Il mondo è fuori le righe. Io ringrazio chi mi ha fatto volare il libretto

Rimango alquanto basita da questo mondo a cui andiamo incontro. Anzi ci è già venuto addosso. Ce l’ha pure messo nel culo.
Allora a Caserta è successo che una ragazza stava facendo un esame a distanza di Medicina. Già qua. Distanza. Medicina. Tutto un dire. Insomma a un certo punto a una domanda del professore la ragazza va nel pallone. Capita. L’abbiamo fatta tutti l’università. Non è che i ragazzi di oggi, siccome c’è la pandemia, non possano essere rimproverati. Insomma dicevo, la ragazza va nel pallone e il prof le dice: “devi curarli i malati, al sesto anno parli ancora di divisione cellulare nel morto? T’hannà arrestà”.
La madre che passa da dietro e sente le parole del professore, come se ne avesse diritto, in questo mondo fottuto dove tutti hanno diritti e nessuno ha doveri, la madre rimbecca al prof e gli dice di moderare i toni: “ci sono modi e modi. Mia figlia è esaurita”. Il professore allora intraprende una breve conversazione con la madre dicendo che non è colpa sua se la figlia è esaurita.
Il video fa il giro del mondo.
Massimo Gramellini sul Corriere commenta che con la didattica a distanza: “un rimprovero solo sgradevole a porte chiuse, diventa violento in presenza di uno strumento capace di spararlo all’istante in tutto il pianeta”. E che la rivoluzione digitale ci porta a essere subito sotto gli occhi del mondo.
In realtà la dad ti porta alla convinzione che per parlare con qualcuno tu ti debba servire di una macchina. Tutte le relazioni che stiamo intrattenendo da un anno a questa parte, almeno per chi osserva attentamente le disposizioni – io francamente se posso fare le cose in presenza le faccio, sennò faccio a meno di farle – ecco tutte le relazioni che stiamo intrattenendo hanno come filtro una macchina.
La generazione che andiamo crescendo – a meno che non venga salvata da padri e madri con le palle quadrate – ecco sarà una generazione di disadatti che si convince che l’esperienza sia quella che ti porta ogni mattina a sederti dalla tazza del water alla tazza della scrivania e ascoltare un professore che parla davanti a 120 caselle.
Una volta l’Università era cosa seria. Le figure di merda agli esami sono sempre esistite. E non avevamo genitori impiccioni e aspirapolveri che si permettevano di intromettersi durante lo svolgimento di un esame. Quando mi sedetti per la prima volta all’esame di Diritto Pubblico, in una delle facoltà di Legge più difficili d’Italia, avevo il terrore. Ma è sempre stato così.
L’esame non ti metteva davanti a uno schermo. L’esame ti faceva crescere. La fifa, la paura, ti facevano maturare. Ci si sedeva in aula universitaria e si attendeva il professore che facesse la domanda. E regnava il clima di terrore perché se sbagliavi c’erano 280 studenti tuoi colleghi a guardarti. Ma si passava oltre. Amen. Capita.
Dopo che ho letto questa notizia ho pensato che stiamo crescendo una società di deficienti con tutti i genitori dietro il culo pronti a difenderti non appena qualcosa va fuori le righe.
Ma il mondo è fuori le righe! Suvvia! Quanto bello è il mondo fuori le righe. Uscire. Capacità. Regia. Improvvisazione. Vai al bar. Dell’Università. Incontri uno. Conosci quello. Nessuno quando esce di casa la mattina sa chi incontrerà. È questo il bello della vita.
Non siamo tutti impostati. Tutti sotto controllo. Con le modalità di dad, piattaforme e chissà che altro tra poco si inventeranno. Una volta sbagliare faceva parte del gioco. Ci si facevano le ossa. Il professore ti derideva? Non importa.
All’università da me facevano volare i libretti se prendevi 18 e ti davano del somaro. Uscite da queste quattro mura e riprendetevi il mondo!
Ah per la cronaca: io sono cresciuta lo stesso e paradossalmente ringrazio chi mi ha fatto volare il libretto.

#sbetti

In questa città c’è qualcosa che non ti fa mai sentire solo

Roma 25 febbraio 2021

Ogni volta che la sera poggio la testa sul letto, possa essere quello di casa, di un albergo, un hotel, un bed & breakfast; o quello di casa di un amico, un’amica, un collega, un parente; un divano letto; ecco ogni volta, cerco sempre di essere sempre grata a chi mi ha fatto stare bene o a chi mi ha trasmesso qualcosa durante la giornata. Ma soprattutto cerco di essere grata a chi la vita me l’ha donata. Senza quella. Non avrei potuto nemmeno vedere queste tante bellezze che ci sono in giro. Perché oggi giravo per Roma. Ed è bella Roma. Per davvero. E allora salivo su sul Gianicolo. E poi sul Palatino. E poi andavo su e andavo giù a piedi con la moto in taxi.
La moto andava su e su e su e su e io me ne stavo attaccata dietro con i piedini che facevano pressione come quando un uccello si attacca ai fili della luce. E più mi tenevo più avevo paura di prendere la scossa. Prendi un giorno a Roma. Sole. Sali in moto. Si parte. E a ogni curva che ti sembrava di cadere di roteare di sentirti un tutt’uno con questo mondo. Perché nella vita bisogna anche lasciarsi andare. Bisogna salirle le montagne. Passo dopo passo. Passetto dopo passetto. Facendo una sosta. Una pausa. Rimanendo in attesa col corpo sospeso sul resto del mondo. Respirare aria sana. Buona. Cambiarla quell’aria. Anche solo per vederne l’effetto. Per rientrare con stimoli nuovi. Nuova energia. Bisogna percorrerle le strade. Calpestarle. Navigarle. Circumnavigarle ancora. E ancora. E ancora.
E così mentre la moto saliva vedevo la gente correre a piedi. Fare jogging. Le auto incolonnate come tante lattine luccicate dal sole. Vedevo i cani a passeggio. I bar aperti. I negozi anche. Ma soprattutto vedevo quegli eterni monumenti. Chiese. Campanili. Obelischi. Pilastri. San Giovanni in Laterano. Le Terme di Caracalla. La villa. Quella più bella. Sentivo sotto correre i sanpietrini e l’asfalto che correva sotto le ruote. E la moto che saliva saliva e saliva.
E poi.
Poi quel pane. Un collega mi dice che qui fanno il pane più buono di Roma.
Entro e vedendo il pane a forma di Colosseo gli chiedo: ma lo posso mangiare anche domani?
Io così onnivora di tutto.
Io che la vita me le sono bevuta tutta e me la bevo ogni giorno. Ho fame. Ho sete. Ho sete di notizie. Di storie. Ho fame di tutto quello che mi fa crescere. Amare. Innovare. Prospettare. Gioire. Partire. Costruire. Me la devo bere la vita. Tutta. Devo sentire che mi sbatte addosso e che la sento dentro. Allora chiedo al panettiere se lo posso mangiare. E lui si mette a ridere. Mi dice che no. Non si può. Ingorda. Sì è pane ma è un peccato mangiarlo.
Si è fatta sera. Le case accendono le luci. Le strade accendono le luci dei lampioni. Dio quanto mi piace questa atmosfera. Mi ricorda i vecchi tempi. Mi mette un senso di nostalgia, di casa che non c’è, di mettersi alla prova. Mi mette un senso che tanto non tornerà mai niente più come prima. Di quella vita da piccoli. Mi viene in mente che in quel momento sono felice e vorrei urlare al mondo grazie. Ma chi ti sente. Canticchio Max Pezzali. Il tassista che ti chiede: “lei è milanese”.
Vedo le case. Luci. Rimmel. Il rimmel di una tipa. Sottile. Ben delineato. Parla al telefono. “Ci vuole un cambio. Eleganza. Pulizia. Ordine”. La sto a sentire. C’ha il cappotto maculato. E le unghie affusolate.
Ti mette energia. Voglia di fare.
Poi squilla il telefono. Mi chiama una madre. Mi dice che sta preoccupata per i figli. Già i figli.
“Mamma perché devo studiare. Mamma perché devo fare l’università. È asettica non ha senso”.
Non ha ritmo. Socialità. Non c’è concerto. Suona un lento adagio. Manca la musica. Manca lo schiocco delle dita. Ti sembra di perder tempo. Questo tempo perso. Questo tempo che non torna indietro. Questo tempo che stavano vivendo e un turbine a ciel sereno si è messo di traverso.
Si è fatto tardi.
È ora di rientrare.
Mi viene in mente il pane. E mi viene in mente mia madre. Lei che ripone tutto. Io che consumo invece e faccio spazio al nuovo, buttando via il vecchio. Una volta mi ricordo che le avevo regalato un orsetto. Per Pasqua. L’orso è ancora lì.
Di cioccolato. Saranno vent’anni.
Vent’anni fa.
È un peccato mangiarlo mi dice mia madre.
È un peccato mangiarlo.

#sbetti

Vo’: un anno dopo…

Vo’ Euganeo (Padova).

Imbocchiamo la strada su verso i Colli Euganei. Alla radio i Muse cantano “Resistance”. Resistenza. Ma quale resistenza. O si combatte o si muore. È passato un anno da quando siamo venuti per la prima volta a Vo’ Euganeo. Era l’anno scorso. Il giorno in cui è “scoppiato” il virus. Qui il 21 febbraio 2020, è morto il primo italiano di covid. Si chiamava Adriano Trevisan, aveva 77 anni. Stavolta alla radio non ci sono le edizioni straordinarie dei tg nazionali, stavolta ci sono le canzoni, fuori c’è il sole, la voglia di ripartire, la gente.

Il tornante indica “Vo’ 6 chilometri”. Quando arrivammo qui la prima volta ancora non si sapeva, la paura, l’angoscia, in giro non c’era anima viva, il sindaco Giuliano Martini aveva fatto chiudere tutto. Con quel piede pigiato sull’acceleratore di un’auto che faticava a salire, solo gli squarci dei fanali illuminavano i tornanti dei colli nel buio della notte, la sola cosa che si muoveva era l’insegna della pompa di benzina. Come un vecchio horror americano. Anche se tutto era vero. Il coronavirus era arrivato anche qui. Da quel giorno Vo’ venne isolata, l’esercito, i posti di blocco, i mitra spianati, i tamponi per tutti. Oggi lo scenario si presenta diverso. Oggi qui sui Colli, è domenica, c’è un sacco di gente: bambini, famiglie, nonni, cani a passeggio, ciclisti, motociclisti impennati sulle vie tortuose. Cerchiamo un posto dove pranzare: è tutto pieno. Siamo verso Teolo, Torreglia, Cinto Euganeo, la gente scende su e giù dai Colli a frotte, come profughi smarriti in fila indiana, in gruppo, profughi di una vita che è stata loro sconvolta. Il sindaco di Vo’ che fa il farmacista ci dice che perfino in farmacia sono diminuite le vendite. La gente non compra più cosmetici o farmaci non necessari. “Non ci sono soldi: un calo del 40%”.

Se la gente ha 40 euro in tasca va a mangiare fuori. Per fortuna. Anche Mauro Facchin che con il fratello tiene la storica azienda Agricola Biologica Cà del Colle, 3 generazioni, ha perso il 40%. Il loro motore è il vino e hanno anche un agriturismo. Ora chiuso. “Ho 20 posti, con il covid sarebbero 5”. Ci sono altri invece dove l’esplosione si fa sentire. Dei sei ristoranti che giriamo per pranzo: tutti pieni, uno è chiuso. A Vo’ ora vogliono venire a vivere tutti. Questo paesello divenuto assieme a Schiavonia – l’ospedale dove erano ricoverati i primi due covidizzati – in un solo giorno il centro del mondo. I curiosi sono venuti a far foto. Gli stolti credevano che il vino fosse infetto. Vo’: famoso per le sue cantine e aziende vinicole Doc. “La gente – dice il sindaco – vuole venire a vivere qui perché si sta bene”. L’impresa di costruzioni Martinello Srl da Natale ha un boom di richieste: venti clienti in coda che aspettano casa. Oltre al fatto di aver venduto 7 appartamenti prima del permesso di costruire. Ok. Ma a pancia come state? Non c’è posto. Torniamo giù, sgranocchiando una mela. Ma è la mela più bella.

Serenella Bettin

No mamma, no papà, è il mio lavoro. Ci devo andare

Oggi pomeriggio sono uscita. Avevo bisogno di camminare. Ho messo John Lennon alle cuffiette e sono partita. Sono partita con la luce e sono rientrata col buio. Per la prima volta dopo un anno. Era un anno l’anno scorso quando mi chiamarono e
mi dissero: “Sere vai a Vo’Euganeo?”. Ecco per la prima volta dopo un anno. Dopo un pranzo con i miei affetti sono riuscita a pensare al coronavirus come a un qualcosa da lasciare alle spalle. Che prende i nostri pensieri. Ma non li governa. Ancora non sapevo l’anno scorso che da quel momento le nostre vite sarebbero cambiate. E oggi sul Giornale insieme a tanti altri colleghi fantastici vi racconto la Vo’ di un anno dopo.
Quando appresi la notizia dei primi due casi di coronavirus in Veneto ero in auto, qualcuno mi mandò lo screenshot – come vi racconterò nel libro – delle edizioni straordinarie dei tg e da lì cominciò tutto. La mia famiglia era in pensiero: “dove vai ?! Stai attenta! Fai attenzione. Ma non puoi non andare?”. No mamma. No papà. Non posso. È lavoro. È il mio dovere. Ci voglio andare. Ci devo andare.
Ecco allora dicevo oggi per la prima volta ho avuto la sensazione che il covid sia qualcosa da lasciarci il prima possibile alle spalle.
Presi paura l’anno scorso. Dio se presi paura. Quella sera scrissi anche al mio collega Gian Micalessin che era stato nel 1995 era stato in Zaire sul fronte dell’Ebola. Gli scrissi perché avevo bisogno di conforto. Non sapevo se il virus mi fosse entrato in auto. Se ti fosse piombato addosso. Arrivai a Vo’Euganeo, dopo essere stata in ospedale a Schiavonia, dove morirono i primi malati di covid, e non c’era anima viva. Le luci spente. Tutti in casa. Fuori deserto. Buio. Solo l’insegna della pompa di benzina si muoveva. Il paese era spettrale. Gli abitanti erano fantasma. Nulla si muoveva. Anche il sindaco Giuliano Martini, stava chiuso nella sua stanza istituzionale e non si muoveva nessuno. Aveva fatto chiudere tutto. Aveva dato ordine a tutti di non uscire. In giro si respirava aria d’angoscia. Paura. Volevo restare ma andare a casa. Uno scenario mai visto. So che quando scesi dai tornanti e vidi quel cartello verde che mi indicava l’autostrada tirai un sospiro di sollievo. Era la via che mi riportava a casa.
Da quel momento è cambiato tutto. Quante cose abbiamo visto in questo anno. Quante cose ho condiviso con affetti amici colleghi parenti. E quella piazza che vedete è la foto di Vo’Euganeo dell’anno scorso.
Così oggi sono uscita. Avevo bisogno sfinirmi. Di fumare. Di sentire il freddo che ti sbatte addosso. E il calore del movimento che ti sale sulla gambe. Ho messo le cuffiette. Ho sintonizzato su John Lennon e mentre scarpinavo fuori al freddo consumando sigarette scarpe e gambe John Lennon cantava una delle sue canzoni più belle: Jealous Guy pubblicata sull’album Imagine nel 1971. Ragazzo geloso. E mentre John Lennon cantava vedevo la gente andare a spasso. Le auto cariche di bambini sogni e speranze. Ancora troppo paurose e intimorite da un passato difficile da dimenticare. Da un presente che tenta di stare in equilibrio. E da un futuro che speriamo tutti migliore.
E lì. Lì c’ho visto i ragazzini fumare. Le biciclette posate per terra. I palloni del basket palleggiare. Le mani prendersi. Accogliersi. Agganciarsi. C’ho visto le case piene. Le strade semivuote. Le luci accese. Le finestre aperte. Ho pianto.
Dio se ho pianto. Ho pianto e ripianto che avvolta dal calore di un movimento ho sentito freddo. C’ho visto una famiglia che tornava dal passeggio. Lei. Lui. La bimba c’aveva lo zainetto. Quello di scuola. Quello di Bing. Quello che quando andavi a scuola volevi far vedere a tutti. Ed era il più bello. Lì dentro ci mettevi dentro i sogni. I quaderni. I libri. La voglia di imparare. La capacità di apprendere. Ci mettevi dentro i colori. Le cose di scuola. Quella che era vita. Studio. Amore. Amici. Prime cotte. Poi. Poi è diventato buio e non me ne sono neanche accorta. Ho visto due fari puntarmi contro. Quelli che avrei voluto vedere quella sera a Vo’ Euganeo e invece non c’era nessuno. Quelli che avrei voluto vedere quella sera per sapere che c’era qualcuno che mi fosse venuto incontro.
Ho visto la gente mettersi in coda per la pizza. E poi davanti una casa ho visto il tricolore sventolare. E un lenzuolo sgualcito marcito dalla nebbia dove ora sbiadito ci stava scritto “andrà tutto bene”.
Il lenzuolo ha cancellato. Le nostre menti no.
“I was dreamin’ of the past – cantava John Lennon ancora alle cuffiette – And my heart was beating fast”. “Stavo sognando il passato. E il mio cuore batteva velocemente”.

sbetti

👉 https://m.ilgiornale.it/news/qui-ci-fu-vittima-ora-i-locali-sono-pieni-vogliamo-1925562.html

L’importanza delle parole

Oggi sul #Giornale è uscito un mio pezzo sui vaccini. Più tratto alcuni argomenti e più mi rendo conto di come viaggiamo a fari spenti nella notte.
E mai come in questo periodo, dall’inizio della pandemia, colgo l’assoluta importanza del nostro lavoro. Alla faccia di chi ci deride.
Il nostro lavoro in piena pandemia comporta un assoluto rispetto delle parole – mai come prima – se prima il rispetto era al 100%, almeno da parte mia e di quelli che considero colleghi umani e professionali, ecco ora il rispetto è al 110%. Non puoi sgarrare.
Mai in questa fase le parole sono state così importanti.
In piena pandemia il nostro lavoro comporta ascoltare, capire le cose, chiedere duecento trecento volte, entrare in nuovi scenari, meccanismi, giravolte, quando le notizie cambiano in un batter di ciglia e tu le devi rincorrere. Comporta sviscerare le questioni, dividere i punti, procedere per schemi, farli tornare, studiare, scinderne i rami, toccarne le radici, capire le cose, a volte anche complicate.
E oggi mentre in questa strada passavo sotto l’arco di Porta San Tommaso, di ritorno dal lavoro, e i miei piedi girovagavano e i miei pensieri andavano, pensavo e ripensavo a quello che avevo appreso. Studiato. Scritto. Pensavo se tutto tornasse. Mi imponevo di vederne tutti gli ambiti da approfondire.
E così mi dicevo non avverti più tanto l’importanza del lavoro per l’animo che muove sempre un giornalista, ma perché ora più che mai c’è l’assoluto bisogno disperato di far capire le cose. Di farle sapere. Di informare.
Mai come in questo anno mi sono resa conto della sete che le persone hanno per la conoscenza. La voglia di sapere. Il diritto di conoscere.
Mai come in questo anno mi sono resa conto della fame di conoscenza.
La mia fame. Il mio bisogno intrinseco, il desiderio di riuscire a “spiegare”. A farmi capire.
Ultimamente poi onnivora di parole. Leggo di tutto. Mi informo. Mi documento. Cerco di non perdere una lettera dell’alfabeto. Al bar. Al ristorante. In bagno. Alla radio. In auto. In coda al supermercato. Qualsiasi momento è buono per apprendere cose e capirne le parole. Farle proprie. Avere bene in testa i concetti. Le problematiche. Capirle. Metabolizzarle. Sfinirle sulla carta. Ripiegandola. Impregnandola.
Fame di sapere, entrare dentro alle parole, introfularmici, scandirle, lettera dopo lettera. Metterle in fila. Una a una. Pagina dopo pagina. Intervista dopo intervista.
Perché lo studio in qualsiasi professione è la base da cui partire. Comporta sacrificio. Fatica. Dedizione. Voglia di mettersi in gioco. Sentire la passione che ti muove dentro. Quella per cui la mattina quando ti svegli e la sera quando vai a letto, sai di aver fatto il tuo dovere. E ringrazi per continuare a farlo.

#sbetti

Cinque anni Giornale e auguri Sbetti 🦋

Oggi per me sono 5 anni di Giornale. 13 febbraio 2016. Il 13 mi ha sempre portato fortuna.
Sono arrivata come collaboratrice al Giornale con il timore e la paura di una bambina. Io così piccola, approdata con la zattera nel panorama di un mare nazionale, io così piccola mi dicevo per un quotidiano come il Giornale.
Mi ricordo che agli inizi, la mattina, quando dovevo fare le proposte avevo sempre paura a cliccare quel tasto, a inviare quel messaggio, a scrivere qualcosa che non sapevo se potesse andare bene. Se no. Ero insicura. Non sapevo. Non mi ero mai interfacciata in un contesto e in un mare così grande. Non sapevo nemmeno quali proposte fare. O meglio non sapevo se avessi avuto la capacità di cogliere delle proposte adatte per uno scenario nazionale. Letto da tutti. Da nord a sud. Da sud a nord. Est. Ovest. Centro.
Ma mi buttai. Mi ci tuffai.
Mi ci tuffai come ci si butta a mare quando non vuoi sentire l’acqua fredda che ti sbatte addosso. Che ti invade il corpo. Prima un piede. Poi l’altro. Poi il polpaccio. Poi un altro passetto. Poi mi volto. Sempre per tenere a bada la riva. La spiaggia. Il porto sicuro. Poi l’altra gamba. Poi trattengo il respiro. Poi la pancia. Poi la pancia che si fredda. Poi la confidenza con l’acqua. Poi l’acqua che sale. Sempre più su. I tuoi piedi ben piantati sulla sabbia. L’acqua che sa di sale. L’acqua che sa di mare. Poi le spalle. Poi il collo. Poi la sigaretta che finisce dentro il costume e io che lentamente mi lascio andare.
La spinta a buttarmi e a dire ok ce la posso fare, me la diede un ragazzo nel treno che va da Milano a Venezia, da Venezia a Milano. Quando ancora i treni c’erano. Mica come adesso in pandemia che per andare a Milano ce ne sta uno all’alba. E per tornare ce ne sta uno la sera. No. Galeotto fu quel treno. Galeotto fu quel ragazzo.
Ricordo che ero seduta accanto a questo gruppetto di ragazzi. E lui iniziò a raccontare che aveva conosciuto la nipote di Pessoa. Io lo lasciai parlare. Ascoltai tutto. Andò avanti un’ora. Poi quando dovetti scendere, gli dissi con la sfacciataggine di un’ eterna adolescente, sempre ribelle : “senti scusami, ho ascoltato tutto. Ma tu di questa nipote potresti darmi il contatto?”.
Lì, in quell’esatto istante capii che anche per me sarebbero arrivate le notizie. Che anche per me sarebbero arrivate le opportunità per scrivere. Che le storie se le cerchi, molte volte ti cadono addosso. Che le storie le puoi trovare pure su un treno. In aereo. La mattina al bar mentre bevi il caffè e non hai voglia di parlare.
Ecco da lì. Da lì Quei giorni è partita questa bellissima esperienza. Che prosegue tutt’oggi.
In questi cinque anni ho conosciuto colleghi fantastici. Umani. Professionali. Travolgenti. Spontanei. Sempre pronti. Che in ogni singola virgola mettono il fuoco della passione e l’anima dell’amore. In questi cinque anni ho riso. Ho pianto. Ho scritto. Ho riscritto. Ho studiato. Ho letto. Mi sono documentata. Mi sono informata. Appunti. Nottate. Speranze. Confronti. Libri. Interviste. In questi cinque anni ho conosciuto persone ammirevoli. Intervistato persone illustri. Toccato luoghi per me impensabili. Kosovo. Bosnia. Serbia. Bosnia Erzegovina. Toccato argomenti che mai nella mia vita avrei pensato di tastare. Palpare. Annusare. In questi cinque anni sono entrate dentro le storie. Le ho fatte mie. Sono stata male. Le ho vomitate. Le ho scritte. Le ho impresse nella memoria del cuore e della mente. Ho sentito i telefoni suonare. Le mail arrivare. Le notifiche su whatsapp. I giornali la mattina. Il caffè sopra le pagine. Le sigarette consumate una a una quando devi scandire il tempo e sei già in ritardo. In cinque anni mi sono ritrovata a partecipare alla Festa dei Lettori del Giornale così, da un momento all’altro, quando stavo sistemando un giorno l’armadio e mi dissero che lì dovevo andare. C’era il direttore. Tajani. C’erano persone che avevo visto solo in televisione. E poi la Val Comino. Il Festival delle Storie. Quella serate passate a riempirsi di cultura bellezza letture parole storie. Quelle giornate passate in compagnia di colleghi. Amici. Persone semplici.
Cinque anni in cui davvero devo soltanto essere grata e ringraziare chi mi ha fatto crescere.
Perché quando trovi queste persone non devi fartele scappare.
Cinque anni e mille di altri questi.

#sbetti

L’Italia intitola le proprie vie al boia

Siamo andati a vedere dove in Italia persistono le vie intitolate a Josip Broz Tito: il dittatore. Colui che si macchiò del sangue di migliaia di nostri connazionali massacrati trucidati e uccisi nelle foibe. Pagine di storia cariche di orrore.

Cosa direste se in Italia ci fosse una via intitolata ad Adolf Hitler o a Josef Mengele, il dittatore, il mostro, l’assassino, quello che selezionava i bambini di Auschwitz per farne gli esperimenti? E cosa dire invece di quelli che si stracciano le vesti, che si mostrano indignati, che si scandalizzano, che vestiti di tutto punto, col fifì e le giacchette, perbenisti, puritani, politicamente corretti, si infiammano ogni qual volta una via d’Italia venga dedicata a Oriana Fallaci? La storia del giornalismo d’Italia.

Invece per le vie intitolate al dittatore comunista, il più spietato, forse più di Stalin, va tutto bene. Girare per Parma e trovare l’insegna con scritto via Tito Josip Broz, con tanto di Capo di Stato – scritto in maiuscolo – 1892 – 1980, sembra debba essere normale.

E perché allora non intitolare una via a Norma Cossetto invece? Nostra connazionale, studentessa universitaria istriana, torturata, violentata e gettata in una foiba. È stata uccisa dai partigiani proprio di Josip Broz Tito, quello che chiamano Maresciallo Tito, nella notte tra il 4 e il 5 ottobre 1943. Lo stesso Tito a cui l’Italia ha dedicato le proprie vie, facendosi sberleffo di tutti gli italiani infoibati massacrati torturati e gettati ancora vivi nelle foibe.

Il servizio sul #Giornale.

https://www.ilgiornale.it/news/cronache/litalia-intitola-proprie-vie-dittatore-comunista-1922841.html

Guarda il video: “In che via abita?” “Via Tito, il dittatore”

https://www.ilgiornale.it/video/cronache/litalia-intitola-proprie-vie-boia-1922843.html

Il ragazzo con la divisa

Milano Centrale 2 febbraio 2021

Il ragazzo con la divisa di Trenitalia mi intima di andare avanti e di fermarmi per compilare l’autocertificazione. Mi spinge oltre la linea rossa dove davanti a me ci stanno già altre persone. Per chiunque entri o esca dalla Lombardia è necessario compilare un foglio, con delle penne messe a disposizione di tutti, con le caccole appiccicate, dove ti chiedono nome cognome residenza codice fiscale numero carta d’identità che sei consapevole a cosa vai incontro che non hai avuto contatti con positivi che non sei isolamento o quarantena e che ti stai muovendo per comprovati motivi di lavoro salute o altro urgenti barra necessari barra indispensabili barra non prorogabili hashtag #responsabili. A Padova addirittura accade di peggio. Quando arrivi in stazione, e vai verso i binari ci sono due code. Come sul #Titanic quando alla gente controllavano i pidocchi. Se sali su una Freccia ti misurano la temperatura. Se sali in prima classe ti danno anche il caffè. E se sali su un regionale la temperatura non te la misurano perché tanto chi se ne frega va bene lo stesso. Se sali poi in seconda classe il caffè ti dicono non può essere servito per motivi di contagio. In prima classe invece è risaputo stando a dati certi epidemiologici valutati e convalidati dall’Istituto superiore di Sanità, ecco è risaputo che il virus non esiste. Attacca i deboli. Gli emarginati. I casi sociali.
Quando poi compili l’autocertificazione, il tipo al gate se gli stai antipatica te la controlla, se gli stai simpatica come è successo a me “ammazza che occhi che c’hai – ma da dove vieni dove vai – tieni famiglia – complimenti alla mamma”, ecco ti lascia andare e la tua autocertificazione sale in treno con te utile per pulirsi il sedere se per caso vai al gabinetto e hanno finito la carta.
Giunta in stazione chiamo un taxi. È tardi. E sono in ritardo. Il tassista fermo da ore mi implora di salire tutto contento e mi comincia a parlare. Mi racconta che è pugliese. Che lui a casa mangia bene. Che la moglie gli fa sempre da mangiare. Che come mangia il pesce a casa lui non lo mangia nessuno. E mi dice una cosa bella e cioè che se si deve mangiare male tanto vale non mangiare e quindi lui preferisce spendere di più ma almeno mangia bene. Cose genuine. Nel tragitto che mi separa dalla stazione alla redazione il tassista pugliese che si chiama Antonio ma per gli amici Antoine mi dice come il cantante napoletano – “però tu scii bimba che vo’ capì, mica eri nata” – ecco mi fa una carrellata di frutte e verdure di stagione con tanto di pomodori e pomodorini suddivisi in base ai mesi ai giorni alla provenienza. Quando mangiare l’uno. Quando l’altro. Poi mi fa scendere e mi dice: “si prenda del tempo per sé, impari a farsi da mangiare”. Io ci rimango un po’ male e comincio a guardarmi le mani le braccia le gambe – forse gli sarò sembrata patita – forse crede che non mangio – o forse si vede che non ho tempo di fare da mangiare e nemmeno voglia – a ognuno il suo mestiere.
Poi entro in un bar. Il mio caffè. Finalmente. Non hanno il limone da mettere dentro l’acqua perché hanno riaperto ieri e non lo sapevano. Sono rimasti perfino a corto di carta igienica. Ma è tutto buono lo stesso. Gentili. Educati. Cordiali. Mi serve pure un ragazzo di colore che parla milanese. E che è lì che lavora.
Qui si vede che sanno cosa vuol dire aver vissuto la pandemia. Qua i gesti procedono ancora al rallentatore. Qui le persone procedono lente. Accorte. Attente. Camminano senza alzare lo sguardo. In questo clima nefasto di un’attesa snervante. Sospesi nella speranza che primi o poi passi tutto…

#sbetti

Venezia – Milano FrecciaRossa