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Bologna, la Dotta: qui lo spaccio è a cielo aperto

Bologna febbraio 2024

La tipa che mi sta davanti ha la gola tagliata. Si muove con fare spagnolesco e continua a ripetere che dentro di lei c’è un mostro. “C’è un mostro dentro di me”, farnetica in preda alla droga e ai fumi dell’alcol. “Guarda la mia gola tagliata”, fa a quell’altro che gli sta davanti in piedi. Lui indossa una pelliccia marrone fino ai piedi. Lei indossa un giubbino nero e quando va a testa in giù per scacciare il mostro, il giubbino le copre la testa, le scopre la pancia e lì inizia la sua danza. Comincia a roteare e inarcare il corpo e poi ad avere una specie di convulsione che non riesco a capire bene, perché avvicinarmi pare impossibile. Fino a due minuti prima si stavano cucinando il crack, lì in pieno centro, in pieno giorno, in una laterale di via Zamboni, il cuore della città universitaria di Bologna. Mi fermo a parlare con qualche residente e becco due genitori che sono andati a trovare la figlia. La figlia studia qui a Bologna. I genitori vengono dal Sud, cari i genitori che fanno studiare i figli, e mi dicono che sono qui in trasferta. La madre mi dice che non sembra una zona tranquilla, la figlia invece, capello corto sbarazzino orecchino al naso e alla bocca, molto più aperta e globalizzata mi dice che sì, che non c’è niente di male, che alla fine quei due sono due persone senza tetto che hanno solo bisogno d’aiuto.

L’aiuto, chi glielo dà l’aiuto. Viviamo in un mondo dove tutti sono pronti a farsi i cazzi degli altri, ma se sei un poveraccio e tiri a campare, per la società sei un rifiuto, un fallimento, un morto di fame e meriti di fare la vita che fai. Che pena questo mondo così schifoso. Faccio due metri e mi ferma un ragazzo di colore. Vuole vendermi fumo, roba, maria, hashish, droga, coca. “Come – gli dico – così qua a cielo aperto, voi spacciate?”. Mi sembra di essere Salvini, non ci voglio manco pensare, e quindi con fare più accomodante gli chiedo se fanno così tutti i giorni. Mi risponde: “Sì, certo”. “Ma sempre?”, “Sempre”. Gli dico che non voglio niente. Accanto a noi ci sono due ragazzi che suonano il djambè, quel tamburo a calice che usano in quei Paesi tipo Mali, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal. Le mani che battono sopra il tamburo, una canna, la droga che scorre a fiumi e quelle bottiglie di birra che si ammucchiano a ogni minuto. Una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Mi incammino verso i portici della zona universitaria, qui siamo nel cuore di Bologna, la Dotta. Ma faccio cinque passi che mi ferma un ragazzo. “Fica, fica, fica”, comincia a dirmi. E un altro. “Dove vai? Vuoi fumare? Vieni qua”. Dopo un po’ decido di andarmene e mi trasferisco in zona stazione. Le sentinelle dello spaccio sono a ogni dove. Si muovono con fare felino, furbo, a tratti perfino mansueto. Qualcuno ti ferma per venderti hashish. Venti, trenta, quaranta, cinquanta euro. Qualche altro per venderti maria. Qualche altro finge che sia tabacco e ti chiede se vuoi fare un tiro. Poi, mentre mi addentro in un parchetto isolato, al buio, con la scorta che mi controlla da lontano, incrocio un ragazzo e mi ci fermo a parlare. Mi dice che lui non ha i documenti, che è irregolare, che non trova lavoro se non lavorare in nero. “In nero? E lo trovi il lavoro in nero?”. “Certo che lo trovo”, mi dice. “Trovo sempre qualche giardiniere o qualche muratore o qualucuno che monta scale che mi dà da lavorare”. Eccoli penso. Eccoli i farabutti del lavoro. Quelli che gli immigrati non li vogliono, ma che se serve loro per evadere il fisco allora vanno bene anche gli stranieri, meglio se non parlano italiano così almeno possono sfruttarli meglio.

Poi poco più in là ci sta un tipo. Mi parla in arabo. Grazie alla scorta riesco a capire che voleva vendermi roba grossa, tagliata fina, roba buona, dama bianca, polvere sottile. Sullo sfondo una banda di ragazzini ha cominciato a fare casino: “Arrivano i serpenti”, dicono. “Arrivano i serpenti”. I serpenti per loro sono i poliziotti. Uno mi si avvicina. Mi chiede se sono una sbirra. Ormai si è fatta notte. È sceso il buio. Mi guardo attorno, la città si è dissolta lasciando posto ai colori notturni e ai luccichii di quelle poche auto rimaste che si specchiano sulle pozzanghere della pioggia appena caduta. I lampioni smorzano la luce, le luci delle case a poco a poco si spengono. In giro rimangono soltanto loro. Senzatetto, tossicodipendenti, sbandati, persone a cui la vita non ha ancora concesso un riscatto. E noi. Qui a riprendere e documentare. Mi volto, mi guardo in giro, mi accendo una sigaretta. Sono tesa. Il giorno dopo devo andare a incontrare lo stupratore, ma questa è un’altra storia…

#sbetti

“Qui dentro non siete autorizzati a entrare”

“Qua dentro non siete autorizzati a entrare”.
Perché? “Perché no”.
Il pachistano che mi sta davanti mi guarda con gli occhi freddi. Austeri. Incattiviti. Mi prende e mi accompagna fuori perché dove è lui io non sono autorizzata a entrare.
In Veneto hanno messo i migranti dentro le scuole. Ci arrivo che è quasi mezzogiorno. Il sole moscio si riflette su quelle finestre dove da dentro si vedono le loro teste. Sono teste di pachistani, di bengalesi, di nigeriani. Di immigrati venuti qui con la chimera che se vieni in Italia tutto si risolva. Mi avvicino allo stabile della scuola e la prima volta non riesco a entrare. Incontro un uomo fuori. È il titolare di un’associazione che gestisce la palestra. Mi dice che per fortuna i migranti non sono stati messi dentro la sua di palestra. Infatti, li hanno messi a scuola. Vedo le teste di questi migranti traditi dalla speranza di un futuro migliore ciondolare al di là dei vetri. Qualcuno sta cercando invano di imparare qualche monosillaba di italiano. Non riuscendo a entrare il primo giorno. Ci torno il secondo. E zac. Riesco a intrufolarmi dentro. I migranti sono qui asserragliati dentro le strutture di questa scuola che il 13 settembre dovrà riaprire le tende e suonare la campanella di un nuovo anno scolastico che sta per iniziare. È settembre vivaddio. Come inizi l’anno se accanto ci metti i profughi. Dentro una rete scoscesa, quella che i ragazzi usavano per giocare a pallavolo, è stata completamente spostata. Ci hanno messo finti letti, scomode brandine, vestiti su vestiti per dare loro una accoglienza. Poi un tipo della cooperativa che ci lavora si accorge. Mi prende e mi porta fuori. Mi dice che a lui non hanno detto o meglio “comunicato” quando i migranti da lì se ne dovranno andare. Incontro un bidello. È parecchio scocciato. Non sa niente nemmeno questo. Quando ci torno il terzo giorno davanti l’ingresso ci trovo le insegnanti. Sono tutte donne. Stanno discutendo. Bramando per il nuovo anno. Una c’ha una giacca a fiori viola verdi e azzurri. E tiene tra le mani un’agendona verdona che ricorda tanto i tempi in cui andavo a scuola. Come erano belli. Poi esce la preside. Mi dice che alla fine ha dovuto dire sì. Sì fino al 9 settembre. E poi? Anche nella seconda scuola non mi fanno entrare. Qui i migranti li hanno messi giusto in fondo al parco dell’istituto cosicché nessuno rompesse. Suono. Mi risponde il custode. Gli chiedo se per favore potesse uscire dato che a parlare attraverso un tubo ho qualche problema di comprendonio. Esce, ma la solfa è sempre quella. Arrivo nella terza. Qui sono in una palestra usata dai ragazzi. E dagli anziani per farci ginnastica. Ma con i migranti dentro: addio postura dolce. La palestra sta accanto all’asilo nido. Qui stanno raccogliendo le firme per mandarli via. Sgattaiolo dentro. Dentro ci sono migranti mesti, tristi, con le mani tra la testa piegati ricurvi sul letto. Trovo anche uno che si sta medicando una ferita. Chissà come se l’è fatta. Hanno tutti il telefono. Poi un pachistano mi vede, mi dice che lavora qua dentro, mi prende e mi sbatte fuori. “Adesso ci sbatti fuori”, gli chiedo. Non risponde.

sbetti

La bomba immigrazione sta per riesplodere

Ho ricominciato a occuparmi di un tema a me molto caro. L’immigrazione. Non quella che vi fanno vedere. Ma quella nascosta.

Mi ha riaperto i cassetti della mente che sapevo che prima o poi si sarebbero riaperti, lo sapevo. Me lo sentivo. Sapevo che quel chiavistello che non ho mai chiuso sarebbe saltato via come salta via il tappo quando la pressione non regge.

Sapevo che quei cassettini si sarebbero riaperti. Solo che l’altro giorno quando mi sono trovata a riaprirli, non avevo più i pomelli. Il tempo li aveva logorati. Il legno era stato ciucciato e mangiato dai tarli.

I pomelli erano saltati. E ho dovuto riprenderli in mano. RiprenderMi in mano. Ho dovuto infilare le unghie dentro le fessure e tirare e tirare tirare tirare. Ho dovuto scavare ancora più a lungo rispetto a quello che ci viene detto, proferito, pontificato. Ho dovuto riaprire i vicoli della mente, quelli che erano rimasti al buio. In penombra.

Quelli che fai un passo e cammini e poi me fai un altro e ti sorprende il tramonto. Ho dovuto farlo per arrivare a scoprire che è pure peggio di prima.

Perché checché ne dicano quelli che in passato mi hanno dato della razzista – che sono coloro i quali i campi di accoglienza non li hanno mai visti manco in cartolina – io a differenza loro ho sempre cercato di denunciare il business, l’accoglienza che diventa una macchina per macinare e fabbricare soldi, ho sempre denunciato l’ipocrisia, l’invasione, il falso perbenismo, la bieca carità. Ho sempre denunciato come stessero queste persone.

E sapevo che prima o poi sarebbe arrivato il momento. Di riaprire quelle ferite. Di continuare a farle sanguinare. Di continuare a incidere la lama perché facciano ancora più male. Ancora più dolore. Perché possano arrivare in faccia alla gente. E scuoterla.

Per trattare certe storie bisogna andare. Scavare. Andare oltre. Immergersi. Oltrepassare. Non fermarsi davanti a un cancello chiuso. A un telefono sbattuto. A una porta chiusa in faccia. Ti ci devi immergere dentro, devi non riuscire a comprendere più chi sia tu con la consapevolezza di essere te stessa. @L’accoglienza non è quella che vi viene data in pasto.

E l’immigrazione continua a non essere gestita. Ha solo smesso di fare rumore. I migranti hanno cessato di protestare. Ma la miccia sotto sta per esplodere.

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Qui si sta in fila come i dannati

In fila come i dannati. La donna che mi sta davanti versa l’acqua al padre. Gli apre dolcemente la bocca e cerca di farla scivolare giù lentamente lungo la lingua. Il padre avrà all’incirca 90 anni. Il numero 90 ti fa pensare a un omone bello e grosso. E invece è un omino piccolo piccolo incanutito dal dolore, svezzato dall’orgoglio, piegato dalle piaghe del corpo. Ha le braccia esili esili. Le gambette saranno la metà delle mie. Fissa il pavimento. Chissà, penso, forse ripensa alla sua vita. A quella vita andata e passata, a lui che ha cresciuto figli, che ha amato, lavorato, sudato, a lui che ha messo su famiglia, Dio come faccio a pensare di essere ora senza forze, inerme, con quella figlia a cui davo da mangiare e da bere e ora è lei che dà da bere a me. Il suo viso sembra quello di un bambino. Ma invecchiato. Smunto.
Qui è mezzogiorno in punto. La situazione si fa calda. Complicata. Il traffico è tanto, al pronto soccorso arriva una barella dietro l’altra. La signora che mi sta accanto invece ha preso una botta in testa. Ha paura di avere un trauma. Vuole alzarsi ma l’infermiera le dice di stare ferma, che non si sa mai cosa ti possa succedere. La donna che è appena entrata invece ha una cannuccia piccola piccola che le parte dal naso e le arriva fino alla bocca. Grazie a quella può respirare. È cardiopatica. Sulla bombola che l’infermiere appoggia sopra quel letto coperto da quelle gambe di un pigiama sgualcito, c’è scritto ossigeno. Le barelle. Quante barelle. Qui le barelle arrivano come le valigie ai nastri trasportatori dell’aeroporto. Gli infermieri con una calma e una pazienza formidabili le prendono, le spostano, le accostano, fanno retromarcia, vanno avanti, si inceppano, scavalcano. Ci sono anche quelli che sollevano i malati e – uno – due – tre – al mio quattro – giù sulla barella.
E il paziente sprofonda. Questa è l’ora dei dannati, di quelli che si tengono aggrappati alla vita, di quelli che cercano cure, ripari, calori, salvagenti dell’anima in questo mare di dolori. Sofferenze atroci. Acute. Che scavano dentro. Che ti entrano appresso. Te le senti addosso. Ti rimangono aggrappate una settimana e più tenti di scacciarle più non se ne vanno. Un uomo è arrivato, aveva il catetere attaccato, lo sguardo perso nel vuoto. Poco dopo è arrivata la figlia: “Dov’e mio padre? L’hanno ricoverato”. C’è anche il giocatore di basket che dorme lì sul giaciglio di un letto preparato all’ultimo, le scarpe giacciono a terra come a dire: ora è tempo di riposare, domani starai meglio. Si alza, va in bagno, ma sbaglia porta.
C’è anche il pescatore che stava pescando sul fiume, che si è svegliato stamattina all’alba e che si è inciso un mignolo, gli si è aggrappato l’amo e Dio fa un male cane. Non vuole l’anestesia. Provano a estrargli quel pezzo di ferro così a mani nude dipingendo ondate di dolore. Ma niente. Le grida sono enormi. Immense. Le senti che si propagano come quando arrivano i cani che si gettano sulle prede, come quando l’uomo uscì dalle caverne, un ululato travolgente, inquietante, un suono fracassante, e lui che impreca in una “Babilonia di lingue” che non si erano mai udite. È troppo. Impossibile resistere. Alla fine optano per l’anestesia. E lui si addormenta nel mentre arriva un’altra sirena. Sarà la cinquantesima in 50 minuti. Le sirene spiegate. Gli uomini martoriati sulle barelle. Chi sulle stampelle. L’infermiere che controlla che sia tutto a posto, che la paziente sia legata giusta, quello che prende i dati, quello che li trascrive sul computer, quello che li detta ad alta voce, quello che arriva e ha bisogno di un consiglio, il computer che si inceppa, la bambina che piange, il figlio preoccupato per la madre, il medico che visita, che prende i valori. Gli esami del sangue, l’appello nella sala d’attesa dei condannati alla penitenza, di questa vita che è sofferenza angosce dolore.
Stupisce l’organizzazione del personale nel caos allucinante. Anche le guardie. Dio le guardie giurate, accolgono i pazienti che rimangono in attesa cercando di capire per quale motivo qualcuno ci ha messo al mondo, se poi dobbiamo stare male, soffrire, curare malattie.
Esco. La gente è fuori. Ci sono i familiari dei pazienti. I parenti. Gli amici.
C’è la gente che fa la spola. Lo senti il profumo di tabacco dei tabagisti incalliti, anestetizzati dal dolore per i propri cari che fumano come ciminiere.
Qui è un andirivieni continuo. Per medici e infermieri è normale trattare i malati. Prendersi cura degli altri. È normale aiutare chi ha bisogno. Quello di risolvere i problemi ce l’hanno nel sangue, qualsiasi persona deve trovare una risposta. Un esito, una diagnosi. Qualsiasi persona non si lascia per strada.
Così, questa sera poi sono andata in un centro Tim e il destino ha voluto che incrociassi una signora col bastone. Non riusciva ad aprire la porta? A fare il gradino. Le ho porto la mano.
Mi ha detto: “No, ho paura di tirarti giù”.
Le ho detto: “Non importa. La tiro su io”.

sbetti

La furia della tempesta 🌩️

In alcune regioni del Nord Italia martedì e mercoledì si è abbattuta la tempesta. Ieri ve ne ho parlato su La Verità. Il cielo si è fatto torbido. Il buio ha iniziato a camminare con passo solenne. Le nuvole si sono appesantite, increspate, il vento ha iniziato a soffiare e quel pennone tricolore affisso sul tetto di una casa ha iniziato a sventolare.
Sono all’incirca le otto di sera, il Veneto è nella morsa del caldo afoso, quello torbido, quello che fa mancare l’aria. La temperatura segna i 36°, quella percepita per l’umidità è di 38°. Qui lo sanno cosa vuol dire convivere con l’umidità che ti si incolla addosso, quando prendi i giornali la mattina e si bagnano. Lo sanno cosa vuol dire convivere con l’afa. È sempre stato così. L’afa quando è troppa, porta tempesta e grandine. È il buio e la luce. Lo yin e lo yang.
Mercoledì sera l’afa ha iniziato a diminuire. Lo senti quando diminuisce, si forma una brezza leggera che sembra dolce ma per chi vive qui, preannuncia l’Apocalisse.
Bastano pochi minuti e il vento prende forza, 7 nodi che diventano 8, 9, 10.
L’altra sera la gente ha iniziato a chiudere tutto, le auto che erano per strada hanno cercato riparo, tutto dentro casa con le finestre aperte ha preso a volare, a sbatacchiare, a rovesciarsi. Le zaffate di vento erano così forti che parevano onde ciclopiche. E tutto intorno erano fulmini, lampi, tuoni.
Qui l’8 luglio 2015, lungo la riviera del Brenta, nel veneziano, ci fu un tornado, un F4, con venti a 300 chilometri orari.
La gente lo sa bene cosa vuol dire trovarsi la casa scoperchiata da un minuto all’altro.
Fu l’apocalisse che spaccò in due il cielo.
Dove il tornado passò non lasciò nient’altro che distruzione e disperazione.
E mercoledì sera le tegole sono venute giù come carte da gioco mosse da un soffio, il vento aveva una tale furia che ha sradicato alberi, pali della luce, alcuni parevano staccarsi da terra, stroncarsi, pareva l’inferno. I chicchi di grandine hanno iniziato a cadere come palle dal cielo…

Qui il mio pezzo 👇🗞️✍️

sbetti

Primavalle. Anche qui ci scorre la vita

Settembre 2022.

La tipa che scende dall’auto dinanzi a me, sulla gamba destra, all’altezza del polpaccio, ha un tatuaggio. Ci sta raffigurato un uomo anziano che le sorride. Le somiglia. Credo sia suo padre. Il tatuaggio le copre tutta la parte che dal polpaccio le scende fino a giù verso la caviglia. Sgattaiola via con fare frettoloso. Sbrigativo. Spavaldo. Si vede che è insoddisfatta dalla vita. Qualcuno gliel’ha resa difficile. Qui siamo nei quartieri malfamati. Nei quartieri poveri. Nelle case popolari. Scenari di vite ai margini. Sobborghi di periferia. Intelaiate dalla malavita. Ci stanno vie ripide e scoscese che conducono a piazze che rievocano fatti di cronaca nera. La più brutta. Qui ci sono i bambini che giocano a pallone nei lotti immensi di cemento tra un palazzo e l’altro.

I vestiti appesi alla rinfusa dai balconi evocano donne insoddisfatte, buchi nella stoffa da carpentiere, felpe lunghe larghe da non far trasparire niente, asciugamani che ancora sanno di sudore. Qui si annida l‘emarginazione sociale. Le favelas. Qui i bambini in mezzo ai palazzi alti quanto navi, vociano, vociferano, chi non ha padri o madri cresce in mezzo alla strada. Fanno rimbalzare il pallone che provoca enormi tonfi. Bam. Bam. Urlano. Giocano. Si dilettano. Crescono. Troppo in fretta per essere piccoli. Accanto ci passa un gruppetto di ragazzi. C’avranno all’incirca 16 anni. Hanno tutti lo sguardo da macho, da duro. Sono tutti vestiti uguali. I jeans strappati che col cavallo toccano terra. Le catene ai piedi. Alle gambe. I capellini da baseball. Le magliette larghe, chi rossa chi nera chi bianca. Ti guardano con quell’occhio intrepido che sa di sfida verso il mondo. Scende un ragazzo. È pieno di tatuaggi. Gli chiedo se vuole fare due parole. Mi risponde che non vuole. Blatera qualcosa. Mi manda a fareinculo.

Il signore che mi apre la porta invece è gentile. Somiglia al topino delle Tartarughe Ninja. Al Maestro. Ha gli occhi incavati più incavati di un cava tappi. Le borse violacee sotto gli occhi gli rigano il volto. Ha gli occhi freddi fermi verdi. Non esprimono nient’altro che rassegnazione totale. Un uomo tradito dalla vita che la vita l’ha spremuta poco, gettandola via tra pasticche ed ecstasy. Ai piedi nudi indossa un paio di ciabatte. Dei pantaloni azzurri scoscesi che gli stanno su a malapena. Mi apre la porta con fare disinvolto. Buongiorno. Permesso. Scusi. Uscita dal quartiere è un labirinto di case. Di vie scoscese. La luce del sole riscalda i palazzi. Questi enormi colossi verdi gialli grigi e bianchi. In giro è un incrocio di culture. Droghe. Allucinogeni. Allucinanti. Il coreano che accompagna il figlio. Il messicano che lo tiene in braccio. Il marocchino che si gira la cicca alla fermata dell’autobus. È un incontro di donne nere bellissime africane con i capelli preparati e i corpi perfetti. Un incontro di market, supermercati, farmacie con le saracinesche abbassate; di suore che cercano di far del bene. Di bar che echeggiano gli stivali dei cowboy. I cigolii delle porte. È un incrocio di culture diverse. Di giovani che provano a crescere. A inventarsi qualcosa, sorvolando dai tetti ai garage delle auto. Luci psichedeliche. Cervelli sbiaditi in fumo. Allucinazioni. Ragnatele. Sale da musica rock. Gente da borghi di periferia che vuole emergere. Sui muri scrivono poesie. Frasi. Dipingono cuori. Anche qui ci scorre la vita.

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Il mio servizio con Giordano Giusti qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/la-storia-del-rom-di-primavalle_F311547501038C07

Al buio contro il caro bollette. E il paese torna al Medioevo

C’è stato un tempo quest’inverno in cui abbiamo pensato che per far fronte ai rincari energetici avremmo dovuto spegnere le luci. Nei paesi. Nei locali. Nei bar. Nei ristoranti. Nelle chiese. Nelle case. Nelle piazze e nelle strade. C’è stato un tempo in cui abbiamo creduto che il click di spegnimento, che segna quella lancetta dello spending review, fosse l’unica soluzione. Una soluzione accettabile. Quella di uscire la sera dalla messa e trovare buio. Quella di andare a cena fuori e trovare buio. O cenare così a lume di candela. Quella di svegliarsi all’alba per andare a lavorare e trovare ancora e ancora buio. Buio pesto. Fitto. Non una luce. Non un lampione. Immagini di un tempo andato. Scene da Medioevo con le torce in tasca e le fiammelle sotto i porticati.

Il montaggio di questo servizio per Mediaset, realizzato ad Arzergrande, un paesino nel padovano in Veneto, è stato realizzato grazie alla maestria e alla professionalità dei cameraman Carlo Brotto e Simon Barletti.

Un intreccio sonoro di immagini. Situazioni. Scene. Alti. Bassi. Chiari. Scuri. Di accensioni. E di droni perfettamente intersecati con i lampioni.

Per un disguido tecnico il nome all’inizio del servizio è sbagliato.

Qui il mio reportage 👇 clicca sul link

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/il-paesino-spense-la-luce_F311547501042C09

Baby gang. “Noi vestiti di nero così non si vede il sangue”

“Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo”. Sono “ragazzini”, hanno tutti dai tredici ai sedici anni. A volte anche otto. Li incontro un sabato notte accanto alla stazione di Padova. Sono in quattro, tutti vestiti uguali, zaini in spalla, guanti neri, i cappucci delle felpe che avvolgono le teste. Il capetto, quello più basso e tarchiato, ma assai sveglio, mi viene incontro senza indugio. Abbiamo invaso il suo territorio. E si sente minacciato. “Fammi vedere i tuoi documenti, chi sei? Cosa vuoi sapere?”. “Chi siete? Cosa fate?”, chiede. “Noi facciamo parte della baby gang AK47, hai presente il fucile? Ecco quello. Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo. Il nostro divertimento è bere, fumare, picchiare”.

Mi addentro in mezzo a loro. Sono quasi tutti stranieri. “Ragazzini di seconda generazione”, come li chiamano i progressisti.

Qui a Padova in zona stazione c’è un vero e proprio formicaio. Ma anche in Prato della Valle o in pieno centro. Sono divisi in gruppi a seconda delle nazionalità. Ci sono albanesi, marocchini, tunisini, romeni. I capetti li riconosci subito. Sguardo duro. Schiena dritta. Spalle fiere. Hanno intorno una nuvola di adepti che li segue. Se non fai come il gruppo sei tagliato fuori. Se li guardi più di mezzo secondo comincia la sfida e c’è da aver paura. In Prato della Valle, un gruppo ci spiega che “ci sono i Maranza, a Milano vengono chiamati Zanza. Bisogna essere tutti vestiti uguali e soprattutto di nero perché bisogna picchiare la gente e se picchi qualcuno non si vede il sangue”. Ci sono maschi, femmine. Quando si menano è proprio la vista del rosso vivo che li eccita. Il pugno preso in faccia. Il calcio. Il fatto che se rispondi, “l’altro ti rispetta”. “Ti senti invincibile – mi dice un bullo pentito – ti sale l’adrenalina nelle gambe ed è bellissimo”. “Una volta hanno fatto Verona contro Padova”, mi dice un ragazzino. Avrà all’incirca 12 anni. Accanto una ragazzina con addosso un piumino e sotto seminuda dice che “qui è normale e ogni weekend scoppia la rissa”.

A Mestre nel veneziano, la situazione non è diversa. I teppisti si annidano attorno al centro commerciale. Molti urlano, danno fastidio alle persone, sputano. Una banda turca, in pieno centro, mi mostra la maglia rossa con scritto “Turkey”. Hanno dai 13 ai 17 anni. “Urliamo per fare casino. Se uno inizia a fissarci io vado lì e lo colpisco. Per entrare nel nostro gruppo devi essere turco e nato in Turchia, siamo sempre i migliori e puntiamo i più grandi. Siamo dei criminali”. “Loro – mi dice un altro indicando due giovani – sono stati presi e schedati dalla polizia. Hanno menato un ragazzo perché ha insultato la loro patria e la loro madre”. Un ragazzo mi passa accanto con la bottiglia di vino in mano. “Noi siamo baby gang. Siamo tutti moldavi. Questa sera beviamo perché domani abbiamo un incontro. Siamo 30 contro 5. Da noi si usa così”.

Infatti. I vandali delle bande giovanili stanno tenendo sotto scacco intere città. Milano, Torino, Udine, Bologna, Roma. Bevono, si menano e hanno armi. Si organizzano nei social, Tik Tok, Instagram, si danno appuntamento in un luogo all’ora x e comincia la rissa. Albanesi contro marocchini. Tunisini contro romeni. Turchi contro moldavi. Neri contro bianchi. Bianchi contro neri. A Padova è anche accaduto che prendessero a bottigliate dei clienti seduti ai tavolini di un bar. Altre volte prendono di mira qualche coetaneo e non c’è verso di fermarli. Un ragazzino di 14 anni che intervisto nel Polesine, quest’estate è stato pestato a sangue. “Mi hanno fermato per chiedermi se avessi sigarette e soldi – racconta – mi hanno rubato 15 euro. Erano in quattro, poi c’erano altri sei, sette ragazzi. Alcuni avevano la mia età. Altri due più piccoli. Il ragazzo più piccolo mi diceva: “se mi incolpi un’altra volta io ti ammazzo”. Mi hanno picchiato, ho perso sangue e sono finito in ospedale. Avevo una lesione alla mandibola sinistra. Non è la prima denuncia che prendono, più di una volta hanno picchiato qualcuno”.

Un investigatore privato che raggiungo Giuseppe Tiralongo, a Roma ha “sventato” un omicidio. Ingaggiato dai genitori del ragazzino, italiano, ha scoperto che costui stava pianificando l’uccisione di un uomo con alcuni amici. Avevano già la pistola. “Qui non si parla più di baby gang – dice – sono vere e proprie bande di criminali. Ragazzini annoiati, anche della Roma bene”. Una nota del ministero dell’Interno del 7 ottobre scorso parla di baby gang come “una realtà in aumento in Italia”. Transcrime, il centro di ricerca tra la Cattolica, Alma Mater e l’Università di Perugia, il mese scorso ha pubblicato uno studio sulle Gang giovanili nel nostro Paese. “Nella maggior parte dei casi i membri sono italiani”, quelle “composte in prevalenza da stranieri di prima o seconda generazione sono più frequenti nel Nord del paese rispetto alla media nazionale. Mentre situazioni socioeconomiche di marginalità e disagio sono evidenziate in prevalenza nelle regioni del Sud”. Il report del Servizio analisi criminale della Polizia criminale sui minori, a febbraio scorso, parlava di 25 mila minori denunciati o arrestati nel 2021, con un +10%. In aumento del 20% i reati di lesioni personali, danneggiamento, minacce, omicidio doloso, rapina, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. In crescita anche i traffici di stupefacenti e la percentuale degli stranieri all’interno di queste bande: dal 44 al 46 %. Ragazzi violenti, gruppi criminali, iniziano ad armarsi sul web e poi spaventano le piazze.

Serenella Bettin

La Verità – sabato 26 novembre 2023

Durante il servizio girato per Mediaset con il cameraman Carlo Brotto siamo stati colpiti da dei sassi lanciati dai ragazzi

Il nostro servizio qui 👇 clicca il link.

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/vita-da-baby-gang_F311547501046C05

E questa la mia intervista a un bullo pentito.

Intervista inedita ad un ragazzo che racconta la sua esperienza passata all’interno di una baby gang 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/confessioni-di-un-ex-baby-violento_F311547501046C08

Immagini inedite

Lungo la rotta balcanica

Una continua emorragia di clandestini. Di migranti. Un flusso inarrestabile. Arrivano a frotte di cento, duecento persone al giorno. Scendono dai boschi. Spuntano dagli alberi. Si mettono in cammino, molti dal Pakistan, poi calano verso Trieste ed entrano illegalmente nel nostro Paese. Siamo al confine con la Slovenia e percorriamo un tratto di rotta che fanno i clandestini per giungere in Italia. É notte fonda. Risaliamo i sentieri battuti dai migranti. A terra spuntano calzetti, scarpe, borse, zaini. Qui sono appena passati. Ci sono rifiuti, documenti, caricabatterie. La Rotta Balcanica viene percorsa ogni giorno da un numero di clandestini che supera di gran lunga le cifre degli sbarchi sulle coste siciliane. Secondo i dati forniti da Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere europee, da gennaio a ottobre 2022, sono stati 128.438 gli attraversamenti illegali nell’Unione Europea, con un balzo del 168 per cento rispetto ai primi dieci mesi del 2021. Sembra impossibile che ci sia una porta dell’Italia dominata da una invasione totalmente incontrollata. Senza respingimenti. Lunedì mattina qui, la polizia di frontiera ne ha rintracciati 118. Una funzionaria che incrociamo alla sottosezione di Ferretti a Trieste ci guarda con aria affranta. “Ne sono arrivati anche oggi?”, chiediamo. “Sì, come ogni santissimo giorno”. Vediamo i migranti ammassati mentre aspettano. Qui vengono prese le impronte, viene fatto lo screening sanitario e poi si effettuano le varie pratiche. L’ “accoglienza” nei centri è di competenza delle prefetture. Ma di fatto questa, di cui le anime belle si riempiono la bocca, non c’è. Agli intellò non interessa nulla se i clandestini finiscono con il riempire i piazzali delle stazioni in un hub a cielo aperto, come avviene a Trieste. Qui ne incrociamo centinaia. Qualcuno è in partenza per Milano. Qualche altro per la Germania. Ma molti vogliono rimanere in Italia. “Italy is good, Italy is good”, ci dicono. Sanno solo due parole. “Asilo, asilo” e “International protection”. Al mattino alle sette, chi ha l’invito da parte della polizia di frontiera a presentarsi all’ufficio immigrazione, fa la fila davanti alla questura per regolarizzare la propria posizione, chiedendo asilo o protezione. La maggior parte però si presenta spontaneamente e rientra nella cerchia di quelli non rintracciati. E sono tanti. Fonti della Verità ci dicono che se ogni giorno ne pescano 200, in realtà sono almeno il doppio. La presentazione in questura avviene un mese dopo il rintraccio, il che vuol dire che abbiamo migliaia di persone che di fatto rimangono in Italia clandestinamente. E ne siamo consapevoli. La questura poi trasmette le richieste di asilo alla prefettura affinché la commissione vagli la posizione del clandestino. E così passano altri due tre mesi. Dati alla mano, forniti dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, nel 2021 ci sono state 53.609 richieste. Di queste il 58% è stato respinto. Questo 58% dovrebbe andarsene dall’Italia ma, ci rivelano sempre le nostre fonti, di fatto non viene espulso e rimane qui. Solo il 14% prende lo status di rifugiato. Un altro 14% ottiene la protezione sussidiaria e un altro 14% la speciale. Dal Pakistan, per dire, su 7920 richieste nel 2021, ci sono stati 5583 dinieghi. I principali Paesi di provenienza sono Pakistan, Bangladesh, Tunisia, anche Afghanistan. L’ Egitto invece è la nuova presenza. Fonti ben informate ci dicono che tra i disperati che ogni giorno fanno la tratta si è sparsa la voce che in Italia si faccia presto ad avere i permessi. Ma anche qui stessa manfrina. L’83 % delle richieste egiziane viene rigettato. I migranti fanno ricorso e chi è uscito dalla porta rientra dalla finestra. L’anno scorso sempre la polizia di frontiera di Trieste in tutto il mese di ottobre aveva rintracciato 491 immigrati. Quest’anno 1932. Senza contare quelli non “censiti”. Il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, l’altro giorno è tornato a chiedere le riammissioni in Slovenia, in virtù di quell’accordo bilaterale del 1996. “Sulla rotta Balcanica – ha detto – non siamo Paese di primo ingresso e quindi è ingestibile di fronte a questi numeri dare risposte a una situazione che non si sarebbe dovuta creare”. “La situazione è insostenibile – dice alla Verità Lorenzo Tamaro, segretario provinciale del Sap Trieste – questa situazione non può essere scaricata sulla polizia che oltretutto lavora in forte carenza di organico e logistica inadeguata. Non abbiamo neanche delle norme adeguate e incisive come lo sono state quelle sulle riammissioni in Slovenia”. Prendiamo la via del ritorno. Incontriamo un gruppo di migranti. “Italy is very good”, dicono “I want to stay here. I want to stay here (Io voglio stare qui. Io voglio stare qui)”. Si fa sera. Nei boschi spuntano resti di indumenti e oggetti in continuazione. I clandestini hanno ricominciato a a camminare. Tra poche ore scenderanno verso Trieste. L’emorragia è inarrestabile. 

Serenella Bettin 

Pezzo uscito sul quotidiano La Verità il 17 novembre 2022 👇

Il mio servizio per Controcorrente Mediaset lo potete rivedere qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/migranti-come-arrivano-dai-balcani_F311547501047C03

Riprese di Carlo Brotto e Simon Barletti.

Montaggio: Simon Barletti.

Doppiaggio: Simon Barletti

Qui è quando abbiamo dormito in auto aspettando che calasse il buio per trovare i clandestini 👇

Serenella Bettin e Fausto Biloslavo 👇

E questo invece è un servizio realizzato con l’inviato di guerra Fausto Biloslavo nell’estate 2019 per il Giornale 🗞️

🎥📸 #Reportage: al confine tra la Slovenia e la Croazia. In viaggio tra i trafficanti della rotta balcanica. Qui il triplo dei clandestini dei barconi. E vogliono tutti venire in Italia.

LEGGI IL PEZZO 👇
http://m.ilgiornale.it/news/cronache/scudo-anti-migranti-1752804.html

GUARDA IL VIDEO 👇
http://m.ilgiornale.it/video/cronache/scudo-sloveno-fermare-i-migranti-1750166.html

Appunti della Bettin 📲 👟 📝 👇

Quattro considerazioni sulla Rotta Balcanica che i talebani dell’accoglienza non apprezzeranno. Sono rientrata dalla Rotta e ho voluto lasciare che i pensieri defluissero via. Li ho lasciati scorrere come scorre l’acqua sul lavello sporco. Ero così talmente piena di visioni, di luci, di voci, di suoni, respiri, sbadigli, sospiri, di persone, di parole che ho voluto prendermi qualche ora per stare in silenzio e respirare. Ho lasciato che i pensieri scivolassero via per capire se fossi io a vedere tutto amplificato. Non lo è stato. Ho atteso il far della sera dormendo in auto. Il mio libro sull’immigrazione, karma vuole, si chiama proprio “Aspettando che arrivi sera”. La Rotta Balcanica è quella cosa che ti entra dentro e che vedi dal finestrino dell’auto quando stai per arrivare nel bosco e devi lasciare la macchina e proseguire a piedi. Sono suoni ovattati che immagini nella mente. Sono rumori sospetti, di notte, con le scarpe che scricchiolano sopra le foglie. Sono soffi di fogliame che cade. Voci nel buio. Luci in penombra che sembrano fiammelle che sputano fuoco sopra Trieste. Sono guardrail che ti passano accanto. Sono ombre. Quiete. Silenzi sospetti. Ma soprattutto sono passaggi. Da una parte all’altra. Dal Pakistan all’Iran. Dall’Iran alla Turchia. Dalla Turchia alla Bulgaria. Fino alla Serbia, alla Bosnia. Dalla Bosnia alla Croazia. Dalla Croazia alla Slovenia. E giù in Italia. Da questa porta aperta sul nostro Paese ogni giorno entrano illegalmente centinaia e centinaia di migranti. Il giorno che sono arrivata la polizia di frontiera ne aveva rintracciati 118. Erano tutti lì in fila per le pratiche. I documenti. Lo screening sanitari. Gli occhi spenti. Fuori dalla testa. I piedi martoriati dalle piaghe. Sembravano unguenti. Sanguinanti. Pieni di bolle. Pareva il miele che ribolliva dentro l’acqua. Carta vetrata. Cemento. Gesso. Pieni di terra. A una funzionaria a cui ho chiesto “Sono arrivati anche oggi?”, mi ha risposto: “Sì, come ogni santissimo giorno”. La polizia è affranta. Non ha mezzi. Risorse. Strutture. Danno loro un invito a presentarsi in questura. E questi la mattina alle sette fanno la fila. In piedi come i dannati li vedi mentre aspettano per chiedere accoglienza e protezione. Quale accoglienza. Quale protezione. Avuto il foglio, il prossimo passo è la commissione. Che deve vagliare la posizione di ognuno. Passano mesi. E chi esce dalla porta spesso, grazie ai ricorsi, rientra dalla finestra. In questo limbo creato ad arte “migranti” rimangono nel nostro Paese. Ingrossano le fila delle stazioni. Le vie. I quartieri. Le strade. Clandestinamente rimangono in Italia. Dati alla mano, il 58% delle richieste che la commissione riceve viene rigettato. Ma di fatto, mi dice una fonte ufficiale, questi dall’Italia non se ne vanno. Le espulsioni costano troppo. Rimangono qui. Senza casa. Né lavoro. Né niente. Perché alle anime belle, progressiste con il filo di seta e le sciarpette di Hermes, questo non interessa. Alle anime belle non interessa se questi una volta arrivati in Italia pernottano davanti la stazione, bivaccano sui giardinetti, sostano in mezzo alla strada, dormono sopra i carrelli della spesa del discount (visto io con i miei occhi). No, ai talebani dell’accoglienza interessa altro. Chi se ne frega se questi disgraziati si annidano nei parchi. Per i radical chic l’importante è che vengano in Italia, poi se sono ridotti allo sfascio in mezzo alla gente che per passare deve fare lo slalom tra sacchi a pelo e tende e coperte, non è un problema. Stanno lì. Aspettando che arrivi sera.

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In Kosovo la guerra non è mai finita

Sono atterrata a Pristina una sera di fine settembre di qualche anno fa. Era prima. Prima del covid.
Quando atterrai all’aeroporto e sentii due persone parlare in napoletano subito mi ci aggrappai. Scoprii dopo che erano due militari nella stessa base dove alloggiavo.
Un sogno il Kosovo che avevo fin da piccola. Quando guardavo Carmen Lasorella in televisione e quando scoppiò la guerra continuavo a ripetere: “Pristina, Pristina, Pristina”.
Soffrivo tremandamente per via della guerra, mi chiedevo se i bambini come me, quelli al di là del fronte, avessero da mangiare e da bere.
Un fazzoletto, il Kosovo, grande quanto l’Abruzzo. Dove ci convivono sei etnie differenti: albanesi, serbi, turchi, rom, bosniaci e gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo meridionale e di religione musulmana originario di Gora, a sud di Prizren. La bandiera del Kosovo, quel lenzuolo blu, infatti ha sei stelle: ognuna delle quali corrisponde alle sei etnie.
Quando sono arrivata avevo subito capito che fosse una terra particolare. Una tela piena di buchi, di ombre, di simboli e segnali, che rendono difficile e quasi utopica la parola “pace”.
La guerra civile qui non è mai finita. E il fermo immagine che ho nella testa sono quei cimiteri pieni di tombe che spuntano lungo le strade quando ti sposti da una città all’altra.
Qui non ci sono sfumature di grigio. Ogni etnia ha la sua truce e distinta tonalità. In alcune zone la guerra pare sia finita ieri e invece è finita vent’anni fa. Ancora ci sono le case completamente sventrate, bruciate; ci sono zone dove i bambini cucinano i peperoni per strada, o enormi distese di verde cenere dove la furia dell’uomo e delle bombe ha lasciato la terra incolta e arida. Non ci cresce più niente. Nemmeno la gramigna.
Una popolazione che è un caleidoscopio di fiammelle colorate che esplodono tutte. La tensione nell’aria la senti benissimo. La percepisci. La agganci. La fai tua. Ci convivi giorno e notte.
La apprendi quando capisci che per pronunciare Pejë, città del Kosovo occidentale, devi cambiare accento a seconda se hai a che fare con un albanese o con un serbo.
Una regione martoriata, squarciata, fatta a brandelli.
Sono figli della stessa terra e ancora si fanno la guerra. Quando a Sarajevo intervistai un ragazzo bosniaco gli chiesi: Perché tutto questo odio ancora? “Troppo male è stato fatto”, mi rispose.

sbetti

📸 Pristina settembre 2017

Mancano lavoratori. Pochi giovani. L’asparago sparirà dai nostri menù

Ho passato una giornata con chi lavora la terra. Probabilmente l’asparago non sarà più tra i nostri piatti. Alcune aziende agricole lo stanno eliminando perché è un ortaggio troppo faticoso. Richiede fatica. Voglia. Costanza.
La raccolta si fa uno a uno, stando accovacciati per terra, metro dopo metro, passo dopo passo, riga dopo riga. Un mestiere faticoso che segue gli andamenti del tempo. E in natura il tempo non lo puoi ammanettate. Non lo puoi ingabbiare. Lo devi lasciar scorrere. Con i suoi sfoghi e le intemperie. Con i suoi doni e le sue rovine…
Un mestiere che vede sempre più stranieri. Nelle aziende dove sono andata ho visto molti marocchini, tunisini, bengalesi. Molti giovani si stanno (ri)avvicinando a questo mondo, le braccia Rubate, diventano braccia Restituite.
L’Istat nel 7* censimento generale dell’Agricoltura calcola che i ragazzi fino a 29 anni a capo di una azienda agricola sono 18.923; 6.399 le donne.
Ma da qui a cantar vittoria ce ne passa. Perché le realtà giovanili rimangono sempre troppo poche. L’Ue sta intervenendo con finanziamenti. Nel Pac 2023- 2027 l’obiettivo è quello di consentire il ricambio generazionale in un settore che ha un forte bisogno di ragazzi e ragazze. Non di mercenari.
Servono voglia, passione.
Serve quella famosa fiamma negli occhi…
il mio reportage su La Ragione

Pezzo uscito su la Ragione il 26 maggio 2023

Massimo controlla che sia tutto a posto. La spia sta a indicare che la doppia trazione è inserita. Salgo con lui sopra il trattore. Cinture allacciate. Doppio sedile. Radio. Se hai freddo c’è anche il riscaldamento. Dietro di noi, sul rimorchio ci sono sei ragazzi. Tutti stranieri. Marocchini. Romeni. Stanno seduti in riga composti. Il loro lavoro consiste nel pulire le piantine di cappuccio. Una per una. Poi ci pensa la macchina a piantarle a terra. Riga dopo riga. Metro dopo metro. Il lavoro procede ai ritmi della natura. Funziona così in agricoltura. Il tempo non lo puoi forzare. Non lo puoi ammanettare. Lo devi lasciare scorrere. Con i suoi sfoghi e le intemperie. Con i suoi doni e le sue rovine. Damiano Bellia, 34 anni, conduce questa azienda di famiglia a Scorzè nel veneziano, insieme al fratello e al padre. Sa bene cosa voglia dire svegliarsi la mattina alle cinque e rincasare la sera quando fuori è buio. Sa bene cosa voglia dire fare fatica. Prendi la raccolta degli asparagi per esempio. Vanno raccolti uno a uno, centimetro dopo centimetro. “Stiamo eliminando questi ortaggi – racconta a La Ragione – perché troppo faticosi”. Le file di asparagi che abbiamo davanti in questa immensa distesa di campi sono le ultime della produzione. L’anno prossimo non ci saranno più. “La gente ha ancora in mente l’agricoltura come veniva fatta una volta, ma non è più così”. L’asparago è una di quelle colture dove non ci puoi mettere la tecnologia, l’innovazione. Rimane un’arte. Che se non hai la sapienza nelle mani ti conviene mettere da parte. Damiano la sapienza ce l’ha ma non trova personale che fatichi a 360 gradi. “Ormai l’agricoltura si fa con i macchinari, ed è questo che spinge molti giovani a (ri)avvicinarsi a questo mondo”. Le Bra di questi tempi, infatti, non sono braccia Rubate, sono braccia Restituite. Su una mano tengono la pergamena di laurea. Sull’altra tengono la zappa. L’Istat nel 7* censimento generale dell’Agricoltura calcola che i ragazzi fino a 29 anni a capo di una azienda agricola sono 18.923; 6.399 le donne. Tra i 30 e i 44 anni le aziende gestite da uomini sono 92.854. E quelle gestite da donne 34.131. I titolari, laureati, under 40 sono 20 mila e di questi: 15 mila hanno un titolo non inerente all’agricoltura e 4.700 hanno una laurea specifica. Sempre più università propongono corsi per agronomi o specializzazioni nel settore. Ma da qui a cantar vittoria ce ne passa. Perché le realtà giovanili rimangono sempre troppo poche. L’Ue sta intervenendo con finanziamenti. Nel Pac 2023- 2027 l’obiettivo è quello di consentire il ricambio generazionale in un settore che ha un forte bisogno di ragazzi e ragazze. Non di mercenari. Servono voglia, passione.

Serve quella famosa fiamma negli occhi. Una delle misure è l’acquisto di terreni per i giovani agricoltori a condizioni favorevoli. “Devi avere tanta voglia”, dice Massimo Terzariol. Lui nei campi ci è nato e cresciuto. È maturato come maturano i pomodori al sole. Entro dentro il loro stabilimento. Ci sono una trentina di giovani, uomini, donne. Qualcuno ha portato le paste. Si festeggia un compleanno. Oggi è festa per tutti.

Serenella Bettin

Occhio. Ci sono anche i lupi

Questo pezzo è uscito sulla Verità venerdì 28 aprile.

È sera. Saranno all’incirca le undici e mezza. Siamo nel centro di Asiago e all’improvviso avvistiamo un lupo. Lo vedi: lesto, accorto, guardingo ma audace, procede a passo felino aggirandosi tra le case. Proviamo a stargli dietro con l’auto e lui si mette a correre. Tempo due minuti, la sua falcata prende quota, continua per una manciata di secondi davanti a noi, e poi si defila nella penombra delle case, sparendo nella notte.

Funziona così qui ad Asiago, un comune di appena 6000 anime, centro principale dell’Altopiano. Noto per il suo turismo invernale e per quello estivo, Asiago è famosa anche per il suo formaggio. Ma i lupi rischiano di diventare un danno. Mangiano le manze. Sbranano le mucche. Se non trovano pane per i loro denti si rifanno sugli animali domestici.

Diego Rigoni, allevatore e vice presidente dell’Unione montana dei comuni ha visto varie volte le sue asine e manze sbranate dai lupi. “Una sera ho sentito questo violento ululato – ci racconta – e sono corso fin qui a vedere cosa fosse accaduto. Avevo il cuore in gola, la paura di trovarmi davanti il lupo era tanta”. Del resto qui i lupi non temono gli uomini. A Marco Finco, un macellaio, hanno sbranato il cane mentre era a passeggio. 

Capita anche di vederli mangiare nelle ciotole dei gatti. Alcuni ragazzi che tornavano da una festa una sera si son ritrovati 6 lupi davanti il portone di casa. Come a Campodolcino, un borghetto di appena 900 abitanti, in provincia di Sondrio, lungo la Valchiavenna. Qui un bimbo di 10 anni ha trovato una cerva sbranata da un branco di lupi a pochi metri dalle case. Tanto che ora 12 sindaci lombardi hanno lanciato un appello al governo per dire: occhio ai lupi perché questi sono “pericolosi come l’orso bruno”. È stata avviata anche una raccolta firme. 

Anche a Romano d’Ezzelino, un comune nel vicentino, tre settimane fa i cittadini hanno avvistato un lupo. Pieno centro. Pieno giorno. Sfrecciava in mezzo alle abitazioni. “Non hanno più paura di avvicinarsi agli insediamenti umani – ci spiega Isabella Lora, veterinaria che vive ad Asiago – anche perché non hanno nessun motivo per avere paura di noi”. Nel comune famoso per i formaggi, i cittadini si sono riuniti e hanno dato vita a gruppi su whatsapp. Funziona come con i controlli di vicinato, solo che anziché tenere a bada i ladri, tengono a bada i lupi. 

Qui ci sono tre branchi sicuramente stabili. 

Ma per raccontare la storia dobbiamo riavvolgere il nastro al 2012 quando in Lessinia, un paradiso verde incastonato tra le Dolomiti tra il Veneto e il Trentino, avviene un incontro galeotto tra una lupa della popolazione italiana e un lupo proveniente dalla Slovenia. L’amore fece nascere una cucciolata e qui i lupi ricominciarono a diffondersi: Alpi occidentali, Trentino, Friuli Venezia Giulia, Veneto. 

Secondo dati ufficiali, nel Bellunese, ci sarebbero tra gli 80 e i 120 lupi, suddivisi in ben 17 branchi. In Italia gli esemplari sarebbero intorno ai 3300. 

E ora si stanno diffondendo anche in Emilia Romagna e in Lombardia. “C’è una contiguità e una vicinanza, tra gli uomini e i lupi, ormai quotidiana in tante zone e che va gestita”, ci spiega Christian Maffei, presidente Arci Caccia nazionale. 

A Lucca, l’11 aprile scorso, una donna di 50 anni, sarebbe stata morsa alla manoda un lupo. Un animale che può essere pericoloso, anche se ci spiega un biologo dell’Appennino tosco emiliano, il rischio che attacchi o ammazzi un uomo è molto basso. Un esperto ci dice che potrebbe attaccare un bambino in quanto il lupo lo vede alla stessa altezza. 

Insomma tra lupi e orsi è bene stare attenti. E magari non inseguire gli orsi con l’auto, terrorizzandoli, come è accaduto ieri nel tanto discusso Trentino. Due persone, ora denunciate, hanno filmato questa bravata e l’hanno messa nei social. Qui la paura è ancora tanta. Basta fare un giro per il borgo dove è morto il runner Andrea Papi, a Caldes. 

Sull’abbattimento dell’orsa Jj4, che ha aggredito Papi, e di Mj5, c’è attesa che il Tar si pronunci. La Corte dei Conti, in più, starebbe indagando sulla gestione dei plantigradi e l’ipotesi, se dovesse accertarsi una mala gestione dei progetto Life Ursus, è quella del danno erariale. Progetto pagato con i soldi pubblici, e che ha portato al ripopolamento di questo esemplare. 

In Slovenia, il 13 aprile scorso, il ministero delle Risorse Naturali ha approvato l’abbattimento di 230 orsi bruni. “Prima di prendere questa decisione – spiega il ministro Uroš Brežan alla Verità – il ministero ha preso in considerazione tutte le altre opzioni”. La proposta è stata fatta dal Servizio forestale sloveno e dall’Istituto per la conservazione della natura, con il parere di esperti della facoltà di Biotecnica dell’università di Lubiana. Una decisione, dice “difficile, ma accuratamente e sapientemente ponderata” soprattutto per “proteggere la salute e la sicurezza umana”.

Serenella Bettin

La Verità, 28 aprile 2023

È bella Belgrado. Bellissima

Belgrado

È bella #Belgrado. È Bellissima.
Belgrado è un acquerello di colori, un intrigo di sapori, un groviglio di foglie colorate.
È un tripudio di scoiattoli che saltano sul prato e si arrampicano sugli alberi. Un intreccio di vecchiette che vendono lenzuola ricamate lungo le strade. Belgrado è un incrocio di cani randagi. C’ha ancora negli occhi il sapore della guerra. Lo vedi. Lo senti. Lo annusi. Lo percepisci. Lo vedi dai vestiti sgualciti. Dalle labbra secche. Dagli occhi impavidi.
A Belgrado c’è la vecchietta che dà da mangiare ai piccioni. C’è il pianista che suona in mezzo alla gente, ci sono i ragazzi che giocano a palla e i vecchietti che si sfidano a scacchi.
La mattina si sveglia con l’odore dei cappuccini, dei tramezzini e dei fornelli accesi.
Passi tra le scale di appartamenti ingrigiti e trovi le donne che fumano sigarette e si preparano al turno delle pulizie. Una sigaretta con loro. E fuori il chiarore del sole che ha sostituito quello delle bombe.
Ci stanno dei quartieri a Belgrado che nemmeno te li immagini. E stanno nei cunicoli dei palazzi. Nei condotti sotterranei. Negli stretti corridoi. Stanno sopra i tetti delle case. Tra le finestre degli innocenti. Lungo le scale. Dentro gli ascensori. In mezzo ai corridoi di palazzi fatiscenti. Enormi. Possenti. Con il pavimento ondulato e la sensazione di mal di mare. Stanno dentro le stanze. Fuori. Lungo i marciapiedi. Nelle case di periferia.
Stanno tra le storie delle persone. Quelle con cui ci puoi parlare.
Qui nella piazza centrale della capitale.
Qui dove la fitta e incolta vegetazione della Bosnia lascia spazio ai palazzi di Serbia.
Palazzi, luci, grattacieli, insegne luminose. La Dubai dei Balcani. La New York degli Stati Uniti.
Perché Belgrado è l’ incrocio tra il vecchio e il nuovo, tra il nuovo e il vecchio, tra il moderno e il contemporaneo.
La sera Belgrado si riempie di canti. Di balli. Di donne. Di uomini. Attorno ai tavoli dove stai mangiando arrivano i cantori. Contrabbasso. Chitarra. Mandolini. Fisarmoniche. Parlano di santi. Di morti. Di amori non corrisposti.
Capita di mangiare e di avere a fianco questi signori. Ricordano quelli del Titanic. “Ci prepariamo ad affondare con dignità, continuate, continuate a suonare”. Ma loro no. Loro non affondano. Loro vivono e fanno vivere.
La via principale è piena zeppa di locali. Quella scomoda. Quella con i sanpietrini. Quella che se per caso c’hai i mocassini, viene giù tutto. Anche i santi. E le madonne.
Quella che è tutto un sali e scendi e devi stare attento a camminare senza piantare il sedere per terra.
Ci sono locali che sembrano lanterne. Bugigattoli. Piccoli. Colorati. Alcuni freddi. Altri caldi. Stanno nei sotterranei. Con i soffitti in legno. Con le tavole azzurre. Con le tovaglie colorate. Quelle belle. Quelle bianche e rosse. Quelle bianche rosse e verdi. Quelle a quadratini che ricordano tanto i paesi di montagna. Poi ci stanno i tavolini fuori. All’aria aperta. I bagni incurvati, danzanti, fanno l’amore con le mattonelle e gli specchi, incastonati tra le pietre di un soffitto e il primo piano di un appartamento. Localini sotto le rocce. Nascosti tra le pietre di una città che torna a vivere. Alcuni illuminati a Natale. Altri addobbati dai mille colori. Inebriati di mille sapori. Fuori a illuminare le tavole ci stanno i lampioni. E i canti di questi signori cantori. In un torrenziale di note.
Poi ti capita di salire. Proprio lì. Proprio qui. Dove il Danubio e la Sava fanno l’amore.

#sbetti

#serbia