La Spigolatrice di Sapri è la più alta forma di femminilità

Praticamente è accaduto che qualche giorno fa nel Cilento, abbiano inaugurato la Spigolatrice di Sapri, e che ai soldatini del politicamente corretto non sia andata bene.
Non ho ben capito, infatti, se le boldriniane cirinniane e piddine non sappiano che un corpo femminile è formato da un culo, due tette, due braccia e due gambe.
E che un corpo maschile è formato da altrettante parti del corpo con due evidenti eccezioni.
Forse le democratiche rosse considerano il corpo di donna così talmente osceno da non poter essere esibito in pubblico, se non quando scendono in piazza a manifestare con enormi lembi di carne che fuoriescono dalle magliette di quattro taglie più piccole di loro, e forse pensano che non vada nemmeno guardato perché lede la dignità di tutte le donne.
Imbarazzante.
E in effetti io mi sono sentita lesa nella mia dignità femminile quando ho letto i tweet e i commenti proprio di alcune donne che commentando la Spigolatrice, probabilmente auspicano anche per noi occidentali l’avvento del burqa e dei talebani.
Mi sono guardata allo specchio e avendo la minigonna volevo correre in bagno a coprirmi.
“È un’offesa alle donne e alla storia che dovrebbe celebrare – ha twittato l’ex presidente della Camera ed esponente del Pd, Laura Boldrini – Ma come possono perfino le istituzioni accettare la rappresentazione della donna come corpo sessualizzato? Il maschilismo è uno dei mali dell’Italia”.
Di maschilismo parla anche Lorenzo Tosa. Che dopo un discorso dove io non ci ho capito un tubo parla di maschilismo perché dice che “quella statua non è sessista perché mostra un cu** di donna ma perché il cu** è l’unica idea possibile di donna che rappresenta. L’unica differenza tra voi e i talebani – aggiunge – è che loro lo coprono, voi lo ostentate. Ma, per entrambi, non esiste altro.
Questo, in una parola, è il maschilismo”.
“A Sapri uno schiaffo alla storia e alle donne che ancora sono solo corpi sessualizzati – ha tuonato Monica Cirinnà – Questa statua della Spigolatrice nulla dice dell’autodeterminazione di colei che scelse di non andare a lavoro per schierarsi contro l’oppressore borbonico. Sia rimossa!”.
Anche le piddine si sono mosse sentendo “il dovere di schierarci in modo netto e categorico per l’abbattimento di questa statua diseducativa e fuorviante che banalizza le donne”.
Emanuele Stifano, povero, lo scultore, si è anche difeso su Facebook ma intanto la macchina del fango social era già partita.
Ma allora mi chiedo quanti David, quanti Donatello, quante statue avremmo dovuto rimuovere con gli arnesi all’aria di tanti bei giovanotti col culo fuori.
E permettetemi di dire: che gran bei culi.

#sbetti

In un Paese dove danno delle puttane ai giornalisti, Feltri rischia il carcere

Vittorio Feltri è uno dei miei preferiti.
È uno di quei pochi giornalisti italiani che scrive in italiano corretto. Quando lo leggi lo capisci e non devi tornare indietro per capire cosa ha scritto.
Ora vogliono metterlo in galera perché il 10 febbraio 2017 con Pietro Senaldi ha pubblicato l’articolo dal titolo “Patata bollente” riferendosi alle vicende che vedevano coinvolta la Raggi.
Capirai che atrocità visto che viviamo in un Paese dove gli ex ministri alla Giustizia – leggi Alfonso Bonafede – danno dei pennivendoli e delle puttane ai giornalisti.
Eleganti epiteti confermati anche da Luigi Di Maio che faceva il vice premier e che se ha scritto un articolo in un italiano comprensibile mi taglio la testa.
Ma ci siamo dimenticati dei tempi di Grillo che fa più ridere ora che non quando faceva il comico. “Io i giornalisti me li mangio e me li vomito”.
Allora non ho ben capito dall’alto della mia ignoranza felice perché viviamo in un mondo dove tutti possono dire tutto, offendere, attaccare, insultare, nella più totale impunità di essere liberi di dire ciò che si vuole, e poi se scrivi “Patata bollente” riferendoti a una vicenda rischi la galera.
Invece se dai della puttana a un giornalista ti dicono bravo e ti spiegano, cit Di Maio, che “quando ci vuole ci vuole”.
L’altro giorno in una rivista scientifica per descrivere il “corpo femminile”, hanno scritto “corpo con la vagina” per la gioia dei talebani del politically correct che tengono a spersonalizzare e rendere tutto relativo e precisare che il corpo femminile ha la vagina e non il pene.
Ma “patata bollente” è come scrivere “gatta da pelare”.
A me alle scuole elementari l’avevano insegnato. C’era perfino un rebus nei libri dove ti mettevano davanti una gatta e dei pelati e tu dovevi scrivere gatta con due t, e pelare con una L. Qualche deficiente, con la I, riusciva persino a sbagliare.
Ma perché Feltri rischia di andare in carcere.
Non certo per il titolo scoppiettante e bollente da satira, ma perché la legge per eliminare la prigione per i giornalisti, come tutte le cose importanti in Italia dato che abbiamo fatto in tempo a parlare pure di Zan, è ferma in Parlamento.
Il testo che doveva essere approvato nel 2020 non è mai arrivato alla Camera ma nemmeno in Senato.
Facendo sberleffi a una sentenza della Corte Costituzionale che aveva precisato che: “la minaccia dell’obbligatoria applicazione del carcere può produrre l’effetto di dissuadere i giornalisti dall’esercizio della loro cruciale funzione di controllo”.
Si chiama violazione della libertà di espressione e di manifestazione del pensiero. Diritti ampiamente riconosciuti da Costituzione e Dichiarazioni sui diritti dell’uomo e Convenzione Ue.
Ma guarda caso questi diritti valgono solo per chi si allinea ai colori dell’arcobaleno.
Per gli altri no.
Com i miei ossequi.

#sbetti

Sarà ma in giro vedo tanta maleducazione

Sarà ma in giro vedo tanta maleducazione. Tanta. Troppa. Ho il vomito dalla maleducazione che vedo. Mi vengono i conati la mattina quando mi sveglio. Stamattina ho chiesto degli incartamenti per fare la dichiarazione dei redditi. La gente nemmeno ti risponde.
Devo pregare per avere un documento che mi spetta di diritto.
Ho chiamato in un ufficio e la tipa mi ha risposto che quella era la sua pausa pranzo.
Io non ce l’ho nemmeno la pausa pranzo. Perché la gente senza affetti né rispetto, a cui oramai nemmeno rispondo, ti scrive anche di sabato notte e di domenica mattina alle nove confondendosi col buontempone che taglia l’erba quando gli altri dormono.
Vedo in giro la gente che si fa la guerra per un parcheggio. Per la fila al supermercato. Per la coda dal medico.
Il copione è sempre lo stesso. Tessono sempre lo stesso canovaccio. L’ansia. La fretta. L’angoscia. L’assurda convinzione di fare qualcosa di fondamentale e assolutamente urgente da far cambiare il mondo nel giro di un baleno. Ma il mondo si cambia con la calma. La rivoluzione. Il rispetto. C’è gente che non ha rispetto nemmeno del lavoro. Poveri illusi.
Gente che scarica le proprie frustrazioni sugli altri. Codardi. Inetti. Vigliacchi. Pavidi. Paurosi.
È diventato difficile fare tutto. Tutto. Farsi rispondere. Farsi ricevere. Farsi richiamare. La gente poi però pretende. Pretende risposte. Pretende soluzioni. Pretende tutto. Subito.
Domani è già tardi.
Vedo gente in giro presa solo dalle sue cose. Vedo gli uomini affannarsi. Sudare. Raggiungere i like. Fare storie. Correre sempre lungo la stessa strada che li porta chissà dove. Tutti si arrovellano. Tutti pontificano. Tutti parlano. Nessuno ascolta. La gente invia i link su whatsapp come fosse la pubblicità della cassetta della posta. Non c’è più rispetto. Non si chiede più permesso. Si ripetono sempre le stesse cose senza capirne il senso. Manca il rito. Manca il rituale delle cose. Dei gesti. Gli uomini hanno sostituito le celebrazioni con le automazioni.
Il piacere delle azioni. Non esiste. Non esiste più. Vedo gente talmente tanto assorta nelle sue faccende e così chiusa in se stessa che mi chiedo come faranno a vivere se l’animo non si rigenera. Mi chiedono di cosa vivono se la vita è così priva. Così povera. Viviamo un tempo dove abbiamo bisogno dei contorni. Non dei contenuti.
Tutti parlano. Nessuno ascolta. Tu chiedi una cosa. Ti rispondono con un’altra. I social hanno dato modo a qualsiasi coglione di pensare che qualunque tuo pensiero sia importante. Giustificato. Che qualunque tuo pensiero possa salire su quella torre di Babele e dall’alto pontificare senza stare nemmeno a sentire.
Gente impegnata a raggiungere ogni giorno ogni una dose di orgasmo con quegli stupidi like da quattro soldi e le dirette su Facebook.
Se ne stanno tutti lì chiusi dentro le loro vite da idioti, esseri paranormali sostituiti dagli iPhone, tutti a correre per qualcosa che loro credono importante.
La gente corre. Si affretta. Si affanna. Non respira. Mangia. Beve. Rutta. Dorme. Ma hanno perso la bellezza delle cose. La calma. L’ascolto. Il buon senso. La riflessione. L’entrare dentro le storie. Portandone rispetto.
Per cosa poi.
Sono tutti alla ricerca di quella visibilità nel mondo che dia loro un momento. Un momento di gloria. Una comparsa. In questo mondo di mediocri che scrive le storie con le matite degli altri.
Scusate se non mi appartiene.
Ma con me i cafoni fuori.

#sbetti

L’immagine di Fedez ripresa da tutta Italia rappresenta il baratro in cui siamo caduti

L’immagine di Fedez e della Ferragni che indossano quasi lo stesso paio di tacchi la dice lunga su quanto noi siamo coglioni.
Emblema formidabile degli schemi mentali e comunicativi attualmente in voga.
Loro sì che hanno capito come si fa comunicazione.
Schemi ripresi da tutti i talebani dell’arcobaleno a suon di like, cuoricini, bao, bao, micio, micio.
Non si capisce bene se Fedez indossando un paio di scarpe dai tacchi vertiginosi voglia prendere per il culo gli uomini o le donne.
Perché nell’insieme dai contorni non ben definiti di gay, lesbian, bisexual, transgender, queer, intersexual, asexual, non si capisce se sia un modo per prendere per i fondelli queste categorie protette dagli eccessi e dagli estremismi del politically correct o se sia un modo per denigrare semplicemente gli eterosessuali facendoli apparire una sorta di idioti perché viviamo un’epoca in cui se pubblichi un nudo artistico ti censurano ma se invece ti vesti ridicolizzando coloro che hanno scelto di amare quelli del loro stesso sesso, e non c’è niente di male in questo, allora va bene tutto.
Perché se questi sono i modelli che i nostri ragazzi hanno. E che dovrebbero seguire travolti dall’onda del politicamente corretto, rendendo liquido tutto, stiamo freschi.
Questa immagine che i diktat del politically correct e i dogmi del progressismo non censurano, rappresenta la deriva e il baratro in cui siamo caduti.
Non ha niente a che vedere con l’arte.
La scenografia. La forma artistica. La bellezza che si fonde sopra un palco per raccontare e rappresentare pezzi di vita.
Lontani e ampiamente dimenticati sono i tempi alla Renato Zero dove ogni vestito di scena veniva ampiamente soppesato con attenta disamina e serviva alla scenografia stessa.
In questa foto c’è tutto il mondo travolto da uno slabbramento fatale e totale di quello che siamo sempre stati.
Con la presa in giro formidabile di gente che per natura ha deciso di amare lo stesso sesso, ridicolizzata dal Fedez di turno che i politicanti del politicamente corretto tanto proteggono.

#sbetti

Le femministe in coro. Per le afghane tutte zitte

Il mio cervello non arriva totalmente a comprendere perché le seguaci del politicamente corretto che mai in questi giorni si sono adoperate per la terribile situazione delle donne afghane, si siano risvegliate dal loro imbarazzante letargo e abbiano attaccato le parole di Barbara Palombelli a Forum.
Anzi.
In un mondo dove mentecatti ragionanti col pene pensano che se indossi la minigonna o vai a fare un giro in spiaggia con un uomo sei passibile di stupro, trovo anche imbarazzante che la Palombelli si sia dovuta scusare e giustificare. Una frase discutibile la sua certo. Più che altro il contesto. In una sede televisiva dove dall’altra parte ci sono cani e porci che non vedono l’ora di far diventare carne da porco qualcun altro.
Soprattutto perché la morte cancella tutto. E la violenza, fisica o verbale, non è mai accettabile.
Palombelli ha detto che in 7 giorni ci sono stati 7 femminicidi. “A volte è lecito anche domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, completamente obnubilati oppure c’è stato un comportamento esasperante e aggressivo anche dall’altra parte? E’ una domanda che dobbiamo farci per forza soprattutto in questa sede”.
In questa sede appunto.
Forum è un tribunale. Non assegna lauree in Legge a chi lo guarda. E non è nemmeno una rivista di diete sgonfia pancia.
Ma i tecnici del politicamente corretto hanno interpretato la frase “pro domo sua”. Ossia.
La Palombelli giustifica i femminicidi.
Il che mi sembra anche molto imbarazzante che una donna si debba scusare. Ribadire l’ovvio a volte è estremamente pericoloso. Ma viviamo in un mondo dove non si può più dire niente.
Perché una schiera nutrita di pecore va in piazza a lanciare assorbenti in faccia ai poliziotti, tace quando ci sarebbe da lottare, e poi una mattina si sveglia e magicamente riappare.
Questo accade perché hanno talmente il cervello stuprato da una parte che non ci provano nemmeno a ragionare. Meglio far parte delle onde. Perfino il ministro Fabiana Dadone, quella che si era presentata seduta sulla sedia istituzionale mettendo i piedi sopra la scrivania, ha condannato la Palombelli dicendo che lede la dignità di tutte le donne. Mi chiedo che dignità abbia leso invece la Dadone mettendo i piedi sopra la scrivania offendendo tanta gente che aveva perso il lavoro.
Ora sì. Ci sono situazioni dove i rapporti sono ridotti allo stremo. Che non giustificano assolutamente omicidi e altro. Ma sono dei dati di fatto. Annotati nelle sentenze dei giudici. Indicati come elementi di fatto degli avvocati difensori. E degli atti dei pubblici ministeri. Basterebbe andare in un’aula di tribunale. Assistere a qualche processo per stupro. O peggio entrare nelle famiglie dove il clima esasperato è all’ordine del giorno.
Ieri, pensate, una donna di 38 anni a Roma ha dato fuoco al proprio uomo perché lui voleva interrompere la relazione. L’ha condotto in una stanza. Gli ha buttato addosso alcol etilico e ha acceso l’accendino. Fuori di testa.
Ma accade anche questo.
Accade anche questo in una società sempre più malata, debole, isterica, dove l’individuo per stare in piedi ha bisogno di qualcun altro.
Dove l’importante in un conflitto non è capire le ragioni ed essere empatici.
Ma uscirne vincitori. Prevaricare gli altri. Considerarli propri.
Ecco anche perché gli uomini ammazzano le donne.

#sbetti

“Scusi, qui fate un tampone?”

“Scusi qui fate un tampone?”.
Arrivo a Genova che è quasi sera e sono alla disperata ricerca di un tampone. Io vaccinata prima dose, il Green Pass mi è arrivato l’altra notte.
Percorro vicoli stretti, strettissimi, qui a Genova li chiamano i “caruggi”.
Una strada. Un vicolo. Un porticato. Quelle stradine che si inerpicano su per la città circondate da case altissime. Se non fosse per il buio che sta scendendo e se non fosse che ho un disperato bisogno di fare un tampone farei volentieri un giro prima di cena.
Passo accanto a raduni nutriti di extracomunitari che mi guardano come fossi un’ aliena.
Quello che sto attraversando sembra il quartiere Arcella. Il Muro di Via Anelli a Padova issato dalla sinistra. L’unico sindaco rosso ad alzare i muri.
Anzi Arcella in confronto pare Montecarlo. Non mi faccio intimidire e continuo a camminare. Arrivo in una farmacia che sembra tanto quella dove i drogati vanno a comprarsi le siringhe.
Il farmacista è uno che somiglia al topo delle Tartarugue Ninja. Il Maestro Splinter. C’ha gli occhietti piccoli piccoli che sembrano semi di cumino. E gli occhialini come quelli del topo che gli inforcano il naso.
Mi sbuca da dietro il laboratorio e non ha nemmeno il camice bianco. Indossa una polo colore prugna. Ma sul taschino ha il simbolo dell’Ordine dei Farmacisti.
“No qui non facciamo tamponi signora, deve andare più avanti”.
Gli chiedo quanto avanti devo andare e mi dice avanti tanto: “vede, scende lungo questa strada, imbocca la seconda stradina e poi arriva giù e chiede ma le conviene farsi accompagnare”. Esco dalla farmacia e mi guardo attorno. Il sole sta scendendo. La parte di quella città è un intreccio di strade sopraelevate, auto parcheggiate sotto i cavalcavia, boschetti che sbucano ovunque, tunnel ricavati sotto le tubature, immigrati clandestini che siedono per terra e me sola con me stessa.
Provo ad andare lungo la stradina. Ma oramai è tardi. Sono le 7 e 59 di sera. E la farmacia chiude alle otto. Tiro un sospiro di sollievo e torno in hotel. Non mi è mai piaciuta tanto Genova anche se architettonicamente parlando la stra adoro. Non c’è una città così superba. Forse Torino. Ma più austera. Genova invece è variopinta, allegra, il nuovo che incontra il vecchio, il vecchio che incontra il nuovo. Genova c’ha le ferramente incastonate nei palazzi del Seicento. Le finestre di ville residenziali che si aprono sopra i fruttivendoli. C’ha le lavanderie in dimore lussuose.
Genova è una continua scoperta di chiese. Campanili che spuntano ovunque. Case tinta pastello incastonate le une con le altre che si ergono sopra possenti ammassi di terra. Scalinate in salita, in discesa.
La vedi Genova quando arrivi. Grattacieli che grattano il cielo che svettano verso l’alto. Il mare che luccica sul porto. Di giorno di un colore pazzesco che ti chiedi davvero se questo sia il mondo. Promontori scoscesi che guardano il basso. Fontane che riempiono le piazze. Traffico imponente. Claustrofobico. Allucinante. Tassisti incazzati che sbraitano contro il caos. Se ci passi attorno ti sembra una città racchiusa su se stessa. Una conchiglia. Se ci entri dentro, tutto intorno ci stanno mura palazzi ville parchi case. “Città d’arme e di commerci”, le sue bellezze artistiche stanno tutte dentro ai palazzi nobiliari detti rolli e nei molti musei cittadini. Poi.
Poi si fa tardi. Non ho ancora il Green Pass perché il sistema non l’ha ancora generato e mi tocca mangiare in albergo.
Torno in camera. Mi faccio una camomilla.
E litigo col bollitore.
Ma questa è un’altra storia.

#sbetti

Non capisco perché chi scrive libri non debba avere il compenso e chi toglie peli dal culo sì

Qualche settimana fa ho conosciuto un tizio (il prossimo che mi capita a tiro faccio il nome) che mi ha proposto uno scambio di libri. Cioè io avrei dovuto dargli il mio appena uscito e lui il suo di qualche anno fa.
Se non fosse per il fatto che la cultura si misura col tempo, sarebbe come scambiare un vestito nuovo di zecca con uno con le pezze al culo.
Allora io gli ho risposto educatamente che non voglio scambiare il mio libro col suo. Che io non gli ho chiesto niente. Che se lui vuole comprare il mio libro può farlo liberamente e che se un giorno a me andrà di leggere il suo me lo compro.
Per il principio per cui è più probabile che tu finisca per odiare il compagno di banco che ti hanno assegnato, gli ho anche detto che la mia natura per fortuna è la disobbedienza e che per me i libri sono come gli amici. Me li scelgo. E poi che non è carino donare qualcosa per riceverne qualche altra perché allora non è più un dono ma un contratto.
Allora lui ha iniziato a dirmi che il suo libro è interessante perché ne ha parlato anche Nostradamus e c’ha vinto il premio internazionale della soppressa.
Così siccome pareva non sentirci e impormi anche quello che avrei dovuto leggere, ho finito il caffè e poi ho preso e me ne sono andata.
Non ho tempo da perdere con chi mi fa perdere tempo.
Allora l’altro giorno dopo aver ricevuto l’ennesimo messaggio di qualcuno che mi chiede libri gratis e se ho libri in più a disposizione per gli amici i parenti gli amici degli amici amanti eccetera eccetera; la maggior parte delle volte sono uomini facoltosi che ti chiedono se c’è un libro in più perché devono regalarlo al gatto mi sono girate un tantino le palle.
Uno perché non comprendo ancora bene dal basso della mia ignoranza il principio per cui un libro non debba essere pagato e invece una pizza da asporto sì. Mi era successo anche un’altra volta.
Un tizio aveva impiegato un’ora a farmi tutto un discorso da orgasmo sulla cultura che si paga eccetera eccetera che quando gli ho dato il libro perché lui me l’aveva chiesto se l’è intascato e ha ripreso il treno senza pagarlo.
Pezzente che non è altro.
Non ho ben capito infatti perché c’è gente che paga di tutto e invece crede che la cultura sia gratis. O come quelli che ti chiedono se fai comunicazione o l’addetta stampa e poi ti dicono: “non so se posso pagarti ma tanto a te piace”. O quelli che ti dicono: “quando arriveranno i soldi mangeremo tutti”. Appunto.
Perché quando l’estetista vi leva i peli del culo la pagate mi pare.
Quando il parrucchiere vi fa la chioma nuova anche. Quando andate a bere l’aperitivo in piazza e a ingolfarvi come maiali davanti ai banconi pagate anche quelli.
E non riesco a comprendere perché invece per un libro e per la cultura debba essere diverso.
Mi spiace ma per lavorare con me si cambia registro.
Io non scambio libri con nessuno a meno che non decida io con chi scambiarli e ciò deve avvenire naturalmente con l’altro.
Non lavoro gratis.
Non regalo libri a nessuno se non a chi amo, a chi voglio bene, e a chi penso possa capire ed essere grato per un libro ricevuto. E non ho libri da regalare ed elargire e scambiare a tutto il mondo. Sebbene per qualcuno, il cui quoziente collettivo arrivi a soppresse e prosecco, la cultura vale meno di una pezza da piede.
Perché per quanto a voi possa sembrare strano dietro a un libro c’è la storia professionale e personale di una persona, ci sono anni di studio, di lavoro, di notti insonni, di sudori, sacrifici, impegni, costanza e solitudini.
Ci sono arte competenza professionalità.
E non ho ben capito perché io che scrivo un libro non debba ricevere il compenso e invece chi leva i peli del culo sì.
Vi auguro buonanotte

#sbetti

Il medico italiano che restituisce gli occhi alle donne sfregiate con l’acido

Un caso capitato per caso. Oggi su Il Giornale c’è un mio pezzo che parla di tutte quelle donne vittime della sharia. E proprio oggi, quarant’anni fa, il 5 settembre 1941, dal codice penale sparirono il matrimonio riparatore e il delitto d’onore. (Non da mettere sullo stesso piano ovviamente).
L’Italia deve questa battaglia vinta a Franca Viola (ultima foto) che oggi di anni ne ha 73. E che venne rapita sequestrata e violentata dal suo ex fidanzato Filippo Melodia a soli 17 anni. Lui fece irruzione nella sua casa di Alcamo insieme a 13 giovani armati che pestarono a sangue la madre e rapirono Franca e il suo fratellino Mariano.
Per mano del suo aguzzino lei ci rimase otto giorni. Otto.
Otto giorni in cui venne violentata, seviziata, martoriata, a digiuno, in stato di semi inconscienza. Dopo la liberazione Franca rifiutò di sposarsi e affrontò un processo dove dirà: “Io non sono proprietà di nessuno. Nessuno può costringermi ad amare una persona che non rispetto. L’onore lo perde chi le fa certe cose, non chi le subisce”.
Parole che a quell’epoca in Italia! suonavano come eresie. Ci sono voluti altri 15 maledetti anni perché si cancellassero alcune norme dal nostro codice penale. Fino al 1996 (25 anni fa!) lo stupro era considerato reato contro la morale e non contro la persona.
Oggi mentre noi possiamo godere di queste battaglie vinte, in altri Paesi c’è chi, se solo osa opporsi a una conoscenza – non serve per forza il rifiuto a un matrimonio basta molto meno – con un uomo più grande del padre viene sfigurata a vita.
Sono donne pachistane afghane, vittime della Sharia. Sono donne che se si oppongono a un matrimonio vengono sfregiate e sfigurate con l’acido. Un segno che rimane lì fisso indelebile. Tangibile. Sfregiarle è meglio che ammazzarle, perché serve da esempio per le altre. Come a dire: “ecco cosa ti accade se dici di no”.
Questo medico, Giuseppe Losasso, di cui vi parlo oggi sul Giornale che ho conosciuto a Udine, mi ha raccontato che sono ragazzine colpite nel cuore della notte. Hanno dai 13 ai 18 anni. Ma anche adulte. L’acido usato è quello delle batterie delle auto. L’ustione provoca una retrazione cicatriziale della cute. Il busto si piega in avanti. Il collo diventa un tutt’uno col mento. Le vedi ricurve. Con le braccia contro giù. Hanno perso anche gli occhi. Per molte la vista non si può recuperare. Il corpo diventa un tormento. Qualcuna pensa anche al suicidio.
Lui da 17 anni le aiuta. Le opera. Trapianta le cornee. Cerca di restituire la luce dove intorno è buio e morte.
Quando lascio Losasso, dopo ore di conversazione, vedo che nel volto ha una riga di pianto.
In fondo nel suo studio ci sta un cuscino: “Realizza i tuoi sogni”. Mentre sto uscendo, penso a quelle donne che i sogni non possono realizzarli. E mi accorgo ancora una volta dell’importanza del nostro lavoro. Non serve a noi. Serve agli altri. A sollevare la polvere. A dare voce e occhi a chi non ne ha.

#sbetti

👉 https://www.ilgiornale.it/news/politica/medico-italiano-che-rid-vista-e-sorriso-donne-deturpate-nel-1973107.html

Il Made In Italy si tinge di Islam

Non ho ben capito perché dobbiamo sempre fare la parte dei finocchi, nel senso di continuare a farci infinocchiare da chi in casa nostra vuole portare usi e costumi tribali.
A Salerno in questi giorni c’è l’EdShow, la rassegna internazione dedicata agli abiti da sera.
Per oggi è prevista una collezione, capsule collection come si dice nel gergo, dedicata solo ed esclusivamente alla donna musulmana nel rispetto delle leggi coraniche.
Nel rispetto delle leggi coraniche.
Il titolo di Repubblica era: “Salerno: la moda Made in Italy apre all’ Islam”.
Insomma metti un bel burqa a cena con la brezza d’estate che non lascia intravedere niente, metti un bel burqini che ho bisogno di niente, leggero anzi leggerissimo; metti un caftano da sera, da spiaggia, velato, senza volto, col volto coperto, con le retine negli occhi, metti una sacca di nylon per fare il bagno e voile la moda del terzo millennio è tratta. Da Salerno parte questo messaggio di integrazione e multiculturalità ispirato dal Made in Italy sartoriale del Sud Italia, dato che ultimamente il mercato mondiale degli abiti musulmani va alla grande, con cifre stimate a quota 484 miliardi di dollari e tra Zalando e compagnia cantante che promuovono burqa e burqini come i maggiori indumenti di tendenza. Ora scusate ma con tutto quello che abbiamo predicato.
Con tutto quello che abbiamo gridato, urlato, con tutta la fatica inutile che avevamo fatto per riportare, la minigonna con le bombe, come regalo ci restituiscono il burqa e i caftani.
C’è anche la mise contemporary muslim. Roba prelibata per gente alla Boldrini.
Il capo può restare coperto, le lunghezze arrivano alle caviglie e non ci sono trasparenze né silhouette segnate. La donna diventa un sacco uguale a tutti le altre. E quindi boh. Non lo so.
Ma a me tutta sta roba fa girare i coglioni.

#sbetti

Da quando ha truffato amorevolmente la moglie mi è simpatico

Io Benigni non l’ho mai sopportato. Mai. In qualunque sua uscita. Comparsa o recitazione.
Non mi ha mai fatto ridere. Non mi ha mai fatto piangere. E se un uomo non riesce a farti piangere e ridere significa che non ti trasmette niente.
Ora dopo che ho saputo che ha truffato la moglie lo apprezzo.
Povere quelle donne che sul web hanno dato lustro a una frase scopazziata per guadagnare un’ impennata.
L’unica scena del Festival di Venezia che il popolo del web ricorda è la dichiarazione di un amore sconfinato di Benigni alla moglie Nicoletta Braschi, divenuta per un attimo la donna più invidiata sulla faccia della terra. Questo denota quanto le relazioni siano alla canna del gas.
Una dichiarazione che non si capisce per quale motivo Benigni non la possa fare a letto, tra le lenzuola, nel momento maggiore del godimento, anziché condividerla col popolo intero.
Un po’ come a rimarcare che i vip possono. I ricchi anche. E i poveracci no.
I poveracci sono costretti a fare dichiarazioni alle moglie la sera davanti la stufa a legna quando ricordano quanto è difficile andare avanti e “grazie per tutto quello che fai ogni giorno, grazie per sbattere la tovaglia, grazie per andare a raccogliere i pomodori nell’orto”, oppure sono costretti a sorbirsi i deliri di mogli insoddisfatte, tradite dal tempo, che pur di attirare l’attenzione si farebbero inondare il corpo di strass e perline, facendo acrobazie a letto pur di ottenere una poesia d’amore dal proprio uomo.
Nel caso dei poveracci a volte sono frasi scopiazzate da Facebook. Orribili meme ricondivisi e inoltrati. Frasi stucchevoli. Da far venire il diabete a chi soffre di mancanza di zuccheri. Sonatine da coma iperglicemico che mi chiedo perché certe cose gli innamorati non se le possano dire a voce anziché gettarle nelle fogne del web.
Quelle frasi invece pronunciate con enfasi sopra un palco, altro non sono che meravigliose poesie d’amore che qualcuno ha donato al mondo intero non certo per aumentare i like su Facebook.
“Il giornalista Giuseppe Brindisi – ha scritto Vittorio Sgarbi su Twitter- mi segnala che al festival del cinema di Venezia anche un’altra frase di Benigni, rivolta alla moglie , è stata, diciamo così, “scopiazzata”.
Certo. C’aveva già pensato Borges a dirla. E pure Nabokov nel suo Lolita.
Forse Benigni pensava che potesse passare inosservata. Prendendo per i fondelli la moglie e pure la gente.
Peccato che ancora sulla faccia della terra c’è chi legge. Studia. E ricorda.

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L’ultimo soldato americano a lasciare Kabul

Ho sempre avuto una certa ammirazione nei confronti di chi rimane dietro le quinte e non fa nulla per apparire.
Mi piace andare a scovare personaggi improbabili, strade mia percorse e storie sconosciute; perché come sempre dietro le più grandi tragedie o disgrazie ci sono sempre quelli che lavorano dietro i palcoscenici senza tanti fronzoli.
Non tollero molto i convinti.
Quelli che pur essendo imbarazzanti solo a vederli, riempiono social di tanti IO repressi, sconnessi, e tante imprese solo per soddisfare il loro ego su cui quella volta non hanno di certo lesinato.
Gente che sembra debba risollevare il mondo.
Ma questo soldato, rimasto sconosciuto, di cui ci ha parlato Fausto Biloslavo ieri sul Giornale, di certo la nostra più grande ammirazione la merita tutta.
Lui è Chris Donahue, comandante della leggendaria 82a divisione aviotrasportata. È stato l’ultimo soldato Usa a imbarcarsi sull’ultimo volo dall’Afghanistan. Un minuto prima della mezzanotte del 1 settembre scorso. Ora locale.
Questa foto, così spettrale, così metallica, così sincera, così sinistra, verde e nera, così lunare e notturna è destinata a entrare nella storia.
Un po’ come quella della bambina col cappottino rosso di Biloslavo a Kabul.
Questa foto di lui in tuta mimetica col fucile in mano che cammina verso l’aereo che lo riporterà a “casa” è l’immagine di una guerra durata vent’anni, diffusa dal Pentagono poche ore dopo la conclusione della missione. Un’altra disfatta. Sembra il ritiro dell’Armata rossa nel 1989.
È stata con un dispositivo per la visione notturna da un finestrino laterale dell’aereo da trasporto C-17 su cui lui si stava imbarcando, lì su quella pista dell’aeroporto di Karzai.
Non è un’immagine gloriosa.
Anche se lui ha il volto fermo.
È l’immagine di una sconfitta. Quella che testimonia i migliaia di soldati che della missione in Afghanistan ne avevano fatto la loro vita. Quella che testimonia chi lavora dai ranghi, quelli più bassi, senza chiedere ad altri quello che possono fare essi stessi. Esprime la perseveranza, la vita da trincea, l’affidabilità di chi non appare ma fa di tutto per salvare le vite degli altri. Ce l’ha insegnato il covid.
Quanti medici in trincea a cui non hanno riservato nemmeno un grazie.
Questo uomo diplomato all’accademia militare di West Point, ha partecipato a 17 missioni internazionali. Dall’Est Europa al Medio Oriente, dal Pacifico al continente africano. Era assistente del comando centrale del Pentagono a Washington quando scoppiò l’Apocalisse delle Torri Gemelle. È stato tra i primi a partire per l’Afghanistan, fino all’incarico di tre settimane fa di coordinare le operazioni di evacuazione e il ritiro delle truppe.
Lui fa parte di quella schiera di uomini che quando vai in giro e conosci ti chiedi quando grande è il mondo per restarsene a casa e pensare esclusivamente al proprio orto.
Fa parte di quella schiera di uomini che ti fanno capire che la gente fuori lavora, si dà da fare, non sta nelle fogne del web a infangare il lavoro degli altri.

#sbetti

Ognuno pensi al suo culo

“Chissà che finisci in terapia intensiva”.
Sinceramente preferivo i periodi di quando la gente al bar parlava di cose frivole e appariva anche intelligente, anziché parlare di cose mastodontiche e sembrare ignorante, oltre che esserlo veramente.
Il tipo che ho incontrato ieri sera in un locale e che mi stava accanto per l’aperitivo non vuole fare il vaccino. Problemi suoi. Di certo non mi metto a dirgli che si deve vaccinare. Anche perché non mi compete.
C’ha pensato un suo amico che invece con la bocca piena di patatine sputando nel piatto dove mangiano tutti come maiali da ingrasso, gli ha detto sostanzialmente che è un deficiente perché il vaccino lo deve fare. A sostegno della sua tesi il sì vax ha tirato fuori le più grandi scoperte, Galileo Galilei, la Terra è tonda, il Sole non gira attorno alla Terra eccetera eccetera, quando bastava semplicemente dire che è un vaccino che hanno trovato, che previene la forma grave del virus, che potrebbe avere degli effetti collaterali ma che anche se prendi un’aspirina per il mal di testa da “stasera amore non scopiamo”, potresti avere gli stessi effetti.
L’altro invece che nella vita avvita tubi – con tutto il rispetto per chi avvita tubi, anche perché molte volte sono più arguti e intelligenti di chi ha quattro lauree e scrive boiate immense – ecco gli ha detto che lui il vaccino non se lo fa perché sulla pagina dell’Aifa non c’è ancora scritto che il vaccino è stato approvato e che gli italiani e il mondo intero possono farselo.
L’altro allora gli ha detto che è l’Europa che l’ha approvato, non distinguendo nemmeno la suddivisione dei ruoli, la spartizione delle competenze, ossia il fatto che sono gli istituti preposti che devono approvare i farmaci e non i politici, e che il vaccino è sicuro al 101%.
Quell’altro allora gli ha risposto, in questo battibecco da bassofondo culturale, che lui il vaccino non se lo fa, perché dell’Europa non si fida essendo solo buona a, cito testuali parole, “mangiare soldi”.
E che poi l’altro giorno “uno – non si sa chi – ha spiegato bene su un video che il vaccino crea danni irreparabili”.
Quell’altro allora gli ha chiesto chi l’ha detto e questo ha risposto che non sa bene chi, ma che deve assolutamente “ascoltare il video perché questo qui – santone – spiega tutto bene. È un grande”.
L’altro giustamente gli ha dato del cretino. E così hanno cominciato a litigare senza distanziamento né mascherina. Litigavano con la bocca piena e vedevo tutti quei pezzetti di patate e prosciutto non ancora ingeriti che fuoriuscivano dalla bocca anziché da dove sarebbero dovuti uscire, ossia dal culo.
E poi quell’altro invece che si è vaccinato gli ha detto una cosa bruttissima: “chissà che finisci in terapia intensiva”.
Ci sono rimasta un po’ male.
Ora, questa conversazione mi ha lasciato un po’ perplessa anche perché non dista molto da tante altre che sento nei luoghi che frequentano tutti. E non mi pare nemmeno di frequentare i luoghi più marci. Anzi.
Sento questo genere di mentecatti sia nei locali più borghesi che in quelli più terra terra.
E preferivo i periodi di quando la gente sembrava intelligente e parlava di cose frivole. Rimpiango un po’ quei periodi in cui la gente parlava dei cazzi di tutti e sapevi esattamente cosa il tuo vicino di casa avesse mangiato per pranzo cena o colazione perché rotolava come un maiale. Rimpiango anche le dispute per il calcio. O il tipo che parlava al telefono gridando e lamentando che la suocera aveva preparato le zucchine e queste non andavano bene.
Perché il punto è questo.
E non ha molto senso discutere.
Chi non vorrà fare il vaccino, non lo farà.
Chi lo vorrà fare lo farà.
Chi lo voleva fare se l’è già fatto.
E chi è indeciso verrà informato, trascinato, persuaso da qualcuno.
Io ho un’idea.
Tu la tua.
E lì finisce.
Ognuno pensi al suo culo che è meglio.

#sbetti