“Cammino per strada e mi sento come un’ebrea. Sono un’ebrea che non può stare a casa sua”

Un giorno mi contatta questa donna e mi dice che viene perseguitata dal vicino di casa perché è ebrea. Vi giuro mi sono sentita morire. Dicono che devi essere in grado di concepire le ingiustizie come se fossero tue per poterle scrivere. Così, c’ho parlato, ho provato a calarmi, a immergermi. La molla per scrivere m‘è saltata quando m’ha detto: “Cammino per le strade e mi sento come un’ebrea… ho le lacrime. Sono un’ebrea che non può stare nella sua casa”…
e questo è il mio racconto
il mio pezzo su La Verità 👇

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“Cammino per le strade e mi sento come un’ebrea… ho le lacrime. Sono un’ebrea che non può stare nella sua casa”.

Dorit Benedek è nata a Gerusalemme. Ebrea, israeliana, i suoi nonni paterni morirono nel campo di Auschwitz. Quelli materni in quello di Treblinka, uno dei principali campi di sterminio nazista della Polonia occupata. Da ventidue anni ormai Dorit vive in Italia. La ama l’Italia. L’ha sempre amata. Fino a qualche mese fa viveva a Camugnano in provincia di Bologna. Ora è diventata una vagabonda. Vive in giro per gli alberghi o a casa di amici, a seconda di dove trova ospitalità. Non può più tornare nella sua abitazione perché è terrorizzata. L’11 luglio scorso le hanno ammazzato il cane al grido di Allah Akbar, probabilmente con una zappa. Quando la sentiamo al telefono, nella giornata che ricorda l’Olocausto, è un fiume in piena, stracolmo di parole e lacrime. “Sono distrutta mentalmente – ci dice – ancora è forte il dolore. Per me quel cane era come un figlio”.

Shemesh, che in ebraico vuol dire sole, era un pastore maremmano di cinque anni. Bello, bianco, dal pelo denso e candido come la neve. Dormiva con lei, mangiava con lei, Dorit lo portava a spasso ovunque, tanto era l’affetto che i due avevano. “L’avevo adottato in Israele e poi portato in Italia – ci racconta – un’associazione israeliana l’aveva salvato perché veniva maltrattato. Pensi che la pandemia l’ho passata nel mio Paese di origine e lui ha fatto il volontario per assistere gli anziani e aiutarli a sentirsi meno soli. Ma ora dopo che me l’hanno ucciso non mi do pace. Due giorni prima che lo ammazzassero il mio vicino di casa, italiano, di Bologna che mi odia e odia gli ebrei mi aveva detto che avrebbe ammazzato me e il mio cane. Anzi, prima che avrebbe ammazzato il cane e poi che mi avrebbe fatto a pezzi. C’è anche un testimone. <Ti metto una bomba sotto casa>, mi diceva. Poi l’11 luglio scorso il cane era sotto la finestra della mia cucina. Riposava, dopo un po’ mi sono affacciata e l’ho visto a terra esanime”. Dorit fa di tutto per salvarlo quel giorno, corre in clinica ma il cane le muore nell’auto. Lei quando è andata a vivere in quel villaggio a Camugnano dal verde incontaminato, a pochi chilometri da Bologna, arroccato tra le prime alture degli Appennini bolognesi, stava bene. Per lei quel villaggio era come una famiglia. Ma da quando, due anni fa, è arrivato il nuovo vicino non ha più avuto una vita. “Mi ha tolto la libertà, la tranquillità, la spensieratezza”, dice. Lei ha provato più volte a chiedere aiuto, ma le richieste sono cadute nel vuoto. “Non avevo il coraggio di denunciarlo, ma dopo la morte del cane l’ho fatto”. Dorit sporge denuncia per atti persecutori aggravati dalla matrice razziale nei confronti del vicino di casa che, si legge nel verbale: “mostrava un atteggiamento aggressivo e violento nei confronti di lei”. Frasi del tipo: “ebrea di merda, stronza, vaffanculo, torna al tuo paese”. “È evidente – si legge nella denuncia – che il (…) avesse acquisito informazioni sulla vicina e che il fatto che lei fosse di nazionalità israeliana e di religione ebraica costituisse per lui motivo di fastidio. Da quel momento iniziava un vero e proprio atteggiamento persecutorio nei confronti della deducente”.

E infatti i racconti denunciati fanno rabbrividire. “Quando la donna si trovava in casa, l’uomo, a qualsiasi ora del giorno o della notte, iniziava a urlare (…) senza alcun motivo epiteti o frasi antisemite o antisraeliane del tipo: <Israele è un paese di merda, fa schifo. Devono tutti morire. Viva la jihad. Viva Hamas, tutti gli ebrei devono morire. Allah Hu Akbar”. La querela è anche “per minaccia grave e uccisione di animale”. Dopo la morte del cane, Dorit decide di fuggire, tanto che per andare a recuperare le sue cose e i suoi vestiti si fa accompagnare, anche su consiglio dei militari dell’arma, dalle forze dell’ordine stesse.

“Per me è diventato impossibile vivere lì – ci dice – lui conosce tutti i gruppi terroristici, Daesh, Al Qaida. Me li nominava sempre. Non so se sia convertito. Ma io ho tanta paura. Io amo l’Italia e mai avrei pensato di subire un simile atto di violenza in questo Paese dove sono sempre stata bene. Ho chiesto aiuto anche al sindaco di Camugnano ma è indifferente alla mia situazione. E anche se il giudice ha dato un provvedimento di allontanamento al mio vicino io non mi sento sicura. In Italia non è come in Israele. In Israele ti fermano e ti mettono dentro. Qua invece è come con le donne, denunciano, nessuno fa niente e poi le ammazzano”. Dorit quest’estate ha raccontato il fatto a una rete televisiva israeliana il cui servizio titolava “L’Italia e l’antisemitismo”. Intanto il tribunale di Bologna, il 9 novembre scorso ha emesso un’ordinanza che dispone per l’uomo “il divieto di avvicinamento a una distanza inferiore a metri 50”. Ma lei continua ad avere paura. “Sono dovuta scappare. Sono come un vagabondo. Cerco qualche hotel che costi poco. Non è possibile che accadano ancora questi atti di antisemitismo in Italia”. 

Serenella Bettin

A Misurina c’è un posto che sembra l’Overlook di Shining

“Scusi dov’è il bagno?”.
“Dritta in fondo a destra, scenda le scale, prosegua dritto, è l’ultima porta sulla sinistra”. Mi fermo in un bar durante il viaggio perché devo andare in bagno. Chiedo al titolare dove siano i servizi e mi fa scendere al piano di sotto. Per accedere al bagno si percorre un corridoio. Buio. Stretto. Scuro. Dopo un po’ la luce del piano di sopra svanisce. Svapora e mi ritrovo a procedere a tentoni. Tasto il muro con le mani per vedere se incappo nelle maniglie delle porte. Ne sento una ma questa non si apre. Provo la seconda e sono dentro. Il bagno è buio. Non è illuminato. Provo a sventolare la mano verso l‘alto ma non succede niente. Prendo in mano il telefono e mi faccio luce. Per imbroccare il bagno delle femmine, quello con la donnina che va al gabinetto col cappellino a fiori, devo accendere la pila dell’iPhone altrimenti qui non si vede niente. Il bagno però è bello e alla luce del telefono pare anche pulito.
Torno indietro per corridoi labirintici che quasi mi ci perdo. Infatti per risalire ai piani superiori c’ho messo un quarto d’ora per la contentezza della troupe che mi aspetta. Veniamo da una giornata dove ci siamo fatti tutt’uno con il gelo.
Le calotte di neve sopra i rami degli alberi paiono gianduiotti bianchi che a ogni vibrazione cadono sull’asfalto. Li senti spiaccicarsi a terra e se stai zitta ferma immobile con niente attorno senti questo tonfo muto quasi sordo, perfino afasico che si schianta al suolo e non puoi farci niente.
A tratti, quando non nevica, la neve inizia a gocciolare e scende a valle. La senti venire giù dai tetti. Dalle grondaie. Dai balconi. Dalle finestre. Che quasi sembrano dei rumori normali. Come deve essere vivere qui penso con tutto questo ovattamento generale. Sembra un’imbottita. Un’imbottitura. Pare cotone. Zucchero filato.
Qui la neve imbianca tutto e non fa trasparire niente. Ne annienta i contorni. Le forme. Diluisce e rimpolpa i perimetri. Amplifica i margini. Travalica i limiti. Annienta le distanze. Copre e scopre le differenze.
La neve tra Cortina, Misurina, fino su ad Auronzo di Cadore invade le strade.
Crea enormi solchi che devi scavalcare. Quando scendi dall’auto i piedi affondano nella neve come la lama affonda nella gelatina tenuta in frigo con cui ci devi fare un dolce. Poi.
Poi saliamo verso su. Alla nostra destra il Lago di Misurina. Lo vedi che pare un piumino. Una coperta. Una di quelle che vorresti avvolgerti quando torni a casa a letto. Coperto di neve gelo e ghiaccio, sullo sfondo svetta un paesaggio spettrale. Gli abeti infilati come stuzzicadenti creano linee di verde smeraldo e bianco. Il silenzio attorno è avvolgente. Strano. Fa rumore da quanto silenzio ci sia attorno. Sembra debba succedere qualcosa da un momento all’altro. Mi giro. E sullo sfondo c’è qualcosa che avevo sempre immaginato.
Nell’immaginario dei miei sogni c’era un posto come questo. Un posto horror. Uno di quelli che te la fa fare sotto. Lì in fondo, ai piedi delle montagne si incastra un palazzo che pare quello degli incubi. In un baleno ti viene in mente quel film. Dentro ti vedi bambini che corrono con i tricicli. Sangue che scorre nel bianco della neve e fuoriesce dalle pareti.
“Che silenzio strano”, mi dicono. Già. Attorno ci stanno solo gli spalaneve. Quello dei film, fermi sul ciglio della strada con lo scavatore giallo che puntualmente si incaglia.
Si è fatto tardi. È ora di rientrare al caldo.
Torniamo indietro. Ci fermiamo al bar.
“Scusi dov’è il bagno?”. “Dritta in fondo a destra, scenda le scale, prosegua dritto, è l’ultima porta sulla sinistra”.

#sbetti

Messina Denaro è giunto anche a Nordest

È da giorni che sono sulle infiltrazioni di Matteo Messina Denaro al Nord e sono pressoché schifata. Schifata credo sia la parola giusta. E ancora non basta. Ma la cosa che più mi schifa è come Messina Denaro sia riuscito a fare affare tramite i suoi prestanome con amministratori locali e sindaci con il beneplacito di questi. Erano gli anni 90. Inizi Duemila.
Amministratori che sapevano tutto e non hanno mai detto niente. Corrotti. Collusi. Marci. Traviati. Tutto “ma collusi. Collusi no”, diceva Paolo Borsellino. Hanno concesso autorizzazioni. Dato permessi. Elargito favori. Cose inenarrabili. Mai uscite. Messe a tacere. Sottotaciute. Insabbiate. Chiuse in un cassetto perché è lì dentro che si chiudono le cose scomode. Mi sono capitate tra le mani alcune carte che c’ho messo due giorni a leggerle. Due giorni dove ho dimenticato di mangiare, di bere, di dormire come si deve, due giorni in cui gli occhi mi hanno fatto “bu bu”, al punto che vedevo solo parole. Poi la bomba. Rientrando a casa un giorno, esaurito tutto il fascicolo contenente alcuni nomi, cariche importanti, come dicono le menti basse, e mi sono sentita con la sensazione di schifo addosso. Ricordo che sono entrata in auto. L’ho accesa e ho spento la radio. Ho guidato in silenzio. Con il finestrino aperto. Gli occhi sbarrati. Ripetendo a me stessa che non poteva. Non poteva essere vero. Vedevo quei nomi sulla carta riapparirmi davanti agli occhi e avrei voluto scendere dall’auto e fare a pugni con l’asfalto. Guidavo come guida una donna scendendo i tornanti di una montagna, con la schiena dritta, in preda all’ansia, gli occhiali da fondi di bottiglia, inchiodata allo schienale, senza battere ciglia. Ora non posso dirvi tutto. C’è tanto schifo. Ricordo che tornando mi sono fermata da mia madre che mi ha detto: “Figlia mia sei così bianca”. Ma la cosa che più mi fa ribrezzo è apprendere come la corruzione anche e soprattutto nei comuni di casa nostra sia cosa normale. Sia una pratica di normale routine, quasi che se non la pratichi sei considerato un disadattato, uno sfigato, uno che non ha coraggio. Dare una bustarella. Concedere qualcosa diventa pratica normale per il mondo dei mendicanti di onestà. Dei barboni di trasparenza. Dei poveri di etica. Diventa quasi il tuo pane quotidiano da mangiare. Un pane azzimo. Fino. Leggero. Senza lievito. Come una misera banconota da cinquecento euro. Un pane che non faccia rumore. Che non crei volume. Che se lo spezzi formi un rumore secco. Arso. Senz’acqua. Senza liquido. Del resto siamo tutti assetati quando manca da bere…

sbetti

Io controllata al bar. Messina Denaro senza manette

Volevo rendervi edotti di un fatto che mi è capitato ieri. Ero al bar come di consueto a bere il caffè e leggere i giornali quando a un certo punto dietro di me sento: “Buongiorno”.
Mi giro e vedo un uomo in divisa. Sorridendo ricambio il saluto e gli chiedo cosa volesse. Lui con fare autoritario mi dice: “Può fornire i suoi documenti prego”. Gli chiedo perché mai. Per quale motivo. Sono una semplice cittadina che di prima mattina, prima di andare a sputare sangue lavorando e dilaniandosi l’esistenza maciullando gli anni belli nella droga di questo mestiere, sta bevendo un caffè e leggendo le notizie del giorno. Lui mi risponde che deve fare un controllo e che l’alternativa in vista di un mio eventuale rifiuto era la caserma. Ora.
Apro la borsa e tiro fuori il tesserino da giornalista e la patente di guida. Lui prende i miei documenti e si va a ponare sopra il bancone del locale e inizia a scrivere. Siccome ho imparato a farmi scivolare le cose, e non preoccuparmi più del dovuto – ci starebbe una frase ma evito – continuo a leggere il mio giornale e finisco il caffè. Anzi nel frattempo esco anche a fumare tanto era il tempo di attesa per riavere indietro le mie tessere.
Tornata dentro, mi si avvicina un altro carabiniere che mi pone i documenti. Gli chiedo come mai, cosa cercassero, dato che il bar era pieno e hanno fermato solo me. Per carità di prima mattina non sarò il massimo ma non ho la faccia da delinquente. E loro mi rispondono: “Un controllo”.
Nel mentre volto la pagina del giornale, per la precisione il Corriere, toh chi mi capita sottomano? Un pezzo riguardante Matteo Messina Denaro. Li guardo e dico loro: “Che dispiacere”. Prego?
Sì prego.
Allora praticamente è accaduto che tipo dieci giorni fa abbiano arrestato un mega farabutto di nome Matteo Messina Denaro che di professione faceva il latitante e che nella sua stupenda carriera da top manager boss di Cosa Nostra abbia anche fatto sciogliere un bambino nell’acido e si sia occupato di organizzare il planning e lo schedule per far saltare in aria Giovanni Falcone e Paolo Borsellino con tanto dell’utilizzo di nuove tecnologie Green e telecomandi comandati a distanza. E oltre a questo per i quali non basterebbero dieci ergastoli, sia macchiato anche di omicidi e quant’altro.
Matteo Messina Denaro quando l’hanno preso, era bello bello, tranquillo tranquillo, a casa propria che si stava facendo le cure in una clinica dove poi sulle recensioni nella pagina hanno iniziato a scriverci di tutto. Eppure quando l’hanno arrestato poverino non gli hanno messo manco le manette. Niente sparatorie sul filo del rasoio. Niente inseguimenti in stile serie poliziesca di quelle prodotte in Germania. Niente trucco o parrucco o chirurgia maxillo facciale. Si è fatto prendere come mamma l’ha fatto e come si è evoluto nel tempo.
E che tristezza vedere Matteo Messina Denaro preso e arrestato ma quale vittoria dello Stato. Soprattutto se penso che abbiamo avuto per due anni i cittadini controllati con i droni.
Monitorati con i certificati verdi che poi anche la sottoscritta ha scoperto non valere un tubo. Dato che ci hanno raccontato un sacco di balle e ce le siamo bevute tutte. Per mesi sono andati in giro a controllare i cittadini dove facevano la spesa, la pipì loro, quella del cane, dove gli adolescenti si baciavano sulle murette; hanno controllato i vecchietti a messa, li hanno multati, fatti uscire al freddo, hanno ispezionato le signore dal parrucchiere, hanno fatto presentare autocertificazioni dichiarazioni prove che stavamo andato a incontrare i nonni. E se abitavi a 24 metri anziché a 12 non ci potevi andare.
Per mesi i servi di Dio e Conte, le sentinelle del covid ci hanno detto dove dovevamo passare, uscire, entrare, ci hanno controllato sulle spiagge, le mascherine anche all’aperto. Gente che controllava le biblioteche. Metteva i libri dentro sacchi neri in quarantena. Per mesi non potevamo fare più di 200 metri per poi scoprire che magari Messina Denaro durante la pandemia di metri ne ha fatti anche 400.000 ed era l’unico ad andare in giro per l’Italia in barba alle vostre disposizioni inutili anticovid.
Ora le forze dell’ordine fanno il loro dovere e io li ringrazio per questo – Tra l’altro ho gradito il controllo perché mi sono ricordata che devo andare a ritirare un documento – ma forse questo governo dovrebbe intervenire per fare in modo di impiegare le forze dell’ordine dove servono. Che a controllare la gente al bar del paese lo trovo alquanto svilente.
Io avrò bevuto un caffè. Pagato con carta di credito (ma per ragioni emergenziali) Messina Denaro non credo.
Vi auguro buonanotte.

#sbetti

Le nutrie in congelatore. A far l’inviata ti può succedere di tutto

A far l’inviata ti può capitare di tutto. Anche entrare dentro una casa e vedersi preparare come pietanza una nutria.
Non si può di certo dire che io sia un’animalista, sebbene non mangi carne. Anzi.
A 18 anni partecipai al famoso Tiro dell’Oca, così tanto osteggiato dai verdi e da “quelli del WWF”, e che consisteva nell’appendere un’oca morta a due pali verticali e uno orizzontale e di sfidarsi con gli altri partecipanti della tua età.
Era questa, anzi è questa, la tradizione ancora viva in un piccolo paesino dell’entroterra veneto. Quando lo fece mio padre o mio nonno l’oca era viva.
In giro da qualche parte ancora albeggia la mia foto (che qui vi posto) di me che tiro il collo all’oca. Vince chi lo stacca. Una tradizione secolare che va avanti da anni.
Un anno finii anche sul giornale a firma del grande Carlo Petrin perché “La Bettin difendeva le tradizioni e si era messa davanti i pali dell’oca a inveire contro gli animalisti”. Sono sempre stata un po’ anarchica. Detto ciò, c’è una cosa nel mio servizio sulle nutrie che mi ha colpito.
Un reportage durato tre giorni – e non sto scherzando – per riprendere la nutria, questo topolone gigante, topone abnorme, dentro la gabbia.
Le guardie l’avevano catturata la mattina. E così siamo andati sull’argine del torrente a vederla. Su su fino a Malo Vicentino.
Mentre le guardie fiere si guardavano con occhi gagliardi e svenevoli e struggenti e carezzevoli, questa poverina se l’è fatta sotto. Sì.
Davanti i miei occhi si è fatta la pipì addosso. Perché tremava dalla paura e dentro di lei incombeva la consapevolezza di essere abbattuta.
Dopo aver assistito a questa scena, zitta zitta, tanto nulla si può fare, me ne sono andata verso l’entroterra veneziano e ho assistito a battute di caccia di un cacciatore.
Mio nonno, ci tengo a sottolinearlo, era un cacciatore prospero e prosperoso, e dentro casa sua c’erano uccelli imbalsamati, gufi, falchi, fringuelli, cinciallegre, volpi, ratti, tassi. Quindi di certo non mi meraviglio se due mi fanno vedere due carabine e due fucili con tanto di proiettili, il cui costo è pari a un euro l’uno. Mio nonno di fucili ne aveva da rifornire un esercito. E ha sempre trovato il modo di dar da mangiare a figli nipoti nipotini figli dei figli degli altri.
Durante il reportage ho anche governato con particolare destrezza e fierezza un setter che pesava più di me e mi conduceva da tutte le parti. Ogni tanto avevo paura di finire dentro il canale, ma poi lo tiravo verso il campo e lui riprendeva la retta via. Mi pareva di essere ubriaca e andare su e giù.
Dopo questo sono finita nel trevigiano e ho visto gli argini bucherellati da questi roditori. Sembravano groviere. Ho visto i raccolti mangiucchiati.
E poi sono finita, ditemi se sto sognando, in una famiglia che dentro al congelatore c’avea le nutrie. E una l’ho presa in mano. E ho provato anche ad annusarla sebbene io non abbia più l’olfatto e l’ho tenuta per circa due minuti in mano per vedere che effetto mi faceva a tenere sulle dita questo animale congelato e sviscerato che l’uomo nel 1920 ha importato dal Sud America per far le pellicce alle signore. Sicché di tutte le radical chic che indossavano le pellicce e le spacciavano per visone, probabilmente non sapevano – o forse sì ma meglio non dirlo – che in realtà addosso avevano, udite udite, una fantastica pelliccia di nutria.
Care loro.
Udite udite lor signori. Una fantastica pelliccia di nutria. Dopo questo mi sono imbattuta nel cimitero delle nutrie e c’ho camminato accanto, non sopra, perché mi pareva di mancar loro di rispetto.
In effetti sono degli esseri carini. Hanno dei dentoni arancioni. Una coda fluente. E un pelo folto che la moglie di Soumahoro l’avrebbe usata per farci uno scialle da appendere al collo.
Dicono che la nutria figli molto. Mi sono documentata e una femmina, Dio mio povera lei, figlia anche tre volte l’anno. E ogni volta che partorisce il numero di cuccioli oscilla da 4 a 13.
Ma in tutti questi miei giri ecco tante cose ho ancora da capire. E non perché io sia deficiente. Ma semplicemente perché di tutte le persone che ho sentito nessuno è stato in grado di rispondermi. Nessuno. Ossia. Quanti esemplari ci sono attualmente per esempio in Veneto. Chiedevo una stima. Non numeri precisi. Non si sa. Quanti esemplari possono essere abbattuti? Non si sa nemmeno questo. I politici ti rispondono con programmazioni di piani dove non si capisce un tubo. Dall’Agenzia Parco del Delta del Po, sezione Veneto ed Emilia Romagna, ti dicono che le nutrie non sono un problema. E soprattutto ho chiesto: è possibile quantificare i danni che fanno queste nutrie? Cioè i contadini quanto perdono? Perché io in Veneto conosco contadini che per prendere di più dalla vendita della frutta bagnano le cassette così, grazie all’acqua, pesano di più. E poi ancora. Ci sono fiumi esondati o argini venuti giù solo per la presenza delle nutrie? O è tutta una nostra supposizione? Ecco a queste domande vorrei che qualcuno mi rispondesse. Perché intanto il mondo brucia.
E la nutria continua a scopare. Alla faccia vostra.

sbetti

Onichini fuori dal carcere. Ma chi gli ridà indietro questo tempo?

Walter Onichini è uscito dal carcere. La famiglia è andato a prenderselo lunedì pomeriggio e l’ha finalmente riportato a casa.
Ancora ricordo il giorno che incontrai la moglie Sara.
Era un giorno di settembre. Erano due anni fa. Sara era lì che mi aspettava sul cortile di casa intenta a fumare una sigaretta. Il fisico asciutto. Il volto magro. Smunto. Lo sguardo fermo. Ferreo. Il marito glielo avevano portato via qualche giorno prima ed era in cella di isolamento. Come i mafiosi. Come i delinquenti. Come gli stupratori. Come quelli che ammazzano di botte la moglie (è accaduto veramente).
Era il 13 settembre 2021.
Il primo giorno di scuola dei figli. Manco la clemenza di aspettare.
Parlammo tutto il pomeriggio quel giorno.
Io seduta a un lato del tavolo. Lei da quell’altro mi stava difronte. Riuscivo a scorgerne tutte le sfumature, tutte le paure, le angosce, i pianti mancati, le parole non dette. Riuscivo a cogliere tutta la disperazione di quella donna che in quel momento mi stava affidando se stessa.
Il figlio quel pomeriggio giocava a calcetto. Aveva lo sguardo triste. Desolato. Come quello di qualcuno a cui manca un pezzo. Come quello di qualcuno abituato a camminare con una guida al fianco e all’improvviso questa guida scompare. Svanisce. Non c’è più. Dall’oggi al domani ti viene tolta. Terribile. In quei momenti ti senti come ti mancasse un braccio. Una gamba. L’esofago. L’aria. Per giorni. Mesi. Forse anni, ti pare di camminare e non puoi fare a meno di voltarti. Ti volti e non vedi nessuno. Ti hanno abbandonato. Quello che c’era prima non c’è più. E devi solo rimboccarti le maniche. “Dai amore vai a fare i compiti”, gli disse Sara. E lui andò. La figlia invece, l’altra, aveva appena compiuto sette anni. Subito lì, così. Subito dopo l’incarcerazione del padre. Sopra lo stendino quel giorno c’erano ancora le camicie del papà. La bimba le guardava e a me veniva il magone. “Se vuoi facciamo un’altra volta”, dissi a Sara. “No, no. Tranquilla – mi disse guardando i bimbi – loro sanno tutto”.
A quel tempo Onichini era ancora in carcere a Venezia. Aveva chiesto il trasferimento per comodità a Padova ma il trasferimento non arrivò subito. La moglie poteva vederlo tre volte al mese. Più tre videochiamate. Manco i pentiti.
Onichini era finito in carcere perché, questo padre di famiglia, di professione macellaio, nella notte del 21 luglio 2013 aveva sparato al ladro che gli era entrato in casa, ferendolo.
Dopo averlo caricato in auto, l’aveva lasciato in un campo a pochi chilometri dall’abitazione.
E così la Cassazione aveva deciso di condannarlo a 4 anni, 10 mesi e 27 giorni di reclusione.
Ma lui di professione non fa il delinquente. Non ama delinquere. Non è come quelli che ti entrano in casa senza permesso incappucciati e armati. Lui quel giorno si è difeso. E gli altri giorni andava a lavorare.
Allora ricordo che ci furono alcuni passaggi della chiacchierata con Sara che mi rimasero particolarmente impressi. E fu quando lei mi raccontò con una calma e una tranquillità invidiabili, cosa accadde quella notte. Il loro timore per il figlio di 21 mesi. E la paura. Il terrore. L’angoscia di non sapere che fare. Quella vita che cambia nel giro di un baleno. “La vita che non è più la stessa, non torni più a vivere come prima. Io faccio fatica. La sera sono a casa con loro e mi pesa. Ho avuto periodi d’inverno, in cui non andavo nemmeno a portare via le immondizie”. Già.
La notizia della sua scarcerazione è una bella notizia sì. Potrà stare a casa in affidamento in prova ma pur sempre a casa.
Ma mi chiedo, visto che viviamo nel Paese che risarcisce i delinquenti che ti entrano in casa, chi mai risarcirà questo padre e questa famiglia per tutto quello che hanno passato? Per i giorni tolti. Per le mancanze. Le ingiustizie. Chi ridarà questi giorni a Walter?
Quel giorno quando mi azzardai a chiedere a Sara cosa avesse raccontato ai figli, lei mi rispose: “Ho sempre raccontato loro la verità. Quando li ho portati davanti al carcere mi hanno ringraziato. Ma per loro è tutto bianco o nero e non capiscono. Mi chiedono: “mamma, ma perché papà deve andare in carcere se ha sparato a una persona cattiva?”.

sbetti

A Borgo Val di Taro si arriva in autostrada

“A Borgo Taro si va in autostrada. Autostrada della Cisa. Si esce al casello di Borgo Taro. Poi un venti chilometri di strada normale però buona”.
Queste sono le indicazioni che mi ha dato un mio caro collega che vive a Parma.
La sera prima di partire con la troupe gli ho scritto: “Ciao, sono dalle tue parti domani”.
“Davvero?”. “Sì”. “A che ora? Ci vediamo?”. “Sì dai se riusciamo. Ma ho tempo parecchio compressi”. Devo girare. Andare su. Fare l’intervista. Immergermi nel paesaggio. Calarmi nel luogo. Interagire con la gente. Respirare i loro umori. Percepire i loro malesseri.
Perché Dio se mi ci voglio immergere.
Io quando vado in un posto mi ci devo calare. Lo voglio sentire mio. Devo sentire che mi sbatte in fronte. Che mi si scaglia addosso. Che mi entra dentro. Devo farlo mio. Averne il tempo.
Avrei voluto. Dio se avrei voluto incontrarlo. Ma non ce l’abbiamo fatta. Borgo Taro sta nella Val Taro che si trova in Emilia Romagna in provincia di Parma. E che prende il nome dal fiume che ci scorre in mezzo.
Una valle che tra città frazioni e quant’altro c’ha 30 mila abitanti. Fatto sta che io non li ho visti. Ne ho visti soltanto cinque perché sono andata su su in cima a una riserva che Dio solo sa quanto era in cima. E dove sono finita. So che a un certo punto ho visto la scritta Appennino Ligure e mi sono sentita ancora nuovamente a casa. Noi viaggianti abbandoniamo una casa per cercarne un’altra.
A un certo punto la strada è finita. Ti ritrovi in una arteria sterrata che devi stare attento a non finire di sotto e con la troupe ci stavamo finendo di sotto, abbiamo svoltato a una curva ma la ghiaia era tanta, pioveva e tutta la macchina non ci stava.
C’era poco posto per girarsi e se non fosse stato per la brusca frenata probabilmente saremmo finiti giù per il pendio e chissà dove ci avrebbero trovato. O forse no.
Ti trovi in questo posto magico dove i colori che dominano sono il verde e l’arancio. E il marrone ambrato. Il verde è quello dell’erba che è rimasta. È quello delle foglie. Rimaste anche quelle. Sarà che fa troppo caldo. Infatti non c’era uno spruzzo di neve. L’arancione è quello delle foglie secche e vi giuro ne è pieno il mondo e il marroncignolo dei tronchi lasciati spogli nell’attesa che finisca l’inverno. Siamo arrivati su che pareva ciuffasse. Dio se ciufava. Ciufava che Dio la mandava. Ma ciufava in un modo che faceva un bordello che non te lo immagini nemmeno. Poi incuneatici dentro una stradina stretta stretta il rumore del vento si è trasformato in poesia. Un canto. Pareva quello del mare aperto. Dio quanto lo amo il mare aperto.
Le foglie che si muovevano mosse e scaraventate dal vento parevano le onde di quando il mare calmo, che basta a se stesso e non chiede niente in cambio, iniziano a incresparsi e creano quel rumore che ti vengono in mente: il mare che si muove tra gli scogli, le onde che di notte creano quella musica leggera che la racchiuderesti dentro una boccetta e te la ascolteresti tutta la notte e quei capelli al vento. Qui dovevo incontrare un agricoltore che mi ha parlato a lungo e di tante cose. Ve le racconto. Dentro la gip dove sono salita faceva assai freddo ma ero per fortuna vestita. Procedevamo dentro questa riserva con andar lento. Pareva un lento adagio di quelli che i grandi musici usano negli spartiti. Pioveva. Dio se pioveva. E a ogni parola era una tergicristallo che si alzava e abbassava. E su e giù. È giu e su.
“È il giornalismo – ho detto al mio collega – che ha bisogno di respirare. Lo capisci? Lo devo sentire nella testa. Nelle mani. Dentro. Nelle gambe. Lo devo sentire nelle dita che strimpellano sulla tastiera perché non vedo l’ora di scrivere”.
Si è fatto tardi e cerchiamo un posto dove cibarci. Lo stomaco a secco dalla sera prima inizia a farsi sentire e ad arrovellarsi sui suoi tarli. “Stai zitto” gli dicevo e più glielo dicevo più lui continuava a parlarmi. Arriviamo in via Nazionale.
Piove a dirotto e vediamo un bar ristorante, un buco. Ci mettono a mangiare un pollo scotto fuori al freddo, al caldo di un fungo….

sbetti

“Palermo è nostra, non è cosa vostra”.

Scusate se gioisco ma ho dentro il mito di Falcone e Borsellino.
Ho sentito per la prima volta parlare di Matteo Messina Denaro a 18 anni. Quando dovevo decidere cosa avrei voluto fare da grande. Da grande poi. Che ne sai a 18 anni cosa vuoi fare da grande. Non lo sai a 30. A 40. A 50. Nemmeno a 60 uno sa cosa vuole fare da grande. Se ha fatto la scelta giusta. Se quella vita era quella che voleva. Non ci sente mai abbastanza grandi per sentirsi dentro ancora piccoli. Per avere ancora sogni.
Ancora ricordo quell’aula di liceo in cui mi parlarono di Matteo Messina Denaro. Mi dissero che era un pericoloso latitante. Che nessuno sapeva dove fosse. Che per sfuggire allo Stato aveva cambiato nome. Cognome. Forse pure volto. Che non usava la televisione. Che forse viveva sottoterra. Che non usava il telefono. Ma che andava sempre a messa. Erano gli anni in cui divoravo i libri su Falcone. Chinnici. Sul generale Dalla Chiesa.
Macinavo nastri di film sulla mafia. Guardavo e riguardavo La Piovra. Il Padrino. Rileggevo Cose di Cosa Nostra. Sapevo a memoria il film su Paolo Borsellino.
Quando quella sera Borsellino fece la fiaccolata dopo la morte di Falcone e parlò di quel “movimento culturale che abitui tutti a sentire la bellezza del fresco profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità” mi scesero le lacrime. Dio se mi scesero. Mi scesero come goccioloni di pioggia quando non sai se tornerà il sereno. Mi dicevo che un giorno anch’io avrei voluto far qualcosa per assicurare i farabutti alla giustizia.
E così mi iscrissi a Legge.
Lunedì mattina quando lungo l’Appennino parmense al confine con la Liguria, tra un tornante che macinava il cibo in pancia e un altro che smuoveva lo stomaco e lo faceva ballonzolare di qua e di là, mi è arrivata la notizia dell’arresto di Messina Denaro mi sono scese le lacrime. Lo giuro. Mi si è commosso il volto. Volevo fermare le auto. Dirlo a tutti. Scendere dalla macchina nel mezzo della steppa e dire a chi passava: “Ecco hai sentito? Hai sentito? Hanno arrestato Matteo Messina Denaro”. Quando sono andata a mangiare fuori al freddo, scaldata da un fungo non me ne importava nulla del gelo, del pollo scotto, tanta era la contentezza della notizia. Matteo Messina Denaro in manette. Ancora non ci volevo credere. Non ci volevo credere che fosse lui tradito da un incrocio di dati, perché in una clinica aveva dato il nome falso – Andrea Bonafede – e il giorno dell’intervento indicato dagli archivi del ministero, Bonafede era tranquillo a casa. E così sono scattate le operazioni. Che hanno portato alla cattura. Non ci volevo credere che fosse lui agghindato di montone e berretto a calotta con il volto quasi coperto.
Poi lunedì sera quando sono rientrata e finalmente mi prendeva il telefono e ho dato un accesso ai social, ho visto quei video della gente che esulta per strada, dei vecchietti che ringraziano i poliziotti con le lacrime al volto. Ma soprattutto ho visto quei giovani gridare “Palermo è nostra, e non di cosa nostra”. E li mi si è inumidito il volto ancora. Si percepiva “il profumo della libertà che si oppone al puzzo del compromesso morale, dell’indifferenza, della contiguità e quindi della complicità”.

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“Signora ha una camomilla?”

“Signora ha una camomilla?”
Salgo su sull’Altopiano di Asiago e mi viene mal di stomaco. Non mi fa male l‘auto. Ma la sera prima avevo cenato tardi; poi prendi, parti, dormi poco, sveglia all’alba, prepara la borsa, tutto di corsa, controlla che ci sia tutto, chiudi casa, butta via le immondizie e deve essermi successo qualcosa tra le pareti di quella sacca che contiene il cibo dopo averlo mangiato. Del resto che vuoi farci.
Per noi sempre in giro che sembra così figo – e si lo è – i ritmi sono allucinanti, non fai in tempo a partire che devi tornare, non fai in tempo a tornare che devi partire. Fatto sta che andando su al decimo tornante mi si è gonfiata la pancia.
Nella caffetteria dove ci fermiamo la tipa che mi sta davanti capisce subito che non mi sento tanto bene e mi prepara una camomilla. Con questa mi passa.
Cominciamo a parlare. E mi dice che la caffetteria è in piedi dal 1861. C’è anche scritto. Se n’era accorto il cameraman. Io ero troppo presa e stravolta dall’ascoltare lo stomaco che mi riportava su e mi faceva andare giù. E su e giu. E giù e su. Ribolliva come ribolle l’acqua quando la metti in pentola e ci spari il fuoco da sotto. La caffetteria pasticceria è lì in quelle mattonelle dal 1861. Ci sono passate la sua trisavola, la sua bisnonna, la
sua nonna, la sua mamma, lei e ora suo figlio. Non riesco a osservarla per bene come avrei voluto. La mia vista era un po’ annebbiata perché mi dovevo concentrare sulle parole separando dal cervello il mal di pancia. È questione di allenamento. Se ci provi ci riesci.
Non riesco a metterla a fuoco. Mi dice che per fortuna il figlio ha voluto prendere in mano l’attività che altrimenti sarebbe andata scomparendo. Lei mi pare indossi una cuffia e un camice blu. E che abbia i capelli biondi. E anche una pelle bella rosa rosata. Guardo quei fantastici biscotti gialli sopra il bancone. Mi dice che sono fatti con la loro farina gialla. Un’antica ricetta che si tramanda.
Torno in auto. Saliamo verso l’alto. E mi aspettano un allevatore, un veterinario, un cacciatore, una esperta di malghe che all’inizio pareva tanto snob e che se la tirasse e invece poi si è sciolta come neve al sole. Sarà l’effetto delle telecamere le prime volte. E poi una veterinaria molto brava. Lei sì me la ricordo bene. Alta. Si mantiene giovane. È venuta a stare qui ad Asiago. Da queste parti sono tutti molto ospitali. Ma molto ruvidi. Loro il freddo ce l’hanno dentro le ossa. Non lo temono. Ci sguazzano. La loro esistenza è costellata dal gelo. Ma non c’è storia. Hanno un’altra buccia. Un’altra scorza. Stanno fuori in maniche di camicia. Una giornalista mi si è presentata in minigonna, con calze trasparenti e la sola giacchetta, roba che io manco fuori al sole d’inverno. Il tipo invece che scaricava la roba era in maniche corte. Anche l’altro. Quello dov’è quella volta in bagno mi sono messa la calzamaglia. Se n’è ricordato. “Tu sei la sbetti”, m’ha detto appena sono entrata. “Sì sono la sbetti”. “Ah mi ricordo quella volta. Io in maniche corte. E tu che sei andata in bagno a metterti la calzamaglia”. Già.
Ci spostiamo ancora più su. Dobbiamo aspettare la notte. Davanti a noi si apre un paesaggio fiabesco. Dall’Altopiano sembra tutto bello. La valle. Il sole che spunta. Che sorge. Che scompare. E riappare. Sembra fare lo stronzo. La neve che non c’è se non più in alto. Più avanti. Più avanti ancora. Il sole che trafigge i rami trafitti dai raggi solari. Queste montagne scoscese che fanno su e giù e giù e su come il mio stomaco la mattina. Metto una mano dentro la borsa, cerco una sigaretta, e mi viene in mano quel biglietto da visita di quella signora. “Mi fa una camomilla?”. Il mal di stomaco è passato…

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Non sorridere perché se ti violentano è colpa tua

Robe folli. Praticamente è accaduto che a Cividale del Friuli, in provincia di Udine, non nell’Africa subsahariana, il comune si sia inventato un vademecum anti stupro che secondo i luminari redattori del volantino dovrebbe proteggere le donne dalle penetrazioni carnali e far diminuire il numero degli stupri e delle violenze sessuali. Ora.
Io avrò qualche problema ma non so se chi ha redatto tale obbrobrio ci sia o ci faccia.
L’opuscolo è stato solertemente consegnato alle studentesse delle scuole e in tali auliche pagine si invitano quelle del gentil sesso a non elargire sorrisi a destra e a manca, a non indossare abiti succinti, a non indossare la minigonna – io la indosso regolarmente – e ad avere un atteggiamento contenuto perché altrimenti potresti dare nell’occhio e aizzare i genitali maschili di chi ti sta accanto. Niente “abiti troppo eleganti o vistosi” o “gioielli e oggetti di valore”.
Meglio essere invisibili. Se non ci si presenta fuori casa e si continua il regime del lockdown va anche meglio. Guai ai sorrisi, specie se “ironici o provocatori”. Non puoi fare la scema per intenderci. E soprattutto “non guardarli insistentemente e non fare commenti”.
Stai zitta e muta e lascia che ti frustino.
Confesso che quando ho letto questa roba ho dovuto rileggerla perché non sapevo se fosse una vaccata o meno. In effetti una vaccata lo è per davvero ma è tutto vero.
E orbene si sta realizzando quello che temevamo. E a forza di pensare male ci si indovina anche. Ossia non riuscendo più a presidiare le persone e il contatto tra queste come hanno fatto con il covid – vedi i ragazzini multati sopra l’argine del canale perché sorpresi a parlare – ci provano infilando consigli comportamentali e facendo nascere nel gentil sesso una certa sfiducia nei confronti del maschio. Oltre a mancare di rispetto al sesso di quest’ultimo perché non è che tutti gli uomini vivono dentro le caverne e sono dei trogloditi che al primo sorriso devono per forza azionare i bisonti.
Ma soprattutto passa il messaggio sbagliato.
Ossia che la donna stuprata se la sia cercata. Il far sentire vittime e responsabili le donne e investirle di questa responsabilità al punto da dettare le linee guida comportamentali fa intendere che se ti comporti bene e fai come ti si dice allora non corri il rischio che qualcuno usi il suo membro contro la tua volontà. Se invece sorridi o indossi la minigonna o i jeans strappati allora la colpa è tua perché non ti sei attenuta alle regole. Della serie: “te l’avevo detto!”.
Io sono la prima a riconoscere che ci sono situazioni che andrebbero evitate perché corri veramente il rischio di rientrare a pezzi, se rientri, o che qualcuno sfoghi i suoi bassi istinti ma da qui a esortarmi a non sorridere ce ne passa.
Avanti di questo passo tra poco non potremo più fare niente. Parleremo solo attraverso i social così non corri il rischio che qualcuno ti violenti. Ne esci un disadattato mentale morale e sociale ma almeno sei al sicuro.
E a noi donne occidentali tra non molto faranno indossare il burqa così almeno anche se sorridi non ti vedono.
Poi magari ti stuprano in casa ma questi sono fatti privati, meglio stare zitti e buoni.

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Ci sono voluti i giornalisti per fare giustizia

La vicenda di Daniele Pelliciardi tirata fuori dalla Verità, uscita sulla trasmissione Fuori dal Coro – di cui i giornali locali non hanno esitato mezzo secondo ad attribuirsene la paternità – dimostra che in Italia se si vuole le cose si possono fare.
E poco contano i tempi per le pratiche burocratiche. I protocolli da seguire. Gli elefantiaci procedimenti con i moduli da compilare. Conta poco ”signora questa è la prassi”. “Mi dispiace si è sempre fatto così”.
Sono bastati un nostro articolo e un servizio a Fuori dal Coro per far sì che, come scrivo nel pezzo, qualcuno a Roma balzasse sulla sedia che: Fermi tutti ragazzi – qua ci stiamo facendo – una grande figura di merda.
La prova che quando intervengono tv e giornali che fanno rumore e sollevano la polvere, le cose si muovono, si muovono eccome.
Si muovono a una velocità che nemmeno te la immagini e quindi addio burocrazia. Addio tempi biblici. Addio estenuanti meccanismi incomprensibili.
Se intervengono giornali e televisioni si deve fare in fretta per non fare brutta figura.
A distanza di una settimana dalla pubblicazione dell’intervista, l’Agenzia delle Entrate fa marcia indietro e quasi si scusa.
Nel giro di un baleno emette un provvedimento di sgravio che il legale di Pelliciardi aveva chiesto il 5 gennaio scorso.
Per chi non lo sapesse Daniele Pelliciardi, il figlio dei coniugi massacrati e trucidati dalle “belve di Gorgo” il 20 agosto 2007, a Gorgo al Monticano, dal 2019 riceveva le caselle esattoriali del killer dei suoi genitori. Roba da far rabbrividire. Roba da far accapponare la pelle. Soldi che doveva dare lo Stato del resto. Quindi non solo lo Stato ti chiede denaro ma pretende anche che tu versi moneta già esistente nelle sue casse.
Ma detto fatto. Dinanzi alla pubblicazione della notizia, che ci vuole: ingrana la retro ed ecco pronto un bel provvedimento di sgravio emesso in data 11 gennaio 2023.
Conclusione: Daniele non dovrà più pagare le tasse di chi ha massacrato i suoi genitori.
Perfino il suo legale Alessandro Romoli dice che in tanti anni non ha mai visto un errore essere riconosciuto così prontamente.
La richiesta di sgravio è stata inoltrata il 5 gennaio, la risposta è arrivata mercoledì 11. Tenuto conto che in mezzo c’erano l’Epifania, un sabato e una domenica ci ha messo quarantotto ore…
Io sono contenta che Daniele non debba pagare. La vivo come una piccola vittoria. Al punto che quando me l’ha detto ho gioito con lui. Mi chiedo però quanti soldi incassi lo Stato prendendo per i fondelli la gente.

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Giornalismo estremo

In una giornata ho fatto in tempo a vedere di tutto. Neve pioggia sole vento gelo brina grandine nebbia. Ero su a Ligonchio, il paese di Iva Zanicchi, quando “mett’ha chiappato la pioggia”. Stavo facendo un’intervista.
E ha iniziato a piovere che Dio la mandava. Prima piano. Poi lento.
Come una bambina che entra in acqua la prima volta, prima bagnandosi un piede, poi un altro, poi un polpaccio, poi l’altro, poi una gamba, poi l’altra, poi la pancia, poi fino a su sul collo, poi immergendosi fino a sotto, la pioggia “mett’ha chiappato tutta”. E si è impadronita di una parte di me. Stavo intervistando una persona. Gli stavo chiedendo delle cose e la pioggia da acqua è diventata gelo. E poi neve. Neve ghiacciata. Dal cielo cadevano cubetti che parevano tanti ciondoli. Hai presente quelli? Quelli che le donne di casa mettono ancora sui lampadari per far vedere che loro c’hanno i cristalli. Io che c’ho ancora il filo con la lampadina che scende e può stare lì per altri cent’anni. So che a un certo punto non ho più sentito le parole. Ma mi dovevo concentrare. Sentivo solo i goccioloni che come bottoni bianchi argentanti cadevano dal cielo. E mi si attaccavano ovunque. Sui capelli. Sul naso. Sui davanzali mandibolari. Sulle sopracciglia. Sulle enormi borse sotto gli occhi dettate dal sempre meno sonno. Filari argentati si impadronivano dei miei capelli.
Poi. Poi siamo dovuti salire. E lì mett’è presa la foga. Volevo andare in alto. Così ci siamo addentrati nel bosco. E Dio s’è aperto il cielo. Dio se s‘è aperto. S’è aperto che pareva un ventaglio che squadernava i colori pastello e acquerello dell’autunno e dell’inverno. I boschi imbiancati d‘inverno parevano dolci fatti in casa dove lo zucchero a velo si è sciolto nel frigo. E c’ho visto anche l’arcobaleno. Ma i tempi della televisione sono stretti e godi a piccoli tratti. Piccole gocce che conservo dentro la mente prima di metterle sulla carta. Gli alberi svettavano verso l’alto e intorno c’era il deserto. Solo noi. Non una macchina. Non un’anima viva. Non una strada che portasse a un centro abitato. Era un deserto imbiancato. Il nostro scricchiolare delle foglie si confondeva col canto di qualche animale rapace.
Scesi verso il basso capitiamo in una locanda familiare dove ci sta il caminetto acceso e una bambina che serve in tavola. Ha i capelli lunghi biondi. Ha appoggiato lo zaino di scuola, che sta a venti chilometri di distanza in queste strade invisibili, e ha dato una mano al padre e alla madre. Qui crescono così. La bimba apparecchia, sparecchia, prepara il pane, serve in tavola, porta l’acqua. Chiede al padre se deve preparare la tovaglia anche per dopo. “Lascia quella, tanto lui vuole sempre la stessa”.
Siamo in ritardo. Bisogna correre. L’altra intervista ci aspetta. Ci aspettano strade piccole sterrate tortuose ondulate fatte alla velocità della luce che pare che l’auto prenda il volo. Mi chiama la redazione. Non riesco a scrivere. “Ora scendo a valle. Quando ho linea vi richiamo”.
“Tranquilla quando puoi. Non c’è problema”. Manca un’altra intervista. Sento le gambe che tremano. Prima avevo le gambe congelate. Ho tolto i calzini e li ho messi sopra le bocchette dell’aria dell’auto.
Non reggo. Penso solo alle parole. Mi concentro su quello che mi sta dicendo. Fa veramente freddo. Sento il freddo che sale. La voce che inizia a tremare. Le gambe intirizzite. Non le sento più. Finita. Cerchiamo un posto caldo. È andata. Ci rimettiamo in auto e mi metto a scrivere…

Dal diario di Facebook di lunedì 17 ottobre

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Se ti demoliscono casa con una ruspa e sei accusato di omicidio volontario

Ho letto questa roba allucinante accaduta sulle colline vicino ad Arezzo secondo cui un uomo, Sandro Mugnai, 53 anni, che di professione fa il fabbro, sarebbe stato incarcerato perché difendendosi da un delinquente albanese, tale Gezim Dodoli, che gli stava demolendo la casa con una ruspa, gli avrebbe sparato colpendolo a morte.
Mi chiedo cosa debba succedere sul pianeta Italia perché sia consentito difenderci.
Se qualche giudice si metta una mano sulla coscienza arrivando a riconoscere senza tanti complicazioni e cavilli e udienze e rinvii e processi mediatici, la legittima difesa.
Se nemmeno una ruspa serve a provare che la difesa era legittima…
Viva Dio, sfido chiunque a sopravvivere con una ruspa che ti piomba in casa. Anche perché vorrei ben vedere se domani qualche menteccatto si presentasse con una ruspa davanti un tribunale, se qualche guardia non provveda a sparargli.
Ora Mugnai, grazie al gip – un giudice c’è – è stato scarcerato ma mi chiedo chi lo ha messo dentro ipotizzando l’accusa di omicidio volontario a cosa pensasse in quel momento e quali studi abbia fatto.
Se la legittima difesa non è più legittima nemmmo dinanzi a una ruspa, che ti sfonda casa mentre la tua famiglia sta lì dentro, allora quando è legittima?
Con cosa, chiedo ai giudici, un pover’uomo si sarebbe dovuto difendere dinanzi a un albanese che gli stava sfondando l’abitazione con un escavatore? Chi avrebbe dovuto chiamare? Batman? Godzilla? Superman?
Un povero disgraziato a cui entrano in casa e ti rapinano e ti legano la moglie e la figlia con cosa si può difendere in questo Paese pieno di indottrinati e dementi?
Parlateci con questa gente vittime di rapina. Hanno l’immagine dei banditi stampata negli occhi. Non ci dormono più la notte. Si sono mangiati tutto tra avvocati giudici processi e rotture infinte di coglioni.
Quando studiavo Legge mi hanno sempre detto che la vita è sacra e che il diritto di difesa dei deliquenti è sempre legittimo.
Non ti insegnano, bada bene, – prendete appunti – che la difesa è sempre legittima. Ma che i banditi vanno difesi sempre. Capite che razza di robe ti inculcano in testa?
Poi quando ho iniziato a fare questo lavoro e ho iniziato a occuparmi di questi casi, i vari Stacchio Zancan Ermes Onichini Birolo Guido Gianni Mario Roggero ecc ecc e ho parlato con loro, ho percepito palpabile il loro terrore, la loro rabbia, la loro frustrazione. Quel sentirsi traditi da uno Stato che anziché condannarli dovrebbe difenderli. Quando uno ti entra in casa dieci volte e ti picchia e lega la moglie non stai tanto lì a pensare a come ti muovi. A calcolare se spari in proiezione ortogonale ad angolo di 90 gradi o se il proiettile cade perpendicolare al suolo o se si sfracella sul muro o se da un colpo potresti causare un rimbalzo alla velocità di 800 metri al secondo che prima rimbalza e poi esplode. Queste sono le perizie. Fare di tutto per incolpare il padre di famiglia e liberare il delinquente perché non siamo padroni in casa nostra. Ci sono perizie che paiono tavole geometriche di educazione tecnica delle medie, per provare a incastrare chi in quel momento voleva difendere la sua famiglia. “E tu hai colpito alle spalle?”, “e ti sei girato a 47 gradi” e “il colpo non era perpendicolare al pavimento” e “aspetta vieni qui che misuriamo col goniometro”.
Poi quando ho visto gli occhi di uno di loro ho capito cosa possa provare un uomo a vivere con la vita che gli scivola tra le mani.

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