A cosa servono gli articoli di giornale 


Oggi ho seguito un #funerale. All’inizio, quando ho cominciato a fare questo mestiere, non capivo perché bisognasse seguire un funerale. 

Mi dicevo ma perché dobbiamo seguire un funerale? Ovvio che non si seguono tutti i funerali. Ma quelli che sono stati notizia sì. 

Mi chiedevo che diritto avessi, io, di provare a raccontare e di entrare in una cerimonia intima e interiore come un funerale. 

Al funerale di mio nonno eravamo noi stretti familiari e un cagnolino che aspettava sulla porta. E non avrei voluto nessun altro, perché troppa gente al funerale strozza. 

Poi con il tempo ho capito. C’è chi può essere d’accordo e chi no. Ho capito che si prova a raccontare l’ultimo viaggio di quella persona, che per un motivo o per l’altro è finita sul giornale. Perché scriverne senza salutarla forse non avrebbe senso. 

Allora qui le parole diventano importanti. Anzi lo sono sempre. Sempre. 

Ma qui diventa importante anche quello che non é parola. I gemiti. Gli sguardi. I volti. I pianti. Le parole che non si riescono a dire. Quelle cose che non si riescono a fare. La paura, il timore, i blocchi, i silenzi. Quelli freddi, agghiaccianti, quelli che vorresti finissero subito, interrotti da un semplice rintocco di campane. 

Diventano importanti i gesti, le corde vocali che vorrebbero fuoriuscire, i nodi in gola che fanno trasalire. Diventa importante l’abbraccio, la spalla di un amico da riempire di lacrime. Diventa importante tutto. Tutto racconta quello che poi tu dovresti scrivere. 

Oggi ho visto un ragazzino di 15 anni guardare fisso la bara del padre. Aveva gli occhi di chi ha perso tutto e non sa come fare. Il papà si è tolto la vita. E ora, l’ ometto di casa è lui. È lui che ha accompagnato il padre l’ultima volta, come un padre accompagna il figlio a scuola. Ma negli occhi non c’era odio. C’era amore. Comprensione. 

Al di là delle ragioni, al di là della storia che qui non ha senso raccontare, ho visto un ragazzino farsi forza, tra i pianti della gente. Lì in quel piazzale dove le gambe, se provavi, anche solo per mezzo secondo, a cercare invano di capire cosa stesse provando, già cominciavano a tremare. A sprofondare. 

Non credo che il gesto di togliersi la vita si possa commentare. Non lascia spazio a parole. E qualsiasi vano tentativo di spiegare è fuori luogo, fuori tempo. Non c’è alcun voler provare a commentare una persona che decide di togliersi la vita. 

È una scelta. 

E la scelta, di fronte alla morte, di fronte a chi non ha più possibilità di replica, va rispettata. 

Anche oggi, mi sono chiesta, che senso avesse raccontare tutto questo. Ma l’altro giorno, una persona che non sta bene mi ha detto che ogni mattina apre Facebook e legge i miei post. I miei, come quelli di tanti altri. Legge i fatti del giorno, le notizie, i racconti, le polemiche, le cose belle e le cose brutte. Grazie a questo trova il modo di sentirsi connessa con la realtà, di percepire, di sentire, di stare in contatto con quello che la gente pensa, scrive, immagina. 

Allora forse mi sono detta che un senso all’articolo di giornale, al pezzo postato e ripostato su Facebook, c’è. Il senso che domani, qualcuno leggendo le parole che incidono come lo scalpello incide la roccia, possa fermarsi a pensare. 

#buonanottesbetti

Quest’anno no, non sento il #Natale

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Quest’anno no. Non sento il #Natale. No non lo sento. Troppe cose, troppe storie, troppe faccende, troppi casini, troppe scelte.
Ma non mi riferisco alla mia vita personale, quella, quella è una scelta tutti i giorni, anche se qualcuno probabilmente si aspettava di leggere se sono sposata, fidanzata, single, lesbica, bisex, etero, se vivo con il cane, con il gatto e se ho una zucca in giardino come auto.
No mi riferisco al nostro mestiere. Al nostro #lavoro. Ma mestiere rende di più. Ti veste. Ti mesta. Spietato, disgraziato ma bellissimo.
Mi riferisco a quello che facciamo come #giornalisti. Alla #cronaca di tutti i giorni. A quella locale, a quella nazionale, alla cultura, all’attualità, alla politica, alla sanità. Mi riferisco un po’a tutto.
La cronaca ti spersonalizza, ti riempie ma allo stesso tempo ti svuota.

Le #storie, quelle che incontri, quelle che scontri, quelle che vivi, quelle dove metti l’anima in ogni singola parola, in ogni singola virgola, in ogni singolo tratto di una lettera sbattuta su un pc, quelle che vivi fino a non sapere più chi sei, quelle che ti fanno strimpellare le dita su una tastiera fino a farti male per la velocità con cui la tua pancia vomita parole; insomma sono le storie che riempiono i fogli di schizzi di anima e di vita.
E tu come una spugna. Assorbi. Tutto. L’acqua, la tempesta, l’uragano non scivolano via. Si impregnano sulla spugna fino a gonfiarla e solo stritolandola e lasciandola lì, la spugna si asciuga. Ma in tutto questo il fuoco centrale resta la pancia, sempre la pancia.
Da lì parte tutto. Da lì si innesca tutto il meccanismo che parte dallo stomaco, arriva dritto al cuore, solleva le dita e ti fa scrivere, con sopra sempre la ragione.
Ogni parola, ogni emozione, ogni pianto, ogni gioia, ogni risata, ogni pugno sul tavolo, ogni sensazione, ogni sbaglio, ogni errore parte dal dentro dell’addome più profondo.
E quando ci si espone di errori se ne fanno, tanti. Quando si scrive, i pugni sul tavolo diventano altrettanti. Sul tavolo o sul cofano dell’auto, sulle scale, su un sedile di un treno che ti riporta in città, o perfino seduta su un masso di terreno appena solcato da un aratro stanco.
Ma i pugni partono tutti da lì, anche quelli belli, anche quelli che “sì cazz, anche oggi ce l’ho fatta”.

Ma ci sono anche quelli meno belli, quelli brutti, quelli che quando pugni, le lacrime ti sgorgano dagli occhi, quelli che “serenella mi serve il pezzo”, “serenella muoviti”, quelli che non c’è tempo, non c’è spazio, non c’è replica. Poi ci sono quelli che ti fanno incazzare, quelli che ti fanno gridare ma durano il tempo del pugno, il tempo del grido. E poi. Poi ci sono quelli che ti fanno arrabbiare e sono i peggiori. Quelli non se ne vanno come uno sfogo lanciato su un tavolo, che parte in picchiata per risalire; quelli, quelli covano dentro, marciano. E marciscono. Poi l’arrabbiatura se ne va e se si è rimasti delusi la marcia e il marciume della delusione continuano la loro lemme camminata.

E così passano le giornate, tra mille mail, mille messaggi, mille notifiche, mille gruppi, mille plin, dlin, mille comunicati stampa, conferenze, atti, documenti, appunti, mille pezzi scritti ovunque, perfino nel bagno del ristorante quando i tuoi amici vedono sfornato il rombo di pesce. Pezzi anche dall’autostrada perché se fosse dopo il casello, bè è troppo tardi.
E giù le chiamate al volo, mille telefonate finché addenti i piselli per pranzo, finché cerchi un filo di cipria che ti copra il volto. Finché indossi il mascara pronta per partire, finché aspetti di “spedire le labbra a un indirizzo nuovo”.
L’altro giorno mi è capitato di scrivere un numero sulla mano finché ero ferma al semaforo e per prendere i tre numeri che la mia interlocutrice mi stava dicendo (poi lei sarebbe decollata da Malpensa) pregavo Iddio che non scattasse il verde.
Insomma le nostre giornate si svolgono così tra mille parole, mille storie, mille domande, mille risposte, mille virgole, mille accenti, mille battute, mille punti interrogativi, dove alcuni mai piegheranno la schiena per diventare esclamativi.
Ci sono le storie più belle che a volte per noi sono le più brutte. E sono quelle che ti fanno passare per avvoltoi, cinici, giornalisti senza cuore. Ma non è vero.
La sera quando cala la notte, quando il resto del mondo va a dormire, quel cuore spunta sempre e l’effetto che fa serve per il giorno dopo, quando pensi a cosa dovresti, o non dovresti fare, a cosa dovresti o non dovresti scrivere, quando pensi, ripensi, passeggi e lentamente nemmeno te ne accorgi che la sigaretta si è consumata da sola.
Quando abbiamo a che fare con le storie, sappiamo che prima delle parole vengono le persone. Poi le parole arrivano alle persone, ma non il contrario. Quel contrario lo dobbiamo fare noi. Senza scendere mai a compromessi. Un mestiere che ti scava dentro, a volte voragini senza fine, dove le parole pesano più del piombo e dove il piombo si raggomitola sullo stomaco e soltanto dopo pochi giorni snellisce.
Poi ricompare con qualche altra storia.

È un mestiere a volte insopportabile, ti mette a contatto con il dolore diretto della gente. Anche se una volta una collega mi disse “non tutti sono come noi che vedono i cadaveri e si mettono a scrivere”. Vero. E vedi anche le lacrime delle madri che hanno perso i figli, traditi da un sabato notte in moto con gli amici; vedi il dolore angosciante e angoscioso dei padri, quello più terribile, quello più difficile da sopportare, quello che ti fa sedere su una sedia lungo l’asfalto con le mani ricurve verso il basso e lo sguardo perso nel vuoto, forse sperando che passi il treno.
Ed è questa l’immagine che ho sempre in testa quando c’è qualche storia dolorosa da trattare e devi trovare le parole per raccontare. Ed è l’immagine del primo incidente di cui mi occupai.
Un mortale, un bambino.
Era febbraio 2014.
Al nonno avevano dato una sedia e se ne stava seduto sulla strada con le mani piene di sangue e gli occhi che non capivano, anche se urlavano disperazione. Io capì che il bambino era morto dallo sguardo di un vigile del fuoco. I suoi occhi puntarono dritti sui miei e dicevano “non c’è stato nulla da fare”.
Ecco ogni volta che devo bussare al dolore degli altri ho in testa questo.

Ma poi ci sono anche le storie belle. Come quel bimbo di quest’anno abbandonato dietro a un bidone delle immondizie. No ok, non è bello. Ma il bambino era vivo e si è salvato. Ricordo che quella sera, una domenica di fine giugno, avevo appena finito di lavorare, era tardi, appena spento il computer ed ero già con un piede in doccia. All’improvviso squillò il telefono. Non volevo rispondere ma una vocina mi disse “fallo”. E infatti. Qualcuno mi avvisava del bimbo. Le pagine del giornale cambiarono nel giro di pochi secondi, “bloccate le pagine” e tu che devi scrivere alla velocità della luce. Il giorno dopo la notizia venne ripresa dalla stampa nazionale, da tutti e ancora una volta un bambino abbandonato si era salvato. Attilio il suo nome.
Un anno prima sempre giugno, sempre sera, sempre Santa Maria di Sala un’altra neonata era stata abbandonata, davanti la casa del parroco. Martina.
Lì si aprì un’ escalation di energia, di vita, di forza, di speranza, di concentrazione e di coraggio.
Quel coraggio che a gente come noi, non manca mai. Il coraggio e la fortuna di scegliere di scrivere una storia e di darle ancora vita, non appena la si imprime, come il piombo, su un foglio di giornale.
Ora non lo so se sentirò di più il Natale, ma Natale è la storia eterna, quella che non muore mai.
#buonanottesbetti

I veneziani, i sardi e i profughi

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Stigliano, Venezia, 26 novembre 2016

Sono le 22 e 30 di una tiepida sera d’autunno. Fa caldo fuori. Un caldo atipico anomalo. Inconsueto.
Entro in un locale per trovarmi con degli amici. La stanchezza di venerdì sera si fa sentire ma per un saluto e una tequila in compagnia c’è sempre posto. Finché aspetto i miei amici di ritorno da una cena (io non ci sono potuta andare per i miei normali orari di lavoro) entra un gruppo di ragazzi. Giovani. Sardi e comunque del Sud. È un gruppo che avevo conosciuto ancora qualche mese fa. E io, sarà perché parlo anche con Satana, sarà per la mia stramaledetta curiosità, fatto sta che avevamo scambiato qualche parola. Dopo qualche sera li incontrai di nuovo. Allora ci sediamo fuori dal locale, una sigaretta, due, tre e facciamo una lunga chiacchierata. Un ragazzo sardo, a cui se ne sono aggiunti altri poi, uno romano e uno napoletano.

 
Mi raccontano che nella loro regione non c’è lavoro, che non si sta bene. Che non è come qui al Nord che c’è voglia di lavorare.
Il ragazzo di Roma mi dice che si è messo in cammino dall’oggi al domani ed è venuto qui. Ha cominciato a bussare in tutte le aziende, ad andare a piedi in ognuna perché non aveva nemmeno il computer per mandare il curriculum, alla fine una l’ha preso. Uno dei ragazzi sardi mi dice che all’inizio qui lavorava come aiutante di una fabbrica che montava e smontava mobili. Così sbarcava il lunario. Adesso ha trovato posto in un’azienda da mattina a sera, a tempo determinato.
Il ragazzo napoletano è quasi rassegnato. Sa che se vuole lavorare deve restare qui. Giù è impossibile. Troppe infiltrazioni mafiose. Il ragazzo sardo ci racconta che giù di 300 offerte di lavoro, tre sono serie. Le altre fasulle. Nessuno paga. Nessuno risponde.

 

Tutti e tre sentono la mancanza della famiglia. Sì, ok sono spavaldi, hanno dai 23 ai 25 anni ma la nostalgia di casa, il vento, il mare del sud, qui non ci sono. Né ci saranno mai.
Ieri sera questi ragazzi li ho reincontrati. L’azienda li aveva mandati in trasferta e adesso sono tornati. Sono sempre all’erta, si danno da fare, cercano un posto di lavoro migliore. Ma si spaccano la schiena.
Nel Veneto ci sono arrivati, senza sapere dove andare. Senza nessuno che li accogliesse, senza nessuno che desse loro, per la prima sera, un misero tozzo di pane.
Le serate se la godono tra di loro.
Una birra, quattro risate e forse per Natale torneranno dalle loro famiglie.

 
Pochi chilometri più a sud invece ci sta un paese. Questo paese si chiama Stigliano.
È un mercoledì pomeriggio. Ore 15.45
Davanti la chiesa principale si sta svolgendo un funerale. Una madre di famiglia. Nel centro del paese le attività vanno avanti: il fruttivendolo che scarica la frutta, il negoziante che affetta un etto di prosciutto (non di più perché bisogna risparmiare), il macellaio che carica e scarica enormi container di carne, il fornaio che si prepara per la notte, la casalinga che stende i panni, il giardiniere dell’asilo che taglia l’erba, i nonni che accompagnano a catechismo il nipote e mamme e papà che corrono, fanno appena in tempo a prendere il figlio a scuole e ripartono per un altro pomeriggio di lavoro.
Poi poco più in là…

 
La vista sembra quasi incredula. Ci stanno loro. Ragazzi di colore, arrivati qui da qualche parte del mondo per essere accolti. Aiutati. E così ci sta quello che ascolta l’iPod, quello che chatta con lo smartphone, quello che ti sorride, quello che ci prova con le ragazzine, quello che mendica qualche spicciolo per acquistare sempre quel cazzo di misero di tozzo di pane e quello che sta sdraiato sulla panchina ad aspettare che faccia sera. Poi, prima che faccia buio si incamminano verso la loro nuova casa: una struttura privata nel rione di Tre Ponti che ha 100 abitanti.
Da lì entreranno nelle loro stanze, si metteranno nel letto, pancia in su, musica, qualcuno cucinerà per loro e “giù ragazzi che è pronto in tavola”.
Il giorno dopo la storia si ripeterà.
Ma intanto le mamme, i papà e i nonni di quei bambini sballottati a destra e sinistra avranno fatto in tempo a fare lavatrici, stendere i panni, pulire la casa, spazzare il cortile, stirare, cucinare, pagare le bollette, controllare i compiti per casa dei bimbi, preparare lo zaino, innaffiare i fiori, litigare con i vicini e dare da mangiare al pesce.

 

E i ragazzi?
Chi? Quelli sardi? Bè loro.
Loro a letto a mezzanotte. Domani alle 7 si ricomincia.
#buonanottesbetti

L’autogol di Renzi 


Foto da http://www.babbe.it/sedie_mobile.html

Ho ascoltato il discorso di Renzi finché tornavo a casa in auto questa notte. 

I fari puntati sull ‘asfalto che dissolvevano la strada, scandivano il tempo delle parole del premier. Una strada buia, semideserta, che a mano a mano scompariva dietro di me. Gli alberi impilati come fucili sulla sabbia, velocemente scivolavano via. 

Sembrava come fosse la fine di un’epoca. Come se la radio di settanta anni fa comunicasse che il paese era entrato in guerra. Ora, non c’è nessuno sopra di noi. 

Il discorso di Renzi, al di là delle sue politiche, dovrebbe essere scritto in qualsiasi sala consiliare. 

Perché non era il solito discorso. Era Il Discorso, quello con cui un capo lascia il suo popolo. 

Il voto espresso dagli italiani è il chiaro sintomo che l’Italia è stanca. Il referendum che tutti hanno chiamato costituzionale, in realtà, è uno dei referendum politici che più politici non si può. 

Renzi ha detto “Se non altro oggi gli italiani si sono avvicinati alla Costituzione”. No caro Renzi. 

La gente é andata a votare non perché avesse compreso cosa stesse veramente votando, ma perché tu, con il tuo “Se vince il no, vado a casa”, li hai spinti. O meglio ti sei spinto dritto in porta. Oggi la gente aveva in mente il tuo volto stampato sul pallone di cuoio e ha calciato più forte che poteva. Bam. Bam. Bam. 

Lo sapevi che avresti perso, che non avevi i numeri e li hai voluti provocare. Io ci scommetto che se le persone oggi avessero dovuto votare solo per la riforma della Costituzione, non avremmo raggiunto nemmeno il 30%. E invece la gente che voleva mandarti a casa, ha barrato sul No senza, magari, nemmeno leggere il quesito referendario; anzi, con ogni probabilità non ha nemmeno girato la scheda elettorale dal lato giusto tanto la mina puntava dritta a una croce sul No. Ma la colpa è tua. Soltanto tua. Te la sei giocata male. 

Avresti potuto aspettare e dopo la vittoria del fronte del No, avresti potuto fare il colpo di scena. E dire che te ne andavi. In fondo cosa cambiava? Aspettare qualche mese? Anzi, forse pure vincevi. E invece hai voluto premere il colpo a salve e sparare subito dritto sulla pancia della gente. Non si fa così. 

Le persone ti hanno voltato le spalle. Un errore che ora ti costringe a fare su il trolley e farlo scivolare lungo le scale e i corridoi di palazzo Chigi. Credo che il voto di questo 4 dicembre rimarrà nella storia. Sarà scritto nei libri di storia. Agli italiani non importa che tu ti chiami Renzi, Letta, Pinco Pallo, gli italiani sono stanchi. Ma questa è la riprova, anche, che la sinistra, gli italiani non la vogliono. 

Una sinistra moscia che sgambetta. Che scivola, che tentenna. 

L’Italia ha bisogno di polso. E tu quel polso stasera hai dimostrato di averlo. Ma in ritardo. Peccato. Hai giocato male. Ma una cosa l’ho capita con il tuo discorso: coraggioso, ammirevole, lodevole. Ho capito che la politica si fa con le sedie. Perché vedi, tu sei in alto, ma c’è anche chi sta in basso. E che è veramente a contatto con i cittadini. Con i loro problemi, con le loro sofferenze, con le loro gioie. Se il comportamento che hai messo in pratica tu, lo attuassero anche nei paesi di provincia, nei capoluoghi, nelle regioni, forse la gente sarebbe anche più contenta. 

E magari essendo contenta della politica locale, lo sarà anche di quella nazionale. Se tutti avessero il coraggio di dimettersi perché consapevoli di non essere voluti dal popolo, forse le persone acquisterebbero una fiducia in più nelle istituzioni. 

E invece qui, si rimane ben ancorati alla propria sedia che sgorga di terra e profumo di campagna

Anzi ci si assesta pure meglio, lucidandola e gridando “No, questa è mia”. Qui, si fa un passo avanti, poi due indietro. Poi qualche altro passo avanti. Poi ancora si torna indietro. Poi per codardia, vigliaccheria e attaccamento alla caregha si decide di rimanere seduti come amebe. Uno stormo di automi. Impagliati come stanno i piccioni con sguardi inebetiti. 

Al di là delle riforme e del modo di fare politica, però, un aiuto questa sera al popolo italiano lo hai dato. Soprattuto a quei politici che non si rendono conto che rappresentano gli interessi più vicini ai cittadini. 

E che quando questo mandato di rappresentanza viene meno, meglio chiudere la porta, spegnere la luce e andare via. E invece si rimane qui. A mietere vittime e a cercare consensi al prezzo della libertà. 

#buonanottesbetti 

#lanottedelquattrodicembre

Stufi del diritto di voto 

Dovrebbe farci riflettere il fatto che il 2 giugno 1946, l’affluenza al #referendum istituzionale per decidere tra Repubblica o Monarchia fu dell’89,08%. E all’epoca non c’erano tanta istruzione, tante lauree, tanti titoli. Anzi molte persone erano anche analfabete. Sapevano a mala pena scrivere, leggere. 

Ma forse c’era una cosa che più di ogni altra prevaleva e che ora stiamo perdendo. 

Il rispetto. 

Il rispetto verso una lotta, verso qualcuno che ha fatto in modo che noi avessimo un diritto. Quello di voto. 

Il rispetto verso di noi. Verso i nostri diritti. 

A distanza di 70 anni niente è cambiato da quel punto di vista. Siamo sempre noi con i nostri diritti. Nessuno ce li ha tolti. Siamo noi che ci siamo privati del diritto di scegliere. L’ultimo referendum quello del 17 aprile scorso sulle trivelle è finito in pasto ai pescecani. Ed è il caso di dire in tutti i sensi. 

A distanza di 70 anni da quando le donne esultavano nelle piazze perché potevano votare, a distanza di 42 anni da quando gli italiani (era il 1974) decisero con un quorum totale di 87,7% di mantenere in vita la legge sul divorzio, ecco, siamo stati in grado di perderli i nostri diritti. 

Di non sentirci più padroni di esercitarli. 

Il 17 aprile scorso anche le donne decisero di mettersi il diritto di voto sotto il sedere e di tenerlo bene al caldo. Insomma settant’anni di storia, finita in un pozzo di petrolio. 

Dal 1946 a oggi in Italia ci sono stati 71 referendum, di cui 67 abrogativi. 

C’è stato anche un referendum consultivo e due costituzionali. Il terzo è tra sei giorni. 

Dei 67 referendum abrogativi, ben 39 raggiunsero il quorum. Tutte materie di interesse nazionale. Si andava dall’ordine pubblico, al finanziamento pubblico dei partiti dove andarono alle urne per ben due volte, alla prima vinse il no, alla seconda il sì, abolendo il finanziamento; fino alla pena dell’ergastolo che qualche radicale aveva pensato stupidamente di togliere. Qui il 79,4 per cento degli elettori si presentò a votare, e ben il 77,4 votò no, quindi a favore del mantenimento della pena. 

Poi si andò a votare per l’interruzione della gravidanza a cui partecipò il 79,4 per cento di cui l’88,4 voto contro l’abolizione di alcune norme per rendere l’aborto più efficace. 

Poi ancora nel 1987 gli italiani votarono per la localizzazione delle centrali nucleari, nel 1995 per la privatizzazione della Rai, per gli orari dei servizi commerciali fino alla abolizione della legge sul legittimo impedimento nel 2011 dove alle urne si presentò il 54,78 per cento e di questo il 94, 62 per cento votò a favore dell’abrogazione dell’ istituto. 

Ma a un certo punto l’Italia entra in apnea, peccato però che anziché spuntare dall’altra parte, come accade di ritorno dalle apnee, sembra che ora abbia posato il culone sul fondale. 

Ci sono tutti i referendum che si concentrano dal 1997 al 2009, a cui gli italiani hanno deciso di non prendere parte. 

Insomma come dire: “grazie tante, del mio diritto non so che farmene, tenetevelo pure e arrivederci e grazie”. 

Anche l’Ordine dei Giornalisti che si voleva abolire, rimase in vita perché non raggiunse il quorum. 

Gli altri quesiti che non sono piaciuti sono: disciplina della caccia, uso dei fitofarmaci nel 90, procreazione medicalmente assistita, e chi più ne ha più ne metta. 

Al referendum costituzionale del 2001, per la riforma del Titolo V della Costituzione, si presentò alle urne il 34.1 % degli elettori. Un po’ poco. 

Ma qui, come per il 4 dicembre, non serve il quorum. E a prevederlo è la Costituzione. 

Al referendum del 2006 per la modifica della seconda parte (che non venne modificata) si presentò il 52.5 %. Di questo il 63.1 votò no. 

Insomma sembra che negli ultimi anni gli italiani si siano Stufati di questo diritto di voto. Un po’ come cambiare bar, cambiare ristorante, cambiare panificio. 

Forse la trasformazione da sudditi a cittadini ha rinsecchito, ha fatto credere che i diritti ci siano dovuti. 

No. I diritti ci sono dovuti se te ne prendi cura. Se non li fai arrugginire. Se li eserciti. Se ci parli. Se li ascolti. 

Adesso invece li calpestiamo, li mastichiamo, li usurpiamo, li mettiamo sopra dei piedistalli pretendendo soltanto di rivendicarli, poi giriamo il culo e ce ne dimentichiamo. 

Nessuno più ha le palle. 

Il tutto si riduce a qualche chiacchiera da bar. 

Dovrebbero toglierceli e allora capiremo quanto importanti sono. 

Dovrebbero imporci di non andare a votare e allora forse domenica davanti le urne ci sarà il pienone. Chi crede che l’astensionismo sia un diritto dovrebbe provare a esserne costretto, e allora capirebbe che ti stanno togliendo linfa vitale. 

#buonanottesbetti