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Cercasi camerieri: ma gli annunci sono da fame

Qualche settimana fa passavo lungo la via Bafile di Jesolo, una delle vie piu lunghe d’Europa con alberghi locali negozi ristoranti, e non ho potuto fare a meno di notare come ogni due metri ci fosse un cartello con scritto “Cercasi personale”. Ve ne posto qui solo alcuni, perché in realtà ce ne sarebbero molti altri.
Così dopo qualche giorno ho provato a chiamare rispondendo ad alcuni annunci e vi giuro, dinanzi alle offerte, mi sarei levata le palle, che non ho.
Uno mi ha proposto una prova con un contributo, un piccolo rimborso spese, senza vitto manco alloggio, e un “se sei brava, magari investiamo su di te”.
Un altro mi ha detto che avrei dovuto lasciare il mio curriculum, e che l’orario di lavoro andava dalle otto del mattino, a oltranza – qui sai – questo lavoro è così – non puoi tenere famiglia -. La paga? 1500 euro al mese. Il costo dell’affitto? A mio carico ovviamente.
Un altro ancora mi ha detto che intanto cominciavamo, in nero si intende, e che per il prezzo eravamo “intorno” – dico intorno – intorno a cosa? Imbecille. Ecco intorno ai 6 – 7 euro, ma che “ci possiamo venire incontro”. Solo una, di quelli chiamati, mi ha risposto che era tutto regolare tramite contratto.
Così sono andata a parlare con dei titolari che conosco e mi hanno detto che sì, effettivamente loro non trovano personale nemmeno quest’anno. Uno che prende la tizia e la tizia non si presenta. Un altro che dice che si presentano tutti svampite. Un altro ancora che ha problemi perché qualsiasi giovane a cui fa il colloquio, dopo un po’ gli chiede: “Scusi ma il fine settimana sono libero?”. La verità è che, non me ne vogliano gli onesti (perché ce ne sono!), in questo mondo della ristorazione, c’è ancora tanta merda in giro. Di gente non ancora strutturatache tira a campare pretendendo di fottere gli altri. Perché va bene la gavetta, quella l’ho fatta pure io, ma i giovani fortunatamente si sono svegliati e non rinunciano ai propri sogni per soddisfare quelli degli altri.
Non si può far lavorare un ragazzo sette giorni su sette, 15 ore al giorno, e pagarlo 1200 euro al mese. Così come non si possono pagare i camerieri 5 euro l’ora. Così come non si possono prendere per il culo bengalesi e indiani (perché tanto non parlano l’italiano e poverini hanno bisogno) e metterli a spazzare le scale o a pulire i cessi in notturna dandogli sempre 6 euro l’ora. Perché basta. Insomma. È ora di finirla. Anche perché voglio dire, mi pare che bar e ristoranti si facciano pagare. L’altro giorno a Venezia sono entrata in un bar, perché dovevo fare la mia classica pipì, e un caffè, manco in centro, l’ho pagato 4 euro. Quando ho guardato la titolare e le ho fatto capire che avrei gradito lo scontrino, questa mi ha perfino guardato male. Un primo, in un ristorante del menga, costa 36 euro. Una colazione in un bar marcio di un paese costa 13 euro. E poi se chiedi di venirti a pulire i tavolini, i “dipendenti” – alcuni non saranno manco in regola – storcono pure il naso. Ma tanto son pagati talmente poco che i tavolini io li farei leccare ai loro titolari. Anche perché hanno aumentato tutti. Tutti. Chi il caffè. Chi la pizza. Chi ti porta 4 verdure in croce – giuro mi è successo in centro a Treviso – e te le mette in conto 6 euro, e quando chiedi se son fatte di oro, ti rispondono che “non possiamo farci niente, verdura e frutta poi, hanno aumentato tutto”. È per questo che mi incazzo quando leggo storie come quella di oggi, dove a Pordenone una tizia sono 20 anni che lavora in cucina e da 20 anni viene pagata 4 euro l’ora. Vergognatevi. Ma poi mi raccomando. Poi riempitevi la bocca. Poi continuate a dire: “I gggiovani non vogliono lavorare”. No i giovani si son svegliati. Non sono di certo coglioni come chi li sfrutta.

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C’è tutto un sottobosco di guardoni per quelle che non pagano le tasse

Soldi facili come loro. Guadagni vertiginosi come i loro tacchi. Profitti da capogiro come la testa che fan girare agli uomini.
Signori benvenuti nel nuovo regno del porno. Il paradiso dei vecchi. Degli stagionati. Antichi. Decrepiti. Decrepiti dentro.
Sono tornata a indagare il mondo delle escort e stavolta anche delle influencer che fanno soldi su Onlyfans. Correva l’anno 2016 e ancora il mondo non poteva sapere a quali cataclismi e drammi sarebbe andato incontro nel 2020 e così Tim Stokely si metteva in testa la sua meravigliosa idea.
Perché non creare una piattaforma per pubblicare contenuti di varia natura.
A chiunque chiedi come sia nato Onlyfans ti risponde sempre con sta menata colossale delle ricette solo che dopo, le ricette sono diventate bocconcini di panna montata che mostrano le tette, capezzoli turgidi in bella vista, mone al vento, culi in sovrimpressione. Gente che scopa. Gente che va. Gente che viene. In tutti i sensi. Durante la pandemia poi non ne parliamo.
I cornuti e le cornute, costretti a stare in casa, dovevano pur trovare un modo per sprofondare sul divano e costruire una realtà virtuale collettiva, sprofondando e immaginando una vita immaginaria e digitale. Lo sprofondo dello sprofondo.
Chi già trombava poco ha trovato un oppiaceo in questo disturbato marchingegno dove devi digitare un indirizzo mail, inserire i dati della tua carta di credito – l’ho fatto per lavoro – e non appena ti connetti con una – mi sono spacciata per un uomo – ti compare il messaggino vocale sensuale e suadente che dice: “Ciao, hai voglia di conoscermi un po’? Ho un po’ di tempo da dedicarti”. Dopo il primo pompino virtuale praticamente la tipa ti chiede di aprire una foto per la bellezza di 35 dollari. Se la apri il giochino va avanti, altrimenti risprofondi nel divano in cerca di un altro culo.
Solo che così la gente dopo la pandemia ha smesso di trombare e a suon di foto che si aprono e di pompini fatti senza sudare ha detto: sai che c’è. C’è che se posso scopare stando a guardare culi e tette che mi appaiono davanti come fossero caramelle in una bancarella di dolciumi, al diavolo anche trovarsi, spogliarsi, baciarsi, accarezzarsi, amarsi.
La gente, così, ha smesso di amare veramente e trova sollazzo in queste cose adatte a un mondo di masse ormai apatiche scontente infelici fiacchi indifferenti. Ma le giovani regine del sesso spinto, nel mondo reale, ahimè, si sono dimenticate di pagare le tasse. Non hanno dichiarato i soldi percepiti al fisco – e sono tanti – ed è scattata l’indagine. L’accusa è di maxi evasione.
Quando ho parlato al tel con una delle indagate, questa mi ha risposto che ha sbagliato il commercialista e, insomma, “ma quale maxi, sono stati dati numero a caso!”.
Un business quello di Onlyfans che muove 5,6 miliardi di transizioni l’anno. Perché al di là delle ragazze che si spogliano nude, c’è tutto un sottobosco fatto di gente morta, di anime castrate dalla depressione, di esseri mostrificati da questa vita poco vissuta, che stanno lì a guardare. Ed è la legge più antica del mondo: dove c’è l’ offerta c’è anche la domanda.
Un mondo di guardoni che magari la mattina dopo te li trovi al bar incravattati.
A cui dirai: “Hai sentito di quella indagine su Onlyfans?”.
“Che brutta cosa”, ti risponderanno.

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Mestre: un quartiere in mano agli stranieri

Una laterale di via Piave

Davanti a me ci sono cinque uomini. Cinque africani. Uno sta dietro al bancone del bar. Gli altri quattro siedono su dei tavolini luridi unti bisunti e malconci. Sono lerci di untume e di grasso. Non mi fido a entrare. Cerco un bagno. Ma decido di andare nell’unico hotel che offre una garanzia di sicurezza e una parvenza di normalità. Sono a Mestre. Zona stazione. Quartiere Piave. Nel bar con i tavolini luridi unti bisunti e malconci. Lerci di untume e di grasso, fanno pure le insalatone. Ci stanno due tabelloni fuori con scritti gli ingredienti e i prezzi che a guardarli – gli ingredienti – mi viene male. Chissà se qui fanno i controlli penso. Poco più in là ci stanno due spacciatori. Spacciano. Cercano clienti. Li vedi che hanno gli occhi guardinghi. Procedono con passo felino. E lanciano occhiate agli altri due che fan da vedette. Funziona così qui. In pieno centro. Con un quartiere totalmente in mano agli stranieri. Percorro via Piave una due tre volte, avanti e indietro indietro e avanti. Qui i negozi italiani, quei pochi coraggiosi e temerari, li conti sulle dita di una mano. Gli altri sono tutti pieni di immigrati. Bengalesi. Africani. Cinesi. C’è il negozio di elettronica che parla mandarino. Il negozio di vestiti che veste China. Il parrucchiere bengalese. Il negozio di souvenir di Venezia che di Venezia non ha nemmeno il nome. In giro si vedono uomini con il turbante in testa. Donne velate che procedono passo passo con infilati addosso orrendi sacchi neri. Ci sono ragazze che indossano occhiali da vista moderni, scarpe alla moda, jeans, ma sopra sono ricoperte da quella stoffa che pare tanto una tenda. Ci sono i bar tenuti da nordafricani. Dentro non ci entra nessuno. Se non loro. Una donna africana con la tuta rosa e un borsone esce da un locale, sta gridando al telefono con qualcuno. Blatera qualcosa che non capisco. Poi le si avvicinano altre due donne. Anche loro di colore. Anche loro con quel volto perso nel vuoto, incapaci di vedere un futuro. Accanto mi passa una ragazza bionda. Bella. Alta. Dell’Est. Indossa un piumino corto. Jeans larghi e una borsa di stoffa con dentro dei libri. Alcuni ragazzini sfrecciano in bicicletta ficcandosi in alcune vie laterali. Entro da un tabacchino per prendere le sigarette ma la donna, che non capisco se sia thailandese, peruviana, o cosa, non mi ascolta. È troppo intenta a parlare e urlare al telefono, che quando le chiedo “Rothmans slim” per favore, mi dice che non ci sono nemmeno. In realtà sono dietro al bancone. Qui si consuma il suicidio di civiltà dell’uomo. Vite ai margini, esistenze sul bordo di una finestra che dà sul vuoto, sguardi persi, defraudati esclusi, masticati dalla vita e dalle promesse di un futuro migliore. Sono quelle persone che vivono nell’ombra, in una città in cui cresce l’indifferenza.

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“Prima almeno fammi pisciare”

Udine centro

“Prima almeno fammi pisciare”.

Entro in un locale a Udine che saranno le quattro del pomeriggio. È appena uscito il sole e vedo gente in maniche corte. Come è bizzarra la vita. Esci di casa col temporale, con l’acquazzone che non lascia scampo nemmeno ai tombini che si riempiono tutti, e ti ritrovi dopo qualche ora e qualche madonna di troppo col sole primaverile che quasi spacca le pietre. Qui la gente ha già iniziato a fare l’aperitivo. “Ci sarà un motivo” mi disse una volta uno dei miei più cari amici che fa il medico “se le cliniche per i trapianti di fegato sono tutti al nord. Sarà che i beoni sono tutti lì”. “Può essere”, gli avevo risposto. Ma all’epoca ancora non mi interessavo dei risvolti sociologici della città. Detta tra noi. Me ne sbattevo altamente il cazz. E vivevo meglio. Insomma vedo sta gente che alle quattro del pomeriggio di pieno lunedì fa l’aperitivo che si preannuncia bello lungo. Ordino un caffè. La troupe anche. E mi infilo un attimo in bagno. Con la coda dell’occhio continuo a fissare quella ragazza che mi sta dietro e che continua a guardare lo schermo del telefono con davanti un bicchiere di rosso. Sembra abbarbicata qui da tempo. Ha le labbra carnose. I capelli che le cordonano il volto. Una salopette di jeans. E sotto indossa una maglia gialla. Che tristezza penso. Qualunque sia il motivo del suo essere così da sola, così davanti a quel vino rosso, credo non ne valga la pena. Soprattutto se fosse un lui. Vorrei andarglielo a dire ma la mia discrezione per le storie degli altri mi impone di rimanermene zitta. Vado in bagno e ci sono quelli con la turca. Dopo di me entra un padre con il figlio e veramente non capisco come faccia a farlo pisciare lì. Esco dal bagno e all’improvviso la gente inizia ad arrivare a frotte. Non capisco nemmeno dove vadano. Chi ordina un prosecco. Chi un rosso. Chi uno spritz. Chi pane salame e quant’altro. Davvero non capisco come facciano a mangiare e bere tutto quello e sono solo le quattro del pomeriggio.

Un uomo fuori, con la pancia da birra, si è appena levato la felpa. Ora boccheggia in maniche corte tracannando vino bianco a più non posso. Un altro indossa un cappello e mi pare già abbasta su di giri. Mi avvio verso la stazione dei pullman. Sono qui che stanno le baby gang. Così le chiamano gli studiosi dei fenomeni sociali che etichettano le persone, funziona un po’ così. Li prendi e li incaselli dentro a dei riquadri e poi vedi se hanno le stesse caratteristiche. Ma di baby questi, non hanno proprio niente. Catene ai Jeans. Orecchini. Capelli tirati. Laccati. Accenti a noi sconosciuti. Parole in arabo. Dove non capisci una mazza. Appena mi avvicino a un ragazzo questo si alza in piedi e mi dice: “Scusi, scusi”. Cacchio penso devo fare proprio così paura. Così mi raccontano che sono egiziani. Che vivono in comunità. Che vogliono i documenti. Che stanno dentro la casa accoglienza. Ma che vogliono andarsene per lavorare e fare soldi. Poi ci sono i tunisini. Qui fanno le risse quasi ogni giorno. Faccio un giro, paro con gli autisti degli bus. Con i controllori. Le persone. I pendolari. Quelli che vanno a lavorare. Quelli che tornano dallo studiare. La gente ha paura. Torno indietro. I ragazzini si sono messi difronte a me. Urlano qualcosa in arabo che con tutta la mia più buona volontà fatico a comprendere. In questa babele di lingue mi viene in mente quell’altro. Quell’altro di prima. In dialetto stretto: “Prima almeno fammi pisciare”.

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Bologna, la Dotta: qui lo spaccio è a cielo aperto

Bologna febbraio 2024

La tipa che mi sta davanti ha la gola tagliata. Si muove con fare spagnolesco e continua a ripetere che dentro di lei c’è un mostro. “C’è un mostro dentro di me”, farnetica in preda alla droga e ai fumi dell’alcol. “Guarda la mia gola tagliata”, fa a quell’altro che gli sta davanti in piedi. Lui indossa una pelliccia marrone fino ai piedi. Lei indossa un giubbino nero e quando va a testa in giù per scacciare il mostro, il giubbino le copre la testa, le scopre la pancia e lì inizia la sua danza. Comincia a roteare e inarcare il corpo e poi ad avere una specie di convulsione che non riesco a capire bene, perché avvicinarmi pare impossibile. Fino a due minuti prima si stavano cucinando il crack, lì in pieno centro, in pieno giorno, in una laterale di via Zamboni, il cuore della città universitaria di Bologna. Mi fermo a parlare con qualche residente e becco due genitori che sono andati a trovare la figlia. La figlia studia qui a Bologna. I genitori vengono dal Sud, cari i genitori che fanno studiare i figli, e mi dicono che sono qui in trasferta. La madre mi dice che non sembra una zona tranquilla, la figlia invece, capello corto sbarazzino orecchino al naso e alla bocca, molto più aperta e globalizzata mi dice che sì, che non c’è niente di male, che alla fine quei due sono due persone senza tetto che hanno solo bisogno d’aiuto.

L’aiuto, chi glielo dà l’aiuto. Viviamo in un mondo dove tutti sono pronti a farsi i cazzi degli altri, ma se sei un poveraccio e tiri a campare, per la società sei un rifiuto, un fallimento, un morto di fame e meriti di fare la vita che fai. Che pena questo mondo così schifoso. Faccio due metri e mi ferma un ragazzo di colore. Vuole vendermi fumo, roba, maria, hashish, droga, coca. “Come – gli dico – così qua a cielo aperto, voi spacciate?”. Mi sembra di essere Salvini, non ci voglio manco pensare, e quindi con fare più accomodante gli chiedo se fanno così tutti i giorni. Mi risponde: “Sì, certo”. “Ma sempre?”, “Sempre”. Gli dico che non voglio niente. Accanto a noi ci sono due ragazzi che suonano il djambè, quel tamburo a calice che usano in quei Paesi tipo Mali, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal. Le mani che battono sopra il tamburo, una canna, la droga che scorre a fiumi e quelle bottiglie di birra che si ammucchiano a ogni minuto. Una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Mi incammino verso i portici della zona universitaria, qui siamo nel cuore di Bologna, la Dotta. Ma faccio cinque passi che mi ferma un ragazzo. “Fica, fica, fica”, comincia a dirmi. E un altro. “Dove vai? Vuoi fumare? Vieni qua”. Dopo un po’ decido di andarmene e mi trasferisco in zona stazione. Le sentinelle dello spaccio sono a ogni dove. Si muovono con fare felino, furbo, a tratti perfino mansueto. Qualcuno ti ferma per venderti hashish. Venti, trenta, quaranta, cinquanta euro. Qualche altro per venderti maria. Qualche altro finge che sia tabacco e ti chiede se vuoi fare un tiro. Poi, mentre mi addentro in un parchetto isolato, al buio, con la scorta che mi controlla da lontano, incrocio un ragazzo e mi ci fermo a parlare. Mi dice che lui non ha i documenti, che è irregolare, che non trova lavoro se non lavorare in nero. “In nero? E lo trovi il lavoro in nero?”. “Certo che lo trovo”, mi dice. “Trovo sempre qualche giardiniere o qualche muratore o qualucuno che monta scale che mi dà da lavorare”. Eccoli penso. Eccoli i farabutti del lavoro. Quelli che gli immigrati non li vogliono, ma che se serve loro per evadere il fisco allora vanno bene anche gli stranieri, meglio se non parlano italiano così almeno possono sfruttarli meglio.

Poi poco più in là ci sta un tipo. Mi parla in arabo. Grazie alla scorta riesco a capire che voleva vendermi roba grossa, tagliata fina, roba buona, dama bianca, polvere sottile. Sullo sfondo una banda di ragazzini ha cominciato a fare casino: “Arrivano i serpenti”, dicono. “Arrivano i serpenti”. I serpenti per loro sono i poliziotti. Uno mi si avvicina. Mi chiede se sono una sbirra. Ormai si è fatta notte. È sceso il buio. Mi guardo attorno, la città si è dissolta lasciando posto ai colori notturni e ai luccichii di quelle poche auto rimaste che si specchiano sulle pozzanghere della pioggia appena caduta. I lampioni smorzano la luce, le luci delle case a poco a poco si spengono. In giro rimangono soltanto loro. Senzatetto, tossicodipendenti, sbandati, persone a cui la vita non ha ancora concesso un riscatto. E noi. Qui a riprendere e documentare. Mi volto, mi guardo in giro, mi accendo una sigaretta. Sono tesa. Il giorno dopo devo andare a incontrare lo stupratore, ma questa è un’altra storia…

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“Se mi lasci ti rovino”

Bologna centro

“Se mi lasci ti rovino”.

Sta scritto in una via centrale di Bologna.

L’ho visto sto cartello per puro caso mentre dopo aver girovagato per ore, cercavo un bar dove poter andare in bagno e dove bere un caffè che non mi facesse dormire.

Ci sono venuta a Bologna per raccontare il tentato stupro di quella ragazza studentessa universitaria che la notte del 6 febbraio scorso è stata aggredita in pieno centro da un richiedente asilo somalo che ha tentato di violentarla. Lui poi l’hanno rilasciato ma siccome la figura di merda era tanta, allora hanno deciso di rimetterlo dentro.

“Se mi lasci ti rovino”, sta scritto nelle nostre strade dove le donne vengono aggredite.

“Se mi lasci ti rovino”, sta scritto nel bel mezzo di una strada a caratteri cubitali su sfondo rosa.

In un mondo dove ogni settimana ormai contiamo un morto. L’ultima a Padova, si chiamava Sara Buratin. Anche lui non “accettava la fine della relazione”. Come il caso delle altre due donne, madre e figlia, a Cisterna di Latina.

Come se la fine di una relazione debba essere accettata.

Ancora questa grave mancanza di rispetto delle parole. Come se la fine della relazione implicasse quasi una sorta di benestare, di nulla osta, di accettazione.

Lui non accettava la fine della relazione. E lui ha fatto fuori la madre di lei, la sorella, e ha risparmiato la sua ex.

Era un maresciallo della guardia di finanza Christian Sodano. “La faccia da bravo ragazzo”, hanno detto. Quale bravo ragazzo.

Dietro a queste storie si nascondono mostri, fantasmi, maniaci, pazzi criminali. Dietro a queste storie si celano le più grandi turbe dell’essere umano incapace di bastare a se stesso e di stare da solo.

Lui prima ha ucciso la mamma della ex, Nicoletta Zomparelli, poi non contento ha finito con due colpi di pistola la figlia di Nicoletta, ossia la sorella della ex, Renée Amato, “perché – ha detto – si muoveva ancora e non volevo che soffrisse”. La sua ex invece l’ha risparmiata perché si è chiusa in bagno. Ma lui, una furia vivente, ha tentato di raggiungerla anche in bagno. Lei è fuggita allora in camera della sorella, è uscita dalla finestra fuggendo in mezzo ai campi. Nel frattempo madre e sorella erano già morte. L’altro giorno un servizio al telegiornale faceva così: “Lui non ha pianto”. Grazie. Ci mancherebbe.

“Lui non accettava la fine della relazione”. “Lui aveva la faccia da bravo ragazzo”.

“Se mi lasci ti rovino”, sta scritto nelle strade di questo pianeta quando ogni giorno raccontiamo storie di donne ammazzate o maltrattate. Quando ogni giorno raccontiamo storie di donne che per essersi ribellate o per voler essere libere pagano con la vita il prezzo della loro libertà. Anche a Cisterna di Latina.

Lui era uno di quelli: “Se mi lasci ti rovino”.

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Arriva l’app anti aggressioni

Un incontro fortunato in stazione a Bologna. Così all’improvviso. Senza saperlo. Fermo due ragazze perché sto facendo un servizio sulla sicurezza. E scopro che una delle due Isabella Grazioli, con il suo fidanzato, si è inventata un’app anti aggressioni.
Lei è un vulcano. Un portento.
Perché immaginate di essere da soli, di sera, in giro per una città come Milano.
Ma potrebbe essere anche Padova, Bologna, Vicenza, Firenze, Roma.
Qualcuno inizia a seguirti e tu non sai cosa fare.
Il respiro che si fa affannoso.
Il cuore che comincia a pulsare a mille. Il passo che aumenta. E la paura che si trasforma in panico. In quel momento vorresti urlare, chiamare aiuto, far sapere a qualcuno dove sei, ma dove? Nelle situazioni di pericolo non sempre si riesce a mantenere la lucidità. Ma soprattutto come fai a chiamare? Ti metti a scorrere la rubrica del telefonino con le dita che tremano?
Basterebbe premere un pulsante che facesse sapere in tempo reale alle persone la tua posizione, di modo che qualcuno ti possa venire a salvare. Esiste. Veramente.
L’idea è di una coppia di Vicenza. Isabella e Vittorio Trettenero. Ed è un’app @imnotscared.app…
Io l’ho scaricata. E funziona veramente.
Perché “Tutte e tutti abbiamo il diritto di sentirci al sicuro”… Può capitare a chiunque, donne, uomini, di trovarsi in una situazione di pericolo…
Il mio pezzo oggi su Libero

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Sei per strada e sei in pericolo, chi chiami? Che fai? Immagina di essere da sola, o anche da solo, di sera, in giro per una città come Milano. Ma potrebbe essere anche Padova, Bologna, Vicenza, Firenze, Roma. Qualcuno inizia a seguirti e tu non sai cosa fare. Il respiro che si fa affannoso. Il cuore che comincia a pulsare a mille. Il passo che aumenta. E tu che temi il peggio. In quel momento vorresti urlare, chiamare aiuto, far sapere a qualcuno dove sei, ma dove? Nelle situazioni di pericolo non sempre si riesce a mantenere la lucidità. Ma soprattutto come fai a chiamare? Ti metti a scorrere la rubrica del telefonino e con le dita che tremano cerchi il numero di qualcuno? Basterebbe premere un pulsante che facesse sapere in tempo reale alle persone la tua posizione, di modo che qualche buon’anima ti possa venire a salvare. Impossibile? No assolutamente.  L’idea è venuta a una coppia di Vicenza, lui e lei. Coppia nella vita, anche. Lei 24 anni, si chiama Isabella Grazioli. Lui di anni ne ha 25 e si chiama Vittorio Trettenero. Un giorno – era il luglio 2022 – raccogliendo le olive, si son fatti venire in mente un qualcosa che potesse aiutare le persone in caso di pericolo. E a quell’idea hanno dato un nome e una forma. 

Si chiama “I’m not scared”, che tradotto vuol dire “Io non ho paura” ed è un applicazione già disponibile. “Io e il mio ragazzo – spiega Isabella a Libero – continuavamo a sentire storie di violenza nella nostra città, la donna che andava a passeggio e veniva aggredita, quello che andava a correre e veniva seguito, chi andava a portare a passeggio il cane e veniva molestato, ma sempre ne sentivi, di continuo, di giorno, di sera, di notte, così volevamo creare un qualcosa che potesse essere utile alle persone perché quando senti così tante storie di violenza nella tua città cominci a farti qualche domanda e abbiamo creato questa applicazione”. Ma come funziona. 

Io l’ho scaricata e funziona veramente. Praticamente si scarica l’app dall’App Store. A marzo sarà disponibile anche in Android. Ci si registra. La registrazione è gratuita. Si inseriscono il numero di telefono, il nome, il cognome, l’indirizzo mail e da lì si aggiungono i contatti delle persone a noi vicine che si vorrebbero avvisare in caso di pericolo, quindi per esempio la mamma, il babbo, lo zio, il fidanzato, la morosa, l’amica e perché no anche l’amico palestrato che in caso di pericolo possa difenderti. Da qui l’applicazione si apre, tramite la geolocalizzazione individua la tua posizione e sotto in basso compare un pulsante viola con la scritta SOS. “In caso di pericolo – mi spiega sempre Isabella – basta semplicemente schiacciare questo tasto Sos e l’applicazione manda simultaneamente un messaggio ai contatti che hai inserito con la tua posizione e fa partire contemporaneamente le chiamate. Le persone da chiamare le scegli tu, in base anche al posto dove ti trovi. Io ora vivo a Milano per esempio e ho inserito tutte le persone che potrebbero essermi d’aiuto nel caso fossi in pericolo”. 

Io ho provato, e in un nano secondo la chiamata alla mamma è partita veramente. Non solo, le è anche arrivato il messaggio di dove ci trovassimo in quel momento. “Prendo l’auto e arrivo?”. “No no tranquilla stavo facendo una prova”. Ok era un falso allarme ma di questi tempi può veramente capitare a chiunque. Basta farsi un giro per Milano, Bologna, perfino in pieno giorno non si riesce a camminare tranquilli senza incappare in qualcuno che ti voglia vendere droga fumo, o qualcuno che ti segua, che ti molesti, che ti aggredisca. 

E ultimamente, troppo spesso, si rischia anche di imbattersi con qualche delinquente che ti violenta. “Ma può capitare a chiunque – continua Isabella – non solo alle donne, anche agli uomini, tutti possono sentirsi in qualche momento in pericolo. Ma insieme possiamo fare la differenza”. E infatti il suo motto è proprio questo. Perché come spiega nel canale social relativo all’app (@imnotscared.app): “Tutte/i hanno il diritto di sentirsi al sicuro”. 

Cinque giorni fa Isabella ha intervistato un ragazzo di Milano, Lorenzo, il cui video è stato postato su Instagram, e gli ha chiesto se a Milano lui si senta al sicuro, sì insomma se gli è mai successo di tornare a casa la sera e di avere paura. “Anche se non ha mai vissuto esperienze spiacevoli – ha raccontato Lorenzo – ho amici che vivono verso il quartiere Certosa e che sono costretti a cambiare strada per evitare di essere importunati”. Se poi sia normale vivere in queste condizioni, questo è un altro discorso.

Serenella Bettin 

Libero 28 febbraio 2024
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Maledetto bastardo

Poi sei arrivato. E ti sei impadronito di me. Un virus. O chissà qualche altro epiceno virale senza sesso che si è infilato nel mio corpo e ci si è divertito un mondo.
Mai avrei potuto immaginarlo quando d’estate stavo sul balcone delle ferie a fantasticare le prossime storie da raccontare.
Prima, prima facevi un rumore strano. Uno strano bruciore. Me t’è cominciato come un bruciore in mezzo al seno, in mezzo ai due seni. Hai presente lì, lì in mezzo. Lì proprio lì dove punta il seno. Dove ho il tatuaggio.
Non all’altezza del capezzolo. Ma poco più giù sopra l’ombelico.
Sono arrivata a casa dal montaggio quel giorno e ho cominciato a sentire un bruciore lì in mezzo.
Ma non era un bruciore costante. Era un pizzichio. Un fragorio. Un bizz a intervalli. Come una cimice che sta morendo e che ogni tanto emana gli ultimi ronzii di vita, tu già ronzavi dentro di me.
Poi sei arrivato. Ed è stata quella sera.
E lì mi è andato via l’appetito. Lì m’è t’è preso un cappio sul collo che giuro era impossibile da togliere. Ho provato ad appoggiarmi al divano. Alla stufa. Sono uscita fuori a fumare una sigaretta. Ma niente. Il cappio continuava e già non avevo più fame. Così ho preso, mi sono accesa l’ennesima sigaretta. Mi sono fatta una camomilla. E sono andata a letto.
Ma dormire era praticamente impossibile. Tu non andavi né giù. Né su. Te ne stavi lì. Pronto a esplodere. E sei esploso.
La notte hai cominciato a fare il vigliacco. A correre. Correre su e giù per il mio corpo. Prima su. Poi giù. Poi di nuovo su. Poi ancora giù e non mi lasciavi in pace. E più dicevo basta, più mi facevi star male.
Virus intestinale mi hanno detto.
Il giorno dopo. Il giorno dopo ero devastata. Distrutta. Sfibrata. Avevi preso tutto di me. Mi avevi voltata e rivoltata, ridotta come un calzino, che sembravo un tronco senza liquidi e senz’acqua. Hai presente? Hai presente quando prendi un giunco e ci togli la linfa? E questo si irrigidisce tutto e si secca.
Senza manco un ciuffo di muschio verde che cresce sul gomito dove ci sta l’ombra.
Mi avevi scarnificato fino all’osso, col mento rovesciato per terra, con le gambe risucchiate della penultima cellula di acqua presente nel mio corpo. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi. Ad andare in bagno. A parlare. La gente continuava a chiamarmi ma io non avevo nemmeno la forza di alzare il telefono. Le persone con cui dovevo finire di montare un servizio si sono arrangiate da sole. Ho mandato loro dei vocali che non ho ancora il coraggio di riascoltare. La mia voce sembrava quella di una che non parla da anni. Non mi hai fatto mangiare. Per fortuna però mi hai fatto dormire. E così per due giorni. Poi è arrivata la febbre. E da lì è ricominciata la spossatezza. Quando il medico mi ha visitato ha trovato la mia pressione a 50. Avevi scombussolato tutto brutto maledetto. E poi la pressione. La saturazione. E altre cose che ora non sto a qui dirti. Fino a che. Fino a che sabato non sono riuscita a venire in piedi autonomamente. Non c’era più il tuo bruciore sullo stomaco. Il tuo nodo in gola. La tua febbre che saliva. Tu che mi voltavi e rivoltavi. Ma c’eri tu che mi facevi sentire come in mare. In barca. Continui sbandamenti. Oscillamenti. E così è arrivato lunedì. Ora non oscilli più tanto, non sbandi più. Forse solo la paura. Ma so che te ne sei andato. Giù dentro al water. Come tutti i più grandi pezzi di merda.

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Dite Grazie. Il mondo è pieno di stronzi

Grazie. Lo vedevo cosi indaffarato quel cameraman, così impicciato, così affaccendato e immerso, totalmente occupato con la mente ben salda su ciò che doveva fare e con quegli occhi vigili su ciò che stava accadendo che mi sono sentita di ringraziarlo.

Lui mi ha guardato con due occhi sbalorditi come a dire: grazie di cosa, sono qui per questo. Grazie, che parola. Quante volte la diamo per scontata. Quante volte la pronunciamo a mezza bocca, come fosse un segnalibro che metti sempre al solito posto in un libro impolverato sopra il comodino, e quante volte non la diciamo, la diamo per assodata, e invece no, non è scontato niente. Un grazie si deve sempre. Grazie quando ti aprono la porta, quando fanno qualcosa per te, quando investono del tempo per starti appresso. Diciamo che quell’operatore me l’ero mangiato prima, ero sbroccata, la tensione, l’ansia, l’adrenalina, quando giri certi servizi hai una serie di sentimenti concentrati tutti insieme che un caleidoscopio in confronto ti sembra un mare calmo, tranquillo, poco mosso. E vengono fuori tutti insieme quei sentimenti, te li senti addosso, ti divorano, ti salgono le gambe, ti prendono la pancia, la gola, ti salgono fino alla bocca, gli occhi, la testa, il cuore. È qualcosa che ti invade, pervade, che ti sconvolge ed è come mettere la testa dentro al frullatore. Sconvolta, sconquassata, così com’ero, me la sono presa con lui, gli avevo detto parole che non merita. Ma quando fai un lavoro siete tutti nella stessa barca, nella stessa regata, nella stessa vela. Poi quando siamo risaliti, e percorrevamo quei ponti, e quelle calli, e quei campi – si chiamano così le piazze di Venezia – quando ci scostavamo da quel fiume di gente che ci veniva addosso, quando facevamo a bracciate per farci spazio tra la folla, in mezzo a quella nuova di gente che si muoveva come muove la spumiglia quando la metti sopra il nastro dal fornaio – ricorda che una nuvola non sa perché si muove in una certa direzione e a una certa velocità. Segue un impulso, è li che deve andare – ecco quando siamo risaliti, in mezzo al volo dei gabbiani, in mezzo agli albori della sera, al crepuscolo del tramonto, in mezzo al vocio della gente, gli ho detto: grazie. Poi quando mi sono girata, ho incrociato quest’uomo, c’avea un blocco tra le mani e annotava i suoi pensieri. Su di un foglio, una sola parola: grazie ancora.

Ditelo questo cazzo di grazie, non date nulla per scontato.

Il mondo è pieno di stronzi.

#sbetti

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Eurabia

Eccola l’ Eurabia. Eccola. Piazza Duomo, Milano. Capodanno 2024. Eccola l’Eurabia che si prende le nostre piazze. Che prende forma, che si impossessa delle nostre tradizioni e ci impone i suoi costumi. L’ultimo dell’anno, saranno felici i talebani dell’accoglienza indiscriminata, in piazza a Milano – io ero presente – c’erano solo loro. Gli immigrati. Gli stranieri.
Non c’era un italiano nemmeno a pagarlo oro. La lingua prevalente era l’arabo. Ovunque ti voltavi, non vedevi altro che musulmani, islamici, bandiere rosse con la stella a punte, ragazzini di seconda generazione, bande di nordafricani, baby gang. Sono loro che si sono prese le nostre piazze. Issati come si issano i pennoni al centro della piazza, popolavano i gradini gridando in coro e sventolando le bandiere del Marocco.
Sono scesa a Milano domenica pomeriggio dopo un viaggio sospeso tra la nebbia e i pensieri umidi che mi affollavano la testa.
Guardavo fuori da quel finestrino e vedevo nient’altro che foschia, veli di caligine, coltre; i campi coltivati coperti di brina si susseguivano uno dopo l’altro che parevano formare un tutt’uno. Sembravano dipinti con l’acquerello, usando l’acqua sporca intinta di nero che si fa grigio. Ogni tanto tra le teste assonnate di un Frecciarossa semivuoto spuntava qualche albero denutrito, spoglio, scarnificato, magro. Fino a che non sono scesa in Centrale. Il clima era spettrale. Cupo. Angosciante. E angoscioso.
Scendo e mi pareva di essere su un’altra dimensione, non c’era il solito tran tran dei giorni feriali, o di quelli festivi; l’ultimo dell’anno è sempre un giorno di trapasso, un giorno che si porta il peso del tracollo dei 364 andati e la foga di quelli che verranno, i buoni propositi, la lunga lista di cose da fare, l’agenda, i sorrisi dimenticati. Prendo un taxi e appena giungo sul posto, a indicarmi la via ci sta un bengalese. La stazione infatti era vuota, non c’erano le solite panchine piene di immigrati o gli ammassi di gente che dorme per terra, noncurante di tutto e di tutti. Gli immigrati, i ragazzini, avevano già iniziato la lunga processione verso Piazza Duomo. Le bottiglie rotte per terra. La città spenta e frastornata dal fragore dei primi petardi. Le loro grida. Le loro forsennate urla. E le bandiere. “Milano oggi – per loro – è come Baghdad”. E infatti arrivata in Galleria Vittorio Emanuele II eccoli gli stranieri che arrivano uno dopo l’altro.Arrivano a frotte. Non li ferma nessuno. Sono dieci, venti, cento, mille. Sono tantissimi e come in un formicaio invadono lo slargo. Acquartierate attorno alla piazza, ci sono le baby gang e le bande dei ragazzini di seconda generazione. Fumano. Bevono. Girano canne. Urlano. Gridano. La droga qui scorre a fiumi. Il Capodanno è il loro. La piazza anche. “Io italiano! Io italiano! Questa casa mia”, mi grida in faccia un ragazzo marocchino. C’avrà all’incirca 16 anni. Attorno a lui i suoi amici con bottiglie di birra, pezzi di vetro e petardi in mano. Il boato dei botti si propaga in galleria. E il frastuono spacca i timpani.
Ma manca veramente poco, e la polizia di Stato è costretta a intervenire. Caschi, scudi, manganelli. La polizia avanza tra la folla. E procede verso la piazza. Come al solito è lo scontro di civiltà che esplode. Nel quartiere San Siro, scoppia la guerriglia. Lo scontro, ancora una volta, è tra la polizia e gli immigrati. I giovani cercano di aggredire gli agenti. Gridano loro: “Figli di p****ttana”, “pezzi di m….”, “sbirri”. Lanciano sassi. E sparano colpi con le pistole. Tutt’attorno è il caos.
Oriana Fallaci lo aveva predetto. E la sua non era un’invenzione. Ma non è stata compresa. La vedevano come una delirante.
Oggi le sue parole hanno il suono della profezia. Scrive la Fallaci ne La Rabbia e l’Orgoglio: “Sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente – oppure d’apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione) – non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all’Inverso. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria dei Politically Correct, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. (…) Una guerra che essi chiamano Jihad, Guerra Santa.
Una guerra che mira alla conquista del nostro territorio(…) Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare (…) E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra storia…”.
Sveglia gente! Sveglia!
SVEGLIATEVI

sbetti

Milano, piazza Duomo, Capodanno 2024
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La mia giornata è partita su una Tesla

Non so nemmeno che giro abbia fatto. Ho fatto in tempo ad andare a Como. Migrare a Bologna. Rientrare a Venezia. Salire su un’auto proseguendo per le Marche. Passare lì alcuni giorni. Starmene lì, all’aria aperta. Il mare. Il sole. La temperatura mite. Io abituata al freddo del nord. Le cene. E poi ho ripreso una vettura per tornarmene a Venezia.
Ma la mia giornata la mattina prima dell’ultimo dell’anno è partita presto. Su una Tesla. È passato a prendermi il transfer alle sette in punto del mattino. Che dico in punto. Diamine era pure in anticipo. Cinque minuti prima dell’orario stabilito era già sotto casa mia che mi attendeva. “Buongiorno, io sono qui, quando vuole”. Ero balzata giù dal letto facendo una doccia fredda e calda in estrema velocità, avevo messo su il caffè, quello che puoi sciogliere la polvere per fare prima, ed era una di quelle mattine dove in cucina vedevi solo il blu della fiammella del gas.
Mi trucco alla svelta, un filo di rimmel, ombretto nero, una botta di phon ai capelli, pantaloni, maglia, borsa e cappotto che mi copre la testa. Salgo sull’auto nera fiammante e dentro ci sta uno schermo che è grande quanto la mia televisione. Indica il percorso da seguire, la mappa, la carta, la piantina, più in basso in fondo a sinistra ti compare la faccia del cantante di cui sta andando la musica. Non so manco chi abbia cantato. Nel giro di un baleno mi pare di aver intravisto l’immagine di Natalie Imbruglia e quella di qualche altro che ora non ricordo.
L’auto, calda. Nera. Silenziosa.
Arrivo alla stazione con le occhiaie che mi toccan terra. E il barista della carrozza numero 3, quella dove ci sta il bar, è pugliese. Guarda fuori dal finestrino che lentamente come in un film muto percorre velocemente il paesaggio che si sussegue fuori. E sbotta: “Vedi il tempo che ci sta qua”. “Come fai a non svegliarti con le palle girate”, gli dico io. “Tu bravo uomo del Sud, stattene giù no?”. Il lavoro, il lavoro ci chiama. Come chiama me in questa vigilia dell’ultimo dell’Anno. Ma questo è il lavoro che amiamo. Arrivo a Milano centrale, destinazione Monza Brianza, devo fare una casa occupata. Ci fermiamo al bar all’Angolo. Non toglietemi caffè e sigaretta prima di iniziare a girare. L’adrenalina sale. Gli occupanti sono ecquadoregni. E come in un susseguirsi di immagini mi trovo catapulta ovunque. Passo dal taxi nero fiammante. Al treno. Alla stazione Centrale dove ci stanno i disperati che dormono fuori. A un posto carino dove ci fermiamo a mangiare ma alla tipa napoletana non sto tanto simpatica. Mi rimetto in viaggio. Rientro. Il giorno dopo riparto per passare il Capodanno in piazza a Milano…
E questo ve l’ho raccontato…

sbetti

Eccola qui l’Eurabia: piazza Duomo, Milano. Capodanno 2024

Pezzo uscito su Libero, 2 gennaio 2023

Oriana Fallaci lo aveva predetto. E la sua non era un’invenzione. Eccola qui l’Eurabia. Piazza Duomo. Milano. Capodanno 2024. Allo scoccare della mezzanotte – noi di Libero eravamo presenti – non c’era nemmeno un italiano a pagarlo oro. Eccola qui l’Eurabia che prende forma, che riempie le nostre piazze, che si impossessa delle nostre tradizioni e ci impone i suoi costumi. Eccola. Una piazza italiana, come quella meneghina, dove a festeggiare sono solo gli stranieri. Sono loro che si sono presi le nostre piazze. La lunga processione verso il cuore di una delle città più belle d’Italia comincia già alle cinque del pomeriggio. Scendiamo in stazione Centrale e miracolosamente non è come tutti gli altri giorni, quando appena metti il naso fuori, devi fare lo slalom tra gli immigrati che dormono per terra e bivaccano sui marciapiedi. Qui, oggi, si sono già messi tutti in cammino per raggiungere la piazza dove sorveglia la Madonnina. Le bottiglie rotte per terra. La città spenta e frastornata dal fragore dei primi petardi. Le loro grida. Le loro forsennate urla. E le bandiere. “Milano oggi – per loro – è come Baghdad”, scrivono nei video che circolano in rete.

A mezz’ora dalla mezzanotte li vedi gli immigrati entrare in Galleria Vittorio Emanuele II per andare ad ammassarsi in piazza Duomo. Arrivano a frotte. Non li ferma nessuno. Sono dieci, venti, cento, mille. Sono tantissimi e come in un pullulio costante e intenso invadono lo slargo. Acquartierate attorno alla piazza, ci sono le baby gang e le bande dei ragazzini di seconda generazione. Fumano. Bevono. Girano canne. Urlano. Gridano. Il Capodanno è il loro. La piazza anche. “Io italiano! Io italiano! Questa casa mia”, ci grida in faccia un ragazzo marocchino. C’avrà all’incirca 16 anni. Attorno a lui i suoi amici con bottiglie di birra, pezzi di vetro e petardi in mano. Poco distante una famiglia di stranieri, forse inconsapevole di quello che sarebbe stata piazza Duomo, con i figli piccoli accanto, attoniti e frastornati dal rombo dei botti. Il boato si propaga in galleria. E il frastuono spacca i timpani. Ma manca veramente poco, la polizia di Stato è schierata in tenuta antisommossa. Caschi, scudi, manganelli. In Galleria ora non fanno entrare più nessuno. Chi fa il furbo viene ripreso. I ragazzini stranieri, prevalentemente arabi, sono tantissimi. La polizia avanza tra la folla. E procede verso la piazza. Noi dietro di loro. Formano un cordone tutto attorno per cercare di sedare gli animi e di scongiurare il peggio. Come quello che era accaduto due anni fa. Capodanno 2022. Ce lo ricordiamo tutti. Lo stupro di gruppo. Il taharrush jamai, una pratica conosciuta nei paesi arabi che significa molestia collettiva. Passata la mezzanotte, i ragazzini espletano i loro bisogni accanto alle colonne della piazza. Lo spettacolo è indecente. E come al solito è lo scontro di civiltà che esplode. Nel quartiere San Siro, scoppia la guerriglia. Lo scontro, ancora una volta, è tra la polizia e gli immigrati. I giovani cercano di aggredire gli agenti. E i fatti più gravi avvengono nella zona di via Zamagna, una delle strade più pericolose del quartiere. Alcuni qui avevano accatastato mobili e rifiuti al centro della strada per fare un falò allo scoccare dell’anno, ma gli uomini della polizia di Stato sono intervenuti nel giro di breve. Pochi minuti dopo, i poliziotti vengono presi a sassate e il furgone che li trasportava viene danneggiato: uno dei vetri va in frantumi, fortunatamente senza danno per i passeggeri. Molti di questi episodi di violenza sono stati ripresi nei video divenuti virali sul web. In uno addirittura si vede un ragazzo che spara dei colpi in aria con una pistola. “In alcuni quartieri di Milano le tensioni e l’odio verso la polizia crescono – scrive Silvia Sardone, consigliere comunale d’opposizione di Milano che ha postato il video – nel disinteresse della giunta di sinistra in città”. E ancora: “San Siro da tempo sembra fuori controllo, con sempre più stranieri e giovani di seconda generazione ostili alle forze dell’ordine e che fanno della delinquenza il proprio mestiere”. Nei video spuntano anche le scritte “Baghdad”, come a dire che Milano, questa notte, è come la capitale irachena. Il bilancio della nottata ha visto oltre 1500 persone controllate e 3 denunciate per il porto di oggetti atti a offendere. Più una persona denunciata per accensione ed esplosioni pericolose. Altri sei giovani sono stati accompagnati in Questura perché sprovvisti di documenti. Sì era vero quello che diceva Oriana. Un nemico “che scorrazza a suo piacimento”, senza esibire alcun documento.

Serenella Bettin

Libero, 2 gennaio 2023

L’arroganza dei ladri di case. La casa come fosse la loro

Da Fuori dal Coro di mercoledì 15 novembre 2023

Noto che c’è una certa arroganza – barra – prepotenza – barra – tracotanza – barra – spocchia – da parte degli occupanti abusivi di case, nel considerare la casa che occupano come casa e cosa loro. Impressionante.
E noto che c’è anche una certa disinvoltura – barra – sfrontatezza – barra – sfacciataggine – a chiamare le forze dell’ordine non appena arrivano i giornalisti che vogliono fare delle domande. Come fossimo noi dalla parte del torto. Come se in Italia la stampa fosse considerata al pari di un ladro, che appena lo vedi lì fuori incappucciato componi il numero di emergenza della caserma più vicina. Cosicché passa il messaggio che l’occupante abusivo ha diritto a occupare la casa, e invece il giornalista che giunge sul posto è un pezzo di m.
Il diritto di occupare del resto ancora non l’avevo mai sentito. Non credo manco sia scritto.
E non credo sia nemmeno riconosciuto a livello costituzionale, ma siccome i cambiamenti sono dietro l’angolo e avvengono nel giro di un batter di ciglia, non mi stupirei se qualcuno possa averlo previsto. Che ne so. Qualche talebano col cervello innaffiato dal politicamente corretto potrebbe aver proposto, in un momento di buio neuronale, un emendamento dove si prevede per l’occupante il diritto a occupare.
Orbene.
L’altro giorno, girando un servizio sulla casa occupata a Castellarano in Emilia Romagna, ho sostenuto una conversazione assurda ma così talmente assurda con l’occupante abusivo Doku (ve lo ricordate l’indemoniato) che a un certo punto mi sono chiesta se fosse tutto vero o no. Credevo di essere finita su Scherzi a Parte.
L’occupante sosteneva che quella fosse casa sua. E che stabiliva lui quando dare le chiavi.
“Cosa fai tu davanti casa mia anche oggi”, mi ha chiesto l’occupante che nella maggior parte dei casi è straniero.
“Ma questa non è casa tua”, ripetevamo in coro io e la proprietaria. Non è casa tua.
E lui niente. Silenzio. Zitto.
“Ti ho detto tu vieni il 25”, mi ha detto.
“Il 25?”, ho chiesto.
“Ma perché il 25?”. Niente. Zero risposte.
“Io ho detto il 25”.
Sì perdio figlio mio ma perché. Perché il 25 ho chiesto io. Niente.
Il 25 quindi, probabilmente, perché queste situazioni così talmente assurde e paradossali – che viene da chiederci perché diamine le persone normali lavorano una vita e pagano l’affitto e si comprano casa – saranno risolte dalle istituzioni nel migliore dei modi.
Dove il migliore dei modi non è dare alla proprietaria i soldi degli affitti non pagati e degli arretrati, ma è trovare una casa magari a nostre spese all’occupante e alla sua famiglia. Cosicché la proprietaria dopo un po’ è andata dai carabinieri. E si è sentita dire che se l’occupante ha detto che consegna le chiavi il 25, dobbiamo attendere il 25. In Italia quindi il fuorilegge detta la legge.
Decide lui quando dare le chiavi, in che modo e dove.
È l’illegalità.
Bellezza.

sbetti