Il mestiere più umano del mondo

Questa sera ero a cena con delle persone. E allora parlando del più e del meno a un certo punto una ragazza appassionata dei casi più eclatanti di cronaca nera mi fa: “ma tu hai mai seguito la cronaca nera?”. Allora le ho detto bé, cara mia, sì. Oh sì. Ancora adesso, quando c’è qualcosa li seguo. E me li ricordo sapete quei casi di cronaca nera. Incidenti. Mortali. Suicidi. Rapine. Furti. Omicidi. Pazzi assassini. Donne ammazzate. Prese a pugni, fatte a pezzi. Come mi ricordo anche di tutti quei pezzi sulle piste ciclabili, i consigli comunali, le proteste, l’erba alta, le lamentele e i rifiuti, che tanto cronaca nera non sono ma rendono l’idea. Si comincia con questi.

E allora stasera quando mi sono sentita fare quella domanda, per un attimo il mio corpo si è infreddolito. Per un attimo ho ripensato a tutte quelle volte in cui mi sono trovata sul posto di un incidente, con quel lenzuolo bianco steso a terra, che ti veniva da andar lì e dire cazzo tirati in piedi. E mi sono ricordata di quegli strazi ai funerali. Di quelle famiglie “distrutte dal dolore”. Di quelle madri che si aggrappavano ai padri per salire i gradini di una chiesa. E mi sono ricordata di quei mazzi di fiori sopra le bare con la scritta “Mamma, Papà”; due genitori che donano i fiori al figlio per il funerale è qualcosa di devastante, ti sconquassa l’anima, te la rivolta, per una settimana l’anima vomita lacrime, vomita rabbia, sforna angoscia.

E così come mi sono ricordata di quelle lettere degli amici, di quei palloncini che salivano in cielo, o di come quella volta a un funerale, c’era un’intera squadra di vigili del fuoco che trasportava la bara bianca di un bambino.

E mi sono ricordata di quelle letterine. Di quelle parole strozzate in chiesa. Di quei pianti. Di quelle lacrime.

Ma anche di quelle paure. Quando arrivavo da qualcuno che avevano appena rapinato. Ancora me lo ricordo quel vecchietto che si era trovato i ladri in casa. Fu uno dei miei primi servizi. E andai con il pigiama a farlo perché mi avevano appena chiamato e mi avevano detto: corri.

Così come mi sono ricordata di quei volti che avevano appena ammazzato. Di quelle donne massacrate in casa. E di quei parenti che ti chiamavano, perché in quel momento il giornalista diventava uno sfogo. Diventava un amico. E vi posso dire che ancora adesso conservo i rapporti con queste persone.

Ma soprattutto mi sono ricordata del contatto umano. E di quanto alla fine ti senti e ti sentivi sfibrata. Tanto che qualche anno fa, dopo l’ennesimo mortale in fila di un ragazzino, piansi perché non ne potevo più.

Perché non è semplice stare a contatto con chi soffre. Porsi a loro. Fare domande. Addirittura non farle perché siano loro ad aprirsi. Stare un passo indietro. Entrare in punta di piedi. Non fare come alcuni sfacciati che nemmeno con il dolore imparano a tacere. E poi provare a raccontare quello che a parole non si può nemmeno lontanamente spiegare. E allora dicevo, che sì, che soprattutto mi sono ricordata di quel contatto umano. Di quel contatto che questo mestiere ancora richiede. Di quella umanità e di quella sensibilità di perforare i sentimenti altrui da entrare in contatto con gli altri. Una sensibilità che ti spolpa. Che ti svuota. Che ti risucchia. Che ti sfibra. Ma una sensibilità che credo, sempre più, che i lettori vogliano trovare. Vogliono percepire. Perché, che se ne dica, questo mestiere è il mestiere più umano del mondo.

E i lettori, quelli veri, vogliono sentire che ci sei. Vogliono sentire che ci sei dentro.

Fino al collo.

#nottesbetti

#sbetti 📇🚬

Cosa provano le donne a rincasare la sera

Ieri sera ho avuto una sensazione bruttissima. Ma brutta. Brutta. Brutta.

Allora ero uscita da una riunione. Era tardi. Era buio. Era quasi mezzanotte. Ed era freddo. E allora avevo i pantaloncini corti. Quelli che però te li puoi mettere pure d’inverno e sotto ci metti le calze. Sì insomma quelli che possono essere pure tanto corti perché tanto sono pantaloni.

E allora insomma esco dalla riunione. Prendo le chiavi dell’auto. Estraggo una sigaretta dal pacchetto. Cerco l’accendino. Mi accendo la sigaretta. E mi incammino.

E allora sono lì che percorro il viale. Senza fretta. Senza ansia. Pensando solo alla fine di un’altra giornata. E all’inizio di quell’altra. Pensando che anche oggi ci siamo fatti il culo e domani ce ne faremo altrettanto.

Sono lì che cammino. Che gusto il profumo di tabacco che mi perfora il mio naso tappato da un mese, quando. Quando all’improvviso si alza il vento. Si muovono le foglie. Si sente perfino un ululato ululare. Si sente il rumore delle foglie spostate dal vento. Si vede il buio della notte. Voglio andare in cerca della luna. Ma non la vedo. Non la trovo. Forse se ne sta incastrata tra i rami degli alberi che disegnando ragnatele sopra la luna.

E poi. Poi all’improvviso un rombo di moto. Ma una moto fastidiosa. Una di quelle che pensi che sopraggiunga e ti spari un colpo in testa. E poi. Poi dei passi. Dietro di te. E allora cominci ad accelerare. Ad annaspare. Ad affannarti. Cominci a camminare più veloce senza far vedere che forse un po’ di paura ce l’hai. E allora i passi sono sempre più vicini. Sempre più dietro di te. Sempre più ansimanti. Sempre più riavvicinati. E così. Prendi. Testa alta. Petto in fuori. Apri l’auto con il click della chiave e subito sei dentro. Zac chiudi. L’uomo passa e tutto ok. Era solo qualcuno che passeggiava come te.

Ma per un momento.

Per un momento immagini che qualcuno entri dentro la tua auto. E che incappucciato inizi a gridare: “stai zitta, stai zitta, metti in moto ho detto, metti in moto”. E che con una pistola puntata contro ti ordini, con una voce rauca stridula e minacciosa, di accendere l’auto, di pigiare l’acceleratore e di partire. E così. Così ho chiuso gli occhi. Ho messo in moto, ho ingranato la retro e sono partita.

Dentro la mia auto, nessuno ovviamente.

Ma allora mi sono chiesta una cosa. Perché non credo di essere l’unica. Sì insomma non credo di essere l’unica a rincasare la sera tardi. A tornare di notte. A percorrere le strade da sola. A viaggiare nel buio. Come me ci sono tantissime altre donne che lo fanno. Magari prendono la metro. Magari vanno da sole in stazione. Magari salgono in auto parcheggiate dentro parcheggi sotterranei delle grandi enormi città. E in giro. Bé in giro, a meno che tu non sia a Roma zona Eur, dove ci ho vissuto, ecco, in giro forze dell’ordine se ne vedono poche. Perché poche sono le unità. Perché da sole non ce la fanno a stare a bada a tutti questi Paesi che si fanno la guerra a chi c’ha il campanile più alto.

Allora mi dico, ma in che cazzo di Paese vivo. Sì, in che cazzo di Paese vivo se fate le manifestazioni contro la violenza, se vi prodigate per i diritti, se mettete le bandiere a mezz’asta, se vi tingete di rosso, se vi mettete la barra rosso sotto gli occhi, se fate i convegni, se postate su Facebook “io dico no”, “no alla violenza”, “me too”, e altre cagate varie, quando una donna non può nemmeno camminare per strada alle undici di sera con la paura, non fottuta, di essere inseguita?

In che cazzo di Paese vivo?

In che cazzo di Paese vivo se al mattino devi pensare a come vestirti pure per la sera, perché poi la sera stai in giro e se c’hai la minigonna allora non va bene.

In che cazzo di Paese vivo se i diritti vengono calpestati da chi ha dei doveri?

In che cazzo di Paese vivo, se mette le panchine rosse e non è in grado di provare cosa provano le donne a rincasare la sera? Ecco. Pensateci.

Provate.

#nottesbetti

#sbetti

Pensiamo sempre di avere tempo

Pensiamo sempre di avere tempo. E invece. Invece facciamo a botte con questo tempo del cazzo. Con questo tempo per le cose frivole. E non abbiamo tempo per quelle importanti. Per quelle belle. Per quelle che farebbero sembrare questo Paese di fottuti meno frustrati e cafoni.

E allora oggi mi sono presa del tempo. Sì. Mi sono presa del tempo per me. Ma è stato tutto così all’improvviso sapete. Sì.

È successo che sono andata a trovare cinque minuti mia nipote. Mi mancava troppo. Sono risalita in auto e quando sono salita mi sono accorta che il simboletto della benzina non era nemmeno in riserva. Non c’era proprio.

Un simboletto vuoto che chiedeva aiuto.

In quel momento poi mi suonava il telefono, ma ho preso. L’ho lasciato squillare.

Ho preso coraggio. Ho acceso l’auto che evidentemente ciucciava gli ultimi goccioli di una benzina ammuffita e sono partita. E ho pregato perché non mi abbandonasse. Perché mi portasse dritta al distributore più vicino. E nel mentre del tragitto ho spento pure la musica. Mi dava fastidio. Mi sono accesa una sigaretta. Poi un’altra. Ho aperto i finestrini e sono arrivata dritta al distributore. Fatta la benzina. Sono tornata indietro. Ho ripreso l’auto e dovevo andare a un appuntamento. Così ho riacceso la musica e la radio passava, anzi cominciava, fatalità in quel momento la canzone di Baglioni, “La vita è adesso”. Già.

È adesso. Una delle mie canzoni preferite.

E allora mi sono detta: ora faccio una cosa. La guardo questa vita che è adesso.

La guardo e ve la racconto.

E così. Così per un quarto d’ora buono ho osservato questa vita che vive e che non rincorre affannosamente qualcosa.

L’ho osservata. L’ho mangiata. Ci ho fatto l’amore e mi è piaciuto.

Sì. E allora in questo quarto d’ora di tragitto con l’auto ci ho visto i bambini che giocavano a calcio. Ci ho visto le mamme che spingevano il passeggino. Ci ho visto la tipa che faceva jogging. Ci ho visto i negozianti scaricare le merci. Ci ho visto quel ragazzo in carrozzina che forte percorre le vie del paese. Ci ho visto l’uomo che leggeva il Giornale. Ci ho visto la donna che sbatteva i tappeti. Ci ho visto i ragazzini che giocavano a fare i grandi sopra le murette. Ci ho visto le auto partire. La ragazza col giubbotto invernale aspettare l’autobus. Ci ho visto l’auto in sorpasso. La gente bere l’aperitivo. L’uomo chiedere indicazioni. Il verde scattare. Il sole tramontare. Ci ho visto anche un uomo che mentre passavo ne abbracciava un altro. Così, mentre il cinese dietro di lui correva con un sacchetto delle immondizie in mano.

E così ci ho visto la vita. La vita che è adesso.

E con questo. Vado a tabaccarmi ed aperitivarmi.

#buonaseratasbetti

#sbetti

A quel ragazzo seduto su uno sgabello

Dal diario di Facebook di venerdì scorso.

Oggi mi è successa una cosa.

E non lo so se questa persona mi sta leggendo, ma volevo provare a lanciare un messaggio. Allora oggi mi trovavo in un supermercato. Sapete no quelle spese che si fanno, nel mezzo della “pausa” pranzo, mentre tra una mano tieni il telefono, nell’altra l’agenda e in mezzo alle gambe la lista della spesa. Ecco.

E allora sono entrata in questo supermercato e dovevo chiedere una cosa. Così mi avvicino al cassiere e vedo che è un “ragazzo” giovane sulla quarantina con gli occhiali e il maglioncino girocollo marroncino.

Allora lo guardo. Gli chiedo dove mai fosse un prodotto che cercavo e mi risponde con la più assoluta gentilezza. Però vedevo che negli occhi aveva qualcosa che non andava.

Allora guardo la fede al dito e mi dico: no bé, non ha gli occhi di chi soffre per amore. Gli occhi di chi soffre per amore sono quelli che somigliano a un cane che non può abbaiare. Gli amori non corrisposti. Quelli malati. Quelli gelosi. Quelli dove ci si deve sempre tenere e mai manifestare. Ma allora mi sono detta no. Lui non soffre per amore.

Anzi, non vede proprio l’ora di andar via di qui. E infatti.

I suoi occhi erano quelli rassegnati.

Di chi ormai sta lì credendo che il mondo che sta fuori sia pure bello, ma che lui sta in una gabbia.

E infatti gli ho guardato il camice del lavoro ed era tutto impolverato. Tutto pieno di pelucchi. Come se fosse “tanto prima me lo tolgo meglio è”. E allora ho alzato lo sguardo e ho visto che il tipo se ne stava seduto in uno sgabello al posto di comando. Cinquanta centimetri di un posto nel mondo, per sbattere tastierini di una cassa che ingoia e rigurgita il denaro degli uomini. E subito dietro quella cassa, dietro la sua testa, una barra di metallo del colore grigio di un grigio freddo se ne stava incollata alla parete, che ti sembrava di stare in qualche sala di qualche medico legale che seziona cadaveri e li ricompone.

E allora poi all’improvviso è entrato un signore. Un tunisino credo. Ha fatto il giro. Ha preso due cose. È uscito, lui lo ha salutato per nome; io stavo impalata a intralciare il traffico, e mi ha chiesto permesso.

Poi è arrivato un altro. Anche di questo il cassiere sapeva il nome e il cliente gli ha perfino lasciato un centesimo di mancia. Quando noi chiediamo perfino di arrotondare per difetto.

E allora lui sapeva i nomi di tutti. E si rapportava con i clienti con una gentilezza che uno si chiede: Dio mio come fa, come fa. Come fa a stare seduto su uno sgabello da macellaio, con dietro quella barra di metallo che ti sembra di stare a sezionare cadaveri, con quel freddo addosso ed essere pure così gentile.

Quando alcuni, poggiando il culo su posti confort, rispondono al telefono che pare che un’ape li abbia punti giusto a metà tra una chiappa del culo e l’altra.

Dio mio quanto abbiamo da imparare.

E allora ho visto che era gentile e siccome mi cibo delle storie degli altri, ho iniziato a parlare. Anzi veramente abbiamo cominciato insieme.

E allora mi ha detto che ha un problema. Che adesso non sto qui a dirvi quale.

E insomma che in sostanza viene abbastanza sfruttato. Che non si trova bene. Che non è possibile. Che ha provato più e più volte a denunciare ma non è servito a niente. Si è sempre trovato da solo.

E allora gli ho detto: “vattene, hai la vita davanti, cerca altrove, oppure battiti e fa in modo che le cose cambino”.

E allora lui mi ha detto di no. Che non si può. Che i martiri sono sempre finiti male. Che in questo mondo, in questa Italia, va avanti chi lavora a testa bassa senza dire niente né fare storie.

E che alla fine, ci avevo azzeccato, quando finisce non vede l’ora di filare dritto a casa.

Poi a un certo punto ha usato un vocabolo. Un vocabolo che solo uno studente di Giurisprudenza può sapere.

E così gli ho chiesto: “ma sei laureato in Giurisprudenza?”. E lui mi ha detto: “sì”.

Anzi. Nemmeno con tanto vanto. Non come quelli damerini fighettini che si prendono la triennale e pare che la Nasa non possa stare senza di loro.

Laureato in Giurisprudenza a Padova poi, ai tempi in cui c’era il 18 al volo e ai tempi in cui se non usavi almeno un vocabolo in latino eri un coglione finito a Palazzo del Bo solo perché non sapevi che fare.

E così mi ha raccontato anche del suo esame di Filosofia del diritto. E di quanto si vedeva amasse questa disciplina.

Allora l’ho riguardato, e gli ho detto: “alza la testa, vai avanti, battiti per i tuoi diritti”.

E lui mi ha detto no. E ancora e ancora no. No. Mi ha detto che a denunciare si rimane soli.

E allora gli ho detto: “dillo a me. Sai anch’io ero rimasta sola. Ero appunto. Ma si va avanti. Con coraggio. Senza paura”.

Ma niente. Niente. Non c’è stato niente da fare. E allora non lo so.

Non lo so se ora da qualche parte lui mi sta leggendo.

Ma quando oggi sono uscita, accendendomi quella sigaretta, ho sperato che la nostra chiacchierata un giorno possa servire a qualcosa.

E poi stasera ripensando alla sua storia, mi è venuta in mente questa immagine che ho scattato.

Questa qui. Sì.

Perché a volte, anche se quello che vedi sembra possa bastare, se scosti i rami, lo spettacolo è sensazionale.

#nottesbetti

#sbetti

La vita di chi lavora

Poi ti dicono la vita dell’essere umano che lavora. La vita di chi, se non hai figli, secondo la stragrande maggioranza della gente non ha un cazzo da fare. E allora la vita dell’essere umano che lavora è correre tutto il giorno per finire la sera dell’equinozio di primavera spiaccicata addosso a un barattolo di sugo.

E allora te ne accorgi quando la vita ti manda dei segnali. Oh sì. Te ne accorgi. Eccome se te ne accorgi. Te ne accorgi quando la vita ti dice che devi un attimo rallentare se non sei in grado nemmeno di vedere un barattolo di sugo che ti sta giusto davanti in mezzo ai piedi. Io.

Io che ho sempre avuto un ottimo rapporto con i barattoli di sugo. Io che il sugo me lo spalmo la mattina per colazione. Io che il sugo me lo trovavo sempre a casa di mia zia quando tornavo da scuola.

E allora ve la racconto la vita di quest’essere umano che lavora. Perché la vita dell’uomo che lavora è svegliarsi al mattino, non fare in tempo ad aprire gli occhi e avere già le chat di whatsapp inondate di messaggi. Uno scrive da una parte. Uno scrive da un’altra. Un altro ti scrive per sapere se hai letto quel cazzo che prima ti aveva scritto. Un altro ti chiama. Un altro ti cerca. Un altro ti anticipa l’appuntamento giusto all’ora in cui volevi andare a correre e invece non fai in tempo nemmeno a mettere su il caffè.

E allora oggi che giornata. Stamattina vengo su dal letto, metto su il caffè, entro in doccia, esco dalla doccia, bevo il caffè, fumo, leggo i giornali e già avevo paura a prendere in mano il telefonino. Poi le mail. Whatsapp. E allora rispondo. Intanto metto il rimmel. Mi vesto in un baleno e poi prendo l’auto. Già. E allora corri. Sei in ritardo. Arriva Zaia. Le fasce tricolori. I discorsi. Le strette di mano. I politici che si guardano l’un con l’altro. Gli appunti. Le parole. Gli spintoni.

E tutto finisce in un bel rinfresco dove faccio in tempo ad afferrare due biscotti quando mi ferma un tipo e mi si mette a parlare. E allora siccome mi pareva brutto mangiargli davanti, mentre questo mi parlava del kamasutra degli angeli, prendo i biscotti, afferro sgattaiolatamente una salvietta, ci avvolgo biscotti e li metto in borsa. Poi mi dimentico di avere i biscotti dentro la borsa e come se niente fosse afferro il pacchetto di sigarette ed estraggo una cicca. E allora poi riprendo l’auto. L’aperitivo di lavoro. Le telefonate. I pugni sul tavolo. Le speranze. I desideri. Il telefono che squilla. Mi metto a scrivere. Mangio. E poi via fino a sera. Ma poi.

Poi ti viene in mente che a casa, dentro la credenza, dentro al frigo che hai fotografato al mattino per capire cosa effettivamente manca, ecco mi viene in mente che mancano alcune cose essenziali. E quindi pensi: bene #Sbetti, sono le sette di sera. Alle otto e un quarto hai un riunione, alle nove e un quarto ne hai un’altra. Se ti fermi in velocità. E corri dentro al supermercato dritta verso la meta senza guardare i carrelli degli altri, riesci ad arrivare alla riunione perfino in anticipo e magari passare per casa e mettere pure giù la spesa, onde evitare che lo yogurt ti corra in auto a mezzanotte.

E quindi ok.

Scendo di balzo. Entro. In grande corsa. Fiera di me stessa. La borsa sulla spalla. La valigetta nella mano. Percorro tutti gli scompartimenti. Afferro con triplo salto axe l’insalata. Il cellulare suona ma non lo bado. Quando trovo la corsia di quello che mi serve e senza tanto guardarmi attorno, baldanzosa ci entro.

E così sono lì che cammino e cerco di raggiungere in fretta il barattolo dei piselli. Quando bam. Un signore da dietro mi grida: “attenta!”. Una donna che invece mi sta davanti, imbambolata, non ha nemmeno la forza di dire niente. Nemmeno di avvisarmi. E così mi guardo attorno. Mi fermo. Mi fermo in bilico su un piede. Stringo i denti. E come al rallentatore metto giù l’altro piede. Per un attimo mi sembra di stare come a giocare a quel gioco, di cui ora non ricordo il nome, ma che dovevi mettere una mano sul bollino verde, un piede sul cerchio giallo, l’altra mano su quello rosso e poi stare in perfetto equilibrio. Ecco. Proprio così. Perché allora guardo giù e sotto di me ci stanno tanti vetri rotti di un barattolo di sugo ridotto in mille pezzi. E così in bilico, non so che fare. L’insalata su una mano. La borsa sull’altra. L’altra sulla spalla. Le chiavi dell’auto tra i denti. I piedi divaricati. E mi accorgo pure di avere tutta la scarpa inondata di sugo. Allora cerco in bilico un fazzoletto. Ma niente. Destino vuole che abbia anche il raffreddore e abbia finito i fazzoletti. E così penso. Aspetto il commesso, ma campa cavallo. Ma all’improvviso un flash. Mi ricordo di quella tovaglietta con cui avevo avvolto i biscotti al rinfresco del mattino. E così metto la mano in borsa. Srotolo i biscotti. Afferro la tovaglietta e mi pulisco le scarpe. E poi fiera, riprendo la strada e vado in cassa. Vado in riunione. Tutto ok. Vado nell’altra. Idem. Quando adesso mentre cercavo le sigarette in borsa, sento tra le dita qualcosa di sgretolato. Lo prendo e mi viene su un biscotto, a forma di tondo, con il buco in mezzo pieno di marmellata. Uno di quelli su doppio strato.

E questa è la mia cena.

Perché ho troppo sonno per fare altro.

#nottesbetti

#sbetti

A Falcone, a Borsellino. Mostra Treviso

L’altro giorno ho visitato la mostra di Falcone e Borsellino a Palazzo dei Trecento a #Treviso. Una mostra organizzata dall’Ansa e dal Comune di Treviso che attraverso le immagini messe a disposizione dai familiari e dall’archivio fotografico dell’Ansa, ricostruisce la vita di questi due magistrati.

E allora c’ho portato un’amica a vedere sta mostra, Chiara Busatto, e a fine giornata mi ha detto grazie.

Già. Grazie.

Una parola che si fa sempre fatica a pronunciare e che invece dovremmo dire a chi per la lotta alla mafia c’ha rimesso la vita.

E allora sapete. Quando mi sono iscritta a Legge, mi sono iscritta proprio grazie a questi due magistrati siciliani, affascinata ed entusiasmata e arrabbiata dai loro racconti, dalle loro parole, dai fatti, dalle loro indagini, dai libri, dalle testimonianze, dai film. Ma non mi ci sono iscritta con il desiderio di vivere in un film o di vedere le volanti sfrecciare o di sentire le sirene andare o di addentrarmi in qualche inseguimento o di vivere sotto scorta. No. Mi ci sono iscritta con la consapevolezza che la vita non è un film e che a volte può essere molto molto più dura. Mi ci sono iscritta con il sogno di una ragazza con gli ideali di giustizia e libertà che voleva cambiare il mondo. Un sogno che non se n’è mai andato e che con i suoi ideali di giustizia e libertà mi accompagna da quando apro gli occhi al mattino a quando li riapro il giorno dopo. Un sogno che metto dentro al mio lavoro ogni minuto. Ogni secondo.

Perché la Legge, la Giustizia, ti indicano una via. Ti “insegnano” a discernere il bene dal male. Ti pongono dubbi. Ti cuciono addosso punti interrogativi che nel mio lavoro non devono mai e poi mai e poi mancare. Perché di pieni di sé, ne abbiamo pieno il mondo.

E allora io me lo ricordo quando morì Falcone. Sì.

Ero piccola e ricordo che ero al supermercato con i miei genitori e all’improvviso alla radio passò la notizia. Edizione straordinaria.

Allora la gente si fermò. Sgomenta.

Abbandonò i carrelli.

Mollò la presa anche dai pacchi di pasta.

Tutti si guardavano l’un con l’altro, sbigottiti, increduli.

È morto un giudice mi disse mia madre.

La mafia. La mafia aveva colpito ancora, come a dire “Non ci ammazzerete. Vi ammazziamo noi”.

Bé no. No.

E il 23 maggio prossimo saranno passati 27 anni da quando Giovanni Falcone per quello che faceva ci ha rimesso la vita.

Come ce la rimetterà dopo qualche mese Paolo Borsellino, assassinato nella strage di via D’Amelio il 19 luglio.

Anche lui venne ammazzato finché andava a prendere la mamma, in un momento in cui la vita rende vulnerabili. Come come tanti altri che la mafia ha deciso di far fuori.

Ma quel giorno Falcone, Borsellino, sono morti consapevoli che qualcuno avrebbe continuato il loro lavoro, “non li avete ammazzati, le loro idee camminano sulle nostre gambe”. Così senza farsi vincere dalla paura.

Perché come diceva Falcone: “Chi ha paura muore tutti i giorni, chi non ha paura muore una volta sola”. E lui. Lui è morto in un giorno di maggio e “noi abbiamo un debito verso di loro”.

#sbetti

Dal mondo della comunicazione

Poi è bello il mondo della comunicazione sapete. Uno deve stare attivo e vispo su più fronti. Allora non è tanto che frequento il mondo delle tv, e ogni volta non vi nego che è un po’ come salire su quel palco di quando ballavo o su quel banco di quando studiavo. Solo che qui non hai una coreografia imparata a memoria, da scandire non appena batte il tempo e la musica vola. Qui non hai un manuale dell’università, a cui quest’anno mi ci sono pure reiscritta per la seconda laurea perché voglio fare una bella tesi sulla Libertà di Manifestare il Proprio Cazzo di Pensiero, ecco dicevo qui non hai un manuale da imparare e il professore ti chiede il paragrafo otto del capitolo secondo della sezione terza del terzo tomo del primo cazzo di volume. No. Qui è come entrare all’esterno del mondo, nell’occhio del ciclone, e avere ben chiara la cognizione di ogni singola cosa che stai per dire. Qui è come avere in fila parole che adoperi in base ai singoli fatti che succedono. In base agli avvenimenti che accadono. E sono tanti sapete. Tanti. Non fai in tempo a trattare la Tav che il giorno dopo un imprenditore si suicida. Non fai in tempo a seguire la legittima difesa che il giorno dopo qualcuno spara qualche stronzata. Non fai in tempo a seguire gli immigrati che subito ti trovi catapultato nella mafia del Nord. Non fai in tempo a parlare di foibe che parli con madri che non sanno a chi lasciare i bambini. E non fai in tempo a guardare gli occhi di qualche perseguitato dallo Stato che ti trovi a dover seguire una donna violentata o uccisa dal marito. E ogni volta ti ci devi immergere. Ogni volta devi studiare. Ogni volta ti devi documentare. Ogni volta devi entrarci completamente in quella storia, da non capire nemmeno più chi sei. Sapete quante volte mi è successo. E così ogni volta devi riflettere. Rubare. Ascoltare le parole di chi ha più anni di te. E poi parlare.

E allora qui è come avere dei principi base, dei valori, dei punti fissi che maturi col tempo, con l’esperienza nell’universo, dei punti di partenza da cui vuoi partire, che fai tuoi e costruisci un messaggio che vuoi trasmettere. Perché poi le notizie si accavallano, scappano, sfuggono, sgattalaiono, ti travolgono e ti devastano. Perché noi questo facciamo. Questo siamo. Dei messaggeri. Dei portatori di notizie. Degli ambasciatori di pace guerra amore odio e tradimento. Siamo quelli che quando scrivi devi augurarti che il giorno dopo a qualcuno vada di traverso il cappuccino perché allora saprai che avrai fatto bene il tuo lavoro.

E allora in questi pochi anni in cui indosso questo mestiere posso dire che parecchie volte mi sono scontrata per aver detto la mia. Per essere stata scomoda. Per non aver aderito alla linea di pensiero. Mi dicevano: “sei una giornalista non puoi esprimere quello che pensi, un giornalista deve essere imparziale”. Balle. Tante balle. Nel mondo comune sapete. Perché ho sempre pensato che un giornalista anche se imparziale può avere il suo punto di vista. La sua opinione. La sua anima che traspare dalla carta. L’imparzialità è un carta per pararsi il sedere, inventata da chi preferisce stare zitto perché è più comodo.

E allora quando mi leggerete, quando mi ascolterete, non troverete la Serenella che molti vorrebbero trovare. Quella che non ti crea problemi. Quella che non solleva questioni. Quella che non esprime opinioni. Non troverete quello che vorreste sentirvi dire. Troverete una Serenella scomoda. Che non vi piace. Che vi rompe le palle. E troverete una Serenella così politicamente scorretta che ahimè ve ne farete una ragione.

E da qui vi saluto.

Oggi qualche video.

#nottesbetti

#sbetti 🌹

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“Noi guardiamo i cadaveri e ci mettiamo a scrivere”

L’altro giorno parlavo con un amico. Gli ho raccontato di un caso che sto seguendo. E mi ha detto: “mi sono sempre chiesto come fate voi giornalisti a trattare certe storie, immagino non sia facile, perché tocca dei punti dell’anima che in qualche modo vi smuove”.

E infatti. Vero. Noi scriviamo. Scriviamo. “Guardiamo i cadaveri e ci mettiamo giù a scrivere”, come mi aveva detto una volta una collega. Ma poi. Poi la sera torniamo a casa. E ci pensiamo. E allora ieri pomeriggio avevo bisogno di una boccata d’aria. Avevo bisogno di respirare e sono andata a vedere la mostra di Inge Morath a Ca’ dei Carraresi a Treviso. E caso vuole che stia scrivendo questo post di ritorno dal lavoro, ferma al parcheggio mentre aspetto un amico, e alla radio passi la canzone “I know there’s something going on” di Frida. Che tradotto è “so che qualcosa sta accadendo”. Ed è proprio la sensazione che ho avuto ieri quando guardavo questa mostra. L’attimo perfetto. Giusto un attimo dopo di quando qualcosa sta accadendo. Inge Morath riusciva a immortalare l’esatto momento in cui accadeva qualcosa, sapendo già prima che qualcosa stava per accadere. Un po’ quello che facciamo noi. Che dobbiamo sempre sapere prima che accada.

Il marito Arthur Miller l’aveva descritta così: “Inge inizia a fare i bagagli non appena vede una valigia”. E infatti, prima che una fotografa – la prima donna a essere inserita nel cenacolo, all’epoca tutto maschile, dell’ agenzia fotografica Magnum Photos – Inge Morath era una viaggiatrice. Curava i suoi reportage con cura maniacale. Ovunque nel mondo: Iran, Stati Uniti, Francia, Spagna, Russia, Romania. In più sapeva l’inglese, il francese, il tedesco, il russo, lo spagnolo, il mandarino e il rumeno. E questa conoscenza delle lingue le consentiva di entrare a contatto con la gente. Di aprirsi. Di farli aprire. “Ti fidi dei tuoi occhi – diceva – e non puoi fare a meno di mettere a nudo la tua anima”.

Un po’ come accade a noi. A noi che scriviamo e raccontiamo. A noi che ci cibiamo delle vite degli altri. Ti fidi di ciò che senti e non puoi fare a meno di mettere a nudo la tua anima. E allora mi sono tornate in mente le parole del mio amico. Perché sì. Mestieri come il nostro, ti squarciano l’anima. Ti aprono ferite che credevi sepolte. Ti fanno tirare fuori quello che nemmeno credevi di avere. Ma una cosa è sensazionale: ti fanno capire le persone senza che loro dicano niente. E ora vi saluto perché il mio amico è arrivato.

#sbetti