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A Venezia scontri tra polizia e manifestanti

Non è stata di certo una bella idea far partire il contributo d’accesso a Venezia il 25 aprile – viene da chiedersi se sia stata una bella idea il contributo d’accesso stesso – con quelli dei centri sociali che berciavano in piazza. E il nuovo ticket è entrato in vigore slalomeggiando tra proteste, polemiche, scontri con la polizia, qualche furbetto e la solita maledetta dannata burocrazia. Alè. Ma andiamo con ordine.

Da ieri a Venezia è entrato in vigore il contributo d’accesso, appunto, quel balzello – ne abbiamo parlato ieri appunto – che viene fatto pagare ai turisti mordi e fuggi, ossia quelli che arrivano in città al mattino e se ne ripartono la sera. Il ticket costa 5 euro, e chi non lo paga rischia una sanzione da 50 a 300 euro. Accipicchia. Però ieri mattina, i veneziani, anziché svegliarsi rincuorati, son caduti dal letto, disturbati più che altro dall’eco degli scontri che stavano avvenendo in città. Fischi, cori, grida, bandiere. I manifestanti, circa 800, compresi quelli “No grandi navi”, si sono radunati in piazzale Roma, per esprimere tutto il loro disappunto sul contributo e hanno cominciato ad avanzare verso il centro. Al che, è dovuta intervenire la polizia in tenuta antisommossa con caschi, scudi e manganelli. 

A essere attaccato è stato principalmente il sindaco lagunare Luigi Brugnaro, e l’idea di una città trasformata in un parco divertimenti. Tra l’altro, “Venezia non è Disneyland”, è proprio il titolo di una pagina Facebook molto seguita in città che denuncia proprio i turisti mordi e fuggi, quelli che si tuffano dai ponti o quelli che impiastricciano le vetrine con le mani sporche di gelato. Ma tant’è. 

Lo slalom poi è proseguito tra i totem esplicativi del contributo, posizionati proprio qui, fronte stazione Santa Lucia, tra i gazebo biglietteria allestiti ad hoc, e tra quella miriade di turisti scesi dai treni a lunga percorrenza, che invadeva la città trotterellando con le valigie. Una seconda manifestazione più pacifica, è stata quella di alcuni comitati cittadini, contrari al ticket, e che si sono posizionati vicino ai gazebo. Qui, tra totem di diverso colore, verde per i residenti, arancione per i turisti, azzurro per i gitanti, e tra steward e gente col naso per aria come a dire: “Dove son capitata”; ecco qui alt, fermi, i controlli. Allora: chi pernotta in una struttura ricettiva in città, e quindi paga già la tassa di soggiorno di 3 euro, non deve pagare il ticket. Chi ha l’esenzione, deve mostrare il Qr code dell’esenzione stessa. Esenzione che viene chiesta accedendo sul sito del comune. Chi ha meno di 14 anni basta che faccia vedere la carta d’identità e chi invece non dorme a Venezia ed è straniero, o viene da fuori regione, ecco, bè deve pagare i 5 euro. Perché c’è gente che non rinuncia a mettere piede a San Marco, nemmeno, nelle giornate di maggiore affluenza, anche a costo di pagare il biglietto. Il contributo, infatti, è stato concepito proprio nei giorni da overbooking, e in tutto, per ora, sono state previste 29 giornate.

Ma a Venezia ieri, dati aggiornati alla mano, sono arrivate 113 mila persone e di queste solo 15.700 hanno pagato il ticket. Il che vuol dire che 1 su 10 ha pagato, tutto il resto nisba. Balzano all’occhio i 40 mila turisti che dormono in albergo, i 2.100 parenti di residenti e i 2.000 amici di residenti. Mancano, si fa per dire ovviamente, gli amici degli amici dei parenti perché la cosa difficile è districarsi nella miriade di esenzioni previste. “Non si è mai fatto nulla per regolare il turismo ed era necessario fare qualcosa – ha detto Brugnaro – la paura del cambiamento è legittima, ma se la paura blocca, non c’è progresso. Oggi spendiamo più soldi di quanti ne incassiamo, ma questa non è una spesa è un modo per far capire che bisogna cambiare, evitando gli intasamenti. Non abbiamo più i finanziamenti della legge speciale per Venezia, nonostante vengano trovati per il ponte di Messina”. Così. Boom.

Serenella Bettin 

Oggi su Libero

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Quando sentite gli scarponi battere, è lì che dovete andare

Questa mattina sono andata a fare colazione in un bar in cui non andavo da tempo. Mentre uscivo dopo avere bevuto il caffè ho visto entrare un uomo. L’ho subito riconosciuto. Era il mio vecchio preside delle scuole medie. Ci siamo sbertucciati un attimo sulla porta. Passo io. Passa lei. Passa lei. Passo io. Alla fine è passato lui. Lui mi guarda. Io lo fisso. Sono lì che vorrei dirgli qualcosa e lui volge il capo dall’altra parte noncurante del fatto che lo stessi per salutare. Ma si sa. Per noi il preside era uno. Per il preside invece i ragazzini erano tanti. Così sono uscita dal bar. Ho chiuso la porta. Mi sono fermata fuori a fumare una sigaretta e pensavo a quello che avrei voluto dirgli. Volevo andare lì e ringraziarlo. Correva l’anno 1998 e io dovevo decidere le scuole superiori. I miei genitori mi avevano iscritto al liceo classico a dieci minuti da casa. Ma io al liceo classico non ci volevo andare. Mi piaceva anche come scuola. Ma uno era vicino casa. Due: avrei rivisto ogni mattina sempre le stesse facce che vedevo alle medie. Tre: non mi sono mai piaciute le cose comode.

Funzionava così all’epoca, andavano tutti nella cittadella della scuola dove c’erano tutti gli istituti e lì ci si ritrovavano tutti.

Ma io non ne potevo più. Io volevo evadere. Andarmene lontano da casa. E le alternative erano Padova o Treviso. Così scelsi la scuola che più distava dalla mia dimora. E scelsi Treviso. Quando lo dissi ai miei genitori non volevano mandarmi. “Dove vai a 14 anni in una città come Treviso”. “Hai un’ora di strada ad andare. Una a tornare”. Così una mattina, già ribelle e determinata, chiesi udienza al preside che mi ricevette nel suo studio. Lo pregai di non mandare la mia preiscrizione al liceo classico e gli dissi che quella prescrizione avrebbe anche potuto prenderla e stracciarla perché giuro non ci sarei andate nemmeno con i carabinieri. Il preside chiamò mia madre, la quale capii che ero veramente convinta di prendere la mia strada. Parlò con mio padre e mi lasciarono libera di decidere.

Ora a distanza di anni, penso che se tornassi indietro lo rifarei altre mille centomila volte. Passare da un paese di campagna a una città mi ha aperto la testa. Ha cambiato le mie abitudini. I miei modi di vedere e di pensare le cose. Mi ha portato a fidarmi più di me stessa quando la mattina avevi due ore per ripassare e facevi le nottate e ti svegliavi alle cinque. O quando uscivi da scuola che era tardi e sapevi che dovevi per forza prendere quella corsa del bus altrimenti avresti aspetto altre quattro ore. Mi ha aperto un mondo che non conoscevo. Mi ha fatto conoscere persone nuove a 14 anni. Mi ha ampliato gli orizzonti. Quando incontrate qualche ostacolo ma sentite che quella è la vostra strada, andate avanti dritti. Indossate gli scarponi. Sentite il loro battito. È lì che dovete andare.

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“Prima almeno fammi pisciare”

Udine centro

“Prima almeno fammi pisciare”.

Entro in un locale a Udine che saranno le quattro del pomeriggio. È appena uscito il sole e vedo gente in maniche corte. Come è bizzarra la vita. Esci di casa col temporale, con l’acquazzone che non lascia scampo nemmeno ai tombini che si riempiono tutti, e ti ritrovi dopo qualche ora e qualche madonna di troppo col sole primaverile che quasi spacca le pietre. Qui la gente ha già iniziato a fare l’aperitivo. “Ci sarà un motivo” mi disse una volta uno dei miei più cari amici che fa il medico “se le cliniche per i trapianti di fegato sono tutti al nord. Sarà che i beoni sono tutti lì”. “Può essere”, gli avevo risposto. Ma all’epoca ancora non mi interessavo dei risvolti sociologici della città. Detta tra noi. Me ne sbattevo altamente il cazz. E vivevo meglio. Insomma vedo sta gente che alle quattro del pomeriggio di pieno lunedì fa l’aperitivo che si preannuncia bello lungo. Ordino un caffè. La troupe anche. E mi infilo un attimo in bagno. Con la coda dell’occhio continuo a fissare quella ragazza che mi sta dietro e che continua a guardare lo schermo del telefono con davanti un bicchiere di rosso. Sembra abbarbicata qui da tempo. Ha le labbra carnose. I capelli che le cordonano il volto. Una salopette di jeans. E sotto indossa una maglia gialla. Che tristezza penso. Qualunque sia il motivo del suo essere così da sola, così davanti a quel vino rosso, credo non ne valga la pena. Soprattutto se fosse un lui. Vorrei andarglielo a dire ma la mia discrezione per le storie degli altri mi impone di rimanermene zitta. Vado in bagno e ci sono quelli con la turca. Dopo di me entra un padre con il figlio e veramente non capisco come faccia a farlo pisciare lì. Esco dal bagno e all’improvviso la gente inizia ad arrivare a frotte. Non capisco nemmeno dove vadano. Chi ordina un prosecco. Chi un rosso. Chi uno spritz. Chi pane salame e quant’altro. Davvero non capisco come facciano a mangiare e bere tutto quello e sono solo le quattro del pomeriggio.

Un uomo fuori, con la pancia da birra, si è appena levato la felpa. Ora boccheggia in maniche corte tracannando vino bianco a più non posso. Un altro indossa un cappello e mi pare già abbasta su di giri. Mi avvio verso la stazione dei pullman. Sono qui che stanno le baby gang. Così le chiamano gli studiosi dei fenomeni sociali che etichettano le persone, funziona un po’ così. Li prendi e li incaselli dentro a dei riquadri e poi vedi se hanno le stesse caratteristiche. Ma di baby questi, non hanno proprio niente. Catene ai Jeans. Orecchini. Capelli tirati. Laccati. Accenti a noi sconosciuti. Parole in arabo. Dove non capisci una mazza. Appena mi avvicino a un ragazzo questo si alza in piedi e mi dice: “Scusi, scusi”. Cacchio penso devo fare proprio così paura. Così mi raccontano che sono egiziani. Che vivono in comunità. Che vogliono i documenti. Che stanno dentro la casa accoglienza. Ma che vogliono andarsene per lavorare e fare soldi. Poi ci sono i tunisini. Qui fanno le risse quasi ogni giorno. Faccio un giro, paro con gli autisti degli bus. Con i controllori. Le persone. I pendolari. Quelli che vanno a lavorare. Quelli che tornano dallo studiare. La gente ha paura. Torno indietro. I ragazzini si sono messi difronte a me. Urlano qualcosa in arabo che con tutta la mia più buona volontà fatico a comprendere. In questa babele di lingue mi viene in mente quell’altro. Quell’altro di prima. In dialetto stretto: “Prima almeno fammi pisciare”.

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Maledetto bastardo

Poi sei arrivato. E ti sei impadronito di me. Un virus. O chissà qualche altro epiceno virale senza sesso che si è infilato nel mio corpo e ci si è divertito un mondo.
Mai avrei potuto immaginarlo quando d’estate stavo sul balcone delle ferie a fantasticare le prossime storie da raccontare.
Prima, prima facevi un rumore strano. Uno strano bruciore. Me t’è cominciato come un bruciore in mezzo al seno, in mezzo ai due seni. Hai presente lì, lì in mezzo. Lì proprio lì dove punta il seno. Dove ho il tatuaggio.
Non all’altezza del capezzolo. Ma poco più giù sopra l’ombelico.
Sono arrivata a casa dal montaggio quel giorno e ho cominciato a sentire un bruciore lì in mezzo.
Ma non era un bruciore costante. Era un pizzichio. Un fragorio. Un bizz a intervalli. Come una cimice che sta morendo e che ogni tanto emana gli ultimi ronzii di vita, tu già ronzavi dentro di me.
Poi sei arrivato. Ed è stata quella sera.
E lì mi è andato via l’appetito. Lì m’è t’è preso un cappio sul collo che giuro era impossibile da togliere. Ho provato ad appoggiarmi al divano. Alla stufa. Sono uscita fuori a fumare una sigaretta. Ma niente. Il cappio continuava e già non avevo più fame. Così ho preso, mi sono accesa l’ennesima sigaretta. Mi sono fatta una camomilla. E sono andata a letto.
Ma dormire era praticamente impossibile. Tu non andavi né giù. Né su. Te ne stavi lì. Pronto a esplodere. E sei esploso.
La notte hai cominciato a fare il vigliacco. A correre. Correre su e giù per il mio corpo. Prima su. Poi giù. Poi di nuovo su. Poi ancora giù e non mi lasciavi in pace. E più dicevo basta, più mi facevi star male.
Virus intestinale mi hanno detto.
Il giorno dopo. Il giorno dopo ero devastata. Distrutta. Sfibrata. Avevi preso tutto di me. Mi avevi voltata e rivoltata, ridotta come un calzino, che sembravo un tronco senza liquidi e senz’acqua. Hai presente? Hai presente quando prendi un giunco e ci togli la linfa? E questo si irrigidisce tutto e si secca.
Senza manco un ciuffo di muschio verde che cresce sul gomito dove ci sta l’ombra.
Mi avevi scarnificato fino all’osso, col mento rovesciato per terra, con le gambe risucchiate della penultima cellula di acqua presente nel mio corpo. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi. Ad andare in bagno. A parlare. La gente continuava a chiamarmi ma io non avevo nemmeno la forza di alzare il telefono. Le persone con cui dovevo finire di montare un servizio si sono arrangiate da sole. Ho mandato loro dei vocali che non ho ancora il coraggio di riascoltare. La mia voce sembrava quella di una che non parla da anni. Non mi hai fatto mangiare. Per fortuna però mi hai fatto dormire. E così per due giorni. Poi è arrivata la febbre. E da lì è ricominciata la spossatezza. Quando il medico mi ha visitato ha trovato la mia pressione a 50. Avevi scombussolato tutto brutto maledetto. E poi la pressione. La saturazione. E altre cose che ora non sto a qui dirti. Fino a che. Fino a che sabato non sono riuscita a venire in piedi autonomamente. Non c’era più il tuo bruciore sullo stomaco. Il tuo nodo in gola. La tua febbre che saliva. Tu che mi voltavi e rivoltavi. Ma c’eri tu che mi facevi sentire come in mare. In barca. Continui sbandamenti. Oscillamenti. E così è arrivato lunedì. Ora non oscilli più tanto, non sbandi più. Forse solo la paura. Ma so che te ne sei andato. Giù dentro al water. Come tutti i più grandi pezzi di merda.

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Dite Grazie. Il mondo è pieno di stronzi

Grazie. Lo vedevo cosi indaffarato quel cameraman, così impicciato, così affaccendato e immerso, totalmente occupato con la mente ben salda su ciò che doveva fare e con quegli occhi vigili su ciò che stava accadendo che mi sono sentita di ringraziarlo.

Lui mi ha guardato con due occhi sbalorditi come a dire: grazie di cosa, sono qui per questo. Grazie, che parola. Quante volte la diamo per scontata. Quante volte la pronunciamo a mezza bocca, come fosse un segnalibro che metti sempre al solito posto in un libro impolverato sopra il comodino, e quante volte non la diciamo, la diamo per assodata, e invece no, non è scontato niente. Un grazie si deve sempre. Grazie quando ti aprono la porta, quando fanno qualcosa per te, quando investono del tempo per starti appresso. Diciamo che quell’operatore me l’ero mangiato prima, ero sbroccata, la tensione, l’ansia, l’adrenalina, quando giri certi servizi hai una serie di sentimenti concentrati tutti insieme che un caleidoscopio in confronto ti sembra un mare calmo, tranquillo, poco mosso. E vengono fuori tutti insieme quei sentimenti, te li senti addosso, ti divorano, ti salgono le gambe, ti prendono la pancia, la gola, ti salgono fino alla bocca, gli occhi, la testa, il cuore. È qualcosa che ti invade, pervade, che ti sconvolge ed è come mettere la testa dentro al frullatore. Sconvolta, sconquassata, così com’ero, me la sono presa con lui, gli avevo detto parole che non merita. Ma quando fai un lavoro siete tutti nella stessa barca, nella stessa regata, nella stessa vela. Poi quando siamo risaliti, e percorrevamo quei ponti, e quelle calli, e quei campi – si chiamano così le piazze di Venezia – quando ci scostavamo da quel fiume di gente che ci veniva addosso, quando facevamo a bracciate per farci spazio tra la folla, in mezzo a quella nuova di gente che si muoveva come muove la spumiglia quando la metti sopra il nastro dal fornaio – ricorda che una nuvola non sa perché si muove in una certa direzione e a una certa velocità. Segue un impulso, è li che deve andare – ecco quando siamo risaliti, in mezzo al volo dei gabbiani, in mezzo agli albori della sera, al crepuscolo del tramonto, in mezzo al vocio della gente, gli ho detto: grazie. Poi quando mi sono girata, ho incrociato quest’uomo, c’avea un blocco tra le mani e annotava i suoi pensieri. Su di un foglio, una sola parola: grazie ancora.

Ditelo questo cazzo di grazie, non date nulla per scontato.

Il mondo è pieno di stronzi.

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La mia auto rimossa dal carro attrezzi senza motivo. Spero vi possa servire tanta carta da culo

Volevo chiedere al sindaco di Bologna Matteo Lepore se sa che nella sua città, oltre agli occupanti abusivi di case, ci sono anche i parcheggi con i divieti di sosta abusivi.

Io non riesco a capire perché in Italia dobbiamo sempre far la parte di quelli presi con le pezze al culo.

Dunque oggi per lavoro mi reco a Bologna e parcheggio l’auto in zona Corticella in un parcheggio.

Verso metà giornata mi devo spostare, torno alla mia auto e nel frattempo siccome a casa ho finito la carta igienica, mi reco al centro commerciale che so essere sempre aperto. Esco dal centro. Carico la carta igienica in auto e la lascio lì per un attimo. Tornata indietro mi accorgo che l’auto non c’è più.

Lì per lì non so come ho fatto, sono rimasta muta. Fredda. Impassibile.

Sembravo di ghiaccio. Visto che – se immediatamente non attivi queste difese – rischi che ti venga un colpo.

Così mi guardo attorno, mi giro e mi rigiro e vedo un carro attrezzi in lontananza nel mentre porta via una vettura. Così penso. “Oddio possibile che mi abbiano portato via la macchina?”.

Insomma guardo i cartelli, e nel parcheggio di un centro commerciale c’è la scritta: “Parcheggio riservato ai clienti del centro. Zona rimozione forzata, deposito tal dei tali”.

Per terra nessuna insegna.

Bene mi attivo e la troupe che gentilmente era con me, mi accompagna al deposito. Durante il tragitto non vi dico le cose che mi sono passate in mente. Ovviamente confidavo che l’auto mi fosse stata prelevata dal carro attrezzi e non rubata. L’idea del furto mi era balenata nell’anticamera del cervello per un secondo che poi ho prontamente provveduto a scacciare. Arrivo al deposito e vedo che fuori c’è una accozzaglia di auto messe lì alla rinfusa con quattro bengalesi che ridono dinanzi a quel cumulo di lamiere. Entro. E chiedo a brutto muso dove fosse la mia auto. “Perdio razza di idioti imbecilli gente da quattro soldi, sto lavorando, non ho tempo da perdere, ridatemi la mia vettura”.

Alla mia domanda sul perché me la avessero portata via mi hanno risposto che: “Loro hanno eseguito un ordine”, arrivato da non so chi, che ha detto loro che tutte le auto della gente che non era al centro commerciale andavano tolte”. Io ho chiesto loro: “Dimostratemi che non ero al centro”. “Signora non lo so, non è colpa nostra. Noi facciamo quello che ci dicono di fare”.

Certo. Funziona così ora. Funziona che gli imprenditori assumono i bengalesi pagandoli due lire e dicendo loro che devono esattamente eseguire gli ordini. Intimo loro di non pagare e che intendo andare a fondo. E loro mi dicono con fare beffardo e con quel sorriso che gli usciva sotto i denti: “Bene la tua auto allora rimane qui”. “Bene rispondo io, e incappate male perché io sono una giornalista e ora vi faccio il culo tanto”.

“Suvvia dimostratemi che non ero al centro”.

“L’auto non aveva il disco orario”.

“Come no?”

“Sì che lo aveva, datemi le prove”.

Nessuna prova pervenuta. Chiedo come fare per riaver l’auto e loro mi intimano di pagare 150 euro. Centocinquanta euro prego? A chi? Al comune? Alla provincia? Alla regione? Siete della forza pubblica? Un parcheggio privato aperto al pubblico può irrogare una sanzione? Sulla base di cosa? Siete forse dei pubblici ufficiali?

Lo sapete per diamine razza di strafottenti vigliacchi e inetti che prassi vuole che “parcheggiare in un posteggio presente in un’area privata è consentito e non porta nemmeno a una multa per divieto di sosta in proprietà privata, in quanto si tratta di uno spazio che non appartiene alla pubblica amministrazione e non ammette quindi l’intervento di un vigile”.

Facce da pirla.

Insomma questi non rispondono. Ma io sulla questione vado a fondo.

Questo è il trattamento riservato ai cittadini e alla gente per bene che ogni giorno si fa il mazzo tanto, invece i delinquenti in stazione a Bologna ecco quelli lasciateli lì mi raccomando.

E dire che io mi ero fermata al centro commerciale per comprare la carta da culo, che spero che a qualche altro possa servire davvero tanto.

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La mia giornata è partita su una Tesla

Non so nemmeno che giro abbia fatto. Ho fatto in tempo ad andare a Como. Migrare a Bologna. Rientrare a Venezia. Salire su un’auto proseguendo per le Marche. Passare lì alcuni giorni. Starmene lì, all’aria aperta. Il mare. Il sole. La temperatura mite. Io abituata al freddo del nord. Le cene. E poi ho ripreso una vettura per tornarmene a Venezia.
Ma la mia giornata la mattina prima dell’ultimo dell’anno è partita presto. Su una Tesla. È passato a prendermi il transfer alle sette in punto del mattino. Che dico in punto. Diamine era pure in anticipo. Cinque minuti prima dell’orario stabilito era già sotto casa mia che mi attendeva. “Buongiorno, io sono qui, quando vuole”. Ero balzata giù dal letto facendo una doccia fredda e calda in estrema velocità, avevo messo su il caffè, quello che puoi sciogliere la polvere per fare prima, ed era una di quelle mattine dove in cucina vedevi solo il blu della fiammella del gas.
Mi trucco alla svelta, un filo di rimmel, ombretto nero, una botta di phon ai capelli, pantaloni, maglia, borsa e cappotto che mi copre la testa. Salgo sull’auto nera fiammante e dentro ci sta uno schermo che è grande quanto la mia televisione. Indica il percorso da seguire, la mappa, la carta, la piantina, più in basso in fondo a sinistra ti compare la faccia del cantante di cui sta andando la musica. Non so manco chi abbia cantato. Nel giro di un baleno mi pare di aver intravisto l’immagine di Natalie Imbruglia e quella di qualche altro che ora non ricordo.
L’auto, calda. Nera. Silenziosa.
Arrivo alla stazione con le occhiaie che mi toccan terra. E il barista della carrozza numero 3, quella dove ci sta il bar, è pugliese. Guarda fuori dal finestrino che lentamente come in un film muto percorre velocemente il paesaggio che si sussegue fuori. E sbotta: “Vedi il tempo che ci sta qua”. “Come fai a non svegliarti con le palle girate”, gli dico io. “Tu bravo uomo del Sud, stattene giù no?”. Il lavoro, il lavoro ci chiama. Come chiama me in questa vigilia dell’ultimo dell’Anno. Ma questo è il lavoro che amiamo. Arrivo a Milano centrale, destinazione Monza Brianza, devo fare una casa occupata. Ci fermiamo al bar all’Angolo. Non toglietemi caffè e sigaretta prima di iniziare a girare. L’adrenalina sale. Gli occupanti sono ecquadoregni. E come in un susseguirsi di immagini mi trovo catapulta ovunque. Passo dal taxi nero fiammante. Al treno. Alla stazione Centrale dove ci stanno i disperati che dormono fuori. A un posto carino dove ci fermiamo a mangiare ma alla tipa napoletana non sto tanto simpatica. Mi rimetto in viaggio. Rientro. Il giorno dopo riparto per passare il Capodanno in piazza a Milano…
E questo ve l’ho raccontato…

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Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire dolore

Al sopracciglio destro porta due orecchini che gli traforano la pelle. Uno parte da sotto il sopracciglio e sbuca dall’altra parte. L’altro parte da sopra e sbuca da sotto. Sono due gemme d’acciaio inchiodate lì sull’epidermide.
Quando lo vedo mi chiedo come faccia a non sentire male. A non sentire dolore. A far finta che non ci sia niente. Forse è questo uno dei sensi della vita mi chiedo. Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire male. Andare avanti.
Arrivo in questo posto dalle pareti gialle e giallognole che sono le undici del mattino. Sono in mezzo alle colline bolognesi che per arrivarci fai delle strade che manco le Dolomiti. Sono tutte curvilinee sbilenche storte, come tanti piccoli vermi risalgono o scendono il monte a seconda se decidi di andare da una parte o dall’altra. Il paese è praticamente una strada. Quando ci fermiamo da una donna per chiedere informazioni, lei sgrana gli occhi e ci risponde: “Paese? Quale paese?”. Qui la gente non si sente in un paese. Ci saranno dieci case senza manco un sali e tabacchi, sali e scendi invece ce ne sono tanti, quindi se finisci le sigarette devi rimanere senza fumare per trenta chilometri e raggiungere il paese vicino che pare più civilizzato.
Qui ci sono dieci bugigattoli con i balconi e le pareti dipinte. Con un campanile alto come un pioppo. E una chiesetta simile a quella dei cartoni animati. Entro nel primo bar perché devo andare in bagno. Ma il bar è all’interno di un albergo. Dove a sua volta ci sta un ristorante. Come a voler penetrare una piccola matriosca raggiungo il bar che sta all’interno della sala colanzione, la quale a sua volta sta all’interno del ristorante, il quale a sua volta sta all’interno dell’albergo. Apro le piccole porte, prima una poi l’altra poi un’altra ancora. Le vedo richiudersi.
Quando mi perdo, scodinzolo via di qua e di là, e a un certo punto un cameriere viene a salvarmi.
“Salve volevamo prendere un caffe. E avevamo bisogno di alcune informazioni”.
Al bancone del bar ci sono due uomini dal volto violaceo, hai presente quelli che bevono il vino alle nove del mattino. Quelli che hanno le vene consumate dall’alcol. Quelli che se ti avvicini senti quell’odore nauseabondo che ti entra in gola e ti si incatrama su dentro il naso. Qui sono così. Qualcuno ha anche la barba lunga, avvoltolata su se stessa, ingiallita dagli anni consumati a consumare tabacco. Gli anelli alle mani che tengono quella sigaretta che si consuma tra le dita.
E gli anfibi ai piedi. Fuori un tavolo di anziani che giocano a carte. Poi ci sta un vecchietto col cappello che a vedere una donna si erge tutto. Mi vede. Mi segue. Mi fa una domanda. Gli rispondo a mezza bocca. Qui la vita deve essere dura. In mezzo al nulla. Senza niente attorno. O uno beve o esce matto. Poi mi volto. E vedo un uomo. Al sopracciglio destro porta due orecchini che gli traforano la pelle.
Quando lo vedo mi chiedo come faccia a non sentire male. Forse è questo il senso della vita mi chiedo. Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire dolore.

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Gli abusivi possono pure menarti. Sotto gli occhi di tutti

Questo è il livido di un pugno che sarebbe arrivato a me in faccia, se l’uomo della vigilanza non mi avesse difeso.
Questo è quello che fanno gli occupanti abusivi di case. Provateci voi a difendervi in casa vostra e rischiate di finire in galera o indagati per lesioni tentati omicidi e altre figure applicate in maniera folle.
Tanto gli abusivi sono consapevoli e forti che nessuno farà mai loro niente, protetti e tutelati dai giudici, dallo Stato, dalle leggi, quasi perfino dalle forze dell’ordine. Arrivo in questa casa occupata che è quasi ora di pranzo.
L’occupante mi fa il favore di uscire inconsapevolmente, ignaro che ci avrebbe trovato. Rimaniamo tutti in auto. Non scendiamo. Lo osserviamo venire avanti. Il cameraman prepara la camera. Io il gelato. Mette in rec. Io schiaccio on. La lucetta verde si accende e in una frazione di un secondo, quando ormai è in bocca a noi, scendiamo dall’auto. In quei momenti ti giochi tutto. Tutto in una manciata di secondi che svapora via se non ti muovi. Avviene tutto in un attimo. In un attimo devi bloccarlo, fargli domande, chiedergli o chiederle conto del perché diamine sia ancora in quella casa magari con un’ordinanza di sfratto. In un attimo gli vuoi chiedere se non si vergogna a stare in una casa senza pagare l’affitto, manco il condominio, le bollette e tutto quello che ci sta dietro e se sa che in Italia la gente per bene e che lavora l’affitto se lo paga o la casa se la compra. In quel momento un vortice di emozioni ti si riversa addosso. Piomba come piomba la lava sul vulcano accesso. Non senti caldo. Non senti freddo. Non ti accorgi se piove. Se c’è il sole. Se è giorno. Se è notte. È un misto di adrenalina, energia, paura, impeto. Puoi sentire il cuore in gola. Come le gambe tremare. Puoi sentire le mani fredde. Come i piedi partire. Anche perché non sai come l’occupante possa reagire. E qui ha reagito male. Inizio a fargli domande. Non mi risponde per mezz’ora. Ma a un certo punto. A un certo punto quando capisco qual è il tasto dolente, sbrocca. Fa per tirarmi un pugno e la scorta si mette in mezzo. In un baleno lo para quel pugno. Lo ferma. Lo blocca. E se lo prende giusto qui sul collo.
Ora queste sono le reazioni sempre più violente degli occupanti abusivi. L’arroganza. La supponenza. La delinquenza. La convinzione di fottere lo Stato e nonostante questo essere nel giusto. Tanto sanno che a loro nessuno farà mai niente. Carabinieri che arrivano per far domande ai giornalisti. E non agli occupanti. Ordinanze di sfratto mai eseguite. Giudici irraggiungibili. E ufficiali giudiziari introvabili. Signori questa è l’Italia.
Invece se ti entrano in casa o in gioielleria o in tabaccheria per rapinarti mentre stai dormendo o stai lavorando logorandoti di un lavoro che ti porta ogni giorno a farti il culo, e questi ti minacciano o ti legano la moglie e i figli, non puoi fare niente, perché se per caso ti azzardi ad alzare un dito, poi se non ti ammazza il ladro ti ammazza lo Stato.
E quindi i proprietari in casa loro non possono difenderti. Invece gli occupanti abusivi – una ha minacciato perfino una mia collega davanti al carabiniere che è rimasto muto – ecco dicevo gli occupanti abusivi possono fare tutto. Possono tirarti pietre. Sassi. Coltelli. Bottiglie rotte. Possono sputarti addosso.
Menarti. Darti calci. E minacciarti.
E questo sì. Questo è sotto gli occhi di tutti.

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La mosca sopra la tavoletta del cesso

Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio. Arrivo a Bologna che è mattino. Devo girare una casa occupata ma nel frattempo mi scappa. E devo andare in bagno. Entro in un locale. E per accedere al bagno c’è bisogno della chiave. Sulla porta noto che c’è una storiella sul Tiro di Bologna. Il tiro è quella cosa per cui noi diciamo suona, invece a Bologna ancora dicono “Tira”, e sul campanello ci sta scritto proprio questo. Il modo di dire deriva dal fatto che una volta per suonare si usava una cordicella. Mi accorgo che sulla tavoletta del water c’è una mosca. E mi fa parecchio schifo. Esco. Bevo il caffè e ci mettiamo in cammino. Vado su per le montagne. Su per i monti. Su per le colline. Ci sono i tornanti. Cerco di concentrarmi sulla strada. Dicono che se guardi un punto. Sempre quello. Sempre fisso. Non ti fa male la macchina. Mi guardo attorno perché fissa e immobile non riesco a stare e attorno a me si apre un ventaglio di colori, una tavolozza di acquerelli dai colori pastello che pare che ci abbia messo le mani un pittore ingenuo. Ci sono alberi abeti pioppi cipressi verdi rossi gialli alcuni mi sembrano anche violacei. Anche l’accendino che ho comprato è violaceo. E forse non avrei dovuto comprarlo.
Arriviamo su in cima e ci fermiamo con l’auto perché ci stanno aspettando gli uomini della scorta. Siamo lungo i colli bolognesi. Andiamo su e ci appostiamo. Ma non appena arriviamo ecco che la donna esce. Ha il volto del colore del marmo. Vestita con una maglia aderente che le fa intravedere i seni, indossa dei fuseaux che paiono tinti dei colori pastello da un pittore schizofrenico, in testa indossa una cuffia.
Gli occhi marroni incavati non lasciano trasparire niente di buono. Sembrano quelli di una cavalletta che si apposta sul muro di casa in attesa della propria preda. Attorno a lei ci sono i cani. Scendo dall’auto facendomi violenza. I cani sono decisamente troppi per me. Lei ne ha cinque liberi e in più ci sono tre cani grandi brutti e grossi nel giardino accanto che continuano ad abbaiare forsennatamente. Non penso ai cani. In una frazione di secondo cerco di scindere la mente in due parti. La prima deve rimanere concentrata su quello che voglio dire e chiedere alla donna. La seconda parte cerco di distrarla dal pensiero che i cani ci possano far del male. In un’altra frazione di secondo cerco di staccare la mente dal corpo. Non voglio permettere alla paura dei cani di paralizzarmi. Le gambe vanno da sole. Avanti come un caterpillar la affronto. Le chiedo perché diamine continui a stare in quella casa. E lei non risponde. Torna indietro per la stradina e io la seguo. Ma in un baleno. Ecco che mi volto e vedo i cani ringhiare. Azzannare la rete. Azzuffarsi. Scagliarsi contro. Lei fa per andare ad aprirli come a metterci paura e in un attimo mi passa davanti la vita. Mi vedo azzannata. Acciuffata. Aggredita. Cerco di non pensarci e mi scatta qualcosa che la fa sclerare. Lei sclera. Inizia a inveirci contro. Alza le mani. Mi minaccia. Ci minaccia. Ci dà dei figli di put. Figli di troi. Teste di cazz. Chi cazz siete. Mi avete rotto i cogl*. Le dico che si dovrebbe vergognare a stare in una casa che non è la sua. E in quel momento, come a voler sfogare tutta la sua rabbia, alza il pugno per sferrarmi un gancio giusto in faccia. L’uomo della scorta si mette in mezzo, tra me e lei, e il pugno colpisce il collo di lui. Dopo il parapiglia, ce ne andiamo. A me tremano ancora le gambe. Più che altro per i cani. Di lei sostanzialmente me ne fotto. Ci è venuta fame. Entriamo in un ristorante. Io spizzico qualcosa. Ancora lo stomaco si deve aprire. Ordino il caffè americano, ma l’oste di quella osteria incallita non riesce a trasportare il vassoio e il caffè finisce tutto sparso. Lo guardo. Lui mi guarda. Gli faccio una faccia schifata. Lui mi dice: “È un po’ gocciolato”.
Sì decisamente. Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio.

sbetti

ladridicase

La guerra combattuta a suon di hashtag

Noto che dalla guerra in Ucraina è partita questa tendenza a combattere la guerra a suon di hashtag.
Una tendenza raccapricciante e per certi versi vomitevole che porta i Pinco Pallo di turno a partire per il fronte (se poi stanno la maggior parte del tempo in albergo non lo saprete mai) e farsi ritrarre e fotografare in pose talmente assurde che agli inviati veri, quelli con la I maiuscola, che la guerra non solo la raccontano ma la vivono veramente, viene loro da ridere.
Lezioni di giornalismo non richieste a metà tra l’analisi geopolitica e la storia raccontata a suon di Bignami da prima media.
Dalla guerra in Ucraina qualsiasi pinco pallo qualunque, mosso dalla sua boriosa cacone e gonfia vanità incandescente, ha provato a raggiungere il fronte – non riuscendoci quasi mai – al solo scopo di cercare la fotografia più idonea ad attrarre e attirare like su Facebook, raccontando la guerra non per quello che è, ossia una grande merda, ma mettendo se stesso al primo posto.
Il fine infatti degli inviati improvvisati non è raccontare storie e dare voce agli altri. Ma è raccontare se stessi per fare vedere quanto sono bravi. Gente improvvisata partita con una camera in mano senza sapere manco come vestirsi. Ce ne sono di casi di fotografi o presunti tali partiti e poi fermatisi in Polonia.
E la stessa cosa si ripete con Israele. Guerre raccontate a suon di stories su Instagram. Di like su Facebook. Di post che mi scompiscio dalle risate la mattina quando li leggo.
Io quando sono stata in Kosovo e la guerra era già finita non avevo manco tempo di andare al gabinetto perché si lavorava da mattina a sera per cercare di raccogliere quante più storie possibili. E si cercava di estraniarsi dal mondo per entrare dentro quello di qualche altro. Provate a chiedere ai grandi inviati di guerra se hanno tanto tempo di aggiornare i loro profili.
Gli inviati seri non hanno tempo di aggiornare la loro pagina Instagram. La loro pagina Facebook. I loro tweet. O X come lo chiamate.
Lo fanno a sprazzi, quando ormai, stremati dalla giornata e dalla nottata, si accorgono che il resto del mondo reclama il loro contributo per quella parte di terra vista con i loro occhi. La guerra non è un reality. Non è uno show. Non è palcoscenico. Non è cinema. Teatro. Chi scherza con la guerra, forse ha dimenticato una cosa importante. Che in guerra si muore.

sbetti

Aveva gli occhi che pareva un demone infuocato e mi urlava dietro

Aveva gli occhi che parevano quelli di un demone infuocato. Guardateli questi occhi. Guardateli.
Sono stata sabato scorso a trovare questo signore a Castellarano di Reggio Emilia. Castellarano è anche una bella cittadina. Che nemmeno te la immagini. Ci si arriva prendendo l’autostrada che attraversa Modena. Sassuolo. Eccetera. Eccetera. Passi anche per una cosa chiamata CeramicLand. Perché qui sta il cuore della produzione della ceramica.
Castellarano invece in zona collinare sulla riva sinistra del fiume Secchia, è un borgo storico fluviale molto suggestivo, tra vicoli in pietra, slarghi e piazzette restaurate, case e palazzi ben tenuti. Solo che. Solo che anche qui ci sono le case occupate.
Arrivo a casa di questo signore ghanese che non paga l’affitto e che ha il contratto scaduto da oltre un anno e mezzo che è quasi mezzogiorno. La proprietaria gli suona il campanello. Ma lui non vuole scendere. “Vieni tu su”, le dice. Io lì per lì sono titubante poi dico: “Ok andiamo. Andiamo su”. L’aria era pure solforosa. Pressante.
Gli chiedo perché non se ne sia ancora andato, come mai con un contratto scaduto da oltre un anno lui sia ancora lì. Gli chiedo perché nonostante un’ordinanza di sfratto lui continui a rimanere fregandosene di tutto. E di tutti. Fottendo la gente. Fottendo lo Stato. Poi. Poi gli dico: “Allora tu riconosci di avere un debito verso questa donna”. Donna che tra l’altro è disperata. Non sa come fare per tirare a campare. Questa casa era la sua pensione. E ha fatto perfino lo sciopero della fame. Lui mi dice: “Sì sono 3 mila euro”. Io gli dico di no. Gli dico che gliene deve oltre 16 mila. Ma lui. Lui in un baleno esplode. E i suoi occhi si fanno rossi. Vermigli. Cremisi. Sembravano palle infuocate che saettano nel cielo. In un lampo sembrano deflagrare. Paiono venire fuori dalle palpebre che contengono gli occhi. Le sue pupille erano dilatate. Il suo iride era ingigantito di rabbia e violenza. I suoi nervi hanno iniziato a ingrossarsi. E le sue vene erano gonfie di collera. A un certo punto ha iniziato a gocciolare sudore e a me son tremate per un attimo le gambe. È esploso in un “No! No! No! Nooooooo”. E lo diceva così bilioso, iracondo, che pareva impossibile tenerlo. Da lì ha iniziato a farneticare. A gesticolare. E in preda a un violento turbamento ha iniziato a bestemmiare. Gli ho detto: “Stai bestemmiando e dici anche di essere cristiano”, e lui ha continuato. Credeva di incutermi timore ma non ho fatto né un passo indietro. E nemmeno un passo avanti. Sono rimasta di marmo. Ho continuato a fissarlo dritto negli occhi. E lui all’improvviso. All’improvviso ha iniziato a guardarmi. A fissarmi. A squadrarmi. Mi guardava il volto. Il seno. Le gambe. Le braccia. Mi fissava come a dire: “Io sono un uomo. Tu una donna”. Ma non gli ho dato retta. Aveva lo stesso sguardo che un felino riserva alla sua preda. Questa non è gente che viene in Italia e si converte al Cristianesimo di punto in bianco. Nel loro profondo la donna è considerata un essere inferiore. Come fosse una gallina. Fatto sta che questo signore continua a occupare una casa che non è sua. Continua a non pagare soldi alla proprietaria. Continua a fottersene di tutto. Tanto da che può chiedere sei mesi e il giudice magari glieli concede. Sa che avrà lo Stato dalla sua parte. Sa che i suoi diritti, a differenza della proprietà privata, sono garantiti dalla sciatteria e dal pressapochismo e dall’inefficacia e inefficienza delle nostre leggi. Questa è tutta gente che i talebani dell’accoglienza proteggono.
Buonisti col culo degli altri. Fino a che non occupano casa tua.

sbetti

Picchiatore seriale. La realtà in bianco e nero

Dal diario di Facebook. 28 settembre 2023

L’aggressore seriale a Venezia.
Questa sera ho preso e sono uscita per fare una lunga passeggiata. All’inizio non voleva essere tanto lunga. Poi lentamente si è allungata. E si è fatta estesa. Distesa. Andava come vanno i tempi della televisione. Lunghi ma serrati. Prolungati ma fitti. Stretti. Ma veloci.
È una settimana che sto sotto una storia di un seriale a Venezia che vi giuro mi è venuto il voltastomaco a vedere come la gente sostanzialmente se ne frega. Anzi non la gente normale. Quella?
Quella povera soffre. Mi è venuto il voltastomaco a vedere come le istituzioni e chi dovrebbe proteggerci se ne fregano allegramente.
Ma soprattutto ho raccolto le voci di quella gente, della gente normale, di quella che ogni giorno lavora. Va a scuola. Va ad allenamento. Va in ufficio. E ha paura. Ha paura a rincasare la sera.
Mi chiedo come in un Paese che voglia definirsi normale si possa avere il terrore di tornare a casa la sera senza finire con una coltellata piantata nell’addome. Orbene.
A Venezia si aggira un seriale. Un aggressore. No. Non è finzione. Non è fiction, non è montaggio. Non è fantascienza.
Il mio servizio lo trovate su Fuori dal Coro (link nei commenti). È realtà. A Venezia si aggira da mesi e da anni un pazzo che va in giro a colpire e aggredire la gente. Che potrebbe realmente aggredire e colpire chiunque. Che entra in azione di notte. Si aggira col buio. Cammina con un coltello in mano. E nessuno, nessuno fa niente. Mi chiedo che mondo sia quello dove chiedi aiuto e nessuno fa niente. Le stesse forze dell’ordine si sentono impotenti, devono aspettare che agisca. Ma quando agisce è troppo tardi. E di vittime ormai c’è ne sono parecchie.
Con la riforma Cartabia poi è diventato tutto una barzelletta. Devi denunciare prima della decorrenza dei termini e per sporgere devi prendere l’appuntamento. E se prendi appuntamento magari i termini decorrono veramente. Così devi attendere che qualcuno ti molli una coltellata e poi ci vuole la querela di parte. E nel frattempo quello se ne sta libero, in giro, capace di colpire chiunque.
Ma mi ha fatto venire il voltastomaco la messa a tacere del fatto – shh silenzio – che facciamo brutta figura – La gente si allarma poi – i turisti – che dicono i turisti. Suvvia Venezia è la città che se ti tuffi da un ponte ti fanno un daspo (con tutto il rispetto per carità) ma se accoltelli qualcuno rimani libero. Fino a che. Fino a che non ci scappa il morto.
Poi dicono che non facciamo niente. Che non c’è sicurezza. Eh no. Infatti.
La sicurezza non c’è. E non è finzione. Non è fiction. Non è immaginazione. Non è la percezione del cittadino come ha osato dire qualcuno.
È la realtà. La dura e nuda realtà. E la realtà non è colorata. Non presenta sfumature, non ha dissolvenze, effetti speciali.
È tutto terribilmente a colori. O bianco, o nero. Ma è tutto nitido. E sta lì davanti agli occhi di tutti.
Questi giorni ho fatto appostamenti. Sono stata fuori la notte. Ho fatto ricerche, ho raccolto le testimonianze dei giovani aggrediti e ci ho visto negli occhi l’impotenza. Il terrore. Il senso di colpa. La tragica consapevolezza che non puoi far niente, che quello che ti sta capitando pare sia un incubo senza fine. Quando stasera ho decollato le mie gambe e mi sono accesa una sigaretta e poi le sigarette sono diventate due tre quattro, era tardi. Era buio. Ero sfinita. Sentivo le gambe che andavano da sole. Agli auricolari andava la musica. Mi sono rivista davanti a quelle persone che per un attimo si sono affidate a me per avere un aiuto, e mi sono detta che è questa la vita che ho scelto, quella che ho deciso, quella che dà voce alla gente che non ha abbastanza amplificatori per poter urlare. Quella che raccoglie le storie. E le fa proprie. E dopo averle vissute. Le racconta. Senza dissolvenze. Senza effetti speciali. Senza sfumature. In bianco e nero. E a colori.

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fuoridalcoro