loro stesso sesso e il gusto delle conquista non c’è più. Tutto controllabile. Tutto in tempo reale. Tutto scandito tra una spunta blu di whatsapp e un ultimo accesso. Non come quando c’era il gusto dell’attesa. Dove quando mandavi un messaggio e rimanevi col dubbio se a quella persona fosse arrivato o no. Dove aspettavi che il telefono si illuminasse. E quel dubbio diventava un tarlo. Un tarlo fecondo. Perché il dubbio tiene vivi, attenti, vispi, concreti. Non ammette distrazioni. Ora invece la troppa sicurezza ha fatto rincoglionire. Tutta abitudine. Tutto troppo facile, tutto veloce. Anche il fumare è diventato un gesto abitudinario. A 16 anni i ragazzini fumano già per vizio e non per assaporarne il gusto di farlo, in ogni singolo tiro, in ogni singola sigaretta. Perché questo è fumare. Sentirne il gusto anche dopo quindici anni. Un po’ come fare l’Amore.

Adesso non si parla più di grandi rivoluzioni, di grandi sogni, di progetti, di scappatelle e di fughe sui motorini quando il giorno sta per cominciare.
Adesso non si parla proprio. Si guarda il telefonino, piegati con la testa bassa, senza rendersi conto che il mondo attorno gira, ma non va. Quella stessa testa bassa che non prolifera ribellione e non genera rivoluzione.

 

#sbetti

 

Chi di voi è la forchetta?

Gender? Fin da piccoli ci hanno insegnato che tutto ha un ruolo. Le forchette, i coltelli; solo i cucchiai forse sono neutri. Le forchette sarebbero femminili, i coltelli maschili. Le forchette inf…

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Il caso di Doina Matei, fin dove si spinge la semi libertà 

Allora Salvo Riina no, e la Matei sì.

É il 27 aprile del 2007. Tra undici giorni saranno nove anni fa. Soltanto nove. Vanessa #Russo, 23 anni romana, sta camminando nel tunnel della stazione metro di #Roma Termini, quando incrocia Doina #Matei, romena che di anni all’ epoca ne aveva 18. Una banale spinta che la Matei non gradisce, afferra l’ombrello e colpisce la ventitreenne. Il colpo le piomba dritto sull’ occhio, infilzandolo, squarciandolo. Conclusione Doina Matei scappa, sarà ripescata e arrestata dopo qualche giorno incastrata dalle telecamere di videosorveglianza e la Russo invece muore. L’ingresso violento dell’ombrello nell’ occhio le perfora una cavità orbitaria, causandole la rottura di un’arteria cerebrale.

La Matei viene quindi condannata a 16 anni di carcere per omicidio preterintenzionale, oltre l’intenzione. Non voluto in sostanza. Con l’aggravante però dei futili motivi. Sedici anni che secondo i calcoli dovrebbero scadere nel 2023. Nove mesi fa però ottiene la semilibertà, assistita dall’ avvocato Nino Marazzita. Un anno fa infatti viene trasferita a Venezia, dove lavora in un ristorante e la sera rientra per dormire in carcere.

In questi giorni, grazie al pentimento, che arriva puntuale quando annusi che potrebbero accorciarti la pena, stava scontando un permesso speciale per buona condotta che le consentiva di dormire fuori.

Una semilibertà ora revocata. Doina ha pubblicato, in #Facebook, delle foto in bikini al Lido di #Venezia e il giudice lagunare Vincenzo Semeraro ha sospeso l’applicazione dell’articolo 21 del regolamento penitenziario – che consente, scontata metà della pena, la possibilità di lavoro esterno diurno – Ergo: la Matei torna in carcere alla #Giudecca.

Subito c’è chi si è scagliato contro il giudice per aver “punito” un comportamento “normale”, per aver punito la stessa possibilità di sorridere. E se è vero che non c’è un divieto che imponeva a Doina di non postare foto nei social, è vero però che esiste una questione di umanità, di rispetto, di libertà che finisce dove non violo la tua; perché se sei in un regime di semi libertà dovresti comprendere che non tutto ti è concesso. E postare foto nei social rientra in quel “non tutto”. Se c’è una cosa che balza agli occhi dopo qualche incidente è il coraggio che hanno le forze dell’ordine nel suonare il campanello ai familiari o nel chiamare a casa per dire loro che il figlio non c’è più. Un po’ come è accaduto quella sera e il giorno dopo quando Vanessa è morta. Adesso, andate a spiegare ai genitori della ragazza ammazzata che la donna che l’ha uccisa posta le foto in bikini sui #social network, dopo nove anni, in regime di semilibertà. Andate a dire che Doina è felice e Vanessa è sottoterra.

La libertà che si riacquista, giustamente, dopo aver commesso un crimine non andrebbe tanto sbandierata, andrebbe goduta a piccole dosi perché se ne hai compreso il valore sai quanto male hai fatto e quanto male fa quando ti viene tolta. Come tu l’hai tolta a una ragazza che ora non può più vivere la sua vita e l’hai tolta ai genitori che non l’hanno potuta mai riabbracciare. Il farti vedere sorridente in bikini non può essere mostrato al mondo intero perché a qualcuno può far male. “Può essere una pugnalata al cuore – come hanno detto i genitori di Vanessa a Il Messaggero. La tua gioia condivisa non può essere condivisa da tutti, né può diventare oggetto di un inseguito e tallonato like. Ci vuole rispetto e dopo pochi anni la ferita è ancora aperta. Soprattutto per quella madre e per quel padre che hanno perso la figlia da un giorno all’altro. Nemmeno dieci anni fa. Che una ragazza possa rifarsi una vita ci sta, che le si dia la possibilità di andare avanti anche, che la si reinserisca per integrarla e farle fare qualche attività anche, che le si permetta di studiare ben venga ma che le si dia la libertà di sfoggiare la sua agognata libertà bé forse questo è un po’ troppo. Si crea quel meccanismo malsano in cui tutti possono tutto e nessuno può dire niente. E adesso per la prima volta che abbiamo un giudice che interviene revocando la misura della libertà vigilata tutti cercano di capire in base a cosa possa averlo fatto. L’ha fatto in base alla sua discrezionalità perché un crimine così crudele non può chiudersi con l’immagine di lei che sfoggia il segno di vittoria davanti a tutta Italia. Quell’Italia che la sera stessa dell’intervista del figlio di Riina a Porta a Porta si è mostrata indignata esponendo addirittura cartelli fuori dalla librerie con scritto “Qui il libro non si compra né si vende”.

Allora per una persona colpevole di associazione a delinquere, nata in una famiglia di mafiosi che non ha avuto il coraggio di ribellarsi a quello schifo e a quei meccanismi malsani, ci si indigna, si alza la voce, si protesta, si fanno campagne addirittura contro la #Rai e contro i programmi. Poi per una ragazza venuta in Italia che ha impugnato un ombrello per una banale lite, con tutti i trascorsi che può aver avuto, e l’ha usato come arma si mostra tutta la pietà che si ha. Forse perché postare le foto sorridenti su Facebook è un comportamento che ci tocca da vicino. Forse perché pensiamo che un giorno potrebbe essere tolta a noi la libertà di postare aperitivi spiagge e mari nella nostra foto profilo. Ma anche se uno era il figlio di un boss che ha trucidato e ammazzato centinaia di persone e una è una donna che ne ha ammazzata una, non è che sia da meno. La morte di uno non vale meno di cento.

#Sbetti