In una giornata ho fatto in tempo a vedere di tutto. Neve pioggia sole vento gelo brina grandine nebbia. Ero su a Ligonchio, il paese di Iva Zanicchi, quando “mett’ha chiappato la pioggia”. Stavo facendo un’intervista.
E ha iniziato a piovere che Dio la mandava. Prima piano. Poi lento.
Come una bambina che entra in acqua la prima volta, prima bagnandosi un piede, poi un altro, poi un polpaccio, poi l’altro, poi una gamba, poi l’altra, poi la pancia, poi fino a su sul collo, poi immergendosi fino a sotto, la pioggia “mett’ha chiappato tutta”. E si è impadronita di una parte di me. Stavo intervistando una persona. Gli stavo chiedendo delle cose e la pioggia da acqua è diventata gelo. E poi neve. Neve ghiacciata. Dal cielo cadevano cubetti che parevano tanti ciondoli. Hai presente quelli? Quelli che le donne di casa mettono ancora sui lampadari per far vedere che loro c’hanno i cristalli. Io che c’ho ancora il filo con la lampadina che scende e può stare lì per altri cent’anni. So che a un certo punto non ho più sentito le parole. Ma mi dovevo concentrare. Sentivo solo i goccioloni che come bottoni bianchi argentanti cadevano dal cielo. E mi si attaccavano ovunque. Sui capelli. Sul naso. Sui davanzali mandibolari. Sulle sopracciglia. Sulle enormi borse sotto gli occhi dettate dal sempre meno sonno. Filari argentati si impadronivano dei miei capelli.
Poi. Poi siamo dovuti salire. E lì mett’è presa la foga. Volevo andare in alto. Così ci siamo addentrati nel bosco. E Dio s’è aperto il cielo. Dio se s‘è aperto. S’è aperto che pareva un ventaglio che squadernava i colori pastello e acquerello dell’autunno e dell’inverno. I boschi imbiancati d‘inverno parevano dolci fatti in casa dove lo zucchero a velo si è sciolto nel frigo. E c’ho visto anche l’arcobaleno. Ma i tempi della televisione sono stretti e godi a piccoli tratti. Piccole gocce che conservo dentro la mente prima di metterle sulla carta. Gli alberi svettavano verso l’alto e intorno c’era il deserto. Solo noi. Non una macchina. Non un’anima viva. Non una strada che portasse a un centro abitato. Era un deserto imbiancato. Il nostro scricchiolare delle foglie si confondeva col canto di qualche animale rapace.
Scesi verso il basso capitiamo in una locanda familiare dove ci sta il caminetto acceso e una bambina che serve in tavola. Ha i capelli lunghi biondi. Ha appoggiato lo zaino di scuola, che sta a venti chilometri di distanza in queste strade invisibili, e ha dato una mano al padre e alla madre. Qui crescono così. La bimba apparecchia, sparecchia, prepara il pane, serve in tavola, porta l’acqua. Chiede al padre se deve preparare la tovaglia anche per dopo. “Lascia quella, tanto lui vuole sempre la stessa”.
Siamo in ritardo. Bisogna correre. L’altra intervista ci aspetta. Ci aspettano strade piccole sterrate tortuose ondulate fatte alla velocità della luce che pare che l’auto prenda il volo. Mi chiama la redazione. Non riesco a scrivere. “Ora scendo a valle. Quando ho linea vi richiamo”.
“Tranquilla quando puoi. Non c’è problema”. Manca un’altra intervista. Sento le gambe che tremano. Prima avevo le gambe congelate. Ho tolto i calzini e li ho messi sopra le bocchette dell’aria dell’auto.
Non reggo. Penso solo alle parole. Mi concentro su quello che mi sta dicendo. Fa veramente freddo. Sento il freddo che sale. La voce che inizia a tremare. Le gambe intirizzite. Non le sento più. Finita. Cerchiamo un posto caldo. È andata. Ci rimettiamo in auto e mi metto a scrivere…
Dal diario di Facebook di lunedì 17 ottobre
sbetti
