La storia di Sammy Basso 


Aveva le dita sottili, sottili, che più sottili non si può. E aveva le mani piccole, piccole. Piccole ma già grandi. Le vene segnavano il dorso come tanti ruscelli nel letto di una vallata. Quel volto e quel collo raggrinzito erano già distinti dalle pieghe e piaghe del tempo; e quelle gambe così magre, così fine, così ossute ma con così tanti chilometri percorsi. 

I suoi piedi erano ben saldi, piantati a terra, una scarpa aveva un rialzo per permetterne l’equilibrio. E poi quelle orecchie così invecchiate ma quegli occhi così giovani, così fulminei, così saggi, dotti e pieni di vita. 

Sentirlo parlare era come entrare in un mondo nuovo, avere davanti un’altra persona. 

L’idea che da quel ragazzino invecchiato di corporatura esile, magra, fina potessero uscire così tante parole, sembrava irreale. 

Di come facessero a starci così tanti progetti, così tanti pensieri, così tante avventure, così tanti racconti in una persona così piccolina, così mingherlina, così minuta, fragile, gracile, ossuta e snella, restava un mistero. 

Sembrava impossibile. Eppure lui tutte quelle cose riesce a farle stare e anche perfino a farle combaciare. 

Lui è Sammy Basso, nato il 1.dicembre 1995 a Schio in provincia di Vicenza. É affetto da progeria, o sindrome di Hutchinson – Gilford. Una malattia rara che causa l’invecchiamento precoce anche se non altera la mente che rimane l’unico elemento che attesta la vera identità del malato. 

Il bambino fin dai primi anni di vita vede comparire in sé delle malattie tipiche degli anziani e i nati con progeria hanno un’aspettativa di vita pari a 20 anni. (Fonte: Ewell Steve Roach & Van S. Miller, Neurocutaneous Disorders, Cambridge University Press, 2004, p. 150). 

Una malattia che i genitori di Sammy si sono trovati ad affrontare da un giorno all’altro. I medici li chiamarono e diagnosticarono la patologia. Dissero loro: “Non c’è nulla da fare. Non c’è ricerca. Ci dispiace”. 

Una doccia fredda che nel giro di otto giorni cambiò tutto. 

Abitudini, stili di vita, timori, paure, ansie. 

Poi un po’ alla volta la voglia comunque di farcela e la rinascita. Il voler a tutti i costi fare qualcosa, per non far prevalere un senso di impotenza. 

“Non sapevamo che fare – ci racconta la madre – ma dopo una po’ abbiamo detto che non ci saremmo dovuti adagiare, che bisognava lottare. Andare avanti. Così fin da subito abbiamo mandato Sammy a scuola, ha fatto tutto il percorso come lo hanno fatto gli altri bambini e ragazzi, cavandosela sempre da solo in qualche difficoltà. Fin da subito l’abbiamo iscritto alla materna. Ci siamo detti: bisogna imparare, giorno per giorno, a non dire mai no. Bisogna dire sì, si fa. Bisogna”. 

E così Sammy è cresciuto e per promuovere la ricerca sulla sua malattia ha fondato l’Associazione Italiana Progeria Sammy Basso (A.I.Pro.Sa.B.). 

Ma Sammy com’è ora? 

Un vulcano. Studia. Ha appena dato il suo ultimo esame all’ università in Scienze Naturali e sogna di fare il ricercatore. Sogna di poter fare qualcosa che possa concretamente essere d’aiuto agli altri. “Con questo gruppo di ricerca – spiega – abbiamo cercato di condividere le idee. Ci sono anche clinici. All’inizio era difficile perché la condivisione non era immediata”. 

Ma Sammy spazia su tutto. Ama leggere, fa parte di tantissimi gruppi, scrive, canta, guarda film, il suo preferito è Avatar, viaggia, fa parte di un musical, va all’Università e ama condividere divertendosi. 

“Sono un ragazzo che ha tantissimi amici – dice – a cui piace far festa. Purtroppo io non sono autonomo in tutto e devo farmi aiutare. Ecco perché mi devo circondare di persone di cui mi fido. Per me la mia normalità, la mia quotidianità è diversa da quella degli altri ma in fondo l’unica cosa che ci rende tutti uguali è che siamo tutti diversi”. 

#buonanottesbetti

L’asilo in Italia è un posto sotto il cavalcavia di Milano


Lui si chiama Wasir. Ed è afghano. Lo incontriamo il 2 settembre 2016, sotto il cavalcavia della tangenziale di #Milano, all’altezza dell’uscita di #Linate. Tra via Corelli e parco Forlanini.

Lì, in quel posto fatto di vento e cemento c’è un mondo. Il mondo di chi è stato accolto in Italia, messo in qualche centro accoglienza e poi una volta ottenuto il permesso di soggiorno, siccome regolare, si trova costretto a dover migrare sotto una lastra di calcestruzzo. Così finiscono i migranti giunti dal mare sempre più sconfinato. Sotto un tetto che soffoca ogni sogno, ogni desiderio, perfino ogni disperazione. Dove l’unico rumore è quello incessante delle auto che macinano asfalto sopra le nostre teste e l’unica impronta è quella delle scarpe, che pesanti affondano i piedi sulle zolle di terra. Ci addentriamo verso questa “dimora” il pomeriggio del 3 settembre 2016. Qui da qualche mese, vivono all’incirca venti afghani, per qualche giorno, ogni tanto, arriva anche qualche bengalese. Un buco su quella recinzione di pietra ci consente di entrare, un salto e siamo dentro. Un vialetto di tre metri ci conduce fin sotto il viadotto. Ci sono già i segni del percorso dell’uomo, dell’ entrata di casa. Una volta “entrati”, lo scenario è indignante. Tutto intorno è caos, polvere, sporcizia e resti di cibo.

In fondo, seduto su una branda di ferro ci sta #Wasir.

Wasir il 27 luglio 2016 ha ottenuto il permesso di soggiorno. Ci fa vedere il documento, l’unico pezzo di carta che gli dà un posto nel mondo. Ma quando si ottiene il permesso di soggiorno in Italia, il centro di accoglienza, dove sei stato ospitato per mesi, ti sbatte letteralmente fuori. Dopo il percorso di accoglienza, questa si tramuta in un sacco nero fuori dalla porta del centro.

Insomma il diritto di asilo nel bel paese, tutelato e garantito dalla nostra Costituzione, alle soglie del 2017, è una vita a tempo indeterminato sotto una lastra di cemento.

Così ora Wasir, che non vuole tornare in Afghanistan “perché – ci dice – c’è il Daesh”, se ne sta sotto un cavalcavia, aspettando che cali la notte e ricompaia il giorno.

Un ciclo continuo, logorante, estenuante e svilente che annebbia tutto, anche quel putrido senso di una realtà altrettanto putrida.

Mi chiedo quanto peso possano sopportare le spalle di un uomo, fino a che non arrivi il momento di dire basta. Di farla finita. Fino a che la disperazione non prenda il sopravvento sulla sopravvivenza, che tenta di rimanere a galla, boccheggiando agonizzante di aiuto.

Mi chiedo dove siano i politici, di fronte a queste immagini, che predicano accoglienza e non hanno la minima idea di cosa voglia dire offrire un piatto di pasta.

Perché è molto più comodo fare i comizi in piazza, colpire sulla mediocre sensibilità diffusa, fare pena alla gente e accaparrarsi qualche voto che ungersi le mani e pulire l’untume attorno a queste persone.

Ma soprattutto mi chiedo dove siano quelli delle cooperative e dove sia la #Caritas cristiana. Che in tutto questo hanno quintuplicato i loro bilanci. Da cooperative di parrocchia, abituate a fare i corsi di lettura in biblioteca, sono diventate vere e proprie S.p.a. Vedi il caso della ex #Ecofficina di Padova, ora denominata #Edeco.

Ma a parlare con loro sono tutti dispensatori di amore, calore, attenzione, integrazione. E tu, tu sei il carnefice. Tante belle parole. Tanti bei discorsi. Tanta predicazione, tanta finta e viscida bontà. Ma allora perché. Perché se siete così caritatevoli, così buoni, se siete così spargitori di cura verso gli altri, perché non fate su un bel pullman e andate a prelevare questi poveri disgraziati sotto una tangenziale?

Perché non lo fate? Perché non andate non a prenderli e vi prendete cura di loro, dandogli un piatto caldo e una coperta dove stare?

O queste persone non vi fruttano 34,98 euro (Vedi bandi a Venezia) a testa?

Perché se è così, voi fate più pena di loro. Che almeno, anche sotto il cemento armato provano ad avere una dignità. Con una branda, un panino e un maglione.

Voi dall’alto delle vostre predicazioni e dei vostri banchetti in piazza, avete perso pure quella.

#buonanottesbetti

Photo di Stefano Poltronieri

Quel bimbo che non si lamenta mai

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C’è un bimbo accanto a me.
È il mio vicino di casa. È l’unico bimbo della Terra credo che non si lamenti mai. Non l’ho mai sentito piangere, non l’ho mai sentito sbuffare, non l’ho mai sentito brontolare.
Ma non è uno di quelli zitti, bimbi modello e rassegnati alla frivola esistenza che qualche genitore cagacazzi ti impone.
No. Lui è un vulcano.
Una continua fuoriuscita di idee. Un fiume in piena.
Ogni giorno ha qualcosa da dire, ogni giorno ha qualcosa da fare, è propositivo, non dice mai che non vuole fare qualcosa, dice sempre che la vuole fare, oppure se non la fa, fa altro. Le sue parole sono diventate un appuntamento fisso per le persone del vicinato e io che a volte non riesco a sentire il pianto o i lamenti dei bambini, lui voglio sentirlo, mi mette allegria, voglia di fare, energia.
La sua capacità propositiva, il suo essere così attivo, senza mai lamentarsi mi riempie e riempie il quartiere di gioia.
Lui saluta tutti, parla con tutti, gioca a pallone, tira in porta, fa il portiere, il giocatore e l’avversario allo stesso tempo.
Anzi fa pure la telecronaca.
Io credo davvero di non aver mai sentito un bimbo così. Così innamorato della vita, così innamorato della voglia di fare.
Così innamorato di ogni minuto della sua giornata.
Farei trascorrere a tutti i bimbi un pomeriggio con lui. Ma soprattutto lo farei trascorrere a tutti i genitori e a tutti gli adulti del mondo.

Buona serata

#sbetti