I banchi della Azzolina buttati al macero

Quando l’altro giorno su whatsapp mi è arrivata la foto dei banchi lanciati su una chiatta da rifiuti a Venezia, di cui vi racconto su Libero, all’inizio non ci volevo credere.
So che in quel mentre ero al telefono e per 50 secondi non ho nemmeno più ascoltato l’interlocutore, tanta era la sbornia, nel vedere codesta immagine.
Questa notizia, che può sembrare bizzarra buffa a tratti divertente esilarante e diversiva, in realtà racchiude tutta l’immagine di chi ha gestito la pandemia durante il governo Conte. Il peggiore.
In un Paese che poi ha avuto bisogno di Mario Draghi per stare più tranquillo e risollevarsi.
Draghi. Che non è nemmeno un politico.
Allora quando ho messo giù il telefono e ho fatto le mie verifiche per capire se quella foto fosse vera, mi sono ancora più sbalordita. Perché sì. Era tutto vero.
Del resto dalla cantina alla discarica, è un attimo. Ma sono rimasta stupefatta soprattutto del percorso che hanno fatto questi banchi a rotelle, usati come bandiera, per distogliere l’attenzione dai problemi veri. Come le primule architettoniche dove Conte per decidere il colore aveva impiegato 15 giorni.
I banchi, ampollosamente chiamati “sedute innovative”, sono costati agli italiani 119 milioni di euro. Acquistati da tale Domenico Arcuri che di certo non eccelle di efficienza e trasparenza – vedi il caso mascherine – in alcune scuole la scheda tecnica riporta la dicitura “sedute per adulti”, e quindi pericolosi per la postura dei ragazzi.
Così questi banchi pagati fior di quattrini, prima sono stati messi nelle aule con tanto di banchetti e rinfreschi – ci siamo dimenticati di Sergio Mattarella a Vo’Euganeo – poi sono stati usati come giostre dagli alunni che non stavano fermi, e poi siccome facevano venire mal di schiena sono stati trasferiti in soffitta. Per un epilogo che dire tragico è dire poco. Il macero.
Del resto anche uno stupido avrebbe capito che questi banchi non sarebbero stati usati. Uno perché le scuole all’epoca erano chiuse. Due perché le scuole avevano già i banchi monoposto. Tre perché non si capisce quale sia il senso per mantenere il distanziamento di un banco con le ruote che non sta fermo. Quattro perché in molte scuole erano già ricorsi anziché al taglio del nastro, al taglio del banco.
Azzolina aveva definito l’acquisto di questi banchi un risultato eccezionale.
Infatti.
Soldi buttati nel cesso.
Così, giusto perché amo raccontare le storie della gente e per dirvi quali danni può fare una incompetente.

#sbetti

Ddl Zan. Ecco chi nega i diritti

Il Gruppo Gedi tre anni fa mi lasciò a casa dalla sera alla mattina. Chi nega i diritti? La Stampa ieri ha titolato “il Parlamento dei diritti negati”. Un titolo orribile, uno slogan pesante, come se vivessimo in un Paese da roghi in piazza, dove sinceramente vedo solo antifascisti più fascisti dei fascisti stessi, cercare fascisti morti e sepolti. Accade in campagna elettorale quando non si ha niente da dire. Ma il titolo de La Stampa non mi stupisce affatto, dato che chi non si allinea alle tesi del Gruppo del politicamente corretto viene sbattuto fuori.
È successo anche a me. Tre anni fa. Un quotidiano locale del gruppo.
Anzi succede anche che chi non viene sbattuto fuori, perché deve mantenere lo stipendio, si allinea.
Io non mi sono mai allineata alle tesi del Gruppo. E infatti.
In quell’occasione, molti colleghi mi avevano espresso la loro solidarietà (tutto documentato) dicendomi: “sai, anche a me controllano il profilo, quindi mi limito a postare foto di gattini e cagnolini, così almeno non mi possono dire niente”.
Uno mi aveva anche detto: “devo stare attento a mettere like ai tuoi post, perché poi mi controllano”. Sconcertante.
Sconcertante per davvero.
Pretendere di ridurre il pensiero di un giornalista a pubblicazione di gattini e cagnolini rende bene l’idea della gabbia di indottrinati al main stream del progresso.
Io l’ho provato cosa vuol dire quando provano a infilarti e cucirti il pensiero unico addosso. Ti si rattrappiscono le dita. Il pensiero, se non sei forte si annebbia. Si impone. Si autocensura.
Per qualche giorno ho anche provato a essere come loro, per vedere l’effetto che mi faceva, ma quella ondata di sana ribellione in me tornava come un’onda, a cui non potevo restare indifferente.
Ma quello che mi lascia perplessa e che mi fa riflettere è che quelli che lottano contro l’odio e si battono per i diritti di tutti, sono proprio quelli che coltivano l’odio come fosse la maria sul tetto di casa, lo dispensano così allegramente come fosse medicina per l’anima che, se per caso non sei come loro, ti ritrovi col culo per terra, a casa senza lavoro.
Eccoli quelli dei diritti negati. Chi sono.
Sono proprio loro.

#sbetti

Il tabaccaio che sparò al ladro è in carcere in isolamento in mezzo ai delinquenti veri

Sara Scolaro è la moglie di Walter Onichini. Il macellaio che nel luglio 2013 sparò al ladro che era gli entrato in casa, ferendolo. Walter Onichini è in cella di isolamento dal 13 settembre scorso. Così ha deciso la Cassazione per questo padre di famiglia. Quel giorno era il primo giorno di scuola dei figli.
Quando sono arrivata a casa di Sara Scolaro, Sara mi ha accolto. Mi stava aspettando sul cortile intenta a fumare una sigaretta. Il figlio che ha fatto da poco 10 anni stava giocando col calcetto. La figlia di 7 anni ha fatto capolino sulla porta. Sara ha una forza invidiabile. Immensa. Una capacità di razionalità ed equilibrio che sfiora l’eccelso.
Suo marito, condannato a 4 anni, 10 mesi e 27 giorni di reclusione, è in carcere accanto ai criminali veri. Accanto alla sua cella c’è colui che nel 2018 aveva letteralmente ammazzato di botte la moglie, colpendola a morte. Lei ha scritto al Garante dei diritti della Persona del Consiglio Veneto.
Quelle, dice, non sono condizioni che possono andare per una persona per bene…
Quando i figli le hanno chiesto: “perché papà è in carcere, se ha sparato a una persona cattiva?”, lei ha risposto, “perché i giudici non vorrebbero si usassero le armi”.
Questa intervista è frutto di lotte battaglie speranze desideri sogni.
È frutto di qualcosa che non muore.
Di quella fiammella che prima o poi si riaccende.
Oltre l’ostacolo.
Sempre.
La trovate su #Libero

#sbetti

Ripresi da

👉 https://tgpadova.telenuovo.it/cronaca/2021/10/26/parla-sara-moglie-onichini-ha-chiesto-lisolamento-per-le-minacce-ricevute-e-i-miei-figli

La forza ondulatoria della Lamorgese

Se il mio professore di fisica al liceo mi avesse spiegato così la “forza ondulatoria”, probabilmente avrei detto che era deficiente, dal latino deficiens, voce del verbo deficére, ossia mancante di.
Ai miei tempi infatti essere deficiente in greco significava non raggiungere la sufficienza necessaria alla promozione.
Orbene. 
L’acume del ministro Luciana Lamorgese si è dimostrato in tutto il suo splendore durante la relazione alla Camera e al Senato sui disordini di Roma del 9 ottobre scorso.
Un impegno che dovrebbe essere istituzionale.
La spiegazione cattedratica e devo dire molto utile sul moto ondulatorio controllato dal poliziotto la dice lunga sulla preparazione del ministro che non andrebbe bene nemmeno a controllare un pugno di mosche.
Ma cosa ha detto la Lamorgese.
Dopo aver farneticato frasi tipo “è stata adombrata” – che roba è – “l’ipotesi della possibile presenza” – più passibile che mai – “in piazza di agenti di polizia infiltrati tra i manifestanti”, “sento di dover escludere anche in questo inquietante retroscena”. Soggetto. Verbo. Predicato.
Ecco, nello spiegare “alcuni esagitati che intendevano provocare il ribaltamento di un furgone della polizia”, la Lamorgese si è così chiarita, con tanto di fogli in mano dai quali leggeva: “in realtà quell’operatore stava verificando anche la forza ondulatoria scaricata sul mezzo e che non riuscisse a essere effettivamente concluso”.
Boia. Roba grossa. Un petardo. Micidiale.
Roba da professionisti.
Che roba è “la forza ondulatoria scaricata sul mezzo”? “E che non riuscisse a essere effettivamente concluso”?
Al di là della comprensione del testo che risulta incomprensibile perché non c’è nulla da capire, è anche incomprensibile dal punto di vista della lingua italiana. L’analisi logica. Grammaticale. Quella del periodo. Peggio mi sento.
Secondo la Lamorgese quell’operatore in sostanza stava verificando la forza ondulatoria esercitata sul mezzo affinché non si ribaltasse.
Ma anche qui tradotto e interpretato non si capisce ancora un tubo.
Queste frasi sono rimbalzate nelle chat dei poliziotti che chiedono addirittura dei bandi per l’assunzione di verificatori della forza ondulatoria.
Ora, comprendo che chiedere a un ministro di parlare in italiano corretto sia impresa titanica ma almeno non farci prendere per il culo questo sì.
Vi auguro buonanotte

#sbetti

Arcuri indagato. In piena pandemia c’era chi faceva cassa

Questa cosa di #Arcuri indagato per le #mascherine è abbastanza imbarazzante, a tratti riprovevole. Qui non parliamo di un social media manager che si faceva o forse no di coca, qui parliamo di soldi dello Stato e di mascherine difettose importate dalla Cina, date a ospedali e assistenti sanitari, in pieno periodo covid.
Durante la pandemia – il primo lockdown, quello duro – mentre la gente cantava dai balconi “riscopriamo i valori, vogliamoci bene tutti”, c’era qualcuno a cui avanzava tempo di fare soldi sulle disgrazie degli altri.
Il tutto condito con il bollettino dei morti.
La sera alle 18 ti davano la conta dei defunti che come una slot machine impazzita si piazzava sempre con un numero a tre cifre. Qualche giorno anche mille. Mille morti al giorno. Mille morti al giorno sono una valanga.
Un Vajont che spazza via tutto.
Allora mentre tutta Italia si preparava a vivere una nuova epoca terrorizzata dall’incubo del covid, c’è stato chi non ha perso tempo e ha provato a vedere se ne cavava qualcosa.
Orbene.
Arcuri è indagato – eh va bene è indagato voi direte, qui non vale, innocenti fino a sentenza definitiva certo, ma anche Morisi lo era e il popolino progressista l’ha condannato, Lucano invece era condannato veramente e l’hanno assolto, misteri della fede, la vita che gira al contrario – ecco Arcuri è indagato per corruzione (di cui è stata richiesta archiviazione), peculato e abuso d’ufficio per la maxi commessa da 1,25 miliardi per 800 milioni di mascherine Made in China.
Mascherine non solo alquanto costose ma anche pericolose per la salute.
Le fiamme gialle ora stanno cercando di recuperare quel che resta di quelle mascherine nocive ma quelle che sono andate, sono andate. E qualcuno si sarà pure protetto. Male.
Una fornitura ottenuta grazie a un gruppo di imprenditori di questo comitato d’affari finito sotto accusa per le relazioni personali tra Benotti e Arcuri, che avrebbe garantito provvigioni per 72 milioni di euro.
Domenico Arcuri infatti avrebbe usato i soldi del Fondo istituito per l’emergenza – impressionante davvero – per pagare la provvigione all’imprenditore Mario Benotti.
Non solo. Si sospetta anche che questa provvigione non sia stata nemmeno rendicontata. Ossia Benotti incassava e amen.
Arcuri si difende dicendo che Benotti era solo un procacciatore d’affari. Nessun mediatore. E che lui della trattativa non sapeva niente. Anzi ha pure preso le distanze da Benotti. Con cui guarda caso da gennaio a maggio 2020 si è scambiato ben 2529 tra messaggi e chiamate. Insomma qualcuno direbbe: i conti non tornano.
Nella sua arringa difensiva, tirando in ballo lo stato d’emergenza, dovuto all’emergenza appunto, ha tirato in mezzo tutto, facendo anche il nome di Giorgia Meloni che non c’azzecca nulla.
Ma quello che è ancora più grave e che reca disgusto è che le certificazioni delle mascherine che non hanno superato nemmeno gli esami per aerosol di paraffina, venivano prodotte dalle aziende dopo i pagamenti delle forniture.
Ossia prima venivano comprate. Poi pagate. E poi a tempo perso si certificava che queste andassero bene.
“La validazione” del materiale, si legge nel decreto, “ha quasi sempre seguito i pagamenti delle forniture”.
Del resto, non c’è da stupirsi, un modus operandi tipico. Paghi e tutto accade.

#sbetti

Poi le cose si riallineano perfettamente

Venezia ottobre 2020

Dal diario 📔 di Facebook, 20 ottobre 2020

Poi le cose tornano tutte al loro posto e tutto si riallinea perfettamente. Accade in tutte le situazioni: lavoro, famiglia, amicizia, amore.
Domenica sono stata a #Venezia e devo dire che sono rimasta stupita. Ho visto una Venezia diversa. Non era più la Venezia stuprata dai turisti, che ci mangiano, ci bevono, ci pisciano in mezzo all’acqua; si pulivano le mani sulle vetrine dei negozi e come regalino lasciavano la carta d’argento di pollo in mezzo alle calli. No.
Ma non era nemmeno la Venezia del lockdown. Quella che faceva impressione. Quella dove potevi camminare per mezz’ora e non incontrare nessuno. Solo il rumore delle gondole che sbattevano le une con le altre ti facevano compagnia.
Solo lo stridio dei gabbiani. Solo lo sciabordare dell’acqua di mare ti inseguiva. Nient’altro. Ci sono stata un giorno e mi è venuta l’angoscia. Mi sentivo come sospesa su una nuvola atterrata per caso con un treno in un posto senza spazio. Surreale. Non era nemmeno la Venezia dell’acqua alta. Quella che affogava nella marea e traboccava d’acqua da tutte le parti.
Quella che ho visto domenica invece è una Venezia bella, piena di veneti. Di gente del posto. Piena di italiani. Venezia si è riempita di veneti ha detto qualcuno in una trasmissione dove sono stata. Ho visto una Venezia rispettata. No violentata. Non c’erano turisti che si tuffavano da Rialto, o che nuotavano lungo i canali; non c’erano coppie che facevano sesso come se il molo fosse un palco. Era una Venezia interiore. Che si lasciava guardare. Perfino toccare. Era una Venezia bella che tutto dava e niente chiedeva. Così.
Come se le cose poi si riallineassero, come se le cose poi si ricongiungessero. Come se avesse sofferto tanto e ora avesse il suo riscatto. Come se fosse tornata a quello per cui era nata.
Era come tornare allo stato primordiale. In cui ti guardi attorno, alzi lo sguardo al cielo e dici: “è così che deve andare. Questo è lo stato delle cose. Questa è la Venezia come dovrebbe essere”.
Accade un po’ con tutto. Non temete. Prima o poi tutto si riallinea. E allora sarà così come deve veramente essere.
State sintonizzati.

#sbetti

#nevergiveup

Giampaolo Manca: 37 anni di galera. Ora in un film 🎥

“Giampaolo Manca?”. “Sì?”.
“Sono Serenella Bettin”. Comincia così, con una semplice telefonata.
Giampaolo Manca è un ex esponente di spicco della Mala del Brenta.
Il suo nome lo leggevo nelle sentenze quando facevo la studentessa di Legge. Mai avrei pensato di poterlo incontrare.
Manca ha 67 anni. Di cui 37 li ha fatti in galera. Entrato per la prima volta in un carcere minorile per aver rubato in una famiglia nobile, da quel momento la sua vita è un andirivieni tra le carceri di massima sicurezza. Niente sconti. Non ha collaborato.
Il suo nome lo fece Felice Maniero. Faccia d’Angelo. Un giorno Giampaolo Manca mi scrive su Facebook. Mi manda un messaggio su Messenger. Riversando la sua simpatia per una cosa che avevo scritto contro Fedez.
Da lì comincia a scrivermi, ma gli dico che se avesse voluto parlarmi di qualcosa intanto avrebbe potuto mandarmi una mail. Gli do l’indirizzo. E lui mi scrive. Alla fine del messaggio mi manda il suo numero.
Faccio passare qualche giorno e lo chiamo. “Giampaolo Manca?”. “Sì chi parla?”, “Sono Serenella Bettin”.
Cominciamo a parlare. Del più e del meno. Poi il discorso scende nel suo passato. Nel suo trascorso. Gli dico che non faccio servizi al telefono. E che se avessimo voluto avremmo potuto incontrarci.
Mi dice che sta girando un film. Gli dico dove come quando cosa e perché.
L’appuntamento è per il 14 ottobre in un albergo di Venezia. Lì ci sono le riprese.
Penso molto se andare all’incontro. Io un’intervista la soffro. Studio. Mi documento. Rifletto. Mi lascio scavare dentro. Cerco di scavare, non gli risparmio niente. Prima dell’incontro di persona lo sento varie volte per telefono. Sono chiacchierata lunghe. Giampaolo mi dice che all’inizio era un gioco e che poi era diventato un lavoro. Faceva un sacco di soldi. Si rendeva conto. Ma… La moglie l’ha aspettato per 37 anni.
Poi mi dice anche che è diventato nonno. “Dio mi ha perdonato con questo dono. Ma sono io che non perdono me stesso”.
Quando arrivo e faccio la scalinata che mi conduce di sopra nella sala dell’hotel, Giampaolo Manca sta girando una scena. Una scena dolorosa. La Mala del Brenta è quella organizzazione criminale che negli anni 70 e 90 ha terrorizzato tutto il Nordest. Crimini, furti, rapine, omicidi, traffico di sostanze stupefacenti.
Capisco che il momento è doloroso. Aspetto fuori. Guardo. Scruto. Osservo. Mi viene incontro il figlio.
Quando apro la porta, Giampaolo Manca è in lacrime.
Da qui comincia il mio racconto sul #Giornale

sbetti

👉 https://www.ilgiornale.it/news/politica/boss-brenta-debutto-attore-rinasco-film-1982590.html

Chi ha protestato l’ha fatto col culo degli altri, che si sono vaccinati

A me sta storia delle proteste per il Green Pass – come lo chiamano quelli che non sanno l’italiano e parlano inglese – sta cominciando a scassare la minchia.
Proteste basate sul nulla. Un documento che ti consente l’accesso al lavoro e in pubblico.
La gente che oggi ha protestato ha potuto farlo perché l’80% degli italiani ha fatto il vaccino, perché l’anno scorso di questo periodo stavamo richiudendo tutto. Il ritorno della dad. Le lezioni a intermittenza. Le zoommate con le studentesse bendate. Mia madre che faceva lezione in piedi cinque volte al giorno per 25 bambini diviso 5.
I bar vuoti. I ristoranti anche. E la gente che ricominciava a ordinare il lievito e impilare carta igienica per i culi.
Chi oggi ha protestato e chi continua a protestare e rivendica libertà – la Libertà, pronunciano questa parola con la bocca spalancata come se stessero cacciando le mosche, l’avessero mai vista la vera libertà, poveri illusi – chi oggi ha protestato l’ha potuto fare grazie a quattro coglioni che si sono vaccinati perché più liberi degli altri.
Qualcuno ha detto che è colpa di Mario Draghi.
Non vedo dove, in questo contesto, dato che in giro è tutto pieno. E il 94 % degli studenti è in presenza a scuola. L’anno scorso a scuola non c’erano nemmeno i banchi perché quelli ordinanti dalla sedicente Azzolina erano finiti in soffitta.
Qualcuno ha detto anche che dovremmo ringraziare i portuali di Trieste perché loro stanno mettendo in pratica un qualcosa che nel lavoro era da tempo sopito: la solidarietà.
Io non la voglio la solidarietà dei portuali di Trieste.
Non la voglio.
Non me ne faccio niente. Se l’alternativa è quella di chiudere ancora.
Chi oggi ha scioperato ergendosi a paladino della libertà, libertà libertà libertà ahahahahah, l’ha fatto col culo degli altri che si sono vaccinati.
Comodo.
Vedo anche politici strizzare l’occhio ai portuali, con tanto di foto “io mi vaccino”. Non dovevano vaccinarsi allora. Comodo proteggersi e mandare avanti gli altri.
La gente non vede l’ora di uscire da questa storia.
Dal 21 febbraio 2020 le persone non parlano nient’altro che di covid. È tutto un lamento. Una protesta. Un’agonia. Un nervosismo in giro.
Nei mesi peggiori quando tutti cantavano dai balconi, tutti aspettavano il vaccino. Poi quando il vaccino è arrivato una minoranza ha tirato il culo indietro. Legittimo. Certo. La vostra rivendicazione della finta libertà di scelta.
Quella che vi fa sentire macchioline nell’universo.
Gridano alla dittatura. Ma non si capisce dove. Visto che se sei vaccinato entri. Se non lo sei ti fai un tampone. A pagamento.
Allora dovevano mettere l’obbligo. E nessuno più si sarebbe posto il problema. Perché così hanno creato l’alibi perfetto. Il Green pass non lo voglio. Perché il lavoro è un diritto.
Certo era un diritto anche quando cantavate dai balconi e aspettavate il bollettino dei morti.

#sbetti

Sono cresciuta in una facoltà dove il cortile nuovo è il Cortile Littorio

Sono cresciuta in una università dove il cortile nuovo si chiama Cortile Littorio.
Nel cortile ci sono l’Aula degli Studenti e quella delle Studentesse. In genere in quella delle Studentesse ci finivano solo le femmine. In quella degli studenti ci finivano entrambi. La donna andava sempre dai maschi. Sulla struttura in alto che si affaccia sul Cortile Nuovo e che racchiude la “Sala del Collegio Accademico”, ci sta un altorilievo in travertino di Attilio Selva, del 1939, che rappresenta la goliardia padovana e riflette i caratteri apologetici del nazionalismo fascista. Anzi. Sul Cortile Nuovo c’è anche un’iscrizione dedicata a Mussolini.
Davanti la scalinata che porta al Rettorato, c’è la statua del Palinuro di Arturo Martini dedicata a un comandante partigiano. L’opera, donata all’Università di Padova dalla Brigata partigiana “Martiri del Grappa”, raffigura come Palinuro il partigiano Primo Visentin, comandante di battaglione della divisione “Monte Grappa”, caduto in combattimento a Loria (Treviso) il 29 aprile 1945.
Davanti a questo c’è una grossa lapide con i nomi dei caduti che prende tutta la parete.
Tra questi c’è anche il nome di Norma Cossetto, la studentessa italiana stuprata seviziata dai partigiani comunisti e poi infoibata. Era il 5 ottobre 1943. Lei era iscritta all’Università di Padova e stava preparando la tesi.
L’Università di Padova fu la prima in Italia e in Europa ad accettare gli studenti di religione ebraica, la presenza di studenti stranieri fu favorita per l’uso del latino come lingua franca.
Gli studenti di lingua tedesca poi, che costituivano il gruppo più numeroso, avevano la libertà di aderire al culto protestante e laurearsi senza convertirsi alla fede cattolica, come invece prescriveva una bolla papale.
Nel Palazzo del Bo è presente il più antico teatro anatomico stabile del mondo (1595), a forma di cono rovesciato su sei registri ellittici. Qui hanno studiato figure come Copernico e Andrea Vesalio; qui tra il 1592 e il 1610 ha insegnato Galileo Galilei: l’ osservatore del cielo e della terra, l’inventore del del cannocchiale, colui che da quella cattedra immensa spiegava l’andamento dei proiettili, l’immaginifico scopritore delle leggi che regolano la gravità e l’inerzia.
E qui da questo luogo quasi tre secoli e mezzo fa, il 25 giugno 1678, uscì la prima donna laureata al mondo: Elena Lucrezia Cornaro Piscopia.
A Padova negli anni 70 si respirava il clima da guerra mi dicono. Famosi sono gli attentati.
E quando mi sono iscritta a Giurisprudenza a Padova, cosa di cui andavo e vado fiera, automaticamente passavi per quella fascista.
Ancora oggi sui muri della Falcoltà sono riapparse quelle scritte.
In realtà.
Quell’Università per me ha rappresentato la maturazione. La libertà. La spensieratezza prima della responsabilità. Il traguardo. Il coraggio. I sogni. La voglia di ricominciare. E per come mi ha formato, la rifarei altre cento mille volte.

#sbetti

Le materie prime non ci sono ma l’Italia pensa ai fascisti

Se penso che siamo riusciti ad andare oltre quando in Italia imperversava il virus, e rischiamo di fermarci col vaccino, mi viene il vomito.
Il vomito.
Se penso poi che la maggiore preoccupazione di una parte della politica italiana sia, in questo momento, dar la caccia ai fascisti mi viene ancora di più da vomitare.
Come se l’Italia ora fosse preda di quattro maniscalchi facinorosi che si divertono a devastare le sedi dei sindacati. Quelli sono estremisti.
Vedo politici impegnati a twittare e Facebookkare e dare la caccia alle streghe, finita da un pezzo, anziché preoccuparsi dei veri problemi della gente. Dei problemi veri della gente non si parla più.
“Chiudete Fn”, gridano da sinistra.
Si è perso il contatto con la realtà. Basta andare in qualunque porto o zona industriale che lavora da mattina a sera per capire che alla gente della caccia alle streghe e di questo presunto avvento del fascismo non frega niente. Poco. Nulla. Zero. Meno di zero.
Vedo politicanti sinistroidi chiedere in continuazione gli esami del sangue a quelli di destra. Il controllo giornaliero. “Dite che siete contro i fascisti!”, “Ditelo!”, “Dovete schierarvi contro i fascisti!”, come se in Italia tutto il centro destra fosse mosso da animi di squadristi che altro non fanno che manganellare la gente.
Berlusconi come Mussolini avevano detto.
Gente che non ha rispetto nemmeno della storia. L’avessero mai studiata. Mi fanno pena. Il tutto mentre da domani rischia di andare in lockdown l’intero Paese. I portuali si fermano. Gli autotrasportatori anche. Le merci non arrivano. Le materie prime stanno subendo rincari pazzeschi. Tempi di consegna biblici. Parlo con imprenditori che se prima attendevano quattro settimane per avere un prodotto, ora attendono sei mesi. Bollette alle stelle. L’industria della carta da 400 mila euro a un milione e seicentomila.
Per non parlare dei costi. Ne avevo anche scritto.
Titolari di aziende che pagano bancali di legname il quadruplo rispetto a quello che pagavano prima.
Ieri la Cnh Industrial ha detto che chiuderà temporaneamente alcuni siti produttivi di macchine agricole, veicoli commerciali e sistemi di propulsione in Europa, per le interruzioni alla catena di fornitura.
In giro, mentre la gente trema per il ritorno del fascismo, ci sono ritardi, carenze di prodotti, costi in crescita che continuano a tormentare le aziende e gli imprenditori che non sanno come fare.
Anche al Salone Nautico mi hanno detto che alcuni non hanno partecipato perché mancavano i pezzi. Non arrivavano. I ritardi poi di alcuni prodotti hanno reso impossibile fabbricarne altri.
Se si fermano i portuali poi siamo finiti. Il trasporto marittimo è la fonte principale che fa ruotare l’economia mondiale. Ne basta uno chiuso per provocare effetti a catena in tutto il mondo. Mancano magazzinieri, ispettori, scaricatori; le giuste norme poi di contenimento del virus, hanno raddoppiato i tempi di consegna, carico, scarico merci. Con il risultato di magazzini pieni perché le merci non si fanno uscire, magazzini vuoti, fabbriche chiuse, navi bloccate e camion fermi. Le merci si intasano provocando dei colli di bottiglia spaventosi.
Perché abbiamo sempre considerato tutto ovvio, normale, scontato. Quando la gente compra un divano o un televisore, o un’auto, si limita a vedere il prodotto finito. Non sapendo che dietro c’è un mondo che ci lavora. Un villaggio pieno di ingranaggi. Va a puttane uno.
Vanno in vacca tutti.
Questo mentre l’Italia è impegnata a dare la caccia ai fascisti.

#sbetti

In Italia se sei di destra sei fascista

In tutto questo manicomio da talebani, mentre il resto del mondo parla di cose serie, io una cosa l’ho capita.
In Italia non puoi essere di destra. Perché se sei di destra sei sicuramente fascista. E se vai contro un comunista sei fascistissimo.
Io non ho vissuto gli anni 70 a Padova, ancora dovevo nascere, anzi non ero nemmeno nella testa probabilmente di chi mi ha messo al mondo – sempre grata – ma a giudicare dall’acredine che leggo sul web e dall’odio che percepisco in giro, mi pare di capire che non ci andiamo lontano.
È accaduto che i giallorossi che ormai sono diventati arancioni, abbiano chiesto lo scioglimento non solo di Forza Nuova, ma di tutti i movimenti politici di chiara ispirazione neofascista.
Tale Giuseppe Provenzano, poi, il numero due del Pd, su Twitter ha detto che l’ambiguità di Giorgia Meloni “la pone fuori dall’arco democratico e repubblicano”. Cosa che mi pare alquanto grave dato che Fratelli d’Italia rappresenta un partito sorretto dal consenso popolare e quindi dal voto di una parte dei cittadini. Ma è evidente che il voto degli elettori non conta un tubo. E quindi ponendo al di fuori dell’arco democratico un partito si oscurano anche quei voti che lo sostengono. Boia. Roba grossa.
Da Delitto Matteotti.
Flaiano diceva che i fascisti si dividono in due categorie: i fascisti e gli antifascisti.
Ma il punto è che queste derive comuniste, diktat staliniani – ancora presenti mi pare evidente- , non tengono minimamente conto che il fascismo è finito mezzo secolo fa e che le persone di cui parlano Mussolini non l’hanno nemmeno mai conosciuto. Ragionare poi col culo anziché col cervello, come scrive oggi Vittorio Feltri, pare sia cosa gradita a una certa parte politica nostalgica del pensiero unico che ti attacca semplicemente se non la pensi come loro.

#sbetti

La gente tira in ballo la Costituzione e non sa manco cos’è

Ultimamente la Costituzione va molto di moda. Permettetemi un paragone surreale e simpatico ma pare sia diventata un po’ come il Titanic.
La maggior parte della gente prima che Cameron facesse il film, non sapeva manco esistesse.
Prima di allora il Titanic non se l’era cagato fondamentalmente nessuno. Un po’ come la nostra Carta Fondamentale che per alcuni non conta nemmeno come ferma porte perché è troppo fina. Sono 139 articoli.
Ecco in questi giorni sta andando molto di moda tirare in ballo la Costituzione. Riempirsi la bocca.
Gente che a volte non l’ha manco mai letta. Pochi per fortuna. Ma che bastano a rovinare il lavoro di chi l’ha letta per davvero, per il principio assodato per cui “fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”
Il punto è che se non hai una formazione giuridica non puoi capire, a meno che qualcuno non te lo spieghi, cosa sia il bilanciamento degli interessi.
E che la libertà non esiste per davvero. Non puoi capire cosa voglia dire riserva di legge. Quando un diritto prevale su un altro e via discorrendo. “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti. Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge”.
Tutte cose che o impari se studi legge o apprendi se ti documenti, leggi, e stai a sentire chi ne sa qualcosa di più degli altri.
Tante costruzioni giuridiche che chi è abituato a leggere due tre cose – gli bastano quelle – e trarne le conclusioni, non sa nemmeno esistano.
Beati loro.
Mi imbatto a volte con persone lodevoli ed eccellenti nel riparare lavatrici e caldaie, che mentre avvitano tubi, tirano in ballo articoli farneticando “mio diritto personale”, “c’è scritto sulla costituzione, è anticostituzionale, viola la libertà di movimento”. “Ci hanno tolto la libertà”. Ammesso esista.
A volte trovo anche cattedratici con eccelsi titoli di studio che tirano in ballo la suddetta Carta senza sapere esattamente in che contesto venne scritta, quando, come, perché, e non ricordano nemmeno la data di entrata in vigore. Cioè se glielo chiedi rimangono un attimo balbi e ti rispondono che non hanno dimestichezza con i numeri. Imbarazzante. Davvero deplorevolmente imbarazzante.
Persone invertebrate, poche per fortuna, che ripetono a mena dito un comma, solo quello, senza contestualizzarlo, senza vedere se ci sono riserve di legge, solo perché l’hanno visto apparire su Facebook in uno di quei meme che chi non ha un tubo da fare si diverte a far rimbalzare ovunque.
Le libertà costituzionali sono già state falcidiate durante la gestione del primo lockdown. Ma anche lì il confine è assai labile.
E come sarà si prendono sempre le strofe degli articoli, come delle canzoni, che ci fanno più comodo, senza leggere tutto il resto.
Di questi tempi poi sta diventando incostituzionale tutto. Metti la mascherina. É incostituzionale. Ti vaccini. È incostituzionale. Prendi il treno e devi esibire il biglietto. È incostituzionale. Vai al supermercato è incostituzionale. Esprimi la tua su Facebook è incostituzionale. Fare famiglia è incostituzionale. Esibire un certificato anche.
Non hanno invocato la Costituzione solo quando hanno aderito in massa alla lotteria degli scontrini o ai bonus elargiti da Conte. L’aver messo a disposizione le proprie password e credenziali invece è stato costituzionale per davvero.
Del testo a farci infinocchiare siamo bravi.
Parlare a vanvera poi è diventato il più costituzionale dei diritti.
Con il rispetto dei diritti di tutti.

#sbetti

Vajont

Ricordo che ero bambina. Avevo nove anni.
Avevo nove anni quando mi portarono sulla Diga del Vajont. Mi dissero: “qui ci furono migliaia di morti”. Io non capivo. Non sapevo. Volevo capire. Volevo sapere.
Non capivo come una montagna potesse staccarsi da un monte, prendere la sua corsa, arrotolarsi, inzupparsi con i fiumi, le acque; soppiantare un paese e far straripare i laghi, e spazzare via i campanili e le chiese.
Non lo capivo. Ma ricordo benissimo quel giorno in cui mi ci portarono a vedere quel posto che “ha fatto un sacco di morti”. Era estate. Forse luglio. Ero con i miei genitori. I miei zii. I miei cugini. Le solite gite tra parenti.
D’improvviso mi ritrovai sopra un pezzo di strada e giù c’era lo strapiombo. Eravamo a piedi. Ho ricordi offuscati ma quello strapiombo lo ricordo benissimo. Cupo. Bianco ghiaccio. Colore cemento. Una gola infinita che si ficcava giù a spirale nella terra e andava giù dritta verso il nulla.
Un muro bianco di cemento armato che finiva velocemente nel vuoto.
Sembrava riecheggiare l’eco dell’acqua. L’eco della gente. L’eco delle persone. L’eco del vento che spazza via tutto. Mi dissero che molte case caddero per la sola forza dell’aria. Mossa dall’acqua che veniva avanti. Bastò la forza dell’aria a buttarle giù. Non serviva nemmeno che l’acqua le toccasse. Quel giorno di quel 9 ottobre 1963 erano le 22.39.
Una massa di 270 milioni di metri cubi di roccia e detriti si stacca dal monte Toc e frana a valle.
Chi riesce a svegliarsi, viene svegliato per il boato.
La parete del Toc, larga quasi tre chilometri e formata da boschi, coltivazioni e case, affonda nel bacino sottostante e provoca una devastante scossa di terremoto.
Il lago, contenuto nella diga, straripa. Si forma una massa d’acqua che prende una velocità sempre più inaudita.
Un muro d’acqua, alto più di cento metri, mescolato a tonnellate di detriti, spazza via le abitazioni e tutto quello che incontra.
I tralicci della luce vengono tranciati. La vallata rimane al buio.
La prima ondata spazza via i paesi più bassi, quelli lungo le rive del lago: Frasègn, Le Spesse, Cristo, Pineda, Ceva, Prada, Marzana e San Martino.
La seconda si riversa verso valle. Supera la diga. La scavalca. Ci sbatte contro. La scuote. La sbatacchia. Non si incaglia.
La diga resiste.
Un’ondata di 50 milioni di metri cubi d’acqua precipita a piombo in picchiata con una velocità impressionante e sbatte sulla vallata sottostante.
La gola del Vajont – quella di me bambina, quando mi ci portarono – le dà maggiore forza. È la fine.
“Il greto del Piave fu raschiato dall’onda che si abbatté con inaudita violenza su Longarone. Case, chiese, porticati, alberghi, osterie, monumenti, statue, piazze e strade furono sommerse dall’acqua, che le sradicò fino alle fondamenta. Della stazione ferroviaria non rimasero che lunghi tratti di binari piegati come fuscelli. Quando l’onda perse il suo slancio andandosi a infrangere contro la montagna, iniziò un lento riflusso verso valle…”
Da lì, la furia dell’acqua lasciò posto a disperazione. Sangue. Dolore. Morte. Case ammucchiate. Devastate. Sparite.
Muoiono 1910 persone. Migliaia i senzatetto.
“Scrivo da un paese che non c’è più”, cominciò il suo pezzo Giampaolo Pansa.

#sbetti