Gianluca Salviato: ho scoperto che è bellissimo sentirsi il freddo sulla pelle

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Ogni volta un’emozione nuova. Parlare con Gianluca Salviato è come correre su un campo di fiori e ogni giorno scoprire che ce n’è qualcuno di nuovo. Difficile però parlare con qualcuno di terrorismo, soprattutto in questi giorni, quando quel qualcuno di fronte a te ha perfettamente vissuto ogni attimo a contatto con i terroristi. Richiede tatto. Delicatezza, diplomazia, discrezione, garbo. Un compito non semplice che ti porta a chiedere che diritto hai tu, giornalista, di poter scavare e fare domande su quello che lui ha passato. “Che ne sai tu di come sono questi terroristi”, mi ripetevo finché a fianco a me lo guardavo. Ma la voglia di conoscere, di sapere era grande. Era tanta. Era enorme. I libici da quel che racconta Gianluca non sono brutte persone. Anzi. “Alla mattina arrivavano con il thé e i biscottini per colazione – racconta Gianluca – poi a mezzogiorno se volevo andavo a mangiare con un imam se era libero”. Con un imam? “Si – dice – quando ero in Libia ho avuto occasione di parlare con parecchi imam. Sono persone molto aperte intellettualmente, istruite, colte. Parlavano inglese, italiano, gente che aveva studiato. Quando mi hanno preso, l’imam più importante di Tobruk ha chiamato tutti per trovarmi”.

Già ma chi è l’imam? “L’imam non è un sacerdote – ci racconta – non è una figura clericale come per gli sciiti che hanno gli ayatollah. L’imam è la persona più seria, che ha più carisma sugli altri. È quello che guida la preghiera”.

Ma loro pregavano molto?

“Bè si quando mi picchiavano – dice Gianluca – prima mi picchiavano e poi pregavano. Mi picchiavano, entravano in casa anzi in camera e ogni due tre ore, giù botte. Io paravo i colpi con le braccia, non ho mai pianto. Mai un gemito. Ma con i libici io non ho mai avuto nessun problema. Infatti quelli che mi hanno preso al 90 per cento erano ceceni, siriani, soltanto qualcuno era libico. Facevano parte di Ansar Al Sharia che era una costola di Al Qaeda che stava a Derna, anche loro adesso passati in Daesh”.

Ansar Al Sharia è un gruppo di miliziani salafita islamico che sostiene l’attuazione rigida della legge Sharia in tutta la Libia. É nato nel 2011, durante la guerra civile libica, ha attaccato l’ambasciata americana nel 2012 e negli ultimi anni sta insanguinando il paese.

Daesh invece è l’Isis. Non c’è nessuna differenza. Solo che ultimamente si preferisce parlare di Daesh perché l’Isis indica lo Stato islamico e uno stato terroristico non può essere Stato, come asserito anche dal presidente degli Stati Uniti Barack Obama e dal nostro ex premier Letta. Daesh sta per al Dawla al Islamiya fi al Iraq wa al Sham cioè “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, questa denominazione in arabo significa “portatore di discordia” e dagli afghani, arabi e iraniani assume un tono negativo.

Perché hanno preso te?

Volevano un occidentale, avevo la macchina grande e quindi grande macchina, grande capo. Si sono fatti 430 chilometri per venirmi a prendere ma lì è stato un rapimento su commissione di Ansar Al Sharia. Io ero andato lì per portare l’acqua in un paese dove l’acqua non c’è. E’ molto difficile trovarla e bisognava trovare un modo per darla a tutta la città. Era un bel lavoro per me, perché portavo l’acqua a casa della gente. Era un progetto ancora di Gheddafi.

Sei musulmano…?

“La mia paura più grande comunque era quella che mi tagliassero la gola. Ogni sera votavano se tenermi in vita o no. Mi facevano vedere i video e una sera di settembre mi hanno chiesto di che religione ero. Mi hanno detto: tu sei musulmano? Ho usato tutto il coraggio che avevo in corpo e ho sputato fuori un: “No, sono cristiano”.  Preghi mi hanno chiesto? E io ho risposto di si, che pregavo. Allora va bene mi dissero loro”

Noi conquisteremo il mondo… “La stessa sera in cui ho rivelato loro che ero cristiano – racconta Gianluca – hanno cominciato a dirmi “ah ma noi conquisteremo il mondo. Adesso conquisteremo tutta la Libia”. Ma i libici non sono musulmani ho chiesto io? No non sono musulmani perché vengono ritenuti apostati, perché non praticano l’ Islam nel modo integrale come lo pratica Daesh o altri gruppi terroristici”.

Il contatto con l’ Islam… “Nell’Islam  – dice Gianluca – ci sono nelle parti del Corano che prevedono guerre di invasione. Però la maggior parte dei musulmani ti dicono “conquisteremo il mondo Inshallah”, cioè se Dio vorrà. Se uno adesso mi dice che non è così io non gli credo. Io ad alcuni Imam che dicono il contrario non ci credo. Anzi direi loro guarda che Dio punisce chi dice le bugie e chi ruba”. Difficile infatti per una persona che ha subito maltrattamenti, barbarie e sevizie anche psicologiche, riuscire a fidarsi di quelle persone. “Io in quel momento ero solo una merce di scambio per loro. Nabil, che era uno dei capi dei miei rapitori, quelli che si schieravano a favore della mia esecuzione, doveva portare un trofeo. Doveva portare un occidentale sgozzato, a lui interessava entrare in Daesh e quell’occidentale ero io”.

Come ti senti adesso? Dopo che questi macellai e tagliagole stanno agendo sempre più? “Mi sento un miracolato”.

Ma lì torneresti? Torneresti in Libia? “Adesso che c’è il caos no, ma quando sarà finito tutto si. Perché no?”

Dopo gli attentati di Parigi del 13 novembre scorso… “Dopo l’attacco di Parigi – dice Gianluca – posso dire che per me quello è un attacco militare. La leva religiosa è importante ma io credo che i quadri comando di Daesh abbiano interessi religiosi fino a un certo punto. Poi c’è un interesse economico. Quelli che mi hanno preso sono plagiati, sono molto religiosi. É quella parte di giovani ragazzi che vengono da una situazione di non cultura, di povertà. Questi sono i figli di coloro che hanno fatto la guerra in Cecenia, in Afghanistan, che hanno fatto terrorismo in Algeria. Sono cresciuti con un odio per l’ Occidente che è molto grande. Di certo noi non  stiamo facendo bene, ma non è colpa nostra. La colpa è di tutti. E questo tipo di guerra non è terrorismo, stanno creando uno Stato. Nell’islam è prevista un guerra di espansione che puà avvenire: con la parola, con la preghiera o con la spada. Ma è su base volontaria. Chi partecipa all’espansione di Daesh lo fa SOLO su base volontaria. Tutti i musulmani hanno il dovere di difendere la Umma, cioè la comunità islamica esterna, ma quando c’ è una guerra espansiva allora è solo su base volontaria”.

Un segnale questo che induce a pensare che non tutti i musulmani sono terroristi e che questi spietati assassini usano in realtà la religione per giustificare le loro azioni.

Il confine tra ciò che è religione e ciò che non lo è. Non si è un po’ perso? “La religione è sempre stata una forte leva per portare a casa qualcosa, per fare delle guerre. La religione sono convinto che venga usata. Loro praticano il Corano alla lettera. Ci sono alcuni versetti che incitano andiamo a casa loro e uccidiamo i miscredenti”.

Questo però avviene anche nell’ Antico Testamento. Anche nell’ Antico Testamento ci sono dei versetti in cui si dice che i non credenti saranno puniti e riceveranno un castigo. “ Ma noi – dice Gianluca – abbiamo fatto un salto culturale. Ci siamo scannati tra cattolici e protestanti; ma un paese che mediamente è cristiano, mediamente è libero.

Loro si sono fermati a cinque secoli fa, alla battaglia di Lepanto, la religione per loro è stata un blocco. La maggior parte della popolazione islamica, all’incirca al 60 per cento è analfabeta. Quando hai questo tasso di analfabetizzazione è facile che tu riesca a manipolarla”.

“C’è una differenza culturale tra noi e loro – continua Gianluca – che è valutabile in quattro, cinque, se non sei secoli. A esempio la visione della donna nell’ Islam e negli altri paesi è piuttosto di secondo e terzo piano. Noi avevamo un autista che aveva 11 figli ,10 femmine e 1 maschio. Ha cambiato 4 mogli perché non arrivava il maschio.

All’ est le donne hanno un ruolo importante a esempio in Russia. A Tripoli si vedono le donne con il fazzoletto, già qualche donna con il chador. Ma a Tobruk ho fatto un salto nel passato. Si vedono tutte queste donne con il niqab o con il chador. Vai al supermercato e trovi solo uomini. Solo al venerdì pomeriggio trovi anche qualche donna.  Ed è una cosa che ti impressiona perché delle donne vedi soltanto gli occhi”.

Così Gianluca racconta come, una sera, uno dei suoi aguzzini gli abbia chiesto quanti anni aveva e se era sposato. Lui, a cui loro avevano tolto anche la fede, disse di si che era sposato. “Mi hanno chiesto poi – dice Gianluca – se avevo figli. Io ho detto loro di no e loro, sbalorditi mi hanno chiesto: No?! E perché no?! Perché non sono arrivati ho detto io. Cambia moglie mi hanno risposto loro. Ora, capite che c’è un gap culturale tra noi e loro spaventoso. Loro sono rimasti al medio evo o al basso medioevo. La maggior parte dei matrimoni è fatta per contratto – ci racconta Gianluca – io avevo un tipografo libico, aveva 34 anni, la famiglia gli aveva imposto chi sposare, e lui era disperato perché lei era brutta. Ma loro dicono intanto vi sposate, l’amore viene dopo. È una differenza culturale che andrebbe colmata ma ci vogliono decenni. bada bene che comunque ho anche un amico egiziano che era uno dei nostri contabili, che si è sposato perché con la moglie si volevano bene”.

Ma c’è qualche differenza rispetto a quelli che ti hanno rapito e a quelli che colpiscono oggi o no? “C’è una base culturale che è identica. A me oggi è stato chiesto se c’è differenza tra quelli che colpiscono a Parigi e quelli che colpiscono in Libano. Fondamentalmente non c’è nessuna differenza. È la formazione culturale che hanno all’interno della propria famiglia che è identica. Non riescono a essere come noi. Non sono malleabili, non vedrai mai una famiglia musulmana che va in pizzeria a mangiare la pizza”.

Dopo Parigi, dopo i funerali di Valeria Solesin possono cambiare le cose?

Dopo l’attentato di Parigi ci sono state due piccole manifestazioni da parte dei musulmani che si schierano contro l’Isis. É stato un atto di coraggio. Un piccolo passo avanti. Quello che è accaduto al funerale di Valeria è stato molto importante ma il problema è la chiusura delle comunità islamiche. Gettiamo un ponte ma il problema è che non troviamo la sponda. Quello che appare alla tv è che tutta la comunità islamica è così. L’ Islam pretende il primato sulle altre religioni. È difficile gettare un ponte perché loro stanno fermi. L’imam di Ponte di Piave al funerale di Valeria non si è voluto presentare. C’è una paura nell’Islam che è quella di confrontarsi e invece bisogna farlo. Ora più che mai. Il presidente dell’ UCOII (Unione Comunità Islamiche d’Italia) al funerale di Valeria ha detto delle cose importanti ma dovrebbe lavorare con le sue comunità più profondamente”.

Ma alla fine in Libia torneresti? “Bè si, perché no? Adesso che c’è il caos no ma quando sarà tutto finito si. Alla fine credo sia stata una liberazione anche per loro, l’avermi liberato. La mia paura adesso è quella di dover rinunciare ad alcune libertà. Libertà che i nostri padri hanno conquistato con fatica. Quando parli o discuti con un musulmano è difficile a volte. É sempre sulle difensive e ritornare a casa con un buco di otto mesi a me ha fatto capire molte cose… Pensiamo sempre che la libertà sia una cosa dovuta e invece dobbiamo guardarla ogni giorno. Spolverarla, vedere dove sta perché è una cosa che possiamo perdere in un attimo. Io continuo a volerla questa libertà e ho scoperto in me una forza che non sapevo di avere. Ora ho la consapevolezza che la vita è bella. Che se oggi piove, piove e che se fa freddo, fa freddo ed è bellissimo sentirsi il freddo sulla pelle”.

SBett

 

L’intervista è stata realizzata in collaborazione con la trasmissione de Il Faro, in onda sul canale 877 di Sky, 169 del digitale terrestre e canale 73. Ore 21 #seguiteci

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Isis. Islam. La testimonianza di un ragazzo

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Il giorno dopo gli attentati di Parigi ho chiesto a un mio amico musulmano se avesse sentito del disastro. Mi ha risposto con un laconico “no”. Strano ho pensato, lui che è sempre così loquace. E poi, no?! Come no?! Così mi sono detta “povera illusa che ne sai tu dei musulmani. Che ne sai tu dell’omertà”. Lui mi ha spiegato che non era in casa, non aveva internet e nemmeno la televisione. Così ho pensato che anche a me una volta era successo, fuori dal mondo, cellulare staccato e non sapevo degli attentati di Londra. Ma io volevo una risposta, una risposta sull’ Islam. E la volevo subito.

Volevo qualcuno che mi dicesse che non mi ero sbagliata, che esiste un diverso Islam. Così come tradita dalla sua amicizia gli ho detto che mi doveva una spiegazione. La sua risposta è stata incisiva, fin troppo. “Questi sono dei bastardi, dei bastardi punto – mi dice – prova a chiederti chi li finanzia. Chi finanzia l’Isis? Da chi prendono i soldi? La maggior parte di loro non lavora, dove trovano i soldi? Da chi arriva l’arma? Questa è una grande domanda. Ma i musulmani non sono Isis”.

Il contrabbando del petrolio – fonte La Stampa  – fa intascare all’ Isis un milione e mezzo di dollari al giorno. Il commercio del petrolio è la terza voce del bilancio miliardario di questa organizzazione criminale. E un rapporto Rand 2015 – sempre fonte La Stampa – calcola che se 100 milioni di dollari l’anno arrivano dal petrolio, 600 arrivano da tasse e imposte che gli aguzzini beccucci neri fanno pagare agli otto milioni di cittadini che vivono sotto di loro. Una guerra interna, l’ Isis combatte i musulmani stessi.

Ma allora chi sono quelli dell’Isis? L’Isis è un movimento politico e militare che, dicono i più, si affida a una interpretazione radicale dell’ Islam, ma in realtà l’ Isis o meglio il Daesh che altro non è che l’acronimo arabo di al-Dawla al-Islāmiyya fi ‘Irāq wa l-Shām (“Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, o “della Grande Siria”) è tutt’altro che questo. Non è Islam, è un’altra cosa.

Perché i musulmani non appartengono all’ Isis?

“Ho visto dei militari pakistani – continua il mio amico – uccidere queste persone e quando gli hanno tolto i vestiti avevano tanti tatuaggi. E i musulmani non hanno tatuaggi”.

Perché non hanno tatuaggi? “Perché nella nostra religione – Nostra religione – quando due persone si sposano e fanno sesso per la prima volta devono fare una doccia particolare e con i tatuaggi non puoi farla. Questi assassini con i musulmani non c’entrano niente, anche noi in Afghanistan combattiamo l’Isis perché questi vogliono distruggere e ammazzare tutto e tutti”.

Si, ma perché lo fanno? “Dicono che lo fanno per il loro paese, perché gli americani vengono a distruggere il loro paese e quindi è obbligatorio proteggerlo. (mi sorprendo a lui che dice loro paese). Poi non so cosa vogliano ancora. In Afghanistan dicono che gli americani vogliono prendere il nostro (nostro) paese e loro non vogliono, ma in moschea non dicono queste cose, ti insegnano solo il Corano”.

A te da piccolo cosa dicevano sul Corano? “A me non hanno mai detto di ammazzare qualcuno, anche perché uccidere un cristiano o un musulmano significa uccidere tutta l’umanità”.

Ma nel Corano c’è anche scritto – Sura II – che “per chi non crede un duro castigo li attende”. Nella Sura III è scritto che Allah è terribile nel punire e chi disobbedisce ad Allah sarà immerso nel fuoco – Sura IV, 14-.

“No – mi risponde lui – da piccolo ti insegnano le cose semplici, semplici. Un bravo musulmano deve pregare cinque volte al giorno. Leggere il Curano, rispettare i vecchi. Amare i bambini, aiutare i poveri”. Pregare cinque volte al giorno? “Si, alle 5 del mattino, poi alle 13, alle 16, alle 17 e 19. Ma dipende dalla stagione, d’estate si cambia orario. La preghiera dura dieci minuti. Poi ancora un bravo musulmano non deve bere vino, non deve mangiare maiale e non deve scopare”.

Non deve scopare?! Fumare si può? “Si, fumare si può, ma per il sesso un musulmano può farlo solo con la moglie, non con le moglie degli altri, non può toccare le donne degli altri”.

Incazzata lo blocco, sto per andarmene e gli dico che la donna è donna, la donna non è di nessuno. Lui si corregge, mi chiede scusa e mi dice “scusa, il mio italiano, intendevo la moglie di qualcuno”.

Nel Corano alla Sura IV, 15, incalzo, c’è scritto che “se le donne hanno commesso azioni infami confinate quelle donne in casa finché non sopraggiunga la morte”. In verità poi penso che anche l’ Antico Testamento dice una cosa simile quando afferma “con una moglie malvagia è opportuno il sigillo – 3 AT Siracide, 42, 6.

Ma l’amicizia tra uomo e donna da voi esiste? Tu puoi uscire una sera con una tua amica senza farci niente? “In realtà nel 2015 si fa tutto – dice – le persone lo fanno anche di nascosto. Ci sono anche i video su youtube – sorride – ma in teoria non si potrebbe fare. Fino a che due non sono sposati non si può fare nulla cara mia – (anche qui in verità c’è la castità prima del matrimonio se proprio vogliamo dirla tutta).

Ma tu puoi uscire con una donna? “No, non è possibile – dice – perché se ti becca il fratello è un disastro. Vedi – mi spiega – il nostro problema è che voi siete più avanti anni luce rispetto a noi. Da noi non si può fare niente. Alcuni scappano perché ci sono cinque religioni e molti sono duri, spietati. Controllano tutto e tutti. Adesso è l’Isis che controlla tutto e che semina morte e distruzione”.

Forse questo il mondo occidentale non ha capito, che l’Isis è uguale all’ Islam nelle prime due letterine. Poi bisognerebbe capire cosa viene dopo.

L’ Occidente vede minaccioso l’avanzare dello Stato Islamico ma questo non è nemmeno uno Stato, è organizzato come uno Stato, anzi forse meglio, ma non è uno Stato.

“Quello che sta succedendo in Iraq non ha niente a che vedere con l’Islam, […] si tratta di un’altra religione – aveva detto il professore Jean Pierre Filiu in una intervista alla rivista Oasis – le persone entrano a far parte dei ranghi di Daesh come se si convertissero a una religione, sia perché non ne avevano una propria in precedenza, sia perché, provenendo da una famiglia musulmana, abbandonano l’Islam dei loro genitori, famiglie, culture per volgersi a un presunto “vero Islam” che in realtà è una nuova religione. […] Daesh attrae una frangia che è già radicale. Non ci si radicalizza per mezzo di Daesh, lo si è già in partenza. L’Islam è l’Islam. Daesh è un’altra cosa”.

http://www.cittanuova.it/c/443594/L_Isis_non_islam_ma_un_altra_religione.html

SBett

“Quella mattina sulla strada di Tobruk”, il libro di Gianluca Salviato

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Tutto per essere dentro l’auto sbagliata.

Gianluca Salviato si ritrova prigioniero dei terroristi per 243 lunghi giorni. La sua colpa? Avere un’ auto da capo. Un’ auto da ingegnere. “Macchina grande, capo grande”, ripetevano loro.

Dal 22 marzo 2014 al 15 novembre vive momenti di dura sopravvivenza. Otto lunghissimi mesi e tre giorni che cambieranno per sempre il corso della sua vita.

E così dopo la sua prigionia decide di scrivere un libro con il giornalista Francesco Cassandro.

“Usavo il bastoncino come calendario”, racconta Gianluca nel libro. Lui che teneva il conto dei giorni e che la lucidità non l’ha persa mai. E se si legge il libro ciò che è sconvolgente è avere davanti una persona che ha subito tutto quello che c’è scritto. Il solo fatto che un essere umano sopravviva a simili barbarie, rende tutto questo surreale, eccezionale che porta con sé del tragico vero. Dai pestaggi di notte: i suoi rapitori entravano ogni due tre ore, e così senza senso lo menavano. “Ti facevano capire chi era che comandava”- spiega Gianluca. Poi ancora dall’ incaprettamento, alle briglie con le catene. Dal mangiare con le mani, al non lavarsi. Dal lusso di avere una sedia alla voglia anche di parlare con i ragni. Ma lui la pazzia sapeva perfettamente cos’era e non l’ha mai raggiunta, ha saputo mantenere una lucidità e una fermezza tali da resistere, da farcela.

In Libia è stato spogliato di tutto, ma soprattutto della libertà, lui che in quel paese era andato per far un’opera utile: costruire un acquedotto a chi l’acqua non ce l’ha.

Gianluca narra come una notte è stato appeso a una catena. L’ hanno preso, gli hanno legato le caviglie e i polsi dietro la schiena e poi tirando la catena in modo che i suoi piedi non toccassero il pavimento l’hanno sospeso staccato da terra.

In bagno doveva andare con il guinzaglio e per cena: un montone freddo mangiato assiduamente con le mani. Poi di notte giù botte.

Era in mano a due bande: la prima di un certo Nabil di un movimento di Al Sharia che aveva preso il controllo di Derna, sostituendo il consiglio comunale con la Gioventù Islamica e che voleva ucciderlo; la seconda guidata da Ashraf, dei delinquenti comuni che puntavano al riscatto.

Gianluca allora comincia a capire che deve convivere con loro. Vive con i suoi aguzzini. Impara a percepirne i modi, i gesti, i passi, i silenzi, le parole, le ansie e i respiri. Impara tutto, senza che loro dicano niente, sviluppa una sensibilità talmente sopraffina da conoscerli più di quanto essi non conoscano loro stessi. “Chi non ha vissuto un’esperienza come la mia – scrive Gianluca nel libro a pag 69 – neppure immagina quanto sia vitale conquistare un minimo di controllo del mondo che ti circonda, quanto sia essenziale riuscire a interpretare i rumori, i suoni, dare un senso a quanto avviene nella stanza accanto. É un controllo ambientale che si conquista con il tempo e con tanta fatica, allenando i sensi a distinguere le persone che ti stanno attorno semplicemente da un movimento, dal timbro della voce, dalla cadenza di un passo”.

E i passi che lui deve compiere anche con i propri rapitori sono tanti. Prima chiede l’insulina e la ottiene – Gianluca è diabetico – poi chiede gli occhiali ma niente, poi uno spazzolino da denti, una forchetta e un cucchiaio . Infine carta e penna e un rasoio per radersi.

La carta e la penna per lui arrivano dopo 76 giorni. Vuole annotare tutte le sue sensazioni, emozioni, i suoi stati d’animo, la sua disperazione pena la pazzia. Impossibile sopravvivere senza annotare qualcosa.

Quando arrivò carta e penna Gianluca comincia a scrivere. Era il 5 luglio 2014. Nazione: Lybia. I giorni precedenti che Gianluca non è riuscito a imprimere sulla carta, li ha tenuti tutti lucidamente dentro di sé. Gli scritti invece forse sono andati distrutti. Erano 157 fogli in formato A4.

Di questa terribile esperienza ora ne è nato un libro, che lui racconta alla trasmissione del “Faro, economia in luce”

http://www.defranceschialberto.wordpress.com

all’indomani degli attacchi su Parigi. Uno scenario non nuovo per lui che quei momenti di terrore li ha vissuti perfettamente.

“Con questo libro – ci dice – volevo trasmettere proprio questo, che nonostante tutto si può sopravvivere e trovare il coraggio per farlo”.

Il libro scritto a quattro mani con Francesco Cassandro, lo ripetiamo è ordinabile su:

http://www.youcanprint.it/

oppure lo si può scaricare dal sito o trovarlo nelle librerie.

“Racconto – dice Gianluca – la storia del mio rapimento, i momenti più duri, le paure e il coraggio di resistere fino al momento della liberazione”. 

Serenella Bettin

 

Quel 16 novembre 2015, la Francia è in guerra

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La data del 16 novembre la ricorderemo tutti. La inseriremo nei libri di storia, ne faremo materia d’esame, la spiegheremo ai nostri bambini.
Ai nostri figli diremo che un giorno, il 13 novembre 2015, tanti giovani ragazzi erano andati a sentire un po’ di musica, così come si fa in un normale venerdì sera in un quartiere del centro; racconteremo loro che altri giovani, vestiti di nero, bardati fin sopra i capelli sono entrati, che erano armati e che a sangue freddo senza dire una parola, con la musica in sottofondo, hanno cominciato a sparare, a freddare uno a uno giovani ragazzi, musicisti, giornalisti, avvocati, fotografi, artisti.
Li hanno freddati, scavalcati, lasciandoli lì, formando un lago di sangue che fuoriusciva dal teatro come la lava fuoriesce da un vulcano.
Li hanno ammazzati, fatti fuori perché una sera quelle persone anziché decidere di andarsi a divertire da un’altra parte, sono capitate nel posto sbagliato.
Ma qualunque luogo per uno strazio del genere è sbagliato. Qualunque.
Allora i nostri figli ci chiederanno perché, le classiche domande a cui in genere gli adulti rispondono con un perché si o perché no. Ma qui.
Qui non ci si può limitare a un perché si o perché no.
Allora spiegheremo loro che ci sono delle bestie che hanno fondato un loro Stato e che vogliono espandersi.
Diremo loro che questo stato si chiama Isis che è un movimento politico e militare, spietatamente organizzato che non teme niente e nessuno e raschia via tutto e tutti.
Diremo loro che quel giorno degli attentati a Parigi cambiarono molte cose e che due giorni dopo, un presidente incravattato si è presentato in una delle più belle regge del mondo e ha esordito dicendo “Signori la Francia è in guerra”. Una decisone ancestrale come a ribadire che se tu mi attacchi io rispondo. Che io sono più forte di te. Perché questa è la guerra dei potenti e a danzare sono anche i poveri.
E ai nostri figli che magari un giorno sposeranno un musulmano diremo che la guerra è ingiusta ma che qualcuno l’ha combattuta. Così come quando l’hanno insegnato a noi, quando alle elementari ci facevano vedere le immagini dei libri di storia con le prime pagine dei giornali. E noi pensavamo fosse una cosa passata, antica, antiquata ormai lontana. Pensavamo anche fosse ingiusta. Perché titoloni come quello di oggi “La Francia è in guerra” non si vedevano da tempo.
Ma noi diremo ai nostri figli che quel 16 novembre tutta l’umanità era unita davanti le tv, con i pugni stretti, le mani tra i capelli, gli occhi socchiusi, inginocchiati e inchiodati davanti a qualcuno che decideva per loro.
Un po’ come in “La piccola ribelle” con Sherley Temple in cui c’è lei, piccolina dai riccioli d’oro, che aiuta in casa a mettere via le provviste per l’inverno perché hanno sentito alla radio che sta arrivando la guerra.
Quanti oggi si saranno sentiti Sherley Temple. Noi l’abbiamo visto in tv, l’abbiamo letto sui giornali, l’abbiamo twittato e postato nei social.
E chissà forse qualche bimbo il vaso di noccioline l’ha già riempito.

#Sbett

‪#‎sherley‬ ‪#‎temple‬ ‪#‎paris‬

Una sigaretta lunga tutta una vita, il racconto di Gianluca Salviato

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Incontriamo Gianluca Salviato una mattina di novembre.

Le auto sfrecciano veloce a Noale, nel veneziano, davanti la vetrina di quel cafè del centro. Fuori c’è la nebbia, la gente corre, va al lavoro, ma il tempo con lui sembra scorrere lento. Sembra essersi fermato.

Come si è fermato il suo di tempo, quel 22 marzo 2014, quando nel giro di 30 secondi la sua vita è completamente cambiata. “La mia vita è cambiata due volte – ci dice Gianluca Salviato – in due semplici schiocchi di dita. Il primo il 22 marzo quando mi rapirono e il secondo il 15 novembre quando mi liberarono”.

Gianluca Salviato fu rapito il 22 marzo in Libia e rilasciato dopo 243 giorni.

Otto mesi e tre giorni in mano ai carnefici. È un capocantiere di successo Gianluca, 49 anni, veneziano, girare il mondo è la sua vita e sopra gli aerei e sui nastri trasportatori dei bagagli ha visto scorrere gran parte del suo tempo. E questo fin da piccolo, fin da quando il padre lo portava in giro per il mondo, perché tecnico anche lui. Una vita piena di sacrifici la sua. “Non ho avuto una bella vita – dice – ma una vita bella”. Gianluca infatti ha sempre lavorato e studiato molto per arrivare fin dove è arrivato e mai, e poi mai avrebbe pensato che quel giorno, lungo la strada che lo portava a un cantiere avrebbe incontrato un’altra via, tortuosa e piena di insidie ma nonostante questo lui, ottimista per natura, ha fatto della sua storia una rinascita. “L’altro giorno – dice – ho detto a mia moglie che ho vissuto un’esperienza eccezionale”. E’ lucido quando ci racconta ciò e la sua è l’esperienza più temibile, terribile e sconvolgente che ci sia.

Quella dell’essere prigioniero, quella del panico, del terrore e della paura che lentamente si trasforma e diventa riflessione, impegno, concentrazione. Resistenza. Una resistenza durata 243 giorni e 243 lunghe notti. Anzi una notte lunghissima dove Gianluca la speranza non l’ha mai persa.

“Quando mi hanno preso – racconta – erano in otto. All’improvviso quel giorno stavo guidando. Mi hanno bloccato. Avevo un’auto davanti e una dietro. Dentro di me ho pensato: adesso metto la retro. Sono una persona molto razionale ma mi sono ritrovato con un kalashinokv puntato alla testa. Sono sceso dall’auto, mi hanno coperto il volto mi hanno caricato in auto e mi hanno picchiato. Il passamontagna era al contrario, vedevo e non vedevo. Poi mi hanno portato in una casa. Li mi hanno spogliato, sono rimasto in mutande e mi hanno messo una tunica nera.
Ho vissuto per otto mesi e tre giorni con la paura a sinistra e la morte a destra. Prima mi hanno portato in una casa ma non capivo dove. Urlavo loro che ero diabetico ma niente.”

Gianluca infatti viene rinchiuso in una stanza murata e da lì comincia il suo lento percorso dentro di sé. Prima sempre più in fondo nell’oscurità, con il pensiero della morte ricorrente. Un chiodo fisso, puntato contro, come il kalashnikov che ogni giorno i ribelli caricavano e fingevano di sparare per fargli vedere come sarebbe avvenuta l’esecuzione. Gli facevano vedere i video della gente che prima di lui era passata sotto le loro armi ed era finita morta ammazzata. “Mi ripetevo sempre – dice – dai Gianluca, in fondo quanti ne hanno rapiti? Tanti. E quanti ne hanno ammazzati? Due”. Ma il terzo poteva essere lui e questo pensiero comincia a tormentarlo, sempre più fino a soffocare.

Poi un giorno Gianluca capisce che deve fare qualcosa, così comincia a pensare alle cose belle e da lì comincia a risalire sempre più verso una nuova luce. “Mi sono detto devi pensare a tutte le cose belle che hai fatto e che ti fanno sorridere”. E così comincia, da quando va a comprare i vestiti con la moglie che se li prova e uscendo dal camerino fa un sorriso, a quando è in Russia e pesca nei laghetti ghiacciati. “Ripensavo ai momenti in cui andavo in un lago, facevo un foro nel ghiaccio e poi con la canna da pesca tiravo su”. Ma tutto questo ancora non basta. Allora comincia a camminare, lui che è comunque un uomo dal fisico atletico e sportivo. “Seguivo per un’ora tutto il perimetro della stanza, e camminavo, camminavo, camminavo. Camminavo per un’ora al giorno. Non sapevo davvero cosa fare e così mi sono rimesso a reimpostare i nodi dei marinai. Da giovane li sapevo fare tutti ma non me li ricordavo. Così mi sono messo e ho imparato di nuovo”. E infatti Gianluca riesce anche a fare i nodi ma ancora la lenta agonia non si arresta e lui comincia a anche a stare male fisicamente. “I primi mesi – dice – mi davano acqua in bottiglia, poi hanno cominciato a darmi acqua delle loro fonti ma non si poteva bere, mi faceva male, mi si gonfiava la pancia e mi faceva dissenteria, così ero completamente disidratato”. Una situazione ai limiti dell’umano dove lui ne è uscito a testa alta.

“Un’esperienza così ti cambia la vita – dice –  la cambia in tutto. Io ho un’altra visione adesso della mia vita. Sono cambiate le mie priorità, la mia scala di valori, i miei obiettivi. Ho smesso di fare progetti troppo a lungo termine perché so che la vita può cambiarti da un istante all’altro. O meglio faccio anche i miei progetti ma non ci rimango male se poi per qualche motivo questi non si realizzano. Prendo tutto con molta più serenità. Con più equilibrio. La parola di questo periodo della mia vita è infatti proprio equilibrio. Per me ora é tutto bello, la pioggia il sole. Pensa che l’altro giorno mi sono soffermato a guardare un’ape nel mio giardino, io che ero un continuo lavoro lavoro e lavoro. Non mi ero mai soffermato a pensare a quanto bella potesse essere un’ape. Per me ora prendere un caffè con qualcuno è meraviglioso. Ho imparato ad apprezzare le piccole cose, ho imparato ad apprezzare quello che gli altri mi sanno dare e non quello che io vorrei. Ho sempre preteso tanto io, sia da me stesso che dagli altri. Ho capito che se qualcuno non ti dà 110 ma ti dà 90, va bene uguale. Ho capito che mio padre e mia madre stanno invecchiando, e che ora sono loro che hanno bisogno di me. Io prima non ci avevo mai pensato”.

Gianluca racconta di come durante la prigionia a volte il solo pensiero che i suoi cari potessero essere in pena per lui lo faceva stare ancor più male di quanto non stesse lui in quella situazione. Il dolore che provava per i suoi genitori, per sua moglie, gli faceva scoppiare il cuore. “Quando si dice le persone muoiono quando si spezza loro il cuore, io l’ho provato perché a volte credevo davvero che il cuore si spezzasse. Credevo di morire d’infarto. Il pensiero che gli altri potessero stare male per me era più grande del dolore che provavo io. Ci sono dei dolori intollerabili nella vita che non puoi gestire”.

Già, perché Gianluca sapeva in ogni attimo che era ancora in vita, ma chi lo aspettava a casa no, sapeva solo che da un un momento all’altro la sua testa poteva saltare da fanatici ribelli. “Quando realizzi che tocca a te – dice – sviluppi una totale tranquillità per cui ti affidi al Signore. A un certo punto non avevo più paura, sapevo governarla. Sapevo gestirla”.

Dopo otto lunghissimi mesi Gianluca viene liberato per mano dei servizi segreti.

Quando li ho visti mi hanno chiesto di cosa avessi bisogno. Io ho risposto loro: “datemi una sigaretta”, una sigaretta che lui ricorderà per tutta la vita.

Sbett