Mai avrei pensato di svegliarmi in una zona rossa

Dal diario di Facebook del 9 marzo

Sono ore delicate.
E mai avrei pensato ieri mattina, l’8 marzo 2020, di svegliarmi in una zona rossa.
Mai. Sono in zona rossa continuavo a ripetermi trastullandomi nel letto.
Sono in zona rossa.
Mai avrei pensato di vivere una simile situazione.
Di entrare in questa fase. In questa bolla di protezione che ci capovolge, che ci sconquassa, che ci fa scivolare a testa in giù poi tornare su.
Mai avrei pensato di vivere una cosa che scardinerà gli equilibri. Che stravolgerà le abitudini.
Di scrivere di un’epidemia globale. Di trovarmici dentro. Di vivere un qualcosa che rivoluzionerà le nostre vite. Che le metterà alla prova. Che scardinerà le abitudini, i ruoli, i comportamenti. Che ti farà avere paura dell’altro. Dei tuoi simili. Dei diversi.
Che stravolgerà la storia.
Che la segnerà con l’inchiostro nei libri. O con i pixel nei digitali.
Che metterà tutti sull’attenti. Che imporrà a rapportarsi col prossimo. A godere delle piccole cose.
Ad amare le distanze. A odiare le vicinanze. Mai avrei pensato di scrivere di un qualcosa che scardinerà i principi quotidiani. Che ribalterà il certo. L’acquisto.
L’assodato.
Che per qualche tempo toglierà le strette di mano. I baci. Gli abbracci. Il tempo perso. I contatti. Le relazioni. Che ti farà dire che devi essere veloce.
Perché questo non è solo un virus.
Questo è un mostro che stravolge le cose. Che isola. Che annienta. Che ti immobilizza. Che recide i contatti. Che blocca i saperi. Gli incontri. I convegni.
È un mostro che blocca la circolazione dei mezzi. Delle idee. Che ci fa stare in gabbia. Che ti costringe alla tua regione. Che con gli occhi non puoi vedere altrove.
Terribile. Ma si vince.
Questo è un mostro dai riccioli in testa che pretende di annientare i saperi. Di immobilizzarci tutti. Di farci chiudere. Isolare. Di non farci prendere voli. Treni. Taxi. Questo è molto di più di un morbo del corpo. Questo è un morbo dello spirito. Dell’anima. Della società intera.
Ma noi siamo più forti.
Questo è il cattivo delle Tartarughe Ninja, Krang, che ora ci impone di usare quello di cui abbiamo sempre abusato.
Lo smartphone. Il digitale. Il web.
Quel mondo che abbiamo tanto voluto dimenticando il tatto. Il contatto. Le parole.
Siamo pieni di amici. Invisibili.
Siamo pieni di contatti. Solo online.
Viviamo così tra mille impegni e caselle registrate e ora dobbiamo fare i conti con qualcosa che non si annota. Che non si appunta.
Che c’è. Sospeso. Non si sa dove.
Perché di sicuro ne usciremo. Ma stravolti. Depurati. Riappacificati.
Più forti.
Torneremo a produrre in casa nostra. Ad apprezzare le relazioni. Le strette di mano. I baci. Gli abbracci. Le piccole attenzioni. Torneremo a esplorare i nostri luoghi, quelli sconosciuti. Andiamo in India quando dietro casa c’è un mondo che ti aspetta. Arriva sempre quando ne hai bisogno. Quando non puoi farne a meno.
Questo sta succedendo nel 2020 nel mondo.
Seguitemi e scrivetemi per qualsiasi storia.
#sbetti
#Coronavirus
#Storie2020

Giornalisti ai tempi del Coronavirus

Dal diario di Facebook dell’8 marzo

Ieri sera, con profondi stupore e delusione, sono rimasta molto colpita da alcuni post di amministratori locali che criticavano l’operato dei giornalisti, colpevoli di aver pubblicato la bozza del decreto.
Io se fossi in voi mi vergognerei.
Quella bozza riguardava un decreto clamoroso che avrebbe avuto un impatto non da poco nella vita di tutti noi.
Se un collega viene in possesso della bozza è nostro dovere pubblicarla.
Ma la cosa che ancor più mi stupisce e mi lascia sconvolta è che in tutte le testate online c’era scritto che quella appunto era una bozza. E che si sarebbe raggiungo l’accordo in serata.
Ma voi non avete capito nemmeno quello. Nemmeno li leggete gli articoli. Leggete solo i titoli. E nemmeno li capite.
Ci chiamate solo quando fate le piazze nuove, i giardini con i boccoli di rosa, le piazzette per le cacche dei cani o per il pascolo delle vacche.
Siete così talmente presi dal vostro io così superbo e onnipotente che non capite nemmeno dove finisce il vostro mestiere e dove inizia il nostro.
Siete così talmente ignoranti, nel senso che ignorate, che non capite nemmeno che se una bozza circola in giro è perché qualcuno all’interno del Governo l’ha diffusa.
Eppure. Eppure è sempre colpa nostra. Eppure è sempre colpa dei giornalisti. Eppure è sempre colpa dei giornali. Di quelli che non leggete. Di quelli che nemmeno sfogliate. E se sfogliate vi limitate a leggere i titoloni.
Stiamo vivendo un momento storico unico e indelebile, un cambiamento che sconvolgerà le nostre vite, che ce le farà amare di più mi auguro, un momento dove torneremo ad arrangiarci, a produrci le cose in casa, in questa Italia così presa a calci nel culo da tutti, stiamo vivendo un momento storico di questo tipo dove se non ci fossero i giornali a darvi le informazioni, vi affidereste a quei quattro pecoroni che commentano su Facebook pretendendo di avere la verità in tasca.
Perché vi posso assicurare che il momento non è bello. Che non avete la minima idea di quanta fatica si faccia in questi giorni. A mantenere la calma. E a fornirvi un servizio che sia il migliore possibile. Che sia il più onesto. Con la paura di tutti.
Non avete la minima idea di quanta fatica si faccia a raccogliere le informazioni, a mettere in fila i pezzi, a raccontare le disperazioni, a entrare nelle vite degli altri, a fare le interviste, a mettere in fila i dati.
E molte volte rischiando.
Ma voi. A voi non interessa nulla.
Voi volete i titoloni solo quando riguardano voi. Volete le paginate solo quando c’è la festa del gelato.
Non vi degnate nemmeno di spendere un euro per comprare il giornale di carta.
La mattina vi svegliate e se per caso ci siete, vi ritagliate il vostro bel quadretto. Lo mettete su Facebook e ne fate una storia.
Io spero che tutto questo vi serva a prendervi del tempo. A uscire dalle vostre case la mattina togliendovi quella presunzione addosso di sapere tutto.
E magari a spendere un euro per IMPARARE a leggere.
Perché spendete tanti soldi per aumentare i vostri like, ma l’intelligenza, quella no.
Quella non si compra.
Quella non aumenta mai.
Vi stimo.
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Dalla zona rossa di Vo' Euganeo, il nostro reportage

Un paese immerso nelle colline, dove per scendere ci sono anche i tornanti. Lungo la strada qualche trattore, ma appena entriamo già nella zona limitrofa del cuore del paese, fa paura. Attorno non c’è anima viva. Persino la pompa del distributore di benzina, illuminata con la notte che scende, sembra una di quelle abbandonate dei film americani. Solo i due alimentari sono aperti, per consentire alle persone di comprare le provviste. Perché ora il focolaio è proprio qui, in questa piazza deserta, luci spente, chiusi negozi, bar, ristoranti, pizzerie, anche la concessionaria di auto ha chiuso le porte. Le ricadute sull’economia sono incalcolabili, gli abitanti si mobilitano, provano a farsi sentire. “Fateci uscire, ridateci la nostra libertà”, dicono. Le attività sono ferme, le aziende anche…

LEGGI IL PEZZO 👇👇👇

https://www.ilgiornale.it/news/cronache/coronavirus-ci-avete-messo-col-culo-terra-1837264.html

Comunicazione da bianchetti e cicchetti

Dal diario di Facebook, 8 marzo 2020

Questo è quello che accade quando le istituzioni non sanno comunicare. E creano un danno enorme. Oltre che a essere pericoloso.
Allora eravamo partiti con le misure drastiche, il moriremo tutti, il caos generale, le riunioni straordinarie, la comunicazione dei dati dei morti ogni minuto, ogni ora; eravamo partiti con il non poter uscire nemmeno per andare a fare la spesa, con le persone che hanno svuotato i supermarket, con la gente che litigava per i litri di latte, fino a dire: “ah no, un momento, aspettate, forse questa cosa ci sta creando troppi danni a livello economico e mondiale, e allora bevete pure, riempite le piazze, andate a mangiare nei ristoranti, vi offriamo noi gli aperitivi! consumate cicchetti, trovatevi in piazza, femo festa, un’ ombretta, un bianchetto.
Fino a passare a non poterci nemmeno stringere la mano. A non poterci baciare. A non poter scopare. A non poterci nemmeno salutare.
Così la gente che aveva preso sottogamba la cosa, sostanzialmente, sull’onda dell’ombretta e del bianchetto, che faceva più comodo, ha continuato a fare esattamente quello che ha fatto dopo il panico: fregarsene.
Questo delirio di onnipotenza.
E questo per colpa di amministratori incompetenti che anziché far capire ai cittadini l’emergenza, hanno preferito farsi i selfie con i bianchetti, con gli spritz, con i salatini, con i ciuccetti. Infagottati molto più dal Dio quattrini che dal pericolo che avrebbero creato.
Ho visto post assolutamente ridicoli dove, scusate se uso un’espressione veneta, ma “ze pezo el taccon che el sbrego”, dove si invitavano i cittadini a far ripartire il territorio. Ma come si fa?
Come fai a far ripartire un territorio se hai le zone rosse, se a duecento chilometri di distanza i letti stanno finendo. Se non ci sono più posti. Se non ci sono più medici. Se i medici sono in quarantena. Se i reparti sono chiusi. Se non ci sono più respiratori.
Come fai a dire alla gente di continuare a fare la vita che ha sempre fatto con i morti che aumentano.
E così la gente ha continuato ad andare in giro. Gli aperitivi fini a mezzanotte. La gente ammassata davanti i locali. Vedi i Navigli.
I tavoli non distanziati.
E così i contagi sono aumentati. E la situazione è crollata.
E quindi ora, per ovviare alla cosa che la gente se ne va in giro a destra e manca, ecco ora torniamo indietro, ora allora forse: “è peggio di come era prima”; ora ci dicono che forse dobbiamo restare a casa. Che dobbiamo contenerci. Che quello fatto finora non basta. Che possiamo uscire solo uno alla volta, uno a famiglia, per fare la spesa. Che attendiamo questa approvazione di questa bozza. Che deve ancora essere confermata. – Anzi no. Testo definitivo arrivato alle due di notte.
Alle due di notte. Pagliacci.
Con praticamente quelle misure –
E tutto questo perché siamo nelle mani di cialtroni. Hanno parlato tutti. Si sono fatti la guerra. Mattarella è riuscito a fare un discorso l’altro giorno. Nessuna guida certa. Nessuna direttiva che sia stata presa sul serio.
Nessuno che ha polso. Nessuna parola che sia stata ascoltata.
Ah ma poi la colpa è dei giornalisti.
Dei cittadini. Di quelli irresponsabili.
E allora scusate se siete stati poco chiari. Se non avete avuto l’autorevolezza di farvi ascoltare. Se non avete saputo tenere il polso della situazione. Se non tutti sono in grado di pensare con la propria testa e capire che in questo momento occorre fare attenzione.
Perché questa è la situazione che avete creato, questo è il vostro gregge che non avete guidato.
Questo è il popolo che avete voluto.
Del resto nulla potevamo pretendere davanti a un bianchetto e a un cicchetto.
Notte a tutti.
Passerà anche questa! Passa sicuro.
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#Storie2020


Non è sotto controllo niente

Dal diario del 4 marzo 2020

4 marzo ore 11.53

Non è sotto controllo. Non è niente sotto controllo. Ma li vedete i paesi in giro? Li vedete? Escono solo i buontemponi alle sette di sera per fare l’aperitivo strafregandosene di tutto e di tutti.
Stamattina sono andata al bar del paese. Vuoto. Non c’era anima viva. La gente ha paura. Gli anziani stanno a casa. Solo dopo è entrato un padre con un bimbo a debita distanza. Se le scuole sono chiuse non ci sono più le madri che vanno a fare colazione.
Se anche Dio ha chiuso le porte. La gente non va neanche più a messa. E finita la messa non va a bere il caffè. Non vanno nemmeno più a fare la spesa. L’hanno già fatta. Mandano gli altri. Se le palestre sono chiuse la gente non si ritrova. Se i teatri sono chiusi la gente sta a casa.
Si ammala. Parlo con gente infetta da paura. Infettata dall’angoscia. Riesco a parlarci soltanto. Non vogliono uscire. Usano la maschera pure per stare dentro casa. C’è gente che si sta fissando. Che controlla i numeri trecento volte al giorno. Il loro cervello è una slot machine impazzita che conta il numero dei morti. Che conta quello dei vivi. Che conta quello dei contagiati. Dei positivi. Di quelli infetti. Di quelli infetti ma non troppo. Di quelli infetti. Che infettano.
Le persone chiuse a Vo’ sono in isolamento. Guardano la vita scorrere come il fiume che scorre loro accanto. Non sanno che fare. Con chi parlare. Ci avete pensato ad attivare un sostegno psicologico per queste persone? Eh? Perché quando tutto sarà finito. Perché finisce. Finisce. Deve finire. Dobbiamo essere forti.
Ecco quando tutto sarà finito, non ci sarà solo la questione sanitaria. Quella economica. Quella burocratica. Le tasse. Le porcate che fate. Abbiamo un governo che fino a ieri ha giocato a fare i cialtroni e i ciarlatani. Ecco quando tutto sarà finito avremo la crisi sociale. Delle persone. La paura non se ne va facilmente. L’emarginazione. Siete così talmente stupidi da aver chiuso i momenti soft di aggregazione e di aver lasciato aperti i centri commerciali. Di non controllare se gli aperitivi vengono serviti correttamente. In questo clima tutto pensano alle loro tasche. Ai loro interessi. Parlate di voler diminuire il rischio del contagio e chiudete le feste del paese. Quelle che potrebbero salvare da una qualche malattia mentale. Avete lasciato aperti i cubi di cemento, quelli dove tutti i microbi si annidano. Quelli sì. Provate a chiedere a qualcuno che ha appena partorito cosa dice il medico? Di non portare i bimbi al centro commerciale per l’alta presenza dei germi. Poi. Poi quando sarà passato tutto questo, veniteci ancora a chiedere le autorizzazioni per fare le feste. I corsi sulla sicurezza per la festa della soppressa. Nel culo ve le dovete ficcare.
Continuate a limitare tutto. A controllare tutto. Quando non siete stati in grado nemmeno di gestire a suo tempo un problema come questo. Continuate. Forza. Continuate a romperci l’anima. Continuate a far arrivare tutti, a far scorrazzare tutti quanti. A permettere a chiunque di entrare e a chiunque di uscire e mandate i vigili a controllare con le squadre se i tavolini del bar sono dentro le distanze. Ora dovreste farlo! Non prima.
Perché poi. Poi stamattina quando al bar sono entrati il padre e suo figlio, abbiamo iniziato a parlare di questo Coronavirus.
Io ho detto alcuni dati, secondo me allarmanti. Si parlava degli anziani. Si parlava delle morti. Quando mi sono girata, il bimbo che si era seduto per bersi il succo e mangiarsi la brioche, si stava tappando le orecchie con le dita. Il padre mi ha guardato e mi ha detto: “non vuole sentire queste cose, gli fa male”.
Un bimbo di nemmeno dieci anni. Io mi sono zittita. Mi stava venendo una lacrima.
E sono uscita.
Ma a tutto questo, a come avessero potuto vivere le persone non ci avete minimamente pensato. Perché ora vaglielo a spiegare a un bimbo di dieci anni che siamo presi così per un Governo di cialtroni.
#sbetti
#Coronavirus
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A tutti quei medici in prima linea, semplicemente Grazie

Dal diario di Facebook del 7 marzo

Penso a tutti quei medici che ora stanno rischiando la vita in prima linea e mi vergogno di essere italiana.
Sì mi vergogno.
Penso a tutti quelli che prendono i vitalizi. Che hanno i viaggi pagati. Che godono delle porte automatiche per andare al gabinetto. Che hanno gli occhiali gratis. I pasti pagati. Le urinate prenotate.
Che passano la loro vita a twittare e facebookiare e si sentono perfetti. Dio come siete ignoranti. Perfino il referendum sul taglio dei parlamentari avete slittato in avanti.
Penso a chi frega i soldi. A chi fa soldi sulle spalle degli altri.
Penso a Benigni e ai suoi trecentomila euro a Sanremo. Penso ai calciatori. Penso ai grandi personaggi politici che preoccupati di avere la cravatta intonata con le mutande a fioretti prendono fior di quattrini. Penso ai parlamentari. Penso ai deputati. Penso ai senatori. Penso alle vallette.
Penso a questo Governo. Ai ministri. Alle vostre alte cariche.
Nemmeno le assemblee di classe delle medie
vi darei da gestire.
Perché allora stasera tornando a casa dal lavoro, perché noi ancora ci andiamo al lavoro, mi è venuta in mente un’immagine.
Ed è quella di un medico con la testa tra le mani nella freddezza di non saper che fare.
E allora penso e ripenso a quanti medici ora stanno rischiando la vita.
A quanti specializzandi. A quanti infermieri. A quanti operatori. A quanti giovani dottori usciti dalle aule universitarie.
Tutti in prima linea a combattere contro un virus sconosciuto e a lottare contro questo tempo bastardo che ti si porta via il cuore.
Lottano contro i minuti. Minuto per minuto. Secondo dopo secondo. Beep dopo beep. Totalmente preparati per affrontare qualsiasi tipo di emergenza. Lottano nella disperazione delle persone. Tra i pianti. Tra le urla. Tra gli eccessi. In mezzo al dolore della gente. In mezzo al sangue. Tra le corsie degli ospedali correndo contro il tempo.
Lottano nelle condizioni più dolorose, più spietate, più in emergenza. Lì nelle situazioni più critiche loro pensano solo a salvarti. Non importa se hanno mangiato, quanto hanno dormito, se sono stanchi, esausti, disperati. Se la moglie li aspetta a casa. Non importa. Loro non mollano. Perché se molla l’anello di una catena, crolla il sistema.
E penso a tutti quegli specialisti che ora stanno vivendo sul filo del rasoio. Che sono infetti. Che rischiano di diventarlo. Che rischiano la vita ogni giorno, per salvare le vite degli altri.
Penso ai ricercatori precari. A questi giovani che vivono senza la convinzione di un futuro. Senza sentirsi parte di un tutto. Specializzandi che prendono 800 euro al mese per rischiare la vita costantemente in ospedale, per prendersi delle responsabilità, per fare un lavoro dove l’errore non è ammesso. Dove non puoi sbagliare. Dove non è un tweet che se sbagli si rifà. Qui non si rifà proprio niente.
Penso ai medici che tornano a casa la sera. O che sono in quarantena. Che hanno paura di infettare mogli, figli, affetti. Penso a quanta gente c’è in Italia che invece ti si frega i soldi.
L’altro giorno ho parlato con un medico.
Mi ha detto che visita i pazienti con “maschera e camicione – uno non di più – fornito dalla sanità veneta ai medici di Medicina Generale”, e che gli “pareva di essere un alpino mandato in Russia con gli stivali di cartone”.
Questi che vedete qui sotto sono la sua mascherina e il suo camice.
Un medico di base prende dai 1500 euro al mese, dipende dai pazienti. Un primario prende dai 4.500 euro lordi. Con tutte le responsabilità che hanno. Con tutte le magagne che incontrano. Con tutte le chiamate che ricevono, nel cuore della notte, sempre lì pronti a combattere.
Ecco. Perché poi. Poi in un’emergenza come questa finiscono oggetto di un vostro tweet demenziale, e quando passa l’emergenza, chi se ne frega, sono i soliti dipendenti statali, che fregano i soldi allo Stato, che bevono il caffè alle macchinette, sono i soliti che non tutelate, a cui non date fondi, ricerche, a cui non rinnovate i contratti. A cui tagliate le gambe. Sono i soliti medici italiani che mandate all’estero.
Perché come in tutte le cose, c’è chi ci mette il cuore e chi ci mette il sedere.
Quando passerà l’emergenza ricordatevene, tagliatevi gli stipendi e datene un po’ a questi santi.
#sbetti
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La piccola impresa massacrata dal Coronavirus

Oggi parlavo con un imprenditore agricolo. Veneto. C’ha 30 anni. Un bel ragazzo. Robusto. Prestante. Ha una azienda agricola di 25 dipendenti. Un bolide. Una macchina da guerra. I suoi trattori sono navicelle nel deserto dei campi dorati. Hanno il satellitare. Il Wi-Fi. Il Bluetooth incorporato. Hanno tutte le migliori tecnologie per stare a passo con il tempo. Lui studia. Fa i corsi d’aggiornamento. Si informa. Ama la terra i suoi prodotti e la sua ricchezza.
Esporta prodotti in tutto il mondo. Anche con l’Asia, anche con l’America. Cina. Giappone. Spagna. Germania.
Il suo radicchio ha raggiunto in volo i piatti dei cinesi. Dei giapponesi. Degli indonesiani. Di quelli che stanno al triangolo delle Bermuda. La maggior parte dei supermercati qua attorno sono riforniti da lui. Quasi tutti i negozi alimentari anche. La gente fa la fila per comprare i suoi prodotti.
E allora oggi mi ha detto che le sue esportazioni con l’Asia sono interrotte dal 14 febbraio. Dal 14 febbraio non ricevono più niente. Ordinazioni. Commesse. Zero.
E mi ha detto che ha previsto di ridurre la produzione nei prossimi mesi del 40%. Perché non ha senso. Perché ci perdi. Hanno avuto un picco la scorsa settimana quando la gente ha iniziato a far le provviste come se dovesse arrivare la guerra, e ora non si sa perché le ordinazioni non arrivano. Ne arrivano meno.
Un imprenditore che c’ha trent’anni. Una vita davanti. Che ora non vede futuro. Sì la gente mangerà. Tornerà a mangiare. Ma il mercato. Al mercato che succede?
Perché se si blocca il mercato anche all’interno del Paese che succede.
Oggi a Vo’ Euganeo, questo buco di culo che ormai conosce tutto il mondo, un carico di vini è tornato indietro da Parma. Non lo vogliamo. Riprendetevelo. Magari è infetto.
Fanno la guerra alle nostre eccellenze. La follia.
E ieri un amico a me caro mi ha detto che con il lavoro è fermo. Che non si muove più.
“Io per un po’ nn posso muovermi – mi ha scritto – i clienti nn ci vogliono ricevere, paura collettiva.. Quelli esteri non ne parliamo. Per loro noi italiani siamo colpevoli di aver infettato l’Europa. Ma anche quelli italiani, per paura preferiscono limitare i contatti. La seconda emergenza di questa situazione – ha continuano – dopo quella sanitaria è quella economia. Due tragedie”.
Già. Perché non riusciamo a essere normali. Perché dobbiamo sempre arrivare agli estremi. Perché l’Italia deve dare spettacolo. Perché ho visto gente svuotare i supermercati e adesso ingozzarsi agli aperitivi come se niente fosse.
Il supermercato, in uno dei paesi vicino a casa mia, ha fatto più incassi che a Natale. Una persona ha fatto 1500 euro di spesa. Che minchia ve ne fate?
Perché quando l’emergenza sarà passata – perché passa. Passa. Evolve. Si trasforma. Ci vuole forza – Ecco quando l’emergenza sarà passata la conta dei danni sarà tanta. Enorme. Danni che ora non ci pensi, perché si pensa a eliminare il virus, prima che ci annienti. Ma a quel punto. A quel quel punto l’Italia sarà isolata. La gente avrà paura. L’economia in ginocchio. La gente disoccupata.
Chi ha spalle forti sopravvive, è la legge della giungla, chi attende i pezzi dalla Cina ed è costretto a chiudere, dovrà reinventarsi. Quelli del Nord andranno al Sud. Quelli del Sud si riscatteranno. Non potremmo più cambiare le auto ogni tre anni. I pezzi non arriveranno. Difficile permettersi un’ auto senza assemblaggio.
Ci stanno massacrando. E io da un lato vedo gente che se ne frega altamente e non aiuta il sistema. Dall’altro vedo gente all’estremo che non si fida nemmeno più a mettere le mani dentro la cassetta della posta.
In questo clima, voi siete veramente convinti che possiamo continuare a fregarcene?
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📸 Repertorio

“Tutti pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiar se stesso”

Dal diario di Facebook del 3 marzo 2020

“Tutti pensano a cambiare il mondo, ma nessuno pensa a cambiar se stesso”. Sta scritto nei bar di #Treviso sulle bustine di zucchero di Banca Mediolanum.
Lo diceva Lev Tolstoj.
Niente di più vero. E lo vediamo questi giorni.
Perché allora credo che ci voglia un po’ più di coscienza. Sì. Oggi parlavo con una persona che sta analizzando i dati sul Coronavirus. Mi ha impressionato la velocità con cui il virus si sta diffondendo. Me li sono fatti spiegare bene. Ve li racconterò.
E vi dico questo perché ieri sera ho visto gente fare l’aperitivo e strafregarsene di tutto e di tutti.
Il problema qui non è il trentenne che prende il virus. E magari se la cava con una leggera influenza.
Il problema è che il trentenne, se lo prende, potrebbe andare a casa e contagiare qualcun altro. Qualche parente. Qualche anziano. Qualcuno con cui entra in contatto e che potrebbe non essere in grado di affrontare da solo il Coronavirus.
Qualcuno che potrebbe aver bisogno di un letto d’ospedale. Di un posto in terapia intensiva. Qualcuno che già sta male e che non ne uscirebbe vivo.
Ecco perché è importante comportarsi bene, prestando un po’ d’attenzione. Basterebbero le basilari norme di convivenza. Solo adesso un po’ più amplificate. Qualche sacrificio. Non penso di essere na vecchia.
Perché non va bene vedere tutta quella gente ammassata che se ne strasbatte e continua a fare gli aperitivi come se niente fosse. Non va bene. Non fa bene vedere gli assembramenti ai centri commerciali e poi ci sono gli anziani in coda alle Poste al freddo perché dentro non ti fanno entrare. Non va bene.
Ho visto anziani seduti sui marciapiedi davanti agli ambulatori medici per precauzione. E i trentenni non riescono a fare un caz di aperitivo seduti composti.
Non va bene vedere gente che continua a sedersi a tavola senza lavarsi le mani. Che se ne frega. Che se ne frega del resto del mondo. Perché come al solito prevale l’egoismo.
A me non tocca. Quindi chi se ne frega.
Ma il problema non è che tocca a te. Il problema è che potrebbe toccare a qualcun altro. E tu non stai facendo niente per prevenire la cosa.
Hanno calcolato che ogni persona contagiata ne contagia altre tre e infatti i numeri parlano chiaro. Basta guardarli. Farseli spiegare.
Sì certo il tasso di mortalità è basso. Hanno più probabilità di morire le persone con malattie pregresse o che hanno quadri clinici già compromessi. Ma di queste persone ce ne sono ovunque. Chiunque potrebbe a sua volta contagiare qualche altro.
La distanza di un metro fa ridere i polli. Ma evitare di appiccicarci e di ingolfarci davanti ai banchi del bar, potrebbe essere di buon aiuto oltre che educato.
Evitare di riempire i centri commerciali. Di ammassarci tutti insieme potrebbe essere di aiuto. Coltivare le relazioni personali a casa di qualcuno. O anche in qualche bar ma seduti composti. O all’aperto pensateci. All’aria aperta. Lavandoci le mani. Senza sputare nelle tazzine degli altri.
Andare a comprare nei negozi dei paesi. In questo clima di emergenza aiutate anche loro. Provateci per lo meno. Proviamoci.
Se il tasso di contagio è elevato, se le persone che potrebbero aver bisogno aumentano, e se i letti finiscono, dove li mettiamo tutti? Qualcuno potrebbe arrivare in ospedale per un incidente, per altre cose. E poi?
In Italia ci sono 4 milioni di persone over 80. E dodici milioni over 65. Ce ne strasbattiamo?
Questa situazione così improvvisa così rapida nessuno l’aveva prevista.
Ma una moderazione nei comportamenti, ecco questa forse potrebbe aiutare.
Questa cosa ci sta insegnando a essere egoisti. Ad avere un po’ paura. O a non aver paura di niente. A esorcizzare.
Ci sta dicendo di fare attenzione a dove mettiamo le mani. A dove poggiamo i piedi. A dove posiamo il culo.
Ma ora dovremmo fare un salto superiore. Essere egoisti non basta. Ci vuole la consapevolezza che un tuo gesto possa salvare gli altri. Perché poi ogni giorno trovi i convinti che pensano di poter cambiare il mondo. Quando non riescono nemmeno a cambiare se stessi.
E allora a quel punto, a quel punto sì, avrà avuto terribilmente ragione Tolstoj.
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Le insegnanti ai tempi del Coronavirus

Dal diario di Facebook del 1 marzo 2020

Dio come ci stiamo imbruttendo. Leggo commenti assurdi sul fatto che domani gli insegnanti stanno a casa. Ascolto voci penose sul fatto che “saranno contente le insegnanti a stare a casa un’altra settimana ed essere pagate lo stesso”. Ancora.
Ancora anche difronte all’emergenza siamo in grado di sollevare polemica.
Ancora dobbiamo per forza tirare fuori il nostro lato più rozzo, più ignorante, più incivile, più screanzato che uno possa avere.
Qualcuno ha scritto anche che il mestiere dell’insegnante è una casta. E che qualche docente dovrebbe provare ad andare a lavorare al mercato settimanale e svegliarsi tutte le mattine alle quattro.
Ridicoli. Patetici. Pretendete il rispetto del vostro lavoro. E non avete rispetto del lavoro degli altri. Come si fa a chiedere rispetto, non rispettando nemmeno se stessi.
Perché volevo dire a queste persone che si permettono illustri e lugubri e tristi commenti, che il mestiere dell’insegnante non è un mestiere facile. Non lo dico perché ho la madre docente. Lo dico perché ahimè, quando ancora navigavo a vista nel mercato del lavoro, l’ho provato.
Mi sono fatta qualche tirocinio e qualche supplenza negli asili.
Sì.
Il mestiere dell’insegnante richiede calma. Concentrazione. Piena destrezza nelle cose. Richiede tempo. Cura. Passione. Amore. Un mestiere che non finisce con il suono della campanella. Che va avanti.
I figli degli altri te li porti fino a mezzanotte. Per poi svegliarti la mattina e sapere che dalle otto, una grossa responsabilità ti aspetta: formare il nostro futuro.
Il mestiere dell’insegnante richiede anni di sacrifici. Di studi. Di pugni sopra i tavoli. Di esami. Di scartoffie. Di corsi di aggiornamento. Richiede anni di precariato. Perché per quanto tu possa aver studiato, non sarai mai sufficientemente preparato. Mai abbastanza formato. È un mestiere logorante. Totalizzante. Ti svuota. E ti riempie.
Docenti costretti a insegnare prima ai genitori e poi agli alunni. Costretti ad avere a che fare con padri e madri che sanno tutto loro. Che ti contestano pure le letture che dai a scuola. Che non capiscono i comandi. Che non accettano consegne.
L’insegnante ha una responsabilità che Dio solo sa. Perché poi quando accade qualcosa allora vi fa comodo dire che è sempre colpa della scuola.
E allora mi chiedo, a tutti quelli che sparlano e straparlano senza sapere, senza essere nemmeno mai entrati in una classe, senza aver visto a volte le condizioni in cui i docenti fanno lezione. Viste io con i miei occhi. Classi pollaio. Piove dentro. I termosifoni che non vanno. Il registro da aggiornare. La burocrazia da fare. I ragazzi che gridano.
Ecco mi chiedo, a tutti quelli che sparlano, mi chiedo di chi sia colpa. Se della scuola. O della vostra ignoranza.
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Dentro la cesta dei panni sporchi

Dal diario di Facebook del 1 marzo 2020

Stamattina la mia amica titolare del bar mi ha detto che, nel paese che vedete qui sotto in foto, oggi i bambini avrebbero dovuto fare la Prima Comunione. Prima Comunione rinviata. Così come tante altre cose. Ieri il Bati Marso. Eventi. Feste. Manifestazioni. Presentazioni libri. Spettacoli teatrali. Ora siamo costretti ad affrontare l’ora. Il presente. L’immediato. Viviamo sempre come se dovessimo vivere per sempre. Ci riempiamo l’agenda di appuntamenti. Di cose da fare. Di persone da incontrare. Incaselliamo tutto perfettamente dentro la giornata di modo che ci stia tutto. Che sia tutto perfettamente calcolato. Che ci stia tutto dentro. Dentro a queste agende che esplodono. Abbiamo le agende segnate di vari colori. Il rosso per gli appuntamenti urgenti. Il giallo per quelli da fare oggi. Il verde per il lavoro da smaltire. Il blu per le persone da incontrare. Il marrone per le scadenze. Il rosa per le minchiate.
Programmiamo tutto. Incaselliamo tutto. Ogni giorno è scandito da un appuntamento. Da una nota. Da un progetto. Da una telefonata. Da una qualche porcata.
Le persone programmano le telefonate. Come se parlare al telefono con qualcuno si contasse in minuti. In secondi. In ore. Non puoi dire una parola di troppo. La call non te lo consente. Misuriamo i ciao. I come stai. I buongiorno. I buonasera. Impossibile sgarrare. Perdiamo minuti.
Poi. Poi un giorno in Italia arriva un’emergenza internazionale – leggevo un pezzo dove siamo ai limiti dei numeri della Pandemia con 40 Paesi contagiati, 83.396 infetti, 2858 morti. Un tasso di mortalità del 3,4% –
Ecco dicevo poi un giorno arriva un’emergenza globale e siamo costretti ad affrontare il presente. A vivere sospesi. In stand by. Non c’è un giorno in cui ti diranno che è finita. Gli strascichi saranno importanti. Andranno avanti mesi. Anni.
Molti si preoccupano del fatto che se slitti gli eventi in avanti, se li rimandi, poi si ammucchiano, non ci stanno. Non ci stanno nelle nostre agende piene di appuntamenti e vuote di vivere.
Gli eventi slittano in avanti, ammucchiandosi tra di loro. Arrivano al cancello del prossimo mese. Sbattono la porta. Non c’è posto. Suona un’altra volta.
Non si sa più come affrontare questa emergenza perché ci si sente impotenti. Il tempo decide per noi.
I nostri programmi passano in secondo piano. Finiscono dentro il cesto dei panni sporchi. Con la roba ammucchiata da stirare.
Ci si affanna inutilmente.
Non capendo che poi, che poi anche i panni sporchi li si smucchia. Uno a uno.
Un po’ alla volta.
Mantenete la calma. Vivete il presente.
Buon pranzo. Godetevelo.
#sbetti
#Coronavirus
#Storie2020

Ecco cosa puoi fare in un Paese normale

Dal diario di Facebook del 29 febbraio 2020

Ora vi voglio raccontare una cosa.
Stamattina sono andata a fare colazione al bar. Eravamo sette persone. Insomma facciamo colazione. Prendiamo. Beviamo. Chi ordina il caffè. Chi il cappuccino. Chi il caffè lungo macchiato ma non troppo. Chi vuole il macchiato ma non tanto macchiato. Chi la brioche. Chi quella vuota. Chi quella vegana. Chi quella piena ma se ce l’hai non piena abbastanza va meglio. E così via.
Così ordiniamo. Beviamo. Mangiamo. Ci carichiamo per la giornata. Parliamo. Intratteniamo rapporti sociali per un’ora senza cellulare. Quando mi alzo e vado a pagare. Sto giro toccava a me.
Prendo pago. Stiamo per andare via, quando la titolare del bar mi dice: “per caso hai qui con te un tuo libro da vendermi?”.
Io le dico sì certo. “Voglio la dedica“, mi dice lei.
Le faccio la dedica. E i soldi che praticamente io le avevo dato per la colazione in parte me li restituisce.
Ottimo penso. Io ci ho guadagnato. Lei anche. Io ho venduto un libro. Il verbo si diffonde. Lei ha avuto gente nel suo locale. Le persone sono contente. Si sentono soddisfatte. Si sparge la voce. Il mio libro finisce su qualche scaffale. La sua gelateria caffetteria finisce nelle bocche di qualche altro. Che alla fine ci andrà.
Poi. Poi esco. Mi saluto con gli amici. E mi ricordo che devo andare in negozio a comprare il bagnoschiuma perché l’ho finito.
Entro. Scelgo il doccia schiuma. Vado in cassa e vedo che ci sono dei bellissimi libri da colorare. Cacchio dico. Ne prendo uno per mia nipote. Sì ok è piccola ma mi hanno detto che l’altro giorno si divertiva con i colori. Farà quattro scarabocchi ma è qualcosa di nuovo, anche quelle sono opere d’arte.
Così prendo. Compro anche il libretto da colorare e un terzo dei soldi del mio libro me lo spendo.
Ecco.
Questi sono gli effetti del nostro libero scambio. Della fortuna di avere un lavoro. Della libertà nei movimenti. Negli spostamenti. Questi sono gli effetti della fortuna di vivere in un Paese dove ti puoi trovare a fare colazione, dove se chiedi il latte macchiato ma non troppo te lo portano – non come in altre parti del mondo dove non c’hanno nemmeno i copertoni delle auto e per colazione mangi peperoni.
Questa è la fortuna di vivere in un Paese che se vai al supermercato ti dà la roba da mangiare. Che se cerchi un bagnoschiuma lo trovi. Che puoi anche far felice tua nipote con un libro da colorare.
Perché gli effetti del Coronavirus saranno devastanti.
Hai voglia a dire che è una semplice influenza. No. Perché in una condizione normale, e dovremmo almeno un po’ continuare a farlo, la gente al mattino va al bar a fare colazione. Non teme di prendere un contagio perché tocca le maniglie delle porte.
La gente si ritrova. Parla. Socializza. Sta più contenta.
Perché andando al bar a fare colazione si sta tutti assieme, si fanno guadagnare i commercianti, si fanno rivivere i centri. La merce arriva. I fornitori anche. Se si blocca tutto è un casino.
Grazie alla colazione puoi vendere un libro. Un libro reso possibile perché nel nostro cazzo di Paese possiamo muoverci. Perché sono andata a Bruxelles. Perché ho preso un aereo. Perché poi grazie a un lavoro sono entrata in contatto con una casa editrice di Roma, la Male Edizioni, che mi ha stampato i libri. Che me li ha fatti arrivare a Milano. Che uno dei miei capiredattori me li ha portati con l’auto.
In un Paese normale poi puoi anche entrare in un supermercato pieno e comprare un doccia schiuma prodotto a Padova, zona contagiata; un doccia schiuma che arriva in tutta Italia.
E puoi anche comprare un libro da colorare, arrivato con un volo o un corriere da una casa editrice dei Paesi Bassi, la Boek Specials Nederland, e stampato in India.
Ecco cosa puoi fare in un cazzo di Paese normale.
Vi auguro buon pranzo 🥙
#sbetti
#Coronavirus
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Ah ma la colpa è dei giornalisti. Fottetevi

E’ venerdì 21 febbraio quando sul mio cellulare ricevo un messaggio. Sono le 17.57. Il messaggio è uno screen shot inviatomi da una persona con l’immagine di Antennatre in diretta che dice: “+++ Coronavirus: 2 casi accertati in Veneto+++”. E’ l’edizione straordinaria. Io che in quel momento sono in auto, non vedo subito comparire l’immagine, mi appare solo la notifica “edizione straordinaria”. Così accosto, mi fermo un attimo, apro la notifica e leggo. Lì per lì non dico niente. Avviso la redazione e proseguo per la mia strada.
Tempo qualche minuto la redazione mi annuncia sessanta righe. Così comincio a informarmi, a raccogliere informazioni, a capire chi sono questi. Compongo il pezzo, scrivo, controllo, mando.
Sono due anziani, uno classe 1942 e un altro classe 1953. Entrambi trasferiti urgentemente al reparto Malattie Infettive dell’ospedale di Padova.
Da lì inizia a diffondersi il panico. Le chat su whatsapp iniziano a rimbalzare, la gente comincia a scriverti in privato: “scusa sai niente? Ma è vero?”, “Ciao, hai sentito di quei due casi di Coronavirus? Ma è vero? Sono gravi?”, “Ciao Sere scusami, per caso riesci a darci notizie? Qui siamo abbastanza preoccupati”. Non vi dico le chat dei gruppi dei paesi. Oddio è arrivata anche qua. Oddio adesso cosa facciamo.
Perché c’è una cosa, prima della morte, a cui non può sfuggire nessun essere umano. Ed è la paura della morte stessa.
Insomma arrivano le undici e mezza di sera quando vedo una chiamata al telefono. E’ la redazione che mi comunica che uno dei due anziani è morto. Il primo morto italiano di Coronavirus. Così mi attivo, scopro chi è. Si chiama Adriano Trevisan, c’ha 77 anni ed era già ricoverato all’ospedale di Schiavonia per delle patologie pregresse.
Via, si rifà il pezzo, si aggiorna. Si cambiano le pagine. Le dita dei redattori in redazione corrono alla velocità della luce. Il tempo avanza secondo dopo secondo. Si corre all’impazzata per fare un Giornale che sia il più aggiornato possibile.
Il pezzo è impaginato. Si rimanda in stampa.
La gente non va a dormire. Le chat continuano a suonare. Tutti vogliono sapere.
Il giorno dopo. Il giorno dopo cambia tutto. L’Italia si sveglia con l’ansia.
A tutti prende il panico. La vita rimane sospesa. Aggrappata alle notizie sui social. Agli ammortizzatori, agli effetti placebo. L’eterno dualismo. Qualsiasi cosa è buona per diffondere il panico. Qualsiasi altra per attenuarlo. “Ah ma sono morti gli anziani”, ti diranno. Come se gli anziani fossero degli altri. Fossero cosa non nostra.
E poi. Poi un’escalation di contagi. Diciassette morti. Le istituzioni che si riuniscono. Le conferenze stampa. Le riunioni urgenti. Gli immediati ricoveri. Gli ospedali da campo. Nei reparti si svuotano perfino i cadaveri. I politici corrono. Le task force. I dottori si mettono in moto. Si eseguono tamponi. Si comprano mascherine. Si invitano gli italiani a fare attenzione. “Non uscite dal paese!”, grida il sindaco di Vo’ Euganeo.
Il primo paese “colpito” in Veneto.
Passano tre giorni e si comunica la chiusura delle scuole. Il blocco degli eventi. L’interruzione di tutte le manifestazioni. Perfino il Carnevale di Venezia viene sgozzato. Le prenotazioni negli alberghi colano a picco. In alcune zone del Veneto si arriva a meno 90 %. Irreparabile. I danni sono devastanti. Le altre regioni chiudono. L’Austria blocca i treni provenienti dall’Italia. Ma passa qualche ora e revoca la misura. A Venezia fa sapere l’Associazione Veneziana Albergatori, le disdette arrivano al 40%. Ad Abano Montegrotto superano il 35%, per perdite di 100 mila euro al mese. La gente comincia ad andare a fare la spesa. I supermercati vengono svuotati. Si chiudono i locali. Si chiudono i negozi. Anzi fino alle 18 in un bar ci puoi andare dopo no. Come se il virus fosse il lupo nero che esce solo di notte. A Vo’ arriva l’esercito schierato. Mitra spianati. Mascherine. Per evitare la psicosi li si mettono proprio fermi dritti impalati. Nessuno entra. Nessuno esce.
Per arrivare a ieri, dopo tutto questo casino, a incazzarci se ci trattano da appestati. Israele chiude. Stop anche dall’Alto Adige. Giamaica e Cayman chiudono i porti ai croceristi. L’Europarlamente mette in quarantena i veneti. Il Sei Nazioni che ferma l’Italrugby.
Ecco e per arrivare a oggi quando leggo che occorre ridimensionare l’informazione. Che saranno comunicati solo i casi gravi e i decessi. Ma che potrebbe esserci un aumento dei contagiati.
Perché dopo che voi fate tutto casino da ridurre l’Italia con le pezze al culo e dopo che noi raccontiamo, la colpa è sempre dei giornalisti, soprattuto di quelli seri, che scrivono ciò che vedono. E si informano.

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Noi che abbiamo sempre accolto tutti

A me sta minchiata del “così imparate a sentirvi emarginati anche voi”, mi sta facendo girare di non poco le palle.
Noi che abbiamo sempre accolto tutti.
Noi che dentro i campi di accoglienza (visto io con i miei occhi) ci abbiamo portato zecche e tubercolosi. Noi.
Perché allora adesso vi racconto una cosa.
Oggi per andare a Vo’ Euganeo ho dovuto scaricare chissà quale app per trovare una piantina che mi consentisse di arrivare in culo al mondo. Fino a ieri ci si arrivava.
Ma oggi dalle mappe dell’iPhone, Vo’ Euganeo era praticamente sparito.
Un buco nel nulla.
Un centro del mondo ricordato solo dal Coronavirus.
Come vedete dalla foto sotto infatti, le indicazioni stradali non erano disponibili a causa delle condizioni di viabilità. Cioè sparite. L’hanno fatta sparire pure dalle mappe.
Non solo, ma quando ho trovato una mappa decente, ecco questa a ogni curva mi diceva: “potrebbero esserci condizioni variate”, “strada interrotta”, “pagamento pedaggio”, “le indicazioni stradali non sono più visibili”, così una volta arrivata in cima sono andata a naso. Una volta arrivata al “confine” mi sono trovata davanti a un blocco stradale del genere. Militari schierati come fossimo in guerra.
Di blocchi così a Vo’ ce ne stanno dieci. Dieci. Così ho parlato con loro. Ho fatto due tre riprese. E sono andata dall’altra parte.
E il sindaco Giuliano Martini mi ha detto una cosa. “Sai – mi ha detto – sono molto preoccupato perché nel giro di mezz’ora due miei cittadini mi hanno chiamato perché stanno ricevendo delle discriminazioni. Uno doveva andare in un hotel per lavoro, negativo al test, e non lo vogliono. Un altro nome non riesce a tornare al lavoro serenamente perché la gente ti sta distante. Ti guarda male. I miei cittadini – ha continuato – stanno ricevendo una discriminazione enorme e questo non è giusto”. Già no.
Ma poi, poi leggo commenti di qualcuno che dice che almeno adesso gli emarginati siamo noi. E che ci sta bene. E che impariamo cosa voglia dire.
Noi.
Noi che abbiamo sempre accolto tutti. Noi che anche quando dovevamo essere sospettosi non lo siamo stati. Noi che abbiamo messo in quarantena gli italiani. E non quelli di ritorno dalla Cina che avrebbero dovuto.
Noi.
Una mia amica è ripartita lunedì mattina per Londra e all’Università dove lavora l’hanno messa in quarantena, perché proveniva dall’Italia. Anzi dal Veneto.
Idem per qualche altro. Il lavoro si è fermato. L’economia sta sotto terra. I fornitori non portano le merci. I supermercati sono vuoti. Devo prenotare un treno e mi chiedo se posso andare al di là delle Marche.
Cioè anche se uno non c’ha niente, anche se uno è negativo, ti mettono in isolamento, per prevenzione. Per precauzione.
Quando noi nemmeno nei commissariati di polizia, quando sbarcavano i migranti dalle navi, abbiamo avuto prevenzione.
Li ho visti io i migranti scendere con profonde ferite alle braccia e alla gamba. E lì bastava un contatto e sarebbe potuto succedere qualsiasi cosa.
Allora ora bene la prevenzione. Le misure sono d’accordo. L’attenzione. Tutto quello che si deve fare per garantire la salute dei cittadini.
Ma per favore. Per favore.
Per favore non venitemi a dire che ci sta bene, che almeno apprendiamo cosa voglia dire accoglienza, perché per anni ci avete propinato un’accoglienza di merda che nemmeno i polli al mercato avrebbero meritato un simile trattamento.

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