A come Amicizia

In fondo l’amicizia credo sia questa.

Ritrovarsi e sentire che è cambiato tutto e non è cambiato niente. Ti diranno che l’amicizia non esiste. Che è roba da poveri. Che è prerogativa dei bisognosi. Il bisogno.

Ma invece. Invece l’amicizia esiste. Basta solo rendersene conto.

Allora questa sera mi sono trovata con alcuni amici. Quelli di anni fa. Quelli che sì ok ti senti, ci vediamo, facciamo, brighiamo e poi non ci si trova mai. Sì ok c’abbiamo anche un gruppo su Whatsapp che si chiama “Chi l’Ha vista”, che mica avevo capito era rivolto a me. Troppi impegni. Mille cose. Mille accadimenti. Vite diverse. Ognuna prende il suo corso. Ci si stacca. Ci si divide. Ci si riattacca. Ci si riallaccia. L’amicizia corre su binari di rette parallele, che si incrociano, si allontanano e poi si rincrociano. Un po’ come l’amore.

Perché con chi hai condiviso tutto, anche le pisciate negli alberghi di notte, anche le sbronze alle tre del mattino quando fuori nevica e al di là della finestra ci sta Roma che ti aspetta, ecco, impossibile dimenticare. Impossibile. Impossibile fingersi estranei. Ci sono cose che ti rimarranno dentro sempre. E che ti faranno sentire fiero. E sono quelle cose che fanno parte di te. Che ti hanno formato. Che ti hanno contagiato. Sono quelle cose che appena ti rivedrai con queste persone sentirai di esserti aperta al mondo. Di aver donato. Di aver dato. Di aver ricevuto. Di aver avuto. Di aver trasmesso. Di aver recepito. Sentirai che quelle persone sanno tutto di te senza che tu dica niente. Capiscono tutto da un singolo sguardo. Dal tono di voce. Da se mescoli il cucchiaino nel caffè in senso contrario. Sentirai che quelle persone sapranno ogni singolo tuo difetto, anche quello che ti sta sul cazzo, e sapranno fartelo piacere. A volte perfino amare. Sentirai che quelle persone sapranno quante volte vai al bagno, quante volte metti lo zucchero nel caffè, quante volte scaldi la roba nel piatto perché ti fermi a parlare e non mangi e il mangiare si raffredda e mangi freddo e allora per non mangiare freddo riscaldi. Sentirai che quelle persone sapranno che il colore del perizoma non sempre corrisponde al colore del reggiseno e te ne fotti. Sentirai che quelle persone ti ameranno per come sei. Che ti guarderanno dritte negli occhi come a dirti che ci sono. Sempre. Ogni volta. Costantemente. Sentirai che quelle persone sapranno tutto di te. Anche quello che tu non sai. Anche quello che non sapevi di avere. Perché poi ne sono passati di anni. Oh sì.

Sono passate le nottate in discoteca. Le sbronze fino a dire basta. Le vomitate nei parcheggi. L’alcol quando ancora si digeriva. I balli fino a notte tarda. Le code per entrare in discoteca. I cappotti lasciati dentro in macchina, quando fuori c’erano meno cinque gradi, perché così eri più figa e non pagavi il guardaroba. Le sballate fino a mattina. I panini consumati sul ciglio di un’autostrada con le calze rotte e le ciglia sbattute. I lunghi viaggi verso la capitale. Le serate d’estate. Le grigliate. Gli ossetti lanciati per aria lungo le tavolate in mezzo ai colli. Le pattinate sul ghiaccio a gennaio. Le sbronze di birra. Le olive ascolane per colazione. La vodka di notte. Le cantate in autobus. Le sfuriate con quell’insegnante di danza che vi ha fatto conoscere. Le pizze dopo gli allenamenti. Le sigarette fumate a nastro sul marciapiede di una palestra. Gli aperitivi lunghi. Quelli belli. Quelli che dopo volevi mangiare cinese ma il cinese non ci stava. E poi.

Poi le nottate sopra i libri. Le camminate verso l’università. I film alle quattro di notte. Le lunghe chiacchierate filosofiche. Le gite in montagna, la diga del Vajont. Le spiegazioni a tavolino. Le scorpacciate di gelato. I balli in prato della Valle. L’assenzio consumato dove si poteva. Il narghilè fumato in mezzo ai cuscini.

E così guardarsi attorno e scoprire che tutto e che nulla è cambiato. Che sei sempre tu. Che siete sempre voi. Che non fai più le nottate. Che non fai più le otto del mattino. Che non vomiti più sul ciglio di un’autostrada. Scoprire che le vite sono diverse. Che gli impegni hanno preso il sopravvento. Ma nonostante tutto. Nonostante tutto guardarsi negli occhi e rivedere la stessa luce. Quella di una volta. Quella di quando urlavi in mezzo al piazzale della discoteca per dire al mondo che eri contenta. Perché in fondo, in fondo credo sia questa l’amicizia: guardarsi negli occhi e scoprire che è cambiato tutto. E che non è cambiato niente.

#sbetti

Avete fatto schifo!

Avete fatto schifo. Avete fatto tutti quanti schifo! Ma quale lavoro! Quale? Ma non vi rendete conto? Non vi rendete conto che fra un po’ i giovani si ammazzano? Spariscono? Migrano all’estero? Si sradicano? Ve ne rendete conto? E voi state ancora qua a prenderci per i fondelli.

Allora stamattina sono al bar a fare la rassegna stampa quando mi si avvicina un signore attivo in politica e mi dice: “Serenella ciao! Come stai?”.

“Bene – faccio io – Tu?”.

“Io bene, hai visto che stiamo creando un nuovo movimento”.

“Sì visto – gli dico – e cosa prevede questo nuovo movimento?”.

Allora questo inizia a dirmi che sono stati i primi a riconoscere la lingua veneta, che qua, che là, che su, che giù. Che il Veneto così. Che il Veneto colà. Io lo lascio parlare. E più lo lascio parlare più sento che dentro mi cresce la rabbia. Che cresce, si ingolfa, si ingrossa, che si arrampica come una lucertola velenosa lungo le pareti del mio intestino, dello stomaco, delle budella, dell’esofago, dei polmoni, fino a che non tocca la faringe e la sputo fuori. La mastico. La rimastico. La trito e la sputo tutta.

Allora inizio a dirgli se mai si rendesse conto di cosa stiamo parlando. Di cosa! Se mai si rendesse conto che ci sono i giovani che non trovano lavoro, che non hanno prospettive, che non vedono vie d’entrata e nemmeno vie d’uscita. Gli chiedo se mai si rendesse conto che stiamo vivendo tutto questo. E questo, guardandomi sbalordito negli occhi, come se gli avessi fatto vedere la Madonna, mi dice: “sì certo hai ragione, l’importante è il lavoro”.

Già il lavoro! Ma quale?

Allora gli chiedo quale lavoro. E lui mi dice che tanti lavori i giovani non vogliono farli. Che ci sono tante aziende che cercano eppure non trovano. E che lui si era rimboccato le maniche ed era andato a lavorare.

E allora capiamo perché i giovani non vogliono fare questi lavori. Capiamolo! Perché hanno avuto quattro padri cagacazzi che hanno insegnato loro che se sei laureato e arrivi in uno studio, non puoi metterti a fare le fotocopie o a comprare la carta da culo. Io nello studio legale dove lavoravo, prima di indossare questo mestiere, compravo anche la carta igienica per pulrcisi il sedere, vedete voi. Ed ero pagata metà giornata. Ero cretina? No. Ero una ragazza che avrebbe lavorato anche gratis pur di essere inserita nel mondo del lavoro, pur di imparare a far qualcosa. Pur di non finire come un’ameba sopra un libro. Ero una ragazza curiosa. E questa curiosità mi ha permesso di essere donna. Adesso. Adesso c’abbiamo i figli che escono dall’università e che credono di aver già appreso il mondo perché hanno letto quattro acche in libri evidenziati dagli altri. Adesso sono tutti geni. Geniacci.

Voi che volete rappresentare questo Veneto cercate di capire perché non è possibile instaurare il teatrino sociale che c’era anni fa. Cercato di capirlo. Cercate di capire se insegnate ai vostri figli che se alla festa di compleanno qualcuno sporca c’è la servitù che pulisce. Ma cosa pretendete? Che poi i vostri figli vadano a vendemmiare l’uva con i piedi? Eh?

Io pure quello ho fatto! Oh sì. Una mattina ho preso e a piedi scalzi sono andata a vendemmiare. Senza vergogna. Ma essendo orgogliosa. E ho anche portato a casa la pagnotta.

Avete poco da commentare orgoglio veneto se poi non vi sporcate nemmeno le scarpe per andare a vedere i veneziani in mezzo all’acqua alta. Poco. E poi visto che siete intelligenti cercate di capire perché non può essere più come una volta. Studiano tutti. Tutti asini. Tutti dottori. I giovani quando escono dalle superiori sono disorientati. Non sanno fare niente. Non sanno che strada prendere. I corsi di laurea sono sempre più lunghi senza un contatto con il lavoro. Finisci a 25 anni per rimetterti a studiare di nuovo. Corsi tirocini. Stage. Apprendistato. Master. Scuole di specializzazione. Ancora in cerca di un voto. Ancora in cerca di un libretto da colorare. Con le caselle da riempire. Ancora aumenta la frustrazione perché non sai fare un cazzo. Poi. Poi quando ti sei specializzato non sai dove andare. Nessuno ti prende. Solo l’estero ti accoglie. Ti fanno contratti a tempo determinato. Prima uno, poi l’altro. Poi un altro ancora. E non si riesce mai a costruire qualcosa. I mattoncini non si legano l’uno con l’altro. Restano appesi nell’universo delle idee, dei progetti, dei sogni irrealizzati, irrealizzabili, sconnessi. E così aumenta la frustrazione. L’incapacità di stare a questo mondo. La gente si ammala. Si arrovella. Pensa sempre a quello. A questo futuro che non c’è. Che sembra un palo nel culo a chi ci crede ancora. Perché é vero quello che ha scritto un mio collega ieri sul Giornale Vittorio Macioce, uno di quelli che c’ha la penna che disegna elegante le bisettrici sul mondo. Ha scritto che “questo è un Paese a speranza zero. Non ce ne è più. Non c’è lavoro, non ci sono opportunità, tutto è fermo, stagnante, con un orizzonte così ristretto che i più coraggiosi, i più intraprendenti, chiudono gli occhi e scappano via”.

E poi ancora che “in questo dannato Paese ogni mossa sembra sbagliata. Studi? Prendi una laurea? Fai un master? Ti specializzi? Niente. Spesso ti ritrovi con stipendi da stagista. Scommetti, fai impresa, ti lanci in avventure innovative? Lo Stato finirà per succhiarti il sangue, dopo averti incaprettato in mille fili di burocrazia”.

Già. Perché poi mi viene da ridere quando nelle vostre belle campagne elettorali ci parlate di lavoro. Mi viene da ridere! Da ridere!

Perché cercate di capire perché non c’è lavoro. Cercate! Stupendi da fame. Ragazzi sottopagati. Avete chiuso le fabbriche! Le avete divelte. Ci avete lasciato gli imprenditori dentro. Da solo. Ammazzandoli. Quando non avevano più niente. Gli avete strappato una corda appesa al collo. Un proiettile in testa. Una bocca infilata nel tubo di scappamento del gas. In Veneto casi così ce ne sono stati tanti. E voi ancora state qui a parlare di aria? Di bandiera? A volere la caregha?

Avete ammirato il denaro degli onesti. Avete strappato le aziende ai lavoratori per metterci dentro i macchinoni. Avete denigrato il lavoro. Lo avete snobbato. Avete riso e deriso. Avete fatto chiudere i cancelli. Gli scompartimenti. Le strutture. I giovani li avete ridotti brandelli di carne che sostano sul divano.

Perché io sono anche fortunata. Ho trovato un ambiente umile. Rispettoso. Molto umano. Dove la gente ti chiede scusa. Permesso. Per favore. Grazie. Dove le persone collaborano. Ti aiutano. Se possono ti ascoltano. Ti richiamano. Non ti trattano come uno schiavetto da soma a cui dare ordini.

Ma io. Io li vedo i giovani di oggi. Li vedo. Li osservo. Hanno gli occhi già stanchi senza aver fatto niente. Hanno gli occhi privi di speranza. Di desideri. Avete mangiato loro perfino i sogni. Hanno le mani molli. Le gambe flosce. Proseguono a passo lento. Molliccio. Ondeggiante. Si fanno spazio in questo mondo di alghe giganti.

E allora. Allora mi viene da ridere quando mi parlate di aria, se non vi rendete conto che dovete cominciare a mettervi dentro quella bocca la parola LAVORO! LAVORO! LAVORO!

Perché come diceva Edoardo Bennato “non potrò mai diventare direttore generale, delle poste o delle ferrovie”, e il resto sono solo Canzonette.

#sbetti

È tutto molto interessante

È tutto molto interessante sapete. Tutto molto interessante. Stamattina ricevo una telefonata. Un signore anche abbastanza conosciuto mi dice che ieri pomeriggio a Santa Maria di Sala #Venezia gli sono entrati i ladri in casa.

Spariti: due cronografi d’oro, un Rolex (poi ritrovato) e altre cose di valore. Ancora non si sa la stima precisa di quello che é stato portato via. Capirete che nel marasma, nella confusione, difficile risalire a tutto. Difficile quando hai la testa annebbiata e la mente annacquata. Difficile quando pensi che ti hanno stuprato l’intimità. Che ti sono entrati dentro. Che ti hanno violentato. Che hanno camminato dove camminano i tuoi figli. Che magari hanno pisciato dove la mattina fai colazione. Difficile. Molto difficile. Difficilissimo. E allora questo signore mi ha detto: “sono molto arrabbiato, ho tanta tanta tanta rabbia. Non so con chi prendermela. Ci hanno detto che questa zona è molto battuta, dovevamo aspettarcelo”. E poi. Poi ha continuato. Senza che io gli dicessi niente. Senza che io gli chiedessi nulla. E mi fa: “poi però se qualcuno si difende in casa rischia i guai, ma personalmente io credo che un ladro deve sapere che se entra in casa degli altri rischia la vita”.

Già. La vita.

Ma quale vita. Tutte le vite sono uguali, certo. Ma quale vita proteggiamo? Quale? Quella del ladro? O quella del padre? Quella della madre? Quella degli anziani, di noi figli, dei nipoti? Quale. Quale serenità proteggiamo? Quella del ladro che sa che può liberamente entrare dentro casa degli altri anche chiedendoti il risarcimento del danno. Era accaduto a Franco Birolo. O la serenità delle famiglie? Che magari sotto Natale e anche tutto il tempo dell’anno hanno diritto di starsene tranquilli. Quale vita proteggiamo? Quella di chi delinque? O quella di chi ha lavorato una vita per comprarsi una casa e poi alle sei del pomeriggio ti entrano dentro, ti scassano porte, ti spaccano le finestre, ti mettono a soqquadro gli armadi, ti rovistano dappertutto e fanno quello che pare a loro? E pregare iddio che non ti facciano niente. Ve li siete dimenticati i casi importanti? Eh? Quelli finiti nelle cronache nazionali? Ve li siete dimenticati? Gorgo al Monticano. I coniugi di Rovigo. Lanciano: coniugi picchiati, legati, a lei venne tagliato l’orecchio. Quale vita proteggiamo? Quale? Quella di chi ti chiede permesso? O quella di chi ti piomba in casa con armi coltelli e taglierini e tu hai paura. Paura fottuta. Avete mai parlato con qualcuno a cui sono entrati i ladri in casa? E magari gli hanno sequestrato moglie e figli. Ce ne sono sapete di questi casi. Ce ne sono. Ci avete mai parlato? O li avete solo sentiti alla televisione o per telefono?

Perché io non sono per il Far West sapete. No. Assolutamente no. Però adesso. Adesso ce lo dovete dire quale vita proteggiamo. Perché non lo sappiamo. Adesso dove fare un passaggio ulteriore. Andare oltre. Quel famoso bilanciamento degli interessi. Adesso ci dovete dire se ci dobbiamo proteggere. Se ci possiamo difendere. Se possiamo m proteggere e riparare i nostri figli. Ce lo dovete dire. Perché non si è capito perché ti condannano se oltraggi un pubblico ufficiale, se lo offendi. Se lo insulti. Giustamente ti condannano. E poi. Poi fanno i clementi con chi ti offende la casa; il ladro, il rapinatore, il delinquente. Quello che ti entra in casa. Quello che ti mette le mani addosso. Quello che ti mette paura. Quello che se hai un figlio che dorme nella stanza accanto provi terrore. Quello che non sai cosa possa succedere.

Perché allora l’altro giorno. L’altro giorno ero a Canale Italia e un avvocato di Dolo, tale Antonio Bordin, ha detto che ha visto un processo dove il proprietario è stato condannato perché si era difeso. Ma il proiettile è finito sul polpaccio, quindi non letale, e questo lascia intendere che il ladro stesse scappando. Ergo tu non puoi fare niente se non dire: “grazie della visita, prego, vai pure. Torna la prossima, ora sai dove abito”.

E allora sì. Tutto questo.

Tutto questo è molto interessante.

Con permesso.

#sbetti

I malati invisibili che invisibili non sono 👊

Una mattina mi sveglio. Apro Facebook. E ci sta l’appello di una mia amica. Era settembre. Settembre di quest’anno.

Allora l’appello comincia così: “Parlarne è una decisione sofferta. Ma poiché dite spesso che la mia scrittura arriva a tutti e sono certa che ci sia un estremo bisogno di sensibilizzazione, mi sono convinta a farlo. (…). Stanotte sono stata paralizzata dal dolore, indomabile, non riconducibile a qualcosa di concreto. Una notte insonne e frustrante, in seguito alla quale andare a lavorare sarebbe stato impossibile per chiunque. Si chiama FIBROMIALGIA e accompagna la vita di alcune persone che rimbalzano per anni da uno specialista all’altro, curando sintomi superficiali e senza mai poter arrivare a una rimozione delle cause. Coinvolge ogni singola parte del corpo: muscoli, fibre nervose, intestino, equilibrio psicologico. È un attentato perenne alla realizzazione professionale e alla serenità relazionale. Ma anche alle finanze, perché espone a rischi di licenziamento e fa spendere un patrimonio in terapie. Sparisce e riappare in modo infido: basta un momento di stress o un cambiamento repentino di temperature. In Italia solo il Trentino l’ha riconosciuta come causa di invalidità, nelle altre regioni se ne discute e il sistema sanitario offre piccoli e ottimistici spiragli”.

Poi continua: “Non sono alla ricerca di commiserazioni. Anzi, ogni forma di vittimismo rappresenta una vittoria per questo mostro impietoso. Voglio però che se ne parli, che coloro che vengono considerati eterni malati immaginari non si sentano più soli, che i medici prestino più attenzione ai sintomi e che, prima o poi, si possa usufruire almeno di una serie di esenzioni per permettersi tutti i trattamenti che potrebbero migliorare la qualità della vita. E quella delle persone che ci stanno intorno”.

Allora io che mi ero appena alzata e l’avevo appena letto, finisco di fumare la mia sigaretta, leggo. Rileggo. Rileggo un’altra volta e le scrivo. Apro Messenger e le invio un messaggio in privato.

Lei mi risponde subito e mi dice sentiamoci, se ti va una di queste sere ti chiamo. Io le dico certo ma poi come sempre accade ci si passa di mente, si pensa di poterne fare a meno, ci si convince che si possa anche forse non parlarne e così un giorno, poco prima dell’ora di pranzo, prendo e la chiamo.

La chiamo. Le chiedo come sta. E mi faccio raccontare, chiedendo permesso, il suo sentire. Il suo essere. Il suo avere questa cosa addosso, che non ti scrolli di dosso. Il suo tormento. La sua malattia.

Allora mi dice che non è una malattia riconosciuta. Che in Italia solo il Trentino lo ha fatto. Che sottopone a visite su visite senza che vi sia cura alcuna. E che le causa problemi al lavoro.

Per questa malattia la mia amica non può andare a lavorare, deve prendersi ferie, le vengono attacchi di panico, anche al supermercato, temendo sempre possa accadere il peggio.

“Molti pensano sia una malattia psicosomatica- mi dice – ma vi posso assicurare che non è così”. O molti pensano che siccome i sintomi non si vedono, allora tu non sia malato.

Allora le chiedo quali sono i sintomi. E lei mi dice che prova dolore non capendo da che parte proviene. Prende una parte del corpo, fino a estendersi, manca l’aria, la gente fa confusione, si hanno crisi che non si risolvono immediatamente. Per questa malattia uno é costretto ad assentarsi dal lavoro, a perdere soldi, a non portare a casa la pagnotta; per questa malattia uno è costretto a dipendere dagli altri, a non potersi muovere da soli, a pensare sempre che possa accadere il peggio anche se si sa che il peggio non accade. E poi le visite. Le cure. Le terapie. I farmaci. Quelli costosi. Quelli che se non vai a lavorare perché non puoi, ma come tiri a campare. Allora lei mi dice che in quei momenti ha paura. Che non sa che fare. Che razionalmente sa che non accadrà niente, ma che quando ci si trova dentro è più forte di lei. Così io le dico che c’è una sottile linea rossa, che non si dovrebbe mai oltrepassare. Sì insomma quando ti capitano queste cose te la devi immaginare dentro la tua testa, figurartela davanti agli occhi, e non permettere mai a te stessa di oltrepassarla, di andare oltre. Ma qui. Qui parliamo di malattia. Qui parliamo di una causa invalidante, che non viene riconosciuta a livello statale. Malati invisibili. Malati immaginari li chiamano.

Perché allora ieri quando ho scritto questo pezzo su Micol Rossi mi è venuta in mente la mia amica, e mentre Micol mi parlava ho provato a immaginare quanto brutto sia per una persona non essere capita, a volte non essere nemmeno spiegata, perché non si sa cosa sia. Eppure c’è. Eppure esiste. Eppure vive dentro di te e non ti abbandona. Malattia cronica la chiameranno. Il che vuol dire che te la porterai dentro per sempre. Ma non per questo non vuol dire che tu non possa combattere. Che tu non possa lottare. Che tu non possa imparare a conviverci e diventare più forte anche più della malattia. Solo che in uno Stato dove la salute è un diritto di tutti, si dovrebbe riconoscere e tutelare la salute di tutti quanti. I soldi per la ricerca. L’inclusione. I progetti del lavoro da casa come sta facendo Micol con DreamWarriors. L’esenzione. Le visite convenzionate. Dovrebbero esserci tutti questi strumenti in uno Stato che pretende di essere democratico anche nella salute. Perché la salute è un diritto di tutti. Non solo di chi pare a voi.

Il pezzo sul #Giornale

#sbetti 👊👊👊

Tutto nasce da un’idea. Andatela a vedere l’Italia che lavora 💙

Adesso vi racconto una storia.

Allora questa mattina sono andata a “trovare” un cantiere nautico. Anche se questa foto è di qualche settimana fa ma ci stava bene con le barche. E insomma un cantiere nautico. Oh sì. Uno di quelli dove fanno le barche. Allora pioveva. E dopo un po’ ha iniziato pure a nevicare. Insomma arrivo, parcheggio e vedo che il cantiere sta semi all’aperto. Così gentilmente il titolare del cantiere mi fa accomodare dentro agli uffici dove è un po’ più calduccio.

Ma dopo un po’ la mia curiosità è talmente tanta che chiedo di poter vedere il cantiere.

Allora andiamo, mi imbacucco per bene. Mi ero anche messa il giubbotto pesante. Quello bello. Quello con dentro il pelo. Quello che la gente mi dice che è un cappotto di sinistra e come faccio a indossarlo io che mi concentro a destra. Poveri ignoranti.

Insomma dicevo mi metto il giubbotto. Lo allaccio fino a su. Mi metto il cappello. Indosso i guanti, rigorosamente tagliati che mi consentano di scrivere e fumare, metto la sciarpa. Macchina fotografica in spalla e mi addentro tra le barche. Allora tutto intorno ci stava il profumo della vernice appena smaltata, pitturata, dipinta, la vernice fresca che sa di chimica e si confonde col freddo.

Perché tutto intorno faceva veramente freddo. Freddo. Umido. Un freddo cane. Ma che più cane non si può.

Allora passo tra le barche, e il fondatore del cantiere che c’ha quasi ottant’anni, ma c’ha una tempra d’acciaio, più forte di quella delle navi, mi spiega, mi fa vedere, mi illustra.

Mica sbrodolandosi sapete, ma con tanta umiltà. Con tanta passione. Con tanta professionalità. E così passiamo attraverso le barche appena fatte, quelle appena pitturate, quelle messe in piedi, quelle rovesciate, quelle catapultate, quelle dipinte, quelle al grezzo, quelle di cui ancora ci sta il modello, quelle che c’hanno ancora incollato lo stampo – interessante è il procedimento dello stampo di una nave, da prendersi un’ora di tempo per capirlo – e poi le barche ancora con il vetroresina attaccato, con la pellicola, con i sedili per terra, con il cartone appoggiato dove le persone d’estate quando ci salgono si tolgono le scarpe. E poi.

Poi ci sta pure la barca che sta per essere verniciata in quel momento. In quell’esatto istante. Sono la prima assieme al titolare e all’omino che la dipinge, che sta tutto bardato con una tuta bianca, con una maschera, con un tubo per respirare, che sembra l’omino della Michelin di cui non si vede nemmeno il volto, ecco dicevo siamo i primi a vedere nascere quella barca. A vederla dipinta. A prendere colore. A prendere sapore. Il sapore della vernice fresca. Siamo i primi a vedere comparire sotto i nostri occhi quella barca che Dio sa solo nelle mani di chi andrà a finire. Di qualche principe. Di qualche presidente. Di qualche politico. Di qualche sceicco. Finirà nelle mani di qualcuno che appena poggerà il culo si sarà seduto su un pezzo che è unico al mondo. Perché non esistono pezzi uguali. Non esistono. Non esistono venticinque pezzi uguali che si fondono in un tutt’uno e diventano un motore perfetto. In grado di navigare mari, forse oceani, fiumi. Laghi.

E non esistono pezzi uguali perché in questo cantiere ogni pezzo nasce da un’idea. Da un pensiero. Da un sogno. Da una notte insonne. “Non sai quante volte mi sogno il disegno di notte”, mi racconta il proprietario “ e poi o vengo su e schizzo cioè mi metto a disegnare con la matita o la mattina quando vengo in cantiere metto a frutto quello che ho pensato, quello che ho sognato. È passione. Passione. E nasce tutto da un’idea”.

Già un’idea. Un pensiero. Un lume. Un input. Un input che schizza via sul foglio, che lo riempie, che lo disegna. E da cui poi nasce un colosso. Uno schizzo nella testa che prende forma sulla carta, e da lì si crea un progetto, e poi un modello e poi la barca. La barca stessa. Allora poi, dopo aver visitato, dopo aver respirato l’odore della vernice appena colorata, appena messa, quella fresca, dopo essermi riempita di freddo, dopo aver cercato di capire un universo per cui non basterebbe un anno, siamo rientrati dentro all’ufficio e lui che litiga perfino con gli ingegneri perché ne sa più di loro, mi ha detto “quando posso scappo, le idee lontano da qui vengono meglio, maturano meglio”.

Già.

E allora perché vi dico questo. Perché stasera ascoltavo il vice ministro del nostro brillante Sviluppo economico, Stefano Buffagni, che si dilettava a dare lezioni agli italiani dicendo che se ci sono problemi bisogna lavorare per risolverli. E poi diceva che loro come parlamentari devono lavorare.

Già. E allora volevo dire a Buffagni no, gli volevo dire.

Perché anziché parlare e poggiare il culo al caldo, prendendo le indennità, facendovi accompagnare anche per andare al cesso o per parcheggiare l’auto sotto la pioggia perché mio Dio no, vi bagnate i capelli; ecco gli volevo dire perché non andate a vedere veramente la gente che lavora. Perché non provate a entrare in qualche cantiere, dove la gente si fa il mazzo, sta al freddo, non ha nemmeno il tempo per pisciare, e respira l’odore della vernice; ecco dicevo perché non provate ad andarli a trovare, a stare con loro, a farvi raccontare, a sentire quel freddo umido che ti gela i polpastrelli, che si impadronisce dei piedi, che ti congela i muscoli, che ti sale fino a su i cervicali.

Eh? Perché? Perché non provate? Perché non provate ad andare veramente a vedere dove l’Italia lavora, dove l’Italia produce, dove la gente si fa in quattro per inseguire una passione e per dare da mangiare a moglie figli nipoti dipendenti. Perché non provate anche voi a stare in piedi fino a tardi per far quadrare i conti? Perché con tutti quei soldi che prendete, con tutti quei soldi che prendete, non siete nemmeno in grado di dar da mangiare a un terzo del Paese. Nemmeno a voi stessi. Volete sempre di più. Ingordi che non siete altro.

Perché io vi ci farei entrare nei cantieri. Oh sì. Vi ci farei entrare. Vi ci farei poggiare il culo al freddo. E le gambe al gelo. Sì.

Perché andatela a vedere l’Italia che lavora. Andate! Respirate l’odore della vernice fresca. Riempitevi di freddo. Gelatevi le chiappe e poi le vostre belle parole, partorite al caldo, ficcatevele bene nel culo.

Ma ficcatevele per bene.

Con ossequi.

#nottesbetti

#sbetti

👉 https://serenellabettin.wordpress.com/2019/12/13/tutto-nasce-da-unidea-andatela-a-vedere-litalia-che-lavora-%f0%9f%92%99/

Stacchio aveva salvato un’altra donna. Era marzo 1985

Allora adesso vi racconto una storia.

Che non è la solita storia. Che avete già sentito. No.

Allora quello che vedete qui sotto. Questo alla mia sinistra è Graziano Stacchio. L’ho rivisto ieri sera al raduno nazionale Fsp della Polizia di Stato. Ci stava un tavolo con tutte le vittime che questo Stato disonesto e disgraziato non tutela. E allora ci stava Birolo, ci stavano i coniugi di Rovigo, ci stava la tabaccaia di Conegliano, Carla De Conti. Ci stavano tutti. Seduti al tavolo accanto alle forze dell’ordine.

Allora Stacchio mi si è messo a raccontare.

E adesso ve la racconto l’altra storia.

Ve lo ricordate Stacchio no. Quel titolare di un distributore di benzina, in quell’inferno di Ponte di Nanto, che per salvare la vita a una commessa, spara al ladro e questo muore. E ve lo ricordate sì. Sì che ve lo ricordate.

Era il 3 gennaio 2015.

Stacchio sta davanti al suo distributore intento nel fare il suo lavoro quando un commando di cinque delinquenti assalta la gioielleria di Robertino Zancan. Un vero e proprio assalto. E vi assicuro che a sentire raccontare quei momenti da chi c’era, di assalto si è trattato. Allora Stacchio che stava lì a pochi metri li vede. Impossibile stare a guardare. Il commando sta provando in tutti i modi a entrare dentro la gioielleria e dentro c’è la commessa. Così Stacchio sale un attimo nella sua abitazione, prende il fucile legalmente denunciato, e minaccia i rapinatori che rispondono sparando.

Ma il proiettile di Stacchio colpisce all’arteria femorale uno dei banditi, Albano Cassol, e Cassol muore. Da lì. Da lì parte il calvario. E le vite di Stacchio e Zancan si legano per sempre. Il benzinaio viene indagato per eccesso di legittima difesa.

E la sua vita viene sconvolta.

E allora me lo ricordo Stacchio quando lo intervistai la prima volta. Dio se me lo ricordo. Aveva gli occhi stanchi. Esausti. Sfiniti. Si sentiva anche terribilmente in colpa per aver posto fine alla vita di una persona.

Ma quel giorno non aveva via d’uscita. E la sopravvivenza vuole che al pericolo, bisognerebbe rispondere. Con coraggio.

“Il coraggio è nato dalla disperazione – mi aveva raccontato Stacchio quando lo intervistai per il Giornale – dall’angoscia per la ragazza la commessa. Il coraggio è nato dalla rassegnazione, quando capisci che è l’unica cosa da fare. Quando non c’è più tempo, non c’è più spazio”.

Già. Quando non c’è più tempo.

E allora Stacchio ieri sera mi si è messo a raccontare. Mi ha presentato la moglie. Sono 45 anni che sono insieme. Hanno due figli. Sette nipoti. Il figlio che ora ha preso in mano l’attività del padre di figli ne ha quattro. La figlia invece ne ha tre. Il più grande di tutti ha 17 anni. Il più piccolo due anni e mezzo. E a pensare a tenere vivi i nonni ci pensano loro. I nipoti. “Ci tengono arzilli – mi racconta Stacchio – svegli”.

Una vita spesa a lavorare. A farsi il mazzo. A spaccarsi la schiena. A svegliarsi la mattina presto. E a rincasare la sera tardi. A indossare sciarpa giubbotti e cappelli per ripararsi dal freddo e per stare tutto il giorno fuori all’aperto. Una vita passata ad attraversare gli inverni, a sopportare le estati, quando il freddo e il gelo tagliano le mani e l’afa cappia il collo. Una vita dove quelle mani scoperte hanno patito tutti i segni: freddo, gelo, neve, pioggia, bufere, afa, sudore.

Una vita di due persone per bene. Che non volevano nient’altro che essere lasciate in pace.

Ma poi. Poi dopo avermi raccontato la sua famiglia, dopo avermi raccontato dei suoi nipoti, dei suoi figli, i suoi occhi sono tornati tristi. Tristi come quando lo intervistai la prima volta. Tristi come quando sai che hai posto fine alla vita di una persona e lo Stato ti ha abbandonato. E allora ieri sera mi ha detto: “quella cosa é stata troppo grande, chi poteva mai immaginare. Io poi, che sono sempre stato impegnato nel sociale. Nell’aiuto verso il prossimo. Pensa – mi dice – che nel 1985 mi diedero una medaglia per aver salvato una ragazza che stava affogando nel fiume”.

Ah sì? Sì.

La ragazza si chiamava Gilberta e all’epoca aveva 22 anni.

Era il 4 marzo 1985. Insomma Gilberta quel giorno ha un incidente. La sua auto finisce nel canale. Sono le 13.30. Stacchio che in quel momento sta in banca vede una donna entrare e chiedere disperatamente aiuto perché c’era stato uno scontro tra due veicoli, e uno era finito nel canale Busatto e la ragazza dentro rischiava di affogare.

Non c’è tempo da perdere. Stacchio esce dalla banca. E va sul posto. L’auto sta imbarcando acqua. Le portiere sono bloccate. La ragazza da dentro urla. Stacchio non riesce a stare a guardare. Prende coraggio. Tutto quello che ha in corpo. Via il giubbotto, via le scarpe, via i calzoni e si getta in acqua in quelle acque torbide. La corrente sta facendo inabissare l’auto. La vettura inizia a roteare su se stessa e rischia di capovolgersi. Stacchio allora si aggrappa alla carrozzeria. Fa ruotare il mezzo e nell’esatto istante in cui l’auto sprofonda, afferra la donna. La prende e riesce a portarla fuori dall’auto. La donna si aggrappa a Stacchio, inizia ad agitarsi, a scalciare e trascina Stacchio sott’acqua. Stacchio ingoia tutta l’acqua di Dio, riesce a riemergere ma la donna è rimasta sotto. Allora prende fiato, si immerge di nuovo, vede la sagoma e la riporta in superficie. Ma la donna non sta ferma. Si agita. Rischia di farli affogare entrambi. Così Stacchio le molla un pugno, lei perde i sensi e lui riesce a trascinarla fuori. Stacchio ha bevuto molta acqua, è stremato, ha i conati di vomito. Fatica a respirare. Per la donna i soccorsi sono immediati. Ma era salva.

Il Giornale di Vicenza il giorno dopo titolò con “benzinaio si getta nel Bisatto e salva una giovane finita in acqua con l’auto”. La donna quando si sposò volle Stacchio al suo matrimonio. E Ciampi lo nomina pure Cavaliere.

Allora Stacchio sapeva che se non l’avesse fatto non se lo sarebbe mai perdonato. E mise a repentaglio la propria vita per salvarne un’altra.

Già perché nel cuore, lui, quell’istinto di protezione l’ha sempre avuto. Ma i giudici non ne hanno tenuto conto. Se ne sono strasbattuti. Perché come al solito ci si concentra su chi sta commettendo un crimine e perde la vita che non su chi sta facendo il proprio lavoro e sta per perderla.

“Quando ti scontri con qualcuno che perde la vita – mi aveva detto – la sensazione che hai dentro è indelebile, anche se questo è un criminale. È che ho sentito che quella era l’unica cosa da fare. Come un dovere di un padre verso una figlia”.

Già quella figlia che lui ha salvato dalla rapina. Quella figlia che trentacinque anni fa aveva salvato dalle acque del fiume.

Ma quei figli però, che lo Stato se ne fotte.

#sbetti

Da Belgrado 🇷🇸

Quando ero piccola seguivo i reportage di Carmen Lasorella. Ma mica perché volevo fare la giornalista. No.

Volevo fare il commissario di polizia. Diventare come l’ispettore McCall di Hunter.

Allora dicevo seguivo Carmen Lasorella perché quando tornavo a casa da scuola si guardava il Tg 2. Mi colpiva come una donna così bella potesse andare in posti lontani e Paesi a noi sconosciuti. Mogadiscio, Medio Oriente, Africa. Sì insomma mi dicevo, come fa una donna ad andare in quei posti. Cioè vedevo Carmen Lasorella come una donna sempre perfetta, con il trucco, le labbra disegnate, i capelli neri sempre in ordine e mi chiedevo: “ma come fa?”.

Quando rimase ferita nell’agguato a Mogadiscio, nel 1995, dove rimane ucciso Marcello Palmisano, avevo undici anni. Non ancora troppo grande. Ma l’età giusta per capire. Allora a casa mia si parlava di questo agguato. E io avevo paura. Poi però la vedevo in tv e la paura passava.

Ma erano gli anni anche della guerra nei Balcani. Quelli a un passo da casa. Quelli al di là dell’Adriatico. Quelli dove quando andavo nelle Marche mi alzavo in punta di piedi sulla sabbia, per vedere se al di là del nostro mare ci fosse il tanfo delle bombe, le crepe negli occhi, gli squarci nel cielo, i proiettili nel cuore. Volevo vedere se al di là del mare fosse tutto distrutto, martoriato, devastato.

Ricordo ancora quel cordone umano lungo tutta la costa dell’Adriatico, dalla “nostra parte”; sì insomma praticamente tutta la costa un giorno si prese per mano, uomini donne bambini giovani anziani vecchi, tutti uniti dalla Laguna fino a giù al tacco, per la pace nei Balcani.

Come ricordo ancora quando guardavo quelle immagini alla televisione e mi ricordo di quegli aerei partire. Pristina mi ripetevo in testa. Pristina. Ero quasi ossessionata. Chiedevo a tutti i miei insegnanti, con l’egoismo infantile di una bambina, se la guerra potesse mai arrivare anche qua. Poi un giorno, un giorno una maestra ci disse: “tranquilli in Italia non arriva la guerra”. Ma io non le credevo. Io volevo sapere. Io volevo vedere. Volevo capire perché gli uomini sul mondo facevano a botte con i propri fratelli. Volevo sapere perché gli aerei partivano e sganciavano le bombe. Volevo vedere quelle case distrutte. Quelle persone che non avevano più niente. E mi arrabbiavo tremendamente perché la televisione che mi permetteva di vedere prendeva tutti per i fondelli. Non faceva vedere abbastanza. Non spiegava. Non si capiva. Non voleva. Rimaneva tutto dentro una stupida scatola di plastica. Addirittura quando avevo cinque sei anni i miei mi raccontano che andavo dietro la tv per entrarci dentro. Volevo vedere se qualche omino mi prendesse per mano e mi facesse balzare dentro lo schermo. Ma erano anni bui quelli della guerra nei Balcani, quelli dove ogni volta che tornavo a casa da scuola pregavo perché le bombe si fermassero. Accendevo la tv e speravo che la guerra fosse finita. E invece.

Invece quando la Nato bombardò Belgrado avevo quindici anni. Abbastanza grande per capire. Mi dissero che non c’era l’ok delle Nazioni Unite e che anche l’Italia mandava le bombe. Allora ce l’avevo con l’Italia, volevo scrivere al presidente, volevo dirgli di fare qualcosa. Qualcuno poi diceva – quelli che poi ti accorgerai sono quelli che stanno al bar a commentare – ecco qualcuno poi diceva: “è la fine, scoppia la terza guerra mondiale”. Tantè.

Tantè che non capivo cosa ci fosse sotto. E continuavo a sentire alla televisione i nomi di questi paesi: Belgrado, Sarajevo, Pristina. Vedevo i giornalisti che ci andavano e provano una profonda ammirazione. Quando alla televisione compariva la scritta “inviato a Belgrado” o da “Pristina” un brivido mi correva sempre lungo la schiena.

Ecco dopo vent’ anni, questa volta, vedere il mio nome sopra la scritta “da Belgrado” mi sembra strano. Sì, per fortuna non c’è la guerra, ma mi tornano in mente le scene di me bambina, di me ragazzina che voleva capirci qualcosa.

Ma ancora.

Ancora la tensione in quei Paesi, di quando guardavo quel cordone umano lungo l’Adriatico, non si è placata. Fratelli che hanno ammazzato fratelli. Figli che hanno ammazzato padri. Mogli che hanno ammazzato mariti. Una delle guerra più brutte che possano essere combattute. Ed è qui.

A pochi chilometri da casa nostra dove l’odio corre ancora.

Il nostro reportage sul #Giornale.

LEGGI IL PEZZO

#sbetti 👇

http://m.ilgiornale.it/news/belgrado-ora-si-allontana-e-guarda-russia-e-cina-1795947.html

La bimba con la pannocchia 🌽

Oggi mi trovavo a una mostra per lavoro. La mostra di Giandomenico Palmisano. Allora entro dentro la sede della Banca Mediolanum di Piazza Pola a #Treviso, dove si tiene la mostra, sì avete capito bene la sede della banca, e sono lì che arrivo di corsa: una borsa, dentro il tablet, poi la tastiera, Dio mio le sigarette, il cellulare che suona, le foto da fare, il pezzo per il Giornale, la penna che non scrive, quando arrabattandomi tra i gradini della banca inciampo in questa foto.

Allora mi fermo. Alt di scatto. Il tempo di uno scatto. Probabilmente il tempo impiegato per scattare quel viso, che questa bimba mi colpisce. Con tutta la forza in cui un essere umano è in grado di colpirti.

Così mi fermo. Dimentico tutto. Dimentico la penna. Il tablet, il cellulare, la corsa, la tastiera, Dio mio le sigarette, il pezzo che devo fare e la guardo. Lei mi guarda. E io la guardo. Lei si scosta. E io mi scosto. Lei mi inonda con lo sguardo. E io ci provo. Lei viene verso di me e io mi allontano. Una forza della natura. Non ero io a entrare nella foto. Era la foto che entrava dentro di me. L’immagine che usciva dalla fotografia stessa e che sembrava venirmi incontro. Era l’immagine che viveva.

Allora l’ho fissata e rifissata. E mi aveva colpito perché questa bimba che l’autore dello scatto ha fotografato in Cambogia assomigliava tanto a me. Me da piccola. Me mai contenta. Me sempre con il broncio. Arrabbiata. Incazzata col mondo. Un po’ meglio di adesso. Ora è pure peggio.

E allora dicevo mi sono fermata ma poi ho ricominciato a fare le cose. Dovevo lavorare e non mi potevo tanto fermare, nemmeno difronte alla bellezza.

Poi. Poi ho preso l’autore dello scatto, Giandomenico Palmisano e gli ho fatto i complimenti. L’ho guardato dritto negli occhi, con gli occhi pieni di vita e gli ho detto: “le sue foto sono molto belle, complimenti davvero”. Sì. Perché dovete sapere che Giandomenico non lo fa di mestiere. No. Impossibile in Italia vivere di fotografia. Con la fotografia in Italia si muore. Giandomenico nato a Treviso nel 1960 di lavoro fa tutt’altro. Sì. Laureato in Economia e Commercio alla Ca’Foscari, ora fa l’amministratore di società ed è docente di Economia al Maffioli di Castelfranco Veneto.

E lui, mi ha detto, fotografa con attrezzature analogiche dalla fine degli anni Ottanta e tuttora continua imperterrito. “Tutte le stampe che vedi – mi dice – sono tutte su stampa baritata alla gelatina d’argento”. Io lo guardo, sgrano gli occhi e gli dico. “Che?”.

E lui: “ti spiegherò, ho scritto una piccola guida, te la do”.

Allora io gli dico che le sue foto sono così talmente umane, che Dio mio ci entrerei dentro, che sembrano uscire fuori, che creano un tutt’uno con l’altra parte del mondo di chi guarda, e chiedo da dove è nata questa passione e lui mi dice che quando aveva cinque anni fece una foto alla mamma, quando portarono a sviluppare il rullino, il fotografo chiese prendendo in mano quella foto: “signora ma questa?”. “Questa l’ha fatta mio figlio”. “È una foto perfetta”, disse il fotografo.

E lui infatti è una cosa che sente dentro. Che lo riempie di vita. Allora gli ho chiesto come fa a coniugare la sua vita con la sua passione e lui mi dice: “faccio ma non lo so, ma mi rende felice”.

“Già, lo so – gli rispondo io – si vede dagli occhi”. Ed è tremendamente bello incontrare persone con gli occhi veri. Luminosi.

#sbetti 📸

Detto ciò andate a visitarla perché è molto bella. Sono scatti fatti in Cambogia, Vietnam, Birmania. Sta aperta fino al 12 gennaio 2020!

👉 https://facebook.com/events/473646983248560/?ti=icl

Costruite le moschee al posto delle chiese

Ma basta! Piantatela!

Io mi vergogno di essere italiana. Mi vergogno.

Vorrei essere italiana senza gli italiani.

Allora ieri sera sul programma di Del Debbio parlavano di presepe, e come al solito – perché spuntano come i funghi – ci stavano i soliti quattro benpensanti che pensano che non vada bene fare il presepe quando viene Natale perché offende le altre religioni, perché non è rispettoso dell’Islam, perché il nostro è uno Stato laico, perché c’è il principio di laicità, perché qua, perché là, perché su e perché giù. Bla. Bla. Bla.

Una addirittura si è inventata che sta prescritto nella Costituzione. Non mi risulta. Ah ma la laicità ti diranno. Già la laicità. Peccato però che questi siano gli stessi che ti dicono che vanno bene le moschee, che vanno tutelate, che anche i musulmani hanno diritto di pregare. Che non fa niente se usano un garage e ci fanno un centro culturale per poter pregare, e poi addestrano i foreign fighters per mandarli a farsi saltar per aria in Siria, no. Chissenefrega!

L’importante, ti diranno, è che loro si sentano a casa loro. E noi? Noi non possiamo sentirci a casa nostra?

E poi sono anche quelli che ti diranno che nelle aziende ci va la moschea che volge alla Mecca perché di venerdì i musulmani non possono lavorare. Devono pregare. È successo qui in una azienda di Castelfranco Veneto. E sono quelli che per Natale recitano i canti arabi a scuola, che per farli sentire integrati portano il Corano nelle aule facendolo toccare ai compagni e pretendendo che questi si lavino le mani, quando qui. Qui sputano sui crocefissi. Sono quelli che indossano il velo per rispetto delle religioni. Quelle che recitano i sermoni. Che li imparano e poi compaiono nei giornali scrivendo: “da noi l’integrazione si fa così”.

Perché l’integrazione è eliminare il nostro per far posto al loro. E allora ti diranno che non va bene il presepe a scuola. Che non va fatto nemmeno l’albero. Che la recita di Natale mio Dio no per carità. Sono quelli che sostituiscono la parola Gesù con Perù; era successo un anno, qualche anno fa, in una scuola sostituirono la parola Gesù Bambino con Perù Bambino. Idioti. Incivili. Barbari.

Perché una volta non c’erano tutti sti problemi, si andava a scuola, si preparava la recita, si cantava in classe, si cantava con i genitori, si facevano i lavoretti, si studiava Gesù nato morto e poi risorto, si capiva qualcosa. Si faceva il presepe con gli insegnanti ed era un momento di calore in questo mondo trafitto dalle larve.

Adesso. Adesso avete i figli che non capiscono un cazzo di quello che leggono! Avete i figli senza punti di riferimento. Senza valori. Senza identità. Senza nemmeno cristianità. Abbiamo i ragazzi che non azzeccano nemmeno una parola in fila all’altra, che non sanno fare un discorso, che fanno assenze su assenze, che sono indisciplinati. Che scrivono i messaggi come nemmeno i geroglifici. Almeno quelli avevano senso. Stama, prg, grz, pome, pale, inte, arr, t dv 6. E via discorrendo. Questi sono i messaggi.

E voi. Voi parlate di laicità. Di libertà. Di poter scegliere. Di decisione. Ma quale laicità? Quale libertà? Qual è la libertà che tanto predicate se non siano nemmeno più liberi di fare un presepe a scuola? Quale? Perché allora. Allora non si capisce che fastidio vi possa dare un presepe nelle scuole, che fastidio vi possa fare una recita di Natale. E soprattutto cosa ci si debba mettere in una scuola quando arriva il Natale. No. Non si capisce.

Perché allora toglieteci tutto. Togliete i presepi. Togliete i crocefissi. Togliete le luci. Togliete gli angeli. I santi. Togliete pure i Re Magi. Strappate i libri di Storia. Fottetevene della Nostra storia. Predicate quella degli altri.

E poi togliete le recite di #Natale. Togliete l’albero. Togliete i canti. Gli inni. I Padre Nostro. Gli Ave Maria. Togliete la nascita di Gesù. Togliete la Pasqua. Togliete le statue. Copritele. Castratele.

Toglieteci tutto. Togliete uno dei maggiori simboli della Natività. E poi postate i vostri selfie con i figli.

Ma fate rimanere.

Fate rimanere le donne con il velo, i menu per chi non mangia maiale, la carne halal nelle mense delle scuole, fate i corsi di Corano, lavatevi le mani, imparatelo il Corano, toglietevi le scarpe. E poi. Poi costruite moschee al posto delle chiese.

Ma costruite belle alte. Altissime. Di modo che un giorno vi possano sovrastare.

#sbetti

I giovani leggono ma non capiscono

Scusate. Scusate. Scusate ma stiamo messi male sapete. Molto male.

Allora stamattina vado al bar a fare colazione. Come tutte le mattine. Sì insomma il mio caffè americano senza ingerire niente. Per assaporarlo tutto. Poi. Poi la sigaretta. Allora mi siedo. Prendo il Giornale. Ordino.

Ma non faccio nemmeno in tempo a bere, che leggendo questo pezzo mi va di traverso il caffè e sputo dappertutto. Insomma cosa leggo.

Allora leggo che oltre al titolo, già di per se inquietante, anche i dati sono altrettanto inquietanti. Insomma scopro che dal nuovo rapporto Ocse – Pisa, il programma per la valutazione internazionale dello studente, che ha messo alla prova ragazzi di quindici anni di 79 Paesi, per un totale di 600 mila studenti, ecco insomma in base a questo rapporto gli italiani hanno ottenuto un punteggio inferiore soprattutto nella lettura. Con l’aggravante inoltre che siccome non sono contenti di non capire un cazzo quando leggono, ecco hanno anche il record dei giorni di assenza e delle ore passate su internet. Alla faccia di tutti i vostri discorsi da rieducazione con cui pulircisi letteralmente il sedere. Alla faccia!

E insomma scopro che: il punteggio italiano è inferiore a Gran Bretagna, Francia, Germania, Paesi Bassi, Svezia, perfino la Polonia e la Slovenia ci superano. Poi che solo il 5% degli italiani raggiunge un livello alto di comprensione del testo. Aberrante. Terrificante. Il che vuol dire che il restante 95% quando legge non capisce una minchia. Che appena 1 su 20 sa distinguere i fatti dalle opinioni e sa trovare le informazioni da un testo scritto. Come giocare a Mosca Cieca praticamente o alla Caccia al Tesoro, poi ancora che 1 su 4 ha serie difficoltà a capire ciò che legge e che quasi 6 ragazzi su 10 fanno assenze ingiustificate e ad cazzum. In più 1 su 3 ha anche riferito che l’insegnante di italiano prima di cominciare a far lezione, passa una bella mezz’ora perché gli studenti si calmino.

Allora. Allora io non lo so con questo andazzo dove volete andare. Ma questi sono i vostri figli. Quelli che allevate. Quelli a cui date in mano un telefono senza dire loro cosa ci sta scritto. Senza dire che le notizie non si ricavano da Facebook. Senza dire che se un coglione pubblica qualcosa non deve per forza essere vero. Perché questo è il genio partorito da Facebook. Che ha dato diritto di parola a tutti. Tutti possono scrivere. Tutti possono dire la loro. Tutti possono attaccarti. Tutti possono far sapere al mondo come la pensano. Tutti. Ma proprio tutti. Anche quelli a cui io toglierei il diritto di voto e di procreazione. Allora dicevo questi sono i vostri figli. Quelli che avete messo al mondo. Quelli che tra qualche anno si interfacceranno con il mondo del lavoro. Questi sono il nostro presente. Il nostro futuro.

Damerini che escono dalle università pretendendo di sapere tutto solo perché hanno riempito le caselline del libretto in mondo giusto. Damerini che non si abbassano a fare le fotocopie perché loro sono laureati. Perché loro hanno il titolo di dottore. Perché loro hanno studiato. E hanno fatto gli esami. Presuntuosi. Arroganti. La gente crede che siccome c’ha un titolo in mano può permettersi di non leggere. Di non capire. Ora nemmeno di scrivere. Ti mando un messaggio vocale ti dicono. Ragazzini incollati ai telefonini che non sanno nemmeno se li stanno guardando per dritto o per rovescio. Ragazzi che non sanno leggere un testo. Che non lo sanno scomporre. Che non ricordano le parole. Che non sanno di cosa ma diavolo si stia parlando. Ragazzini iperattivi. Senza concentrazione. Senza passione. Senza calma né umiltà. Tutto subito. Sempre connessi. Sempre raggiungibili, mai disponibili. Ragazzini pieni invasi di parole che balzano di qua e di là. Instagram. Whatsapp. Snapchat. Telegram. E chi più ne ha più ne metta.

E ragazzini che se dai loro un libro da leggere non capiscono nemmeno il titolo. Perché ci hanno preso per ebeti. Ci hanno dato tutto. Ci stanno lobotomizzando il cervello. Creando mutanti. Senza ragione. E se non sai la strada c’è il navigatore. E se non sai fare i conti c’è la calcolatrice. E se non sai quanto hai speso c’è l’app che ti tieni i conti. E se non sai un prezzo c’è un app che te lo dice. E se non sai quando andare al cesso c’è l’app che te lo ricorda. App. App. App. App. App dappertutto. App per bere. App per mangiare. App per dormire. App per studiare. App per lavorare. App per sapere le condizioni meteo. App ovunque.

Perfino le app che ti ricorda quando cambiarti le mutande.

Eppure. Eppure dicono che leggono tutti. Le librerie sono piene. Gli scaffali anche. Scrivono tutti. Tutti che leggono. Ma io. Ma io, io mi domando cosa mai leggiate per arrivare al punto in cui uno su 4 capisce ciò che legge? Perché allora mi vien da pensare che i libri li usate come fermaporte. Forse lì rendono meglio. E perché l’altro giorno parlando con un amico gli ho detto che io non ho mai seguito nessuno se non me stessa. Cosa c’entra? C’entra che poi ti parlano di libertà. I giovani di oggi si riempiono la bocca di questa bella parola: libertà. Vanno nelle piazze come le sardine a innalzare striscioni, a battere pentoloni. Non capendo che se leggi un testo e non capisci un cazzo, non sarai mai libero. Nemmeno da te stesso.

Svegliatevi perdio! Svegliatevi!

#sbetti

Esiste una sala fatta interamente du cuoio

Questa sera rientravo a casa dopo una giornata di lavoro. Una di quelle giornate dove parti la mattina e rientri la sera. Stanca. Esausta. La testa piena. Le gambe a terra. I piedi stanchi. Una di quelle dove non vedi l’ora di fumarti una sigaretta, spegnere il cervello, silenziare il telefono e di assaporare l’universo. Un film. La musica.

Una di quelle dove hai corso tutto il giorno. Hai preso la pioggia. Hai preso freddo. Hai respirato la brezza del vento. Quella fredda. Quella asciutta. Quella che non vedi l’ora arrivi il freddo freddo per assaporare ancora di più quando arrivi a casa al caldo. Quelle dove le gambe hanno macinato chilometri. Le mani hanno danzato sulle tastiere. Gli occhi hanno visto scorci. Universi. Mondi. Quelle dove le orecchie hanno ascoltato parole. Storie. Anedotti. Pensieri e quelle dove l’anima è tornata a casa un po’ più sazia. E ancora affamata.

E allora dicevo rientravo e lungo la via del ritorno pensavo a quanto dobbiamo amare il nostro lavoro per rincasare alle dieci di sera e non trovare un supermercato aperto.

Poi sono rientrata. Via una scarpa. Via l’altra. Ho appoggiato le borse. Ho preparato la doccia, quando chiudo un attimo gli occhi e mi balzano in mente le scene di oggi. Se ne stanno lì a punzecchiarmi la mente mosse da tanti piccoli omini che scattano i flash con le macchinette.

Insomma sono lì pronta per andare in doccia quando mi viene in mente il palazzo di oggi. Dio mio cosa ho visto. Allora ripenso a quella stanza. A quelle pareti. A quel profumo. E alla fortuna che ho avuto di vedere una simile opera d’arte.

Insomma questa stanza a fine conferenza, dove ho presentato il libro di Michele Florentino, un libro che parla di donne e vino, ma non come le intendiamo noi, ma con tutta l’eleganza e la maestranza di cui il vino ha bisogno, ecco dicevo questa stanza mi dicono a fine conferenza: “indovina di cosa è fatta”, io la guardo ma la mia mente era talmente annebbiata dal voler fumare una sigaretta, che non provo nemmeno a indovinare, me lo faccio dire. Allora insomma questa stanza é fatta di cuoio. E infatti la chiamano la Sala Cuoi. Insomma la Sala Cuoi c’ha cuoio ovunque. Lungo le pareti. Su su in cima alle colonne. Lungo i pomelli delle porte. Appiccicato alle finestre. Lungo il muro che va su. Lungo quello che torna in giù. Cuoio. Cuoio. Cuoio ovunque.

Allora guardo la stanza. Spalanco la bocca. Alzo gli occhi al cielo. Ex esclamo “mio Dio che meraviglia”. “Già – mi dice un tipo che è lì con me e che lavora in Regione – prima era foderata con cuoio dorato, poi è stata rivestita completamente di cuoio. Così come la vedi ora”. E infatti.

Infatti, lascio andare la doccia. Mi accendo una sigaretta e spinta da una curiosità immensa apro il libro che oggi mi hanno donato. Un libro sul Palazzo Ferro Fini, la sede del Consiglio regionale del Veneto. Insomma lo apro e fatalità ci sta una foto che prende due pagine che raffigura proprio questa stanza di cuoio. E così insomma leggo che nel Seicento, di proprietà di Fangini, da cui poi Fini, le pareti di cuoio consentivano una minore dispersione di calore, mentre l’oro, in alternativa alle pitture ne impreziosiva l’estetica e ne favoriva la luminosità. Il cuoio era pressato e lavorato a rilievo tramite la pressione di stampi metallici incandescenti che poi veniva fissati al muro.

Cioè in sostanza per farci i disegni, prendevano degli stampi, li riempivano di cuoio, li pressavano e poi li incollavano. Un po’ come il nostro Didò.

Così come si presenta inoltre la Sala dei Cuoi è stata realizzata alla fine dell’Ottocento. E c’ha finti cuoi spagnoli. Due specchiere. Porte incorniciate da decorazioni moresche, dodici statuette che fanno da porta torcia e che stanno issate su colonnine di legno a torciglione, un soffitto a travi lavorate e questo grande lampadario. Non solo. C’avea pure il caminetto. A quell’epoca ogni stanza ne aveva uno.

E inoltre questa era pure la “sala caffè e fumo”, una sala di sosta. Una sala di incontro.

Già mi chiedo io. Dove potevo finire se non in una sala caffè e in una sala di fumo.

E così mi sono chiesta quante belle cose abbiamo di cui non sappiamo l’esistenza. Quante. Quante cose abbiamo a cui dobbiamo dire grazie. Grazie alla natura. Grazie all’opera degli uomini. Grazie per farci entrare in simile bellezze. Un bagno di umiltà che ti fa sentire piccolo dinanzi a simili grandezze. Perché oggi poi. Oggi mi hanno colpito le parole di un amico. Quando congedandosi e salutando ha detto: “grazie a voi, per averci ospitato qui dentro”. Già. Grazie. Perché la gratitudine è qualcosa di immenso.

#sbetti

Palazzo Ferro Fini Consiglio regionale del Veneto

L’altra sera ero a cena con delle persone. Allora davanti a me ci sta un signore che se lo guardi già ti colpisce per l’aspetto. E io sono attratta da queste persone. Le guardo. Le scruto. Me le mangio. Ricordo esattamente cosa indossano.

Sì insomma, non una di quelle persone insignificanti che nemmeno se le pesti ti dicono “ahi che male”, no. Una persona con gli occhietti piccoli tondi neri e vispi, che si vede che ha fatto la sua vita. Che è carica di spirito d’avventura e di coraggio. Che ama il rischio. Le cose fatte con passione. Con amore. Uno di quelli che nel lavoro di sicuro c’ha messo tutto se stesso. Allora gli chiedo il nome, si chiama Raimondo e c’ha degli occhiali neri che gli avvolgono questi occhi lucenti. Occhi mai stanchi. Che hanno visto tanto. Ma bramosi di vedere ancora.

Allora questa persona sta andando in pensione, e io gli chiedo come mai, cosa ci va a fare, se se ne pente, io che la pensione non la concepisco, la fine della vita, non riesco a concepire una vita senza lavoro. E allora così parlando, a a un certo punto mi fa: “sai tutto sommato sono contento, sì insomma sono contento della mia vita, perché i ragazzi di oggi hanno tutto, hanno tanto di tutto, hanno tanto, rispetto a quello che avevamo noi, hanno smartphone, telefonini, vestiti di marca, tablet, computer, viaggi, cellulari all’ultima moda, ma non hanno una cosa che io avevo”. Si ferma. Mi guarda. E io gli chiedo: “cosa?”. “I sogni”, mi risponde lui. “Io avevo tanti sogni. I ragazzi di oggi hanno tanto di tutto, ma pochi sogni”. Così io lo guardo. Lui mi guarda. Io ci penso. Lui non ci pensa.

Già. Pochi sogni.

E allora oggi ero a Verona, al JOB&Orienta. Una manifestazione che è la più importante dedicata alla scuola, all’orientamento, alla formazione e al lavoro.

Così. Sono arrivata. Ho parcheggiato e già all’entrata vedevo venire avanti ragazzi riuniti in gruppi di due tre quattro cinque che ridevano parlavano se la raccontavano. Qualcuno con in mano una cartellina. Qualcuno con in spalla una borsa. Una di quelle di stoffa che ti danno quando ti fermi a uno stand. E chiedi cos’è. Qualcuno con in mano un block notes. Qualche altro con alle spalle uno zainetto. E andavano. Andavano. E andavano. E allora dentro la fiera, tra le file dei padiglioni guardavo questi ragazzi pieni di sogni o forse no camminare lungo i tappeti. Li guardavo. Li osservavo. E mi chiedevo. Chissà se pure questi hanno il loro mondo pieno di sogni. Chissà se pure questi c’hanno la testa pieni di sogni. Chissà se sognano di fare l’astronauta, il poliziotto, il tenente dell’esercito, l’argonauta, lo storico, il letterario, il docente universitario. Chissà. Chissà se si rendono conto che c’hanno davanti il mondo. Che qui costruiscono il loro futuro. Che le scelte di oggi determineranno il percorso di domani. Chi lo sa. Chi lo sa se lo sanno. Chissà se sanno la fortuna che hanno nel poter decidere. Nel poter fare una scelta. Nel poter scegliere di diventare qualcuno anziché qualcun altro.

Noi. Così vittime più dell’avere che del fare. Dell’essere. Noi, così vittime del dire io ho. Io sono. Anziché io voglio. Io devo.

Noi. Noi esseri così piccoli minuti in un mondo di colossi che se gli fai da plancton ti mangiano. Noi. Noi così vittime dell’ingordigia anziché della lenta realizzazione. Della scoperta. E chi lo sa. Chi lo sa mi dicevo se questi ragazzi si rendono conto di avere in mano un foglio bianco su cui poter disegnare, scarabocchiare, su cui potercisi sbizzarrire, e poi stop cancellare e ricominciare. Chi lo sa. Chi lo sa se l’hanno capito la fortuna che c’hanno.

Allora mi guardavo attorno e vedevo tanti giovani appassionati. Chi alle prese con la scuola di musica. Chi con l’Accademia delle Belle Arti. Chi vuole diventare poliziotto. Chi sogna di indossare la divisa. Chi sogna di disegnare la pelle. Chi fa le interviste. Chi mette a punto acconciature. Chi sogna di fare l’estetista. Chi sogna di diventare veterinaria. Chi sogna di avere un’impresa. Chi lavora già a una start Up e non vede il senso di continuare ad andare a scuola. Chi già prende appunti. Segna le cose importanti. Tiene in mano le cartelline e pensa agli esami universitari. E poi chi. Chi ancora non sa cosa fare. E si guarda attorno.

E allora. Allora a un certo punto parlando con un generale dell’Esercito, gli ho detto: “che bello vedere questi ragazzi con la faccia ancora non macchiata delle sofferenze del tempo, beati loro che c’hanno ancora la testa piena di sogni”. Cosa fare. Dove andare. Chi diventare. Allora lui mi fa: “ma anch’io ho ancora tanti sogni”. E io che divento ogni giorno sempre più maledettamente realista, io che a quindici anni ero già vecchia, gli dico: “non si vive di sogni però, si vive di cose terrene, di cose che si possono fare, bisognerebbe svuotarsi la testa sennò, mettersi a testa in giù e ricominciare”. E lui: “c’è un modo per svuotare la testa e continuare a sognare. La sera quando si arriva a casa, dopo una giornata di lavoro, si pensa al giorno trascorso, e lasciando defluire i pensieri, si fanno venire a galla quelli belli, si pensano alle cose belle fatte durante il giorno, alle cose positive, così si va a letto sereni e il giorno dopo si è pronti per ripartire”.

E allora non lo so. Non lo so se sia così che funzioni. Non lo so. Anch’io avevo la testa piena di sogni. Ma credo che a venti si sogni tantissimo. A trenta si corre dietro ai sogni per evitare di sentirsi vecchi.

#nottesbetti

#sbetti 💙