“Di mio padre nemmeno un ricordo”

Ho conosciuto Egea Haffner una sera di febbraio 2020. Fu il mio ultimo servizio con Fausto Biloslavo prima del covid.
Il mio ultimo servizio prima di questo spartiacque che segna le nostre vite.
Egea Haffner è la bimba con la valigia. La profuga istriana. L’esule giuliana numero 30001.
Ci siamo conosciute dentro un cinema.
All’inizio non l’avevo vista.
Avevo sempre sentito parlare di questa bambina con la valigia. Il simbolo dell’esodo istriano.
E me la immaginavo come la avevo vista sulle foto.
Poi d’un tratto la vidi subito.
Stesso mento. Stessa bocca arricciata e crucciata. Stesso taglio di capelli. Stessi lineamenti del volto. Squadrati. Dolci, triangolari.
Cambiava solo l’espressione. Più dolce. Più pacata. Più matura. Ma gli stessi occhi.
Più calmi. Più consci. Egea non aveva più l’aria di quella bambina costretta a lasciare la propria terra senza capire perché. Egea il perché l’ha capito.
Così con timore, quasi come a camminare sopra quel dolore, mi sono avvicinata, le ho chiesto se potevamo parlare, lei mi ha sorriso e ha pronunciato un “sì certo”, che le illuminava il volto.
Aveva tre e anni e mezzo quando le portarono via il padre. Una sera i partigiani di Tito suonarono alla porta. La madre andò ad aprire. Le dissero che era un normale controllo. Che doveva andare con loro al comando. Era maggio. Ma era fresco. Il padre si mise una giacca. Indossò una sciarpa. Un saluto alla moglie. Alla figlia. E lo portarono via.
Da lì più niente. Del padre nemmeno un ricordo.
Mentre mi parlava, per tutta la durata della nostra conversazione, Egea tra le mani teneva in mano la catenina del padre. Avevo i brividi a sentirla parlare. Me la ricordo con la voce così dolcemente acuta e penetrante che non lasciava spazio all’immaginazione. Ricordo quegli occhietti vispi attenti piccoli piccoli che già solo a guardarli dicevano tutto.
Quando le chiesi: “Ma di suo padre non ricorda proprio nulla?”.
Mi disse sì.
Quella sciarpa che il padre mise quella sera, prima di sparire per sempre, la madre di Egea la vide addosso a uno dei partigiani di Tito il giorno dopo.
Per anni, io stessa quando chiedevo ai miei professori a scuola: “Parlateci di foibe”, le foibe veniva relegate a fine anno in una lezione di dieci minuti con due righe nel libro.
Quando rinnegate la storia pensateci due volte.

Il servizio con Fausto Biloslavo 👉 https://www.ilgiornale.it/news/cronache/bambina-valigia-simbolo-dellesodo-istriano-1823311.html

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Con Egea Haffner, febbraio 2020

Giampaolo Manca: 37 anni di galera. Ora in un film 🎥

“Giampaolo Manca?”. “Sì?”.
“Sono Serenella Bettin”. Comincia così, con una semplice telefonata.
Giampaolo Manca è un ex esponente di spicco della Mala del Brenta.
Il suo nome lo leggevo nelle sentenze quando facevo la studentessa di Legge. Mai avrei pensato di poterlo incontrare.
Manca ha 67 anni. Di cui 37 li ha fatti in galera. Entrato per la prima volta in un carcere minorile per aver rubato in una famiglia nobile, da quel momento la sua vita è un andirivieni tra le carceri di massima sicurezza. Niente sconti. Non ha collaborato.
Il suo nome lo fece Felice Maniero. Faccia d’Angelo. Un giorno Giampaolo Manca mi scrive su Facebook. Mi manda un messaggio su Messenger. Riversando la sua simpatia per una cosa che avevo scritto contro Fedez.
Da lì comincia a scrivermi, ma gli dico che se avesse voluto parlarmi di qualcosa intanto avrebbe potuto mandarmi una mail. Gli do l’indirizzo. E lui mi scrive. Alla fine del messaggio mi manda il suo numero.
Faccio passare qualche giorno e lo chiamo. “Giampaolo Manca?”. “Sì chi parla?”, “Sono Serenella Bettin”.
Cominciamo a parlare. Del più e del meno. Poi il discorso scende nel suo passato. Nel suo trascorso. Gli dico che non faccio servizi al telefono. E che se avessimo voluto avremmo potuto incontrarci.
Mi dice che sta girando un film. Gli dico dove come quando cosa e perché.
L’appuntamento è per il 14 ottobre in un albergo di Venezia. Lì ci sono le riprese.
Penso molto se andare all’incontro. Io un’intervista la soffro. Studio. Mi documento. Rifletto. Mi lascio scavare dentro. Cerco di scavare, non gli risparmio niente. Prima dell’incontro di persona lo sento varie volte per telefono. Sono chiacchierata lunghe. Giampaolo mi dice che all’inizio era un gioco e che poi era diventato un lavoro. Faceva un sacco di soldi. Si rendeva conto. Ma… La moglie l’ha aspettato per 37 anni.
Poi mi dice anche che è diventato nonno. “Dio mi ha perdonato con questo dono. Ma sono io che non perdono me stesso”.
Quando arrivo e faccio la scalinata che mi conduce di sopra nella sala dell’hotel, Giampaolo Manca sta girando una scena. Una scena dolorosa. La Mala del Brenta è quella organizzazione criminale che negli anni 70 e 90 ha terrorizzato tutto il Nordest. Crimini, furti, rapine, omicidi, traffico di sostanze stupefacenti.
Capisco che il momento è doloroso. Aspetto fuori. Guardo. Scruto. Osservo. Mi viene incontro il figlio.
Quando apro la porta, Giampaolo Manca è in lacrime.
Da qui comincia il mio racconto sul #Giornale

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👉 https://www.ilgiornale.it/news/politica/boss-brenta-debutto-attore-rinasco-film-1982590.html

In coma a 30 anni. Il comitato etico: “staccate la spina”

L’altro giorno ho fatto una lunga chiacchierata con il papà di Samantha D’Inca, la 30 enne di Feltre (Belluno), in coma da 309 giorni. Erano 308 ieri come scrivo nel pezzo sul #Giornale. Il padre li sta contando tutti.
All’inizio la conversazione era fredda. Poi un po’ alla volta, passetto dopo passetto, il padre si è lasciato andare e ha provato a raccontarmi la situazione e la sofferenza che quel limbo di ansia e angoscia genera. Samantha a novembre dell’anno scorso era finita in ospedale per una semplice operazione al femore dopo un’incidente.
“Dovevano metterle due viti”, mi ha detto il padre. Ma per una banale complicazione, il suo cervello è rimasto senza ossigeno per qualche secondo e Samantha è entrata in coma. In “stato vegetativo permanente”.
Da quel giorno per i familiari di Samantha e soprattutto per il fratello gemello è iniziato lo strazio, il calvario. Il fratello gemello soffre particolarmente. Quando oltre a essere fratello dello stesso sangue. Sei figlio dello stesso sacco. Dello stesso parto. Dello stesso travaglio.
La vita che si squarcia, il legame che si spezza, che si recide, che sanguina, che crea dolore, che mai si rimargina. Con Samantha lì così incollata alla vita e cucita alla morte.
Dopo quel momento i familiari le cure le hanno provate tutte. Si sono anche rivolti al medico Leopold Saltuari, il medico nominato dal tribunale di Belluno, che ha seguito anche il caso Schumacher. Le perizie mediche indicano che Samantha ha le capacità di un bambino di un mese. Forse potrebbe arrivare a due.
E ora è perfino tornata in posizione fetale. Come se stesse dentro la pancia della madre. Il medico aveva suggerito di installare una piccola pompa nel midollo spinale ma il padre mi ha spiegato che “non si può. Samantha è troppo magra, peserà sì e no 37 chili”.
I genitori hanno chiesto l’interruzione delle cure. Perché Samantha, dice il padre, non avrebbe mai voluto vivere in questo stato di “non vita”.
L’altro giorno è arrivato il parere del comitato etico dell’azienda sanitaria di Belluno che dice che “si può staccare la spina”, che per come stanno le cose, “inutile proseguire con l’accanimento terapeutico”.
Questa posizione arriva sulla scia della richiesta di un referendum – le firme sono state depositate ieri, 1 milione e 220 mila firme – con cui si chiede l’abrogazione parziale dell’omicidio del consenziente sdoganando di fatto l’eutanasia del consenziente stesso.
Ma la domanda è sempre quella. Dove finisce la vita? Dove inizia la morte?
Anche il covid, a modo suo, ci ha insegnato che nel bene o nel male la scienza è imperfetta.

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“Hanno sempre fatto così. Anche con Berlusconi. Indagini per colpire avversari politici”. Carlo Nordio

Quando facevo Giurisprudenza, Carlo Nordio lo sentivo nominare nei corridoi o durante le lezioni. Diritto Penale.
Professor Alessandro Alberto Calvi. Aula Ederle. Palazzo del Bo. Primo semestre. Ore 14.15.
Le sue lezioni erano insegnamenti della più grande arte oratoria. Saper parlare. Saper scrivere. Saper comunicare. La lentezza. I verbi. Le parole. Soprattutto l’educazione. Due ore di balsamo che incantava tutti.
Poi quando iniziai a fare la pratica legale, un giorno finii da un penalista che mi mandò in tribunale a Venezia. “Vada in procura!”, mi urlò dalla porta del suo studio dove teneva la pistola. Quella mattina presi il treno e mi fiondai.
Passai davanti lo studio di Carlo Nordio, con la porta blu. Procuratore Carlo Nordio c’era scritto.
Ci ripassai dopo qualche anno.
Ero alle prime armi. Avevo appena iniziato a fare la giornalista e dovevo chiedergli una cosa sul Mose.
Mi accolse nel suo studio con eleganza ed educazione. Poi lo reincontrai altre volte. Gli ho fatto qualche intervista.
Ieri quando l’ho visto, ci siamo messi a parlare. E ne è uscita questa intervista.
A Carlo Nordio ho chiesto se le accuse mosse a Luca Morisi siano gravi, se a noi possa veramente interessare cosa fa un addetto alla comunicazione di un leader di un partito, se addirittura il leader del partito stesso sia tenuto a risponderne, a sapere; se dopo gli scandali che hanno visto coinvolta la magistratura (Palamara docet) non ci sia stato un qualche tentativo di pilotare le elezioni, e se non è così strano a pochi giorni dal voto.
Mi ha risposto che “hanno sempre fatto così. Anche con Berlusconi. A pochi giorni dal voto, usano l’indagine per eliminare l’avversario politico”.
Sul #Giornale

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Il medico italiano che restituisce gli occhi alle donne sfregiate con l’acido

Un caso capitato per caso. Oggi su Il Giornale c’è un mio pezzo che parla di tutte quelle donne vittime della sharia. E proprio oggi, quarant’anni fa, il 5 settembre 1941, dal codice penale sparirono il matrimonio riparatore e il delitto d’onore. (Non da mettere sullo stesso piano ovviamente).
L’Italia deve questa battaglia vinta a Franca Viola (ultima foto) che oggi di anni ne ha 73. E che venne rapita sequestrata e violentata dal suo ex fidanzato Filippo Melodia a soli 17 anni. Lui fece irruzione nella sua casa di Alcamo insieme a 13 giovani armati che pestarono a sangue la madre e rapirono Franca e il suo fratellino Mariano.
Per mano del suo aguzzino lei ci rimase otto giorni. Otto.
Otto giorni in cui venne violentata, seviziata, martoriata, a digiuno, in stato di semi inconscienza. Dopo la liberazione Franca rifiutò di sposarsi e affrontò un processo dove dirà: “Io non sono proprietà di nessuno. Nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto. L’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”.
Parole che a quell’epoca in Italia! suonavano come eresie. Ci sono voluti altri 15 maledetti anni perché si cancellassero alcune norme dal nostro codice penale. Fino al 1996 (25 anni fa!) lo stupro era considerato reato contro la morale e non contro la persona.
Oggi mentre noi possiamo godere di queste battaglie vinte, in altri Paesi c’è chi, se solo osa opporsi a una conoscenza – non serve per forza il rifiuto a un matrimonio basta molto meno – con un uomo più grande del padre viene sfigurata a vita.
Sono donne pachistane afghane, vittime della Sharia. Sono donne che se si oppongono a un matrimonio vengono sfregiate e sfigurate con l’acido. Un segno che rimane lì fisso indelebile. Tangibile. Sfregiarle è meglio che ammazzarle, perché serve da esempio per le altre. Come a dire: “ecco cosa ti accade se dici di no”.
Questo medico, Giuseppe Losasso, di cui vi parlo oggi sul Giornale che ho conosciuto a Udine, mi ha raccontato che sono ragazzine colpite nel cuore della notte. Hanno dai 13 ai 18 anni. Ma anche adulte. L’acido usato è quello delle batterie delle auto. L’ustione provoca una retrazione cicatriziale della cute. Il busto si piega in avanti. Il collo diventa un tutt’uno col mento. Le vedi ricurve. Con le braccia contro giù. Hanno perso anche gli occhi. Per molte la vista non si può recuperare. Il corpo diventa un tormento. Qualcuna pensa anche al suicidio.
Lui da 17 anni le aiuta. Le opera. Trapianta le cornee. Cerca di restituire la luce dove intorno è buio e morte.
Quando lascio Losasso, dopo ore di conversazione, vedo che nel volto ha una riga di pianto.
In fondo nel suo studio ci sta un cuscino: “Realizza i tuoi sogni”. Mentre sto uscendo, penso a quelle donne che i sogni non possono realizzarli. E mi accorgo ancora una volta dell’importanza del nostro lavoro. Non serve a noi. Serve agli altri. A sollevare la polvere. A dare voce e occhi a chi non ne ha.

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👉 https://www.ilgiornale.it/news/politica/medico-italiano-che-rid-vista-e-sorriso-donne-deturpate-nel-1973107.html

Afghanistan: femministe tutte zitte!

Ma dove sono tutte quelle femministe che avevo conosciuto a quelle orribili manifestazioni organizzate dalla sinistra per i diritti dei gay, delle lesbiche, dei trans, eccetera eccetera?
Dove?
Dove sono quelle che si scandalizzano quando una donna difende la famiglia? Dove?
Dove siete? Dove sono quelle che scendono in piazza con le bandiere della pace per ribadire i diritti di gay lesbiche trans, prendendo per il culo i poliziotti? Dove siete tutte quante, che quando non serve, scendete in piazza a frotte oceaniche per ribadire che il corpo è vostro, che voi dell’utero fate quello che volete e che lo date pure in affitto? Come fosse un barattolo di latta in concessione. Dove sono quelle che gridano: “boicotta sta fregna”, col dito medio alzato e che tirano assorbenti in faccia alle forze dell’ordine? Dove?

Dove sono quelle che protestano per i diritti delle donne italiane in un Paese libero? Altro che Ddl Zan, in una situazione come questa, avreste dovuto imbracciare altoparlanti e striscioni e scendere in piazza inondando le strade di cori. Rimango allibita dalle conferenze stampa di guerriglieri sanguinari che dicono che i diritti delle donne saranno garantiti ma che verrà applicata la legge della Sharia che prevede, qualora non lo sappiate, che la donna sia in una condizione inferiore rispetto agli uomini. Mi chiedo se vi rendiate conto di quali corbellerie ascoltiamo. Conferenze stampa in mondovisione come se i talebani siano vittime degli occidentali, degli americani, come se fossero stati espropriati di un potere che è stato loro tolto e ora Dio mio se lo riprendono. La nuova promessa è che le donne dovranno indossare sì l’hijab ma non il burqa, capirai che concessione. Ancora. Ancora dentro tristi sacchi di nylon, vittime di leggi e consuetudini grette e rozze e tribali.

Le donne che tornano animali. Il portavoce dei talebani, tale Zabihullah Mujahid, ha detto che l’impegno dei talebani, mi viene già da ridere, sarà “per i diritti delle donne all’interno della Sharia. Lavoreranno fianco a fianco con noi. Non ci saranno discriminazioni”. Ma fatemi il piacere. Dovremmo sentirci rassicurati da questa roba? E Boldrini e company dove sono?Dove? Dove sono quelle di “non una di meno” che scendono in piazza travestite da oche giulive bestemmiando e augurando la morte a Matteo Salvini e a chiunque non la pensi come loro? Dove? Dove sono? Perfino Giorgia Meloni che si tuffa in giorno di Ferragosto sono stati in grado di criticare. La gente ignorante si perde su baggianate. Poi sulle cose che contano, importanti, fondamentali, urgenti, il risultato è il silenzio. La disfatta dell’Occidente, che la si vede tutta nelle immagini di Di Maio al mare che sceglie come sede per seguire la crisi internazionale la spiaggia di Porto Cesareo.

Questo è il tracollo dei valori dell’Occidente.

È il silenzio vile meschino gretto di quelle che si scandalizzano se un uomo va a letto con le segretarie, se fa il piacione. Quando le avevo seguite a Verona, a una di quelle orribili manifestazioni, c’erano donne travestite di fucsia, rosa, lilla. Uomini che al collo indossavano il foulard della pace. Donne con i volti dipinti di cuoricini che reclamavano i diritti gridando al mondo che l’utero è il loro e ci fanno quello che vogliono. “Obietta obietta, obietta su sta fregna”, gridavano le femministe in coro. Oppure “l’utero è mio”, seguito da una bestemmia in rima. E così con megafono alla mano, striscioni, bandiere, chi mezzo nudo, chi sopra i furgoni aveva preso e aveva marciato in coro. Avevano lanciato fumogeni. Assorbenti e bottigliette vuote. Avevano reclamato tutto il loro odio contro i fascisti, contro Salvini, contro il potere e avevano esaurito la loro triste comparsa con uno striscione: “Un orgasmo vi seppellirà”. Non ho visto queste orde pietose di femministe e tolleranti e predicatori di amore pace e integrazione scendere in piazza ora in sostegno di quelle donne afghane. Forse non lo sanno. Forse sono al mare come Di Maio. Forse a loro non gliene frega un tubo. Perché la verità è che molto più semplice battersi e criticare il sessismo, come lo definite voi, in Occidente, assumendo toni da circo, che non battersi veramente quando davanti alla violenza c’è la morte. A voi dei diritti delle donne non frega un fico secco. Vi interessa sollevare le polemiche qui, perché è più semplice, perché è più facile. Vi indignate con tristi dichiarazioni se ci sono i matrimoni combinati, se le bambine vengono date in spose, se non possono scoprire i piedi, gli occhi, se non possono guidare, andare al mare, e poi finisce lì. In un silenzio imbarazzante. Forse siete voi quelle che “un orgasmo vi seppellirà”.

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Pezzo uscito sul Giornale il 31 marzo 2019 – servizio Verona

👉 https://www.ilgiornale.it/news/politica/quelle-donne-marcia-sfila-lodio-anti-famiglie-1671633.html

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“Lei aspetta qualcuno?” Sì Pippo Franco

“Lei aspetta qualcuno?”. “Sì, Pippo Franco”.
Il presidente che mi sta davanti mi chiede se aspetto qualcuno. Gli rispondo che sto aspettando Pippo Franco. Non sapevo ci fosse Pippo Franco. Me lo sono ritrovata davanti per caso un pomeriggio di fine luglio quando arrivi in un posto e ti devi ambientare. Avevo fame. Avevo appena mangiato una confezione di tacchino 🦃 in auto, comperata di corsa al supermercato, perché la persona che viaggiava con me doveva prendersi il costume e aveva già pranzato.
Arrivai su questo albergo in Trentino Alto Adige tutta di corsa trafelata, quando trovai un posto dove sedermi per prendere una tazza di caffè. Fui subito accolta. Come in casa. Quando sono arrivata erano soltanto uomini. Mi sentii subito a mio agio. Io in genere mi sento a mio agio con tutti. Stringo subito gli agganci. Trasmetto subito empatia. Sono lì che sto per accendermi la sigaretta che me lo vedo comparire davanti. È lui. Pippo Franco.
Pippo Franco arriva stanco. Aveva affrontato un lungo viaggio. Chiede subito due brioche e un cappuccino o forse un caffè. Ora non ricordo esattamente. Finito di mangiare esclama: “ora possiamo ragionare. Ora sono venuto in qua”.
Non mi sembra vero di essere lì con Pippo Franco. Lo vedevo da piccola alla televisione. Quella di quando pensavo che gli omini stessero dentro la scatola interna, quella che vedevi sul retro. Ma la verità è che io con Pippo Franco i sabati sera ci sono cresciuta. Non passava sabato che non esistesse Pippo Franco. Franco Pippo. Il Bagaglino. Mi piaceva da morire. Mi piaceva da matti. Mi piaceva quel parlare di politica senza tanti tentennamenti. Quando la tv era più spenta ma pure più intensa.
La stessa sera incontro Pippo Franco a cena. Fuori una sigaretta (lui però non fuma) e lì in compagnia iniziamo a parlare. La chiacchierata dura ore. Andiamo avanti fino all’una di notte. Ne farò sempre tesoro.
Parliamo di psiche. Di mente. Di vita. Di arte. Di bellezza. Parliamo di spettacoli. Di luoghi. Di posti sconosciuti. Parliamo di come fare per vivere bene. Per stare bene. Per essere sereni. Parliamo di sesto senso. Del fidarsi. L’uno dell’altro. L’altro dell’ uno. Parliamo di talenti, ambizioni, inclinazioni. Parliamo di mestieri e di professioni. Pippo Franco riesce a tirarmi fuori cose che non sapevo nemmeno di avere. Fa propria una frase di e Einstein: : “La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un servo fedele. Abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono”.
Cavolo penso. Ha ragione. Me la faccio ripetere. Lo vedo che mi parla quasi come un padre. Gli occhi piccoli sempre sorridenti. Le mascelle che muovono quella bocca così minuta. “La tua vita – mi dice – è la più grande opera d’arte che sia mai stata scritta”. Poi mi racconta alcune cose di sè. E del suo modo di affrontare la vita.
Gli chiedo se posso fargli un’intervista. Ok. L’intervista è fissata per il giorno dopo. Tanto siamo sullo stesso albergo. Mi dà appuntamento per le undici. Il tempo di una notte. Il tempo per me di andare a casa. Raccogliere quello che avevo sentito. Studiare. Preparare le domande. Dormire. E incontrarlo. Arrivo in camera, mi getto sul letto, trascrivo tutto.
Il giorno dopo all’intervista ci arrivo con la maglia da jogging: “just do it”, ci sta scritto. Fallo.
Arrivo al luogo prestabilito alle undici in punto. Aspetto qualche minuto. L’immagine di me è quella di una giovane giornalista che aspetta con la mascherina. Che pensa alle domande. A chi in quel momento avrà di fronte, rispetto alla sera precedente. Che pensa a come ritirare fuori la stessa naturalezza della sera prima.
Mi sembra di rivivere i momenti del primo esame all’università. Lì, ferma. Su un corridoio ad aspettare il mio turno.
Poi il mio turno è arrivato.
E l’intervista l’avete letta oggi sul #Giornale.

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👉 https://www.ilgiornale.it/news/politica/io-odiato-patrigno-ho-capito-cos-vita-1968578.html

La rotta degli embrioni congelati

Era un giorno di inizio marzo quando un’amica mi mise una pulce nell’orecchio.

Da lì cominciai a interessarmi alla cosa. E iniziai a leggere e ad approfondire. Poi andando avanti, scrutando, cercando, chiedendo, fiutando mi sono accorta che qualcosa non andava. Una notte con un semplice tablet in mano mi sono messa a fare delle ricerche, seduta nel letto.

Ancora lo ricordo. La sola luce dello schermo che mi illuminava il volto. E la sigaretta che mi si sgualciva tra le dita. Ero qui a Roma e mi chiedevo come potessero esistere delle “agenzie quasi viaggio” che organizzassero voli per embrioni congelati. La vedevo una cosa atroce. Cominciai ad annotare. Tutto. Ogni singola cosa che mi passasse tra le mani. Cominciai a chiedere a più non posso. A scaricare dati. File. Documenti. A farmi arrivare preventivi per fingermi una madre che aveva bisogno di un embrione da Kiev a Roma.

Cominciai a diventare segugio. E alla “fine”, con un: “ce l’abbiamo fatta, lo spritz ce lo prendiamo assieme!”, con la redazione siamo riusciti a illustrare la situazione. O almeno ci abbiamo provato. Questa inchiesta è frutto di mesi di lavoro, di indagini, numeri, dati, curve delle leggi nelcaos a cui dare un equilibrio, studi e approfondimenti. È frutto di ragionamenti a voce alta, di telefonate infinite, di notti passate in bianco, di sogni e incubi.

E così sul #Giornale uscito ieri la mia inchiesta sugli embrioni congelati.Ah, gli embrioni dentro i congelatori alla fine li ho sognati veramente di notte.

#sbetti

Con il contributo di ✔️ Cesare Mirabelli, già presidente emerito Corte Costituzionale. ✔️Gian Luigi Gigli, neurologo, Università degli Studi di Udine✔️Assuntina Morresi, professore Università degli Studi di Perugia e componente Comitato Nazionale per la Bioetica. ✔️ Alfredo Mantovano, magistrato, vice presidente Centro Studi Rosario Livatino✔️ Alberto Berardi, professore di Teoria del Diritto Giurisprudenziale Università degli Studi di Padova

👉 https://www.ilgiornale.it/news/embrioni-delivery-1959832.html

👉 Intervista presidente emerito Corte Costituzionale 👉 https://www.ilgiornale.it/news/provette-avanzate-non-vanno-distrutte-1959833.html

👉 Intervista Gian Luigi Gigli 👉 https://www.ilgiornale.it/news/sono-vitro-rendiamole-adottabili-1959834.html

Sopravvissuto ai Gulag, 102 anni e non sentirli

Ho conosciuto quest’uomo un giorno di marzo di due anni fa. Quest’uomo si chiama Giuseppe Bassi, ha 102 anni e vive a Villanova di Camposampiero in provincia di Padova.
Andai a trovarlo un giorno perché avevo saputo che aveva una storia interessante da raccontare, lui, uno degli ultimi sopravvissuti ai gulag russi, uno di quelli che ancora ricorda gli episodi di cannibalismo.
Allora dicevo andai a trovarlo e quando suonai il campanello mi fece capolino alla finestra. Non avevo subito capito che era lui che dovevo intervistare. Mi venne incontro giovanile e baldanzoso e frizzante ed energico che sembrava un grillo con vent’anni di meno, tanto che io rimasi sull’uscio della porta con la faccia inebetita come a dire: “mi portate da Giuseppe?”.
“Giuseppe?”
“Lui è mio padre Giuseppe”, mi fece il figlio.
Ma ancora non ci credevo. Cominciai a credere che era veramente Giuseppe quando ci sedemmo su quel divano rosso fuoco, lui si mise gli occhiali da vista e mi disse: “sono pronto, eccoci qua”.
“Cioè è lei? È lei veramente? È veramente lei la persona che devo intervistare e che c’ha cent’anni e che ha vissuto nei gulag russi?”.
“Sì, sono io”.
“Ma lei quanti anni ha scusi?”.
Mi rispose pieno di orgoglio, giovanile e baldanzoso che zombava di qua e di là per tutta casa come un grillo. “Cento!”, mi disse con un sorriso smagliante che nemmeno quelli di oggi che c’hanno vent’anni.
Ricordo anche che durante tutta l’intervista non riuscivo a tenerlo fermo. A ogni mia domanda se ne andava zufolando e saltando e correndo di qua e di là per recuperare quella foto, quel cimelio, quell’orologio, l’unico da polso, riportato dalla Russia con tanto orgoglio.
A ogni mia domanda era una gamba che partiva, una saetta che svettava, un fiore che fioriva, un sole che si alzava, una nuvola che spariva, un grillo che saltava, una cicala che cantava, un filo d’erba che cresceva.
A ogni mia domanda era un saettare di qua e di là. Un raccontare continuo, infinito, scorrevole nel tempo, perdendosi dentro le pieghe, le piaghe e il dolore di quel ricordo.
Con orgoglio rimembrava di quando si salvò dai gulag grazie a un anello. Stavano per fucilarlo. O di quando mi raccontò che grazie ai suoi disegni sulle cartine di sigarette, alcuni ora conservati nel museo del campo di Suzdal, trovarono le fosse comuni. Quattro anni di prigionia lui fece, a pane acqua zuppa e Cassia, passando per i campi di Tambov, Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino. Fu prelevato il 24 dicembre 1942 e ne uscì il 7 luglio 1946.
O quando mi raccontò di come tornò a casa. O di come lo prelevarono.
Lo sa bene Bassi cosa gli hanno fatto i comunisti.
Ricordo che quel giorno a casa sua andò a recuperare tutto.
Conobbi anche sua nipote, Benedetta. Che è la figlia di Carlo e Silvia, che compie gli anni il giorno prima di suo nonno. Il 2 febbraio di anni ne ha fatti due. Nella stessa casa ci sono due persone che c’hanno cent’anni e un giorno di differenza.
Sono parti della stessa vita. La stessa linfa. La vita che si tramanda, il legamento che non si recide, la vita che scorre, si trasforma e mai muore.
Poi. Poi ci sono dovuta tornare a intervistarlo.
Una volta non bastava. Troppe cose. Troppo subito per entrare così dentro le vite.
E così ci sono tornata. Per farne dei pezzi.
Fino a che non è arrivato il lockdown. E un giorno di marzo ci siamo sentiti su Skype. Lui era lì col figlio. Gioioso, energico.
Gli feci un’intervista perché lui è Lettore del Giornale dal primo numero. Ancora lo conserva. Alla fine di tutto gli dissi: “ma per quello che ha patito lo Stato le ha dato qualche riconoscimento?”. Mi ha detto di no.
Stamattina, dopo l’uscita del pezzo, il figlio mi ha scritto che il padre era tutto orgoglioso e mi ha ringraziato.
No. L’ho interrotto. Sono io che ringrazio.
Sono io orgogliosa di averne scritto e di aver stretto la mano a un grande Uomo.

sbetti

Ph sul divano Niccolò Cambi

Link Giornale 👉 https://www.ilgiornale.it/news/sopravvissuto-ai-gulag-e-soldato-nel-cuore-sempre-col-1957438.html

Il cimitero dei morti dimenticati. L’impresa di un uomo

Lui è Vito Surdo, è di Salemi (Trapani) ed è l’ex primario di Ortopedia dell’ospedale di Mirano (Venezia). C’ho fatto un pezzo sul #Giornale.
L’ho conosciuto una mattina per caso.
Mi ero fermata al bar a fare la rassegna stampa quando ho sentito Vito che parlava con un uomo di un cimitero dei morti dimenticati. Di fosse comuni.
Mi ha subito incuriosito e quatta quatta ho ascoltato tutto il discorso.
Mi ero fatta prendere poi da quel suo accento che amo tipicamente del vento del sud che evoca enormi prati e mari sconfinati, brezza marina, mare calmo e in tempesta, sole, profumi, agrumi, intere distese dorate di oro sabbia e tramonto.
Mi ero fatta prendere.
E così quando il suo amico se n’è andato, quatta quatta mi sono avvicinata.
E gli ho detto: “senta scusi, io ho ascoltato tutto, sono una giornalista”.
Quello che viene dopo lo trovate nel pezzo.
Vi racconto di una fosse comune dei morti di colera. Degli scavi per riesumarli. Vi racconto di come venivano seppelliti questi morti. Di come venivano gettati. Di come venivano separati tra una gettata di cemento e una manciata di terra.
Ma soprattutto vi racconto dell’impresa di un uomo che è riuscito a portare alla luce questa storia, a recuperarla, a riconciliarsi col passato, col presente e il futuro.
Se ora quei morti sono ricordati è grazie a lui e a chi in lui ha creduto.
Perché come ha scritto il sindaco di Salemi Domenico Venuti nella prefazione del libro di Vito: “Il tempo non può e non deve cancellare la memoria”.
Vito è la prima citazione nel mio libro che uscirà tra poco.
Quando Vito ha inziato a richiedere i permessi per realizzare il suo progetto mai avrebbe immaginato che il suo libro uscisse proprio durante l’anno del covid…

#sbetti

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Così riportiamo alla luce gli aerei caduti e gli eroi morti

Dal servizio sul Giornale del 22 maggio 2020

Nasce tutto da una storia. Come sempre. Leo Venieri ha 76 anni ed è il presidente di Romagna Air Finders, un sodalizio nato nel 1998 che riporta alla luce aerei caduti e piloti morti. Fin da bambino la madre gli raccontava che proprio nei giorni in cui nasceva, il 16 marzo 1944, qui a San Bernardino di Lugo, in provincia Ravenna, c’era un grande bombardamento aereo.
La madre temeva che quei caccia finissero sopra la casa, e infatti, a poche centinaia di metri, il 22 marzo 1944, sei giorni dopo la nascita di Venieri, un aereo tedesco precipitò, imbottigliandosi completamente sotto terra. Quell’aereo interrato e quel pilota caduto divennero per Leo un pensiero fisso, un cordone ombelicale che lo riattaccava al proprio paese. Sentiva che doveva fare qualcosa ma non sapeva cosa…

sul #Giornale


👉👉👉 https://m.ilgiornale.it/news/spettacoli/si-chiama-romagna-air-finders-e-ritrova-eroi-dei-cieli-1864748.html

Dai tubi ai migranti è un attimo

Dai tubi ai migranti è un attimo.
La Nova Facility di Treviso è la società che gestisce l’hotspot di #Lampedusa. Una società che nel 2014 era in perdita e ora ha bilanci milionari. Oltre all’hotspot gestisce anche tre ex caserme dedite all’accoglienza. In pochi anni ha seminato centri sparsi per l’Italia. Con un valore della produzione al 2019 di oltre 6 milioni di euro. L’attività prevalente è accoglienza profughi. Ma fanno anche installazione impianti elettrici, pannelli fotovoltaici, riparazione e manutenzione ascensori e scale mobili.
Insomma fanno un po’ di tutto.
Nel 2014 la società dichiarava ricavi dalle vendite per 719 mila euro. Una cavalcata che inizia a prendere quota quando in Veneto iniziano ad arrivare i primi migranti.
Ma soprattutto di tutto il loro utile, la maggior parte dei soldi sono volatilizzati in tasse.
Che incassa lo Stato ovviamente.
Oggi sul #Giornale

In pagina con Fausto Biloslavo

👉 https://www.ilgiornale.it/news/politica/fotovoltaico-business-dellaccoglienza-cos-societ-diventa-1948252.html

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Centomila mani che si alzano al cielo

Da destra a sinistra, da sinistra a destra. Come la ola, centomila mani che si alzano al cielo. La ricordiamo tutti, o quasi, la discoteca. Quanto ci è mancata. Le luci che si spengono. Il vocalist che parte. La musica che inizia. Sempre più forte. Erano i tempi di Paolo Cecchetto, Marco Cordi, dei violini di Igor S e LADY BRIAN. Quelle luci che saltavano come farfalle su quello sciame di gente, all’aperto, dentro le feste, le serate. Sembra un’altra vita. Ma tornerà. Tornerà anche questa…

Il 5 giugno a Gallipoli al Praia, qualora si dovesse avere il via libera da parte della Regione, ci sarà il primo esperimento. Ci saranno 2mila anime che entreranno in discoteca all’aperto, solo con il green pass e all’uscita dovranno sottoporsi a un tampone. La proposta arriva dal Silb Fipe, l’associazione italiana di imprese di intrattenimento di ballo e spettacolo.

A Milano invece, sempre previo disco verde, l’esperimento sarà al chiuso. Il primo in Italia. Il protocollo prevede che il green pass, che attesta o l’avvenuta vaccinazione o il referto negativo di un tampone eseguito almeno 36 ore prima o la guarigione dal Covid, sia d’obbligo, così come la mascherina, ma sparisce il distanziamento…

Oggi su Il Giornale 🗞 ⤵️⤵️⤵️

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