Ovunque regna la sciatteria assoluta

Ieri mattina ho chiesto a un operatore dell’Agenzia delle Entrate se fosse consapevole di lavorare all’Agenzia delle Entrate. O se per caso pensasse di lavorare sulla Luna.
Gli avevo chiesto una cosa inerente alla dichiarazione dei redditi e mi ha risposto che lui fa codici fiscali e non è tenuto a dare certe informazioni. Mi ero presentata come contribuente.
Ora questo fa parte della imbecillità del lavoro.
Ossia viviamo in un mondo dove c’è gente imbecille che imbelle. Imbellere nel proprio lavoro significa non essere in grado di portare a compimento una mansione. E di essere così talmente incompetente da non potersi porre nemmeno domande.
Del resto ovunque ti giri è una disperazione. In tutti i campi regna la mediocrità assoluta. La sciatteria. La cialtronaggine. L’incompetenza. Gente totalmente mediocre che si crede arrivata. Presuntuosa. A volte pure arrogante e pure supponente. Che anche se in torto marcio pretende di avere ragione.
Molte volte questa gente viene soppiantata da persone ben più preparate ed etiche moralmente e professionalmente (fortuna ha voluto che le incontrassi nel mio lavoro) che però nonostante il loro (nostro) sforzo faticoso e particolarmente meticoloso non riescono ad alzare l’assicella della fiducia che i cittadini dovrebbero riporre verso alcuni settori.
La mia telefonata con la agenzia delle entrate è iniziata alle nove del mattino. Per concludersi alle 11.30 del mattino stesso. Due ore al telefono. In cui parlare con l’Agenzia delle Entrate è pressoché impossibile. Una serie infinita di rimandi.
Digiti tasto uno. Digiti tasto due. Digiti tasto tre. Dica il suo codice fiscale. Siamo spiacenti ma il codice non è compreso a causa di problemi con la lingua. Si invita a riprovare più tardi.
Per informazioni di carattere fiscale digiti il tasto uno. Per informazioni di accesso ai nostri servizi telematici digiti il tasto 2.
Digitato il tasto 2, rispondono che “è possibile verificare sul nostro sito se le questioni possano essere risolte”. Altrimenti si consiglia di scaricare l’app con l’assistenza virtuale. Digitare 2 se si vuole essere richiamati il 2 maggio alle 14.30.
Digitare 3 se si vuole essere richiamati il 2 maggio alle 15.30. Digitare 3 per tornare al menù principale. Digitare 4 se si vuole andare a cagare. Per parlare con un operatore digitare 1. Siamo spiacenti ma tutti i nostri consulenti sono occupati. La consigliamo di riprovare. Tu tu.
Dopo due ore riesco a parlare con un operatore del sud che mi risponde che lui non è autorizzato a darmi questo tipo di informazioni. Nonostante mi sia presentata come cittadina contribuente e che lui si occupa di codici fiscali e non di dichiarazione di redditi. Richiamo. Rifaccio tutta la trafila e riesco a mettermi in contatto con un altro operatore che mi dice che “per la delega può rivolgersi a un caf autorizzato. Questo dicono le normative e noi siamo tenuti a rispettare quello che decide il Governo”. Certo. Ci mancherebbe.
Chiamato il caf, il caf non risponde.
Al terzo tentativo: “Signora ma Tizio è iscritto al sindacato? Noi forniamo assistenza solo per gli iscritti. Si deve iscrivere e poi per la delega sono 50 euro”.
Andate a cagare.

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La Pasqua di Putin. L’affondamento della Moskva gli ha fatto girare le palle

L’affondamento della nave russa Moskva ha fatto girare le palle a Putin.
Tanto che se prima pareva interessato a qualche negoziato di “pace” – ammesso che così si possa chiamare quella cosa per cui si stringono le mani in mezzo ai morti – ora le negoziazioni sarebbero arrivate a un punto di non ritorno.
A Putin non interessa più fare la pace.
Sbigottito, frustrato, provato e moralmente travolto dalla resistenza ucraina che fin dall’inizio si è armata con cocktail di molotov, ha deciso che qualcosa di questa terra disgraziata deve pur prendere. E per salvarsi la faccia, un modo per uscire vincitore davanti agli occhi del mondo lo deve pur trovare. Non ha capito che comunque resta un perdente.
Ora, mentre si fa fotografare col cero in mano, inchiodato su se stesso, lo sguardo lapidario e di ghiaccio, nella cattedrale del Cristo Salvatore, in occasione della Pasqua ortodossa, la gente muore sotto le bombe.
Ci sono 24 navi russe ma anche sottomarini che minacciano nuovi attacchi missilistici dal Mar Nero. E a Odessa, bersagliata con missili a lungo raggio è alta precisione, si temono nuovi bombardamenti. Sabato un palazzo di 15 piani è stato bombardato in pieno giorno. Tra i morti c’è anche un neonato di tre mesi. Che significa che quando è scoppiata la guerra di mesi ne aveva uno.
È qui che punta Putin. Per il principio per cui in guerra e in amore tutto è permesso, e se vuoi una cosa poi ne vogliono un’altra e un’altra ancora, e poi un’altra fino a che ti sentirai talmente sfibrata da ridurti un ossetto, l’obiettivo non è solo il Donbass, “il granaio d’Europa”, la regione orientale, ma anche il Sud. A partire dal porto di Odessa.
Così facendo infatti si isola l’Ucraina. Uno sforzo ampio per togliere all’avversario qualsiasi sbocco sul mare strategico. È stato il vicecomandante generale Rustan Minnekaev a indicare le prossime tappe. Conquista totale della parte sud. Creazione di un corridoio tra la Crimea e il Donbass. A questo serviva Mariupol. E spinta fino alla Transinistria al confine con la Moldavia.
Ora. Ho letto che per la Pasqua ortodossa è tradizione dipingere le uova e giocare a sbattersele fra di loro. Vince chi possiede l’uovo che non si rompe. Tutti sperano che si rompa quello di Putin.

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Ma tanto è sempre colpa degli imprenditori

Ho letto le dichiarazioni della neoeletta alla guida della Cgil in Veneto, tale Tiziana Basso, che non crede alle “favole”, così da lei definite, dei giovani che rifiutano il posto di lavoro e degli imprenditori che si affannano a cercare personale.
Vorrei chiedere alla neopresidente della Cgil dove vive.
Visti io con i miei occhi, alcuni ragazzi che non sanno manco se inviano un curriculum in un bar o in un ristorante. Ragazzi che non vogliono fare turni, non vogliono lavorare il weekend, non vogliono rinunciare a sabati domeniche o feste, perché Dio mio no, le feste sono sacre.
Ce ne sono di bravi e volenterosi certo, non lo metto in dubbio, ma sono una minoranza.
Una mia amica che ha un bar, per trovare una cameriera decente ha impiegato sei mesi. Mi ha mostrato delle conversazioni con gente candidata che mettersi le mani sui capelli è poco. La maggioranza si presenta il giorno del colloquio sul luogo del lavoro all’orario in cui stabiliscono loro perché “scusami” – danno pure del tu manco del lei – “mi si è fermata la macchina”, “scusami non sapevo dove parcheggiare”, “scusami mi ha accompagnato mia madre”.
Gente totalmente irrispettosa, presuntuosa, che si crede arrivata. Una volta ne ho incontrato uno che faceva lo stagista in uno studio di architetti.
Il titolare gli aveva chiesto se gentilmente poteva scendere a prendere delle paste (dandogli i soldi ovviamente) perché era il compleanno di un collega dell’ufficio. Questo gli ha risposto che non ha studiato anni per comprare le pastine.
Figlio mio, io quando facevo la praticante – segretaria in uno studio andavo a comprare perfino la carta igienica. Andavo in ufficio anche il giorno di Ferragosto per innaffiare le piante. E quando ho cominciato a fare questo mestiere, all’inizio per campare di lavori ne facevo tre. Compresa la barista.
Sinceramente se tornassi indietro rifarei tutto.
Li ringrazio quelli che mi hanno sfruttato.
Visti io con i miei occhi poi i curriculum di certi ragazzi che non avendo mai lavorato in vita loro, nemmeno innaffiato un albero di frutta, scrivono che si vedrebbero bene a gestire delle persone. Curriculum totalmente privi di personalità, umiltà, intraprendenza, tutto subito. Alcuni anche ignoranti. Uno una volta alla casella “nazionalità”, anziché scrivere italiana ha scritto il comune in cui risiedeva.
Capite che siamo fuori dal mondo.
Parlo con titolari di alberghi e ristoranti disperati perché durante la pandemia si sono tutti adagiati. E dire che ci sono strutture che ti garantiscono anche l’alloggio ma prendere e sgobbare tutto il giorno non va più di moda. Meglio scaricare le app dove sei figo se fai video ridicoli e la gente ti segue.
Ma tanto è sempre colpa degli imprenditori.
Siamo un Paese di sinistri.
Dove lo Stato per imbambolare e imbonire i giovani concede mance, mancette, sussidi, bonus, elemosine, redditi senza sputare uno zampillo di sangue. Bene così.
Quando rincoglionisci il popolo la colpa è di chi ci casca.

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Mariupol. Una città sottoterra

Acciaieria Azovstal di Mariupol

Mi colpisce molto la vicenda dell’acciaieria di Mariupol. E di Mariupol in sé.
Il simbolo di questo martirio. Una città sottoterra di gente che respira e lotta per la vita.
Ho visto alcune immagini dove si vedono impianti, gallerie, centri di controllo, tunnel.
Sono 11 chilometri quadrati di gallerie sotterranee, forni, binari, cunicoli.
Dicono che l’intera rete di tunnel là sotto possa ospitare fino a 40 mila persone. Ora parrebbero esserci civili. Donne. Anziani. Bambini. La cui alternativa è uscire e farsi catturare dai russi. (Sarebbero già 40 mila i cittadini di Mariupol deportati in Russia o in zone ucraine controllate dal Cremlino). O soccombere all’interno e morire.
Dallo zar pare sia arrivato l’ordine di bombardare l’intero stabilimento. E chi se ne frega se ci sono i civili. Anzi. Hanno detto che a chi si arrenderà sarà “garantita la conservazione della vita”.
Che è come dire a un uomo di uscire da una gabbia dove fuori ci sono i leoni.
Oppure una ipotesi è anche che le truppe russe non sappiano che lì sotto oltre ai soldati respirano altre persone.
Stando a una conversazione intercettata dal servizio di sicurezza ucraino, di un soldato russo con la moglie, i colbacchi sono convinti che lì sotto “ci siano solo alcuni irriducibili patrioti”. L’acciaieria di Mariupol, la Azovstal è la più grande d’Europa vicina al porto. Qui sarebbero nascosti mille civili ucraini. Ho letto un post di un soldato che dice che bisogna far uscire i civili, altrimenti si corre il rischio di usarli come scudi. Usciti i civili infatti, allora l’acciaieria si può bombardare. Anche se gli edifici sono fatti di cemento armato rinforzato capaci di resistere alle bombe. Ma al Cremlino non interessa.
Per ogni bomba sganciata lo Zar spende dai mille ai 3 mila dollari. La guerra costa a Putin la bellezza di trenta milioni di dollari al giorno. A cui vanno aggiunti personale, forniture, mezzi, eccetera eccetera. Ma nonostante questo non cede. Mariupol gli serve come propaganda, slancio morale.
Per i russi sarebbe la prima vittoria della loro “operazione speciale”. Così lo chiamano loro questo orrore che da 51 giorni provoca sangue e morte. La città è uno degli obiettivi essenziali di Putin, perché permette di aprire un canale e avere il controllo del Mar d’Azov e dell’80% della costa ucraina del Mar Nero.
La Russia da settimane continua a dire che Mariupol è stata espugnata. Ma l’Ucraina dice no. Fino a che l’ultimo soldato ucraino non sarà stato preso Mariupol rimane sotto il governo ucraino.

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L’inferno di Makariv. La mia intervista al sindaco

Vadim Tokar

“Sono arrivati il quarto giorno di guerra. Le colonne russe di veicoli blindati si sono avvicinati alla città di #Makariv. Siamo stati circondati per 4-5 giorni”.
Da lì è stato l’inferno.

La mia intervista uscita su Libero

Vadim Tokar è il sindaco di Makariv. L’ennesima città ucraina stuprata e devastata dalla follia russa. Un insediamento a circa sessanta chilometri a ovest di Kiev. 

Lo contatto una mattina di qualche giorno fa. Lui prima di indossare le vesti di combattente faceva l’avvocato. Poi ha dovuto imbracciare le armi e incarcerarsi dentro la divisa grigio verde. Lo fa per il suo popolo. Per la sua gente. Prima della guerra il suo profilo Facebook pullula di immagini di lavori comunali, consigli, riunioni, foto dal suo studio, frasi e motti da servitore della giustizia. “La giustizia è la nostra arma – scrive – Il nostro scopo è servire il bene, proteggere i diritti delle persone, creare condizioni uguali per tutti e creare un senso generale di giustizia nella società”.

Il 24 febbraio, il giorno in cui è scoppiato questo dannato inferno, ricondivide un post dove si dice che – traduzione letterale – “Il mondo non è stato sfidato da un uomo. Quindi quando non è un essere umano, Dio è con noi”. 

Ha anche riferito di essere stato insignito di una medaglia d’onore dal presidente ucraino Volodymyr Zelensky dopo l’occupazione dei russi. 

La cittadina è considerata la nuova Bucha. Ma i russi si sono dovuti ritirare anche qui, nel loro cambio di strategia, che li costringe a ripiegare solo sul Donbass. È il fallimento della guerra lampo. 

Il giorno che lo contatto mi risponde: “Ora stiamo ripristinando la luce, la fornitura di gas, rimuovendo i blocchi. E soprattutto, descriviamo e mandiamo a esaminare i cadaveri dei civili uccisi dai russi”. Kiev ha deciso di documentare la atrocità commesse dal Cremlino con un sito online dedicato, con foto, video e testimonianze interattive. La connessione va e viene. La città è distrutta per metà. E i soccorritori hanno trovato cadaveri con le mani legate.

La mattina di Pasqua ricevo un messaggio. “Scusa. Ho dovuto riposare da tutto e da tutti. Il mio cervello si rifiutava di lavorare correttamente”. Questa è la sua Pasqua. Questo è la sua domenica. Ma non c’è niente da festeggiare.

Sindaco cos’è successo a Makariv?

“Il quarto giorno di guerra, cioè il 28 febbraio, le colonne russe di veicoli blindati si sono avvicinate alla periferia di Makariv”. 

Sono entrati subito in città? 

“Sono stati accolti dalle forze di difesa territoriale e non hanno avuto il permesso di entrare. L’effetto sorpresa ha funzionato: le bestie russe non si aspettavano di incontrare alcuna resistenza, quindi non hanno osato avanzare nella città”. 

Come vi siete difesi? 

“All’inizio della guerra a Makariv c’erano solo forze di difesa territoriale. Avevamo solo fucili d’assalto Kalashnikov e 8 RPG – lanciarazzi ndr – Abbiamo capito che non avevamo alcuna possibilità con tali armi ma nessuno aveva intenzione di cedere la città. Siamo stati circondati per 4-5 giorni, poi le forze armate dell’Ucraina hanno cacciato gli orchi da diversi villaggi circostanti e hanno preso posizione a Makariv. Solo allora abbiamo potuto iniziare l’evacuazione dei civili”. 

Ma i russi poi sono entrati? Hanno iniziato subito a bombardare? 

“Hanno preso posizione alla periferia di Makariv, dopo di che hanno iniziato a bombardare la città con l’artiglieria, le mine e gli attacchi aerei. E a loro non importava che i civili fossero nelle loro case”. 

Quanti civili sono riusciti a scappare? E quanti sono morti?

“Prima della guerra, Makariv era una cittadina di circa 15 mila abitanti. Durante la fase attiva della difesa, ne sono rimasti meno di mille. Questo nella stessa Makariv. Più di 160 civili sono stati uccisi in tutta la comunità durante i combattimenti”. 

È a conoscenza di casi di torture? I soldati russi hanno violentato le donne? 

“Sì. Sono a conoscenza di due casi confermati di stupro nella comunità. Una ragazza è stata violentata a Makariv e una ad Andriivka.

Dopo lo stupro, entrambe le ragazze sono state uccise. Inoltre, alla ragazza di Makariv è stata tagliata la gola”. 

Quanti anni avevano? 

“Una 17, un’altra 25 ma non lo so con certezza”. 

Sono stati torturati dei bambini? 

“Non conosco fatti di tortura avvenuti sui bambini nella nostra comunità. Tuttavia, abbiamo trovato i corpi dei bambini … e di regola erano tutti vicino alle auto sparate dei civili che cercavano di lasciare il territorio occupato per il controllo del governo ucraino”. 

Ora Makariv è un cumulo di macerie. E di vite distrutte. Il ministero della Difesa ucraino l’ha definito “un nuovo, mostruoso crimine di guerra”. 

Serenella Bettin

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#nowar #ucraina #ukraine

L’Anpi ne sforna una dietro l’altra

Manifesto per il 25 aprile creato dall’Anpi

L’Anpi ne sforna una dietro l’altra. L’ultimo capolavoro è il volantino con le bandiere ungheresi al posto di quelle italiane. Roba da far accapponare la pelle.
Non è di certo una bella figura infatti quella che ha fatto l’Anpi, l’associazione nazionale partigiani d’Italia che di partigiani ormai non ha più manco i nomi – su 120 mila iscritti solo il 3% ha combattuto veramente – stampando i volantini per le celebrazioni del 25 aprile con le bandiere ungheresi al posto di quelle italiane. Una svista forse. O l’ignoranza.
Ma l’Anpi dovrebbe sapere che “La bandiera della Repubblica – come predispone la nostra Costituzione – è il tricolore italiano: verde, bianco e rosso” e che è “a tre bande verticali di eguali dimensioni”.
L’associazione dei partigiani invece anziché stamparci le bande verticali le ha messe orizzontali forse perché il grafico non era in grado di capovolgerle – di questi tempi trovare qualcuno che faccia un lavoro decente è diventato come cercare l’acqua nel deserto. Se poi ci aggiungiamo le dichiarazioni imbarazzanti del presidente Gianfranco Pagliarulo ecco che l’Anpi ha fatto un filotto infilando in fila una dietro l’altra encomiabili perle da farci riflettere.
Prima la richiesta di una commissione d’inchiesta per appurare cosa sia avvenuto davvero a Bucha. Una cosa che dall’Anpi non ti aspetteresti mai.
Poi la bandiera sbagliata. E poi il no alle bandiere della Nato per le celebrazioni del 25 Aprile. “Le bandiere Nato sono inappropriate – ha detto Pagliarulo – in questa circostanza in cui bisogna parlare di pace”.
Proprio la sinistra che quando è scesa in piazza c’aveva le bandiere rosse di tutti i sindacati del mondo ma di quella ucraina manco l’ombra.
Del resto né di qui né di lì, né con Putin né con la Nato, è un ragionamento che va molto di moda di questi tempi. Come quelli che con i vaccini ti dicevano: “No io non sono no vax però…”.
Ma il problema è di questa gente incapace di prendere una posizione. Gente molle flaccida che non sta né di qua e né di là e che pur di garantirsi un posto da qualche parte, un giorno dà un colpo al cerchio e un giorno alla botte. Un po’ come una donna (o come un uomo) che pur di fare carriera va a seconda di dove tira il vento. E non solo.
La sinistra lo sa fare bene. A caccia di fascisti ormai morti e sepolti. Negazionisti di foibe tanto che a Viterbo per il 25 aprile ci dedicheranno un evento; e paladini di aiuti verso navi cariche di migranti gestiti da trafficanti che con i finti profughi ci hanno fatto i soldi. Una distorsione della realtà che contrasta con quegli intellò di sinistra che ritengono di avere il monopolio della cultura.
Peccato che qui oltre a sbagliare i tricolori hanno saltato vari passaggi.
Forse i libri di storia sono ancora rimasti incelofanati.

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Venezia scoppia. Di chi è la colpa?

Foto d’archivio

Mi pare che stiamo un po’ esagerando. A Venezia il comandante dei vigili si è lamentato perché ci sono troppi turisti e Venezia è stata presa d’assalto. Centoventimila sarebbero i migranti visitatori nella giornata di Sabato Santo.
E i residenti borbottano. Sbottano. Sono reclusi. Si sentono sequestrati e accerchiati da questi turisti che brulicano come polli.
In effetti Venezia prima dell’acqua alta del 2019, era il 12 novembre, era piena di gente.
Dio come ricordo quel giorno. E il giorno dopo e il giorno dopo ancora. Stetti lì una settimana.
L’acqua ad altezza delle anche, ti entrava dentro le braghe tirate su fino al collo, molle inzuppate raggrinzite dall’umido.
Vedevi le barche sbattere. E le panche e le passerelle ondeggiare e i negozianti che gettavano via l’acqua a fiotti. Prima un secchio. Poi un altro. E un altro ancora. Code a destra. Code a sinistra.
E a ogni mezzo secchio era una bestemmia. Un’impresa. Un’imprecazione. E un “ta morti cani”. E un “ghe sboro”. E un “ti ga da vardar”.
Ecco dicevo prima dell’acqua granda, Venezia ha sempre pullulato di turisti che brulicano come polli e si ammassano nelle piazze. E invadono le calli. E si tuffano dai ponti. E con le mani impiastricciate di gelato si appiccicano ai negozi. Ma poi. Poi è scoppiata la pandemia. E Venezia si è svuotata. Basta. Niente. Vuota.
Un giorno durante il lockdown ci ho fatto un giro e mi sembrava di essere approdata col treno su un’isola deserta. Ricordo che ho girato per 25 minuti senza trovare anima viva. Venezia vuota. Venezia deserta. Venezia senza veneziani. Mi ricordo che mi metteva una certa angoscia vedere Venezia così deserta che mi sono seduta su una panchina e mi sono messa a piangere. Ho chiamato mia madre.
Non vedevo l’ora di andarmene. Volevo toccarla con mano quella Venezia. Agguantarla. Prenderla. Afferrarla. Avvinghiarla per i tetti e le barche e i moli e le gondole e le cupole e le piazze e i monumenti e dirle: “Parla un po’ con me. Raccontami qualcosa. Balla. Canta. Grida. Ma fa qualcosa. Torna viva”. Ma niente. Venezia non rispondeva. Muta. Sola. La morte. Metteva paura.
Poi un giorno ci sono tornata e ci ho visto la gente fare jogging. Una roba mai vista. La gente fare ginnastica a Venezia è roba da favola. In genere sei intrappolato tra i selfie di turisti, i cappelli degli uomini e il trottellerare dei trolley. Quando venne l’acqua alta però molti commercianti si lamentarono. Ci hanno tolto tutto. Quando venne la pandemia non ne parliamo. Venezia tuonavano. Venezia così senza turisti muore. Un disastro. La morte.
E infatti ci sono stata 15 giorni fa e ho notato dopo quattro cinque minuti che camminavo a piedi, anche perché a Venezia solo a piedi puoi andare, che la città è in mano ai cinesi e ai Bangla.
Qui fanno fortuna solo questi.
Mentre mi dirigevo verso piazza San Marco ho visto che il tragitto è pieno zeppo di locali sfitti malconci malmessi vuoti. Robe da far accapponare la pelle. Ci sono ancora hotel chiusi. Ristoranti che hanno chiuso definitivamente e al riquadro rettangolare appiccato al muro, dicesi bacheca, con il menù hanno apposto il cartello con scritto “Vendesi”. “Affittasi”. “Cedesi attività”. Gli unici che stanno aprendo sono indiani bengalesi e cinesi. Vendono roba per straccioni. Sciatta. Di bassa gamma. Schifezze ineguagliabili che valgono la pena di fermarsi perché costano un euro e qualche souvenir a casa devi pur portarlo.
Non solo. Avendo tempo, siccome cercavo un regalo, nel negozio dove sono entrata in una mattinata intera, erano le 13, quello era il suo primo scontrino. Invece dai chaina e dai bangla dove ti vendono plasticone da tavoletta del cesso come fosse vetro di Murano, gli scontrini alle due del pomeriggio arrivavano a quota 80.
Ora il sindaco Luigi Brugnaro con una ordinanza ha vietato l’apertura di negozi paccottiglia da bassa lega – roba inguardabile – schifezze ineguagliabili almeno a Rialto e piazza San Marco. Ma tanto cambia poco. Perché mancano i turisti che spendono soldi. E quelli che ci sono entrano dentro queste bugigattole di paccottiglia che ti viene l’orticaria solo a guardarle. Quando c’è stata l’acqua alta e le calli erano invase dai souvenir che galleggiavano come i piatti sul Titanic semi affondato, ho visto io con i miei occhi i bengalesi e gli indiani correre a recuperarli e infilarli nei sacchi e rimetterli in vetrina. Anche se ci avevano pisciato i topi.
Un mascareto invece. Una delle più antiche arti veneziane oramai scomparse – In una città dove al posto dei teatri ci fanno i supermercati – Ancora con il grembiule addosso sporco di colore, dipingeva per se stesso. “Questo mestiere è ormai morto – mi ha detto – Ci hanno tolto tutto”.
A fianco invece il kebabbaro c’avea la coda.
Ora però sul più bello che tornano i turisti assetati da una bellezza mai morta e ingordi di vita e bramanti di bellezza, ci si lamenta perché Venezia è piena. Venezia è presa d’assalto. Aiuto. Statevene a casa vostra. Quando fino a pochi mesi fa si reclamava l’assenza di visitatori e una Venezia che muore.
Mettetevi d’accordo. Dire che non vi va bene un cazzo è dire poco 🐣

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📸 Foto d’archivio (ma che riflette bene la situazione)

Affonda la nave simbolo della flotta dello Zar

È lunga due volte un campo da calcio. E pesa 12 mila e 500 tonnellate. Ma è affondata.
La Moskva è colata a picco nella notte tra giovedì e venerdì mentre veniva rimorchiata.
Una nave simbolo per la Russia. La più potente. Quella meglio equipaggiata. Al comando della flotta nel Mar Nero dall’inizio di questa assurda guerra bastarda.
Era stampata sui francobolli sovietici del 1970. E ora è stampata su quelli simbolo della resistenza ucraina: “Nave da guerra russa vai a farti fottere”.
Gli ucraini hanno rivendicato di averla colpita con due missili Neptune. Missili entrati in funzione all’inizio dell’anno con un raggio di circa 200 chilometri e una testata capace di accogliere fino a 300 chili di esplosivo.
I russi invece hanno continuato a parlare di un incendio scoppiato a bordo, per cause non meglio precisate, che ha costretto a evacuare la nave.
La cui versione sarebbe ancor peggiore perché si tratta di un suicidio dichiarato. Assistito.
Un alto funzionario del Pentagono ha ribadito la versione di Kiev: “Stimiamo che l’abbiano colpito con due Neptune”.
“Un duro colpo” per Mosca e per Putin. Morale. D’immagine. Di strategia. Il dittatore del Cremlino ci perde la faccia. Anche perché se così fosse è un’altra impresa impossibile compiuta dagli ucraini di quelle che mai diresti.
È una delle più grandi navi da guerra dai tempi del secondo conflitto mondiale.
Centottantasei metri, un valore secondo Forbes di 750 milioni di dollari, la nave di punta della flotta dello Zar era stata costruita in Ucraina ai tempi dell’Urss ed era entrata in servizio all’inizio degli anni Ottanta.
Un colpo che mette a dura prova la narrazione di questa storia dato che la Russia ha contraccambiato il colpo bombardando la fabbrica di missili che produce i Neptune in un sobborgo di Kiev. E ci aspetta che la Russia aumenti la flotta del Mar Nero come ha fatto sapere il già capo di Stato Maggiore della Marina Italiana, Giuseppe De Giorgi.
Con quello di oggi sono 52 giorni che la Russia e l’Ucraina sono in guerra. E in 52 giorni gli ucraini hanno organizzato la difensiva. Hanno predisposto la resistenza. Si sono messi a cucire giubbotti antiproiettile. Di nascosto. Nei rifugi. Nei sotterranei. Nei bunker. Intonando canti. Cori. Facendo cucire bambini. Si sono messi a fabbricare molotov. Hanno imbracciato le armi. Imparato a sparare. Hanno rifornito i loro soldati.
Sono riusciti a bucare i cieli russi…
Ma non si arresta.
Non c’è verso. Zelensky continua a chiedere armi più potenti. La nave è stata colpita con i nuovi razzi. Ma servono i carri armati. Biden manda un altro pacchetto di armamenti da 800 milioni di dollari.
Per Putin potranno esserci conseguenze imprevedibili.
Non è un film.
È la guerra.
Buon Sabato Santo.

#sbetti

Il mio ritorno

Questa mattina mi sono svegliata e ho detto a mia madre: “Chissà se mi ricordo ancora a fare questo mestiere”.
Esco oggi da due mesi di buio.
In tanti mi hanno scritto, ad alcuni ho detto la verità, ad altri non ho raccontato menzogna ma mi sono limitata semplicemente a non dire nulla.
Quella famosa sospensione decretata dall’Ordine dei Giornalisti si è conclusa.
Deo gratias.
Non ho voluto esternarlo nei social, anche se qualcuno si aspettava lo facessi, perché quando è iniziata la sospensione soffiavano i venti di guerra sull’Ucraina. E sinceramente con la gente che muore sotto le bombe, la mia sospensione è poca cosa. Nulla. Fa ridere.
Non me la sentivo di lamentarmi dinanzi a storie di uomini costretti al fronte o anziani, donne e bambini che vedono la propria vita ridursi dentro fagotti in un confine che li porta dalla guerra alla pace.
Però mi ha mosso molto. Tanto che ho scritto un libro. Un altro. Oltre a quello che sta per uscire sulla violenza contro la donna.
All’inizio non riuscivo a capire perché dovessi scontare una pena per una cosa di cui non mi sento responsabile. In quanto, seppure l’errore, venni indotta a fare un pezzo su un monito accalorato di alcuni capi di un quotidiano locale che non sto qui a menzionarvi quale. Roba vecchia. Sette anni fa.
E poi mi ha mosso perché sono stati due mesi dove ho fatto i conti con me stessa. Come dovrebbero farli tutti. Non ho avuto cori mediatici. Onde mosse dalla foga dei like e dei tweet. Non ho avuto sostegni nelle storie su Instagram che durano 24 ore e poi chi se ne frega. Ho avuto il sostegno di chi in questi due mesi mi è stato accanto. Mi bastava quello.
E nemmeno ho voluto essere usata come ariete di qualche politico dove alla fine chi ce ne rimette sono soltanto io. Ho voluto stare in silenzio. Sola con me stessa. Facendomi spazio in una vita nuova che emergeva. Togliendo la polvere dal passato. L’ho fatto. Calpestando il presente con i piedi nudi a terra. Scalzi. Incarcerati dentro la condanna. Sognando ancora il futuro.
Questa mattina quando mi sono svegliata, sono balzata giù dal letto, ho scaraventato via le lenzuola, mi sono fatta la doccia, ho lasciato entrare il sole, mi sono messa su il caffè, ho acceso la sigaretta, sembravo una ragazzina che si prepara a fare la prima liceo nel suo primo giorno di scuola. Quando mi ha chiamato mia madre, stavo andando a comprare i giornali. Quelli che leggono i giornalisti la mattina per fare la rassegna stampa. Quelli che in questi due mesi ho sempre letto. Come da nove anni a questa parte. Nove anni. Ero una ragazzina. Quante ne ho fatte. Chiamate nel cuore della notte. Vite al fronte. In caserma con i militari. In Kosovo. In Serbia. In Bosnia Erzegovina. Nei centri accoglienza dove mi sono infiltrata. Ho perso compleanni. Feste. Gite con i parenti. Amori. Ho scritto dagli autogrilli. Dai cessi. Negli orari più improbabili. Nelle condizioni più dismesse. Questo è il nostro lavoro. E per questo lo amo.
A mia madre stamattina ho detto: “Chissà se mi ricordo ancora come si fa questo mestiere”. Perché è così che ci sente. Con le dita rattrappite. La ruggine.
E non vi nego che in me c’erano la tremarella. Il fiato corto. Le mani sudate. Lo sguardo pensieroso. Quando ho visto la prima cosa arrivare da fare, mi sono scese le lacrime. Dietro due mesi di sospensione ci sono un danno psicologico. La mancanza di lavoro che provoca isolamento. Emarginazione. Che ti fa sentire senza un appiglio. Un aggancio. Anche perché diciamocelo qua. Io ho accettato la condanna. Ma di fatto sono due mesi che non lavoro. E dire che dovevano essere nove. (La tutela del precariato non è roba per l’Italia). Ma il mio avvocato, Raffaele Nardoianni, ha fatto un lavorone.
Così in queste due ultime settimane ho lubrificato gli ingranaggi. Gonfiato le ruote. Lucidato i paraurti. (Ci vogliono anche quelli).
Ho fatto benzina (Anche se è aumentata e costa troppo). Ho innescato i motori. Li ho quasi accesi. Ma ancora devo accelerare. Ancora qualche giorno. Anche perché mi chiedo. E me lo sono chiesta varie volte. Perché mai un ente che ti vuole insegnare il mestiere, te lo insegna togliendotelo.
Questo non l’ho ancora capito.
Ci vediamo presto.
Tranquilli. Ho i nervi di ghiaccio.

#sbetti

C’è una paura più grande della paura stessa. Quella di non essere creduta

C’è una narrazione che prende una certa piega e che mi fa paura. Ed è la paura di non essere creduti. Accade sempre nei processi per stupro. O per violenza sessuale. Ma accade anche prima dei processi.
Le vittime, oltre a doversi difendere, devono dimostrare che hanno subito una violenza sessuale. In tutte, ancora prima di iniziare il dibattimento si arriccia un pensiero ricorrente. Un incubo. Che è quello di non essere credute.
Questo è un po’ quello che sta accadendo con l’Ucraina. Al di là delle narrazioni. C’è ancora chi mette in dubbio che la Russia sia l’invasore. Anche il Cremlino nega tutto.
E l’Ucraina per il timore di non essere presa sul serio è costretta a dover fornire le prove di qualunque misfatto. Le prove, soprattutto nel nostro lavoro sono fondamentali. I dubbi anche. Ma dinanzi alle testimonianze. Dinanzi alle foto. Quali altri dubbi vogliamo sollevare? Ne ho avuto la conferma stasera. Nella immagine che qui posto si vede una bella ragazza che ha aderito alla campagna: posta una tua foto a sinistra e accanto una foto di una persona morta nel massacro di Bucha. Nella foto c’è scritto: “Quella a sinistra sono io. Ma anche quella a destra avrei potuto essere io”. Il governo russo ha preso queste foto modificandole e cambiandole totalmente. Scrivendoci sopra: “Questa sono io. E quella a destra anche. I russi mi hanno ammazzato perché sono Ucraina”. Anche una persona povera di comprendonio sarebbe arrivata a capire che una persona morta non può avere scritto niente. I russi infatti lo hanno fatto per questo. Per far vedere che è un falso. Massimo Giletti però ha contattato una di queste ragazze e c’ha parlato. È andato in onda un audio tradotto dove si sentono le parole della giovane ucraina spiegare che i russi hanno modificato il post. Dinanzi a questo il giornalista russo Bobrovsky in collegamento in studio ha asserito che non era vero. Che era tutto falso. Che era una montatura.
Che gli ucraini e gli occidentali inventano tutto. Giletti letteralmente gli ha detto che non doveva permettersi di prenderlo per il culo.
Siamo d’accordo sul fatto che per parlare bisogna vedere. Ma è anche vero che non basta mai.
Quando ti stupreranno ti diranno che ti sei inventata tutto. E questo fa paura.

#sbetti

Adoro le persone calme

Milano 2022

Dovevo pranzare al volo, cercavo le patate, e mi sono fermata in un posticino.
Si chiama Venice. È già un po’ di volte che ci vengo e ogni volta ne esco soddisfatta. Mi sento soddisfatta più che altro perché ogni volta che migro in una città cerco sempre un posto che mi faccia sentire a casa. Noi zingari abbiamo più radici degli alberi.
Ma soprattutto perché mi piacciono le realtà di famiglia. Le conduzioni familiari. Quelle dove ti senti a casa. Quelle dove chi sta in cassa chiama la cameriera “zia”. Chi sta in sala chiama la barista “mamma”. Chi sta in cucina chiama il cuoco “Babbo”. Poi mentre stai mangiando a orari del tutto scombussolati, si siedono accanto e a turno mangiano. Noi coltivatori di gamba e di suole ci siamo abituati. Ma soprattutto mi piacciono quelle realtà gestite da gente che sgobba. Che lavora.
Non mi piacciono i fast food. I cibi in serie. Quelli che ti arrivano sul piatto e non sai se sono fatti alla Montedison. Mi piacciono quelle cucine dove le cose vengono preparate con cura. Dove le patate sono ancora calde. Croccano. Le senti croccare dentro la bocca. E soprattutto mi piacciono quelli che quando ti parlano ti guardano negli occhi. Semplici. Umili. Lavoratori. Gentili. Cordiali.
Stando sempre a contatto con la gente non tollero chi urla. Adoro le persone piote. Calme. Riflessive. Equilibrate. Ma energiche. Ci devo vedere la vita addosso. Quelle che mettono in fila i pensieri e li fanno propri. Non mi piace la gente spaccona. Grezza. Incolta. Quella che grida quando arriva. Quella confusa. Quella in ansia. Quelli che ti fanno credere che spaccano il mondo e non ne fanno manco una. Questi non li sopporto. Mentre penso questo. Alzo lo sguardo. La cameriera c’ha il vestito lungo oltremare con la gonna con le pieghe e la maglia dorata.
Agli occhi indossa un ombretto fantastico verde azzurro misto che le illumina gli occhi che Dio te li immagini. Il caschetto ben curato. Ben tenuto. Il caffè è stralusso.
Più in alto ci sta una scritta.
Questo è il caffè della Mary.

#sbetti

Venice Ristorante

“Volete la pace o l’aria condizionata?”

Ieri mi ha chiamato un signore che vive in un appartamento di 70 metri quadri e che percepisce 480 euro di pensione.
Dal 31 dicembre 2021 al 28 febbraio 2022 gli sono arrivati 1.055 euro di gas da pagare. Un mese 500 euro, oltre la sua pensione.
Ho chiesto al signore di farmi una foto della bolletta e mandarmela ma non è dotato di smartphone e non sa come fare. Mi fido.
Ne sento tanti ultimamente che stanno ricevendo bollette folli. Anzi con Libero fummo i primi a scriverne, quando ancora la gente credeva fossero solo voci. Ieri Draghi ha chiesto agli italiani se preferiscono la pace o l’aria condizionata. Sinceramente non ho capito la domanda. Uno perché io l’aria condizionata non la uso. Però so che salva la vita a tante persone che altrimenti col caldo e l’afa creperebbero dal caldo e non è fantasia. E due perché le due cose non mi paiono paragonabili.
Qualsiasi stupido ma dotato di un minimo di intelletto ti risponderebbe che vorrebbe la pace in tutto il mondo, dato che a parte a Putin, vedere teste mozze e cadaveri sventrati in giro per le città mi pare non piaccia a nessuno. Il punto è che grazie a una gestione miope di Verdi e grillini ora rischiamo di ritrovarci col culo al freddo e al caldo visto che non ci sarà energia per far andare i condizionatori.
Stiamo pagando anni di ostinati No a qualsiasi tipo di estrazione e produzione di gas nostrano. Non solo. Senza il gas di Vlad, rischiamo anche di perdere posti di lavoro. Non l’ha detto Nostradamus. L’ha scritto il ministero dell’Interno nel Def, il documento di Economia e Finanza come spiega oggi Sandro Iacometti su Libero.
Si parla di 570 mila posti in meno. E 75 miliardi di Pil. Draghi ancora una volta ha lanciato il suo “whatever it takes”, dicendo che farà tutto quello che sarà possibile fare per aiutare famiglie e imprese già prese con le pezze al sedere da rincari e quant’altro. Sederi che saranno sempre più sventrati perché a mano a mano che la guerra si farà sempre più cruenta, aumenteranno le sanzioni al fine di indebolire la Russia. E a mano a mano che aumenteranno la sanzioni, si indeboliranno gli altri Paesi. Soprattutto quelli che ciucciano il gas di Putin. (Scusate se uso parole spiccie ma devo farmi capire). Un cane che si morde la coda insomma.
A cui sembra non esserci scampo.
Anche perché siamo passati da “resistiamo due anni” a “abbiamo gas fino a ottobre”.
Che altro deve accadere?

#sbetti

Sono le donne che alimentano il sistema patriarcale

Abbie Chatfield

Ho letto di quell’influencer, come si chiama, venuta a Venezia a trastullarsi che ha accusato un ristorante di lusso di essere sessista.
Come se il rispetto dell’essere femminile, ossia dotato di un organo che gli uomini hanno diverso, passi attraverso il pagamento di conigli farciti su letti di rucola o aperitivi imbanditi con carta argento. Del resto, come dar torto.
Ce ne sono tante di donne che non vedono l’ora di acchiappare un perfetto stupido che sia talmente stupido a più non posso, così da poter fare le mantenute. Ne conosco alcune che dopo essersi sposate o dopo la convivenza o dopo la gravidanza hanno deciso di stare a casa. Cosicché anche per comprare la carta da gluteo sono costrette a ripiegare sugli uomini. Quello che loro chiamano sistema patriarcale ossia ancora fondato sul maschio che mantiene la famiglia viene in sostanza alimentato da loro stesse.
Non è il caso si direbbe della influencer che parrebbe essere lei la capa. Anzi il capo.
Ma molte volte queste donne sono le stesse che reclamano la parità dei diritti. Le quote rosa. Però poi quando si tratta di cacciare i soldi pretendono che l’uomo faccia la sua ampia parte perché lui a detta loro è quello con le palle.
Come anche conosco uomini che non hanno il minimo rispetto dell’essere donna – i passi ancora da fare sono tanti – e che con una donna accanto che lavora e che è autonoma e indipendente si sentono inferiori perché sono loro che devono portare a casa la pagnotta. E sono quelli che ti diranno di stare a casa. Che ti diranno che a te ci pensano loro. Che non puoi uscire. Che ti controlleranno le buste della spesa. E che ti diranno anche se bere acqua naturale o frizzante.
Sembrano fatti e fatte con lo stampo. Ma la colpa, scusate se mi permetto, è sempre dell’essere femminile incapace di svegliarsi. L’influencer australiana però divenuta celebre a un reality dove uno zitellone sceglie la sua futura moglie tra decine di candidate – programma svilente per una donna dato che una volta gli allevatori sceglievano così le proprie mucche – dovrebbe rendersi conto che la parità dei sessi non esiste. Al massimo ora esiste la parità dei cessi viste le recenti discussioni che tengono banco sui tavoli dell’Unione Europea. L’abbiamo visto con la guerra. La parità dei generi va a farsi friggere. Perché a combattere ci vanno gli uomini. O meglio: quelli costretti a rimanere in Patria per difenderla e versare il loro sangue sono quelli di sesso maschile. Non le donne. Qui però nessuno dice niente. Va tutto bene.
Come una madre ha diritto di scegliere se rimanere con i propri figli anziché imbracciare le armi, così ne hanno diritto anche i padri. Ed è molto triste che certe scelte dipendano dal fatto se hai la patata o il pisello.
Scusate se mi permetto.

#sbetti