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Arriva l’app anti aggressioni

Un incontro fortunato in stazione a Bologna. Così all’improvviso. Senza saperlo. Fermo due ragazze perché sto facendo un servizio sulla sicurezza. E scopro che una delle due Isabella Grazioli, con il suo fidanzato, si è inventata un’app anti aggressioni.
Lei è un vulcano. Un portento.
Perché immaginate di essere da soli, di sera, in giro per una città come Milano.
Ma potrebbe essere anche Padova, Bologna, Vicenza, Firenze, Roma.
Qualcuno inizia a seguirti e tu non sai cosa fare.
Il respiro che si fa affannoso.
Il cuore che comincia a pulsare a mille. Il passo che aumenta. E la paura che si trasforma in panico. In quel momento vorresti urlare, chiamare aiuto, far sapere a qualcuno dove sei, ma dove? Nelle situazioni di pericolo non sempre si riesce a mantenere la lucidità. Ma soprattutto come fai a chiamare? Ti metti a scorrere la rubrica del telefonino con le dita che tremano?
Basterebbe premere un pulsante che facesse sapere in tempo reale alle persone la tua posizione, di modo che qualcuno ti possa venire a salvare. Esiste. Veramente.
L’idea è di una coppia di Vicenza. Isabella e Vittorio Trettenero. Ed è un’app @imnotscared.app…
Io l’ho scaricata. E funziona veramente.
Perché “Tutte e tutti abbiamo il diritto di sentirci al sicuro”… Può capitare a chiunque, donne, uomini, di trovarsi in una situazione di pericolo…
Il mio pezzo oggi su Libero

Articolo

Sei per strada e sei in pericolo, chi chiami? Che fai? Immagina di essere da sola, o anche da solo, di sera, in giro per una città come Milano. Ma potrebbe essere anche Padova, Bologna, Vicenza, Firenze, Roma. Qualcuno inizia a seguirti e tu non sai cosa fare. Il respiro che si fa affannoso. Il cuore che comincia a pulsare a mille. Il passo che aumenta. E tu che temi il peggio. In quel momento vorresti urlare, chiamare aiuto, far sapere a qualcuno dove sei, ma dove? Nelle situazioni di pericolo non sempre si riesce a mantenere la lucidità. Ma soprattutto come fai a chiamare? Ti metti a scorrere la rubrica del telefonino e con le dita che tremano cerchi il numero di qualcuno? Basterebbe premere un pulsante che facesse sapere in tempo reale alle persone la tua posizione, di modo che qualche buon’anima ti possa venire a salvare. Impossibile? No assolutamente.  L’idea è venuta a una coppia di Vicenza, lui e lei. Coppia nella vita, anche. Lei 24 anni, si chiama Isabella Grazioli. Lui di anni ne ha 25 e si chiama Vittorio Trettenero. Un giorno – era il luglio 2022 – raccogliendo le olive, si son fatti venire in mente un qualcosa che potesse aiutare le persone in caso di pericolo. E a quell’idea hanno dato un nome e una forma. 

Si chiama “I’m not scared”, che tradotto vuol dire “Io non ho paura” ed è un applicazione già disponibile. “Io e il mio ragazzo – spiega Isabella a Libero – continuavamo a sentire storie di violenza nella nostra città, la donna che andava a passeggio e veniva aggredita, quello che andava a correre e veniva seguito, chi andava a portare a passeggio il cane e veniva molestato, ma sempre ne sentivi, di continuo, di giorno, di sera, di notte, così volevamo creare un qualcosa che potesse essere utile alle persone perché quando senti così tante storie di violenza nella tua città cominci a farti qualche domanda e abbiamo creato questa applicazione”. Ma come funziona. 

Io l’ho scaricata e funziona veramente. Praticamente si scarica l’app dall’App Store. A marzo sarà disponibile anche in Android. Ci si registra. La registrazione è gratuita. Si inseriscono il numero di telefono, il nome, il cognome, l’indirizzo mail e da lì si aggiungono i contatti delle persone a noi vicine che si vorrebbero avvisare in caso di pericolo, quindi per esempio la mamma, il babbo, lo zio, il fidanzato, la morosa, l’amica e perché no anche l’amico palestrato che in caso di pericolo possa difenderti. Da qui l’applicazione si apre, tramite la geolocalizzazione individua la tua posizione e sotto in basso compare un pulsante viola con la scritta SOS. “In caso di pericolo – mi spiega sempre Isabella – basta semplicemente schiacciare questo tasto Sos e l’applicazione manda simultaneamente un messaggio ai contatti che hai inserito con la tua posizione e fa partire contemporaneamente le chiamate. Le persone da chiamare le scegli tu, in base anche al posto dove ti trovi. Io ora vivo a Milano per esempio e ho inserito tutte le persone che potrebbero essermi d’aiuto nel caso fossi in pericolo”. 

Io ho provato, e in un nano secondo la chiamata alla mamma è partita veramente. Non solo, le è anche arrivato il messaggio di dove ci trovassimo in quel momento. “Prendo l’auto e arrivo?”. “No no tranquilla stavo facendo una prova”. Ok era un falso allarme ma di questi tempi può veramente capitare a chiunque. Basta farsi un giro per Milano, Bologna, perfino in pieno giorno non si riesce a camminare tranquilli senza incappare in qualcuno che ti voglia vendere droga fumo, o qualcuno che ti segua, che ti molesti, che ti aggredisca. 

E ultimamente, troppo spesso, si rischia anche di imbattersi con qualche delinquente che ti violenta. “Ma può capitare a chiunque – continua Isabella – non solo alle donne, anche agli uomini, tutti possono sentirsi in qualche momento in pericolo. Ma insieme possiamo fare la differenza”. E infatti il suo motto è proprio questo. Perché come spiega nel canale social relativo all’app (@imnotscared.app): “Tutte/i hanno il diritto di sentirsi al sicuro”. 

Cinque giorni fa Isabella ha intervistato un ragazzo di Milano, Lorenzo, il cui video è stato postato su Instagram, e gli ha chiesto se a Milano lui si senta al sicuro, sì insomma se gli è mai successo di tornare a casa la sera e di avere paura. “Anche se non ha mai vissuto esperienze spiacevoli – ha raccontato Lorenzo – ho amici che vivono verso il quartiere Certosa e che sono costretti a cambiare strada per evitare di essere importunati”. Se poi sia normale vivere in queste condizioni, questo è un altro discorso.

Serenella Bettin 

Libero 28 febbraio 2024
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La tragedia di Firenze rappresenta lo sfacelo del lavoro

La tragedia avvenuta nel cantiere di Firenze rispecchia esattamente lo sfacelo a cui sta andando incontro il lavoro nel nostro Paese.
Ossia quella sciagura di un operaio che esce di casa la mattina e non sa che potrebbe anche non rientrare la sera.
Venerdì 16 febbraio, ore 8.52 del mattino: alcuni operai stanno lavorando nel cantiere di via Mariti della catena dei supermercati Esselunga, a Firenze, per costruire un nuovo supermercato, quando all’improvviso uno dei piloni crolla e travolge otto persone. Otto persone. Otto. Tre muoiono sul colpo, altri tre saranno ritrovati qualche ora dopo sotto il cumulo di macerie e due risultano dispersi, ora il disperso è uno. Tutto attorno è il caos.
La polvere che si solleva da terra, il fragore, il boato, lo schianto il botto come fosse un tuono, tremendo, pareva il terremoto, e quella nuvola grigia di polvere di morte che sovrasta l’aria.
E poi le sirene, le ambulanze, i vigili del fuoco, i soccorsi. Sembra l’Apocalisse.
Nessuno sa cosa esattamente sia accaduto, perché il solaio non abbia tenuto, perché il pilone sia crollato; nessuno sa se i lavori erano stati compiuti a regola d’arte, se sia stato eseguito prima lo scavo o prima le gettate dei pilastri, o viceversa, ma quello che si sa è che lì sotto stavano lavorando alcuni operai e questi sono morti.
I sindacati attaccano e sostengono che quegli operai erano inquadrati, come metalmeccanici per risparmiare e quindi non erano propriamente edili.
E già qui ci sarebbe un capitolo da aprire. Gli operai infatti, romeni, rappresentano tutto il collasso e il disfacimento della “Aaa manodopera cercasi” nel nostro Paese.
Quanti idioti ho intervistato che mi dicevano che avevan bisogno degli immigrati, poi quando chiedevi loro quale fosse la specializzazione richiesta ti rispondevano: “Basta che abbiano voglia di fare”. E infatti, questi sono i risultati. Questi la voglia ce l’avevano. Tanto che già prima delle nove del mattino erano sul posto di lavoro a girare malta, non propriamente un lavoro leggero che si risolve in quattro cagate da scrivere su Facebook.
Ma rappresenta lo sfacelo – emblematico il crollo specchio della distruzione della cara vecchia manodopera pagata oro – perché ora ci sono alcuni datori di lavoro che cercano migranti per farli lavorare, (alcune volte in nero sia ben chiaro) e ai quali poco importa se questi prima erano idraulici, muratori, magazzinieri, trasportini delle pizze con incorporate le bibite, l’Italia accoglie questa gente per farla lavorare al ribasso, perchè ovviamente un italiano non lo fai lavorare per 5 euro l’ora – sparo una cifra a caso – e invece un migrante meglio ancora se parla poco italiano, poco poco, puoi farlo lavorare anche a 3 euro e pochi centesimi perché tanto ha bisogno. Ecco cosa ha portato l’immigrazione incontrollata, alla va là che va bene.
Nessuno si chiede se ci siano le competenze, se qualcuno abbia preso un patentino o fatto un corso per stare sotto un ponteggio, così come nessuno si chiede se i migranti passino dalla consegna delle pizze alla raccolta dei pomodori a quella degli asparagi a quella dei broccoli fino alla betoniera che gira loro davanti con tanto di malta fina da gettare per terra. Chi segue la ruvidezza e la scabrosità della cronaca, sa che in questi casi in genere si trova sempre qualcosa che non quadra. Infatti. E il paradosso è sempre quello: che gli addetti ai lavori non erano proprio addetti, che nessuno aveva controllato?, che “si poteva forse evitare?”, che la colpa non è mai di nessuno perché gli operai avevano seguito un ordine dato dal direttore dei lavori a cui l’aveva dato il vicedirettore del direttore dei lavori che aveva a sua volta preso ordini dal capo cantiere che si era interfacciato col capo del capo del vicecapo cantiere. E così via. E sempre puntualmente dopo la tragedia, chi deve cavalcare l’onda dei morti, balla sui cadaveri ancora caldi. Punta il dito senza sapere – vedi Landini – spara sentenze per sentito dire – trae conclusioni affrettate, formula teoremi basati su sospetti, su pregiudizi, su conclusioni a cui giunge troppo frettolosamente. E su queste intuizioni costruisce l’informazione e chi gli va dietro, danzando sul sangue e sulle lacrime delle vittime.
Ogni volta che accade un fatto del genere, si dice sempre che si farà qualcosa, ma lo si fa sempre post e mai pre. Ma ogni volta non cambia nulla. sì. Il crollo del pilone rappresenta sì il crollo del lavoro nel nostro Paese.
Lì in un ammasso di detriti tra polvere, grida e urla di rabbia e disperazione.

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Arrestato per violenza sessuale: graziato da una donna

Non so se ci sia un tentativo di prendere la gente per i fondelli o se dobbiamo assistere impotenti alle più totali illegalità e impunità.
Orbene.
La sera del sei febbraio scorso, una ragazza di ventiquattro anni, studentessa universitaria, viene aggredita da un ventenne somalo in centro a Bologna. L’aggressione avviene in via Bertoloni, una laterale di via Belle Arti dove alloggiano e si accampano tutti gli studenti universitari. In questa via ci sono giusto passata ieri, ed è una di quelle arterie a cui si accede da via Zamboni, ve la ricordate no via Zamboni, strada storica del centro di Bologna, il cuore della città universitaria, in quartiere porticato che va dalle due Torri fino a Porta San Donato. Un quartiere dove mai diresti che passeggiando per strada alla dieci di sera ti possa accadere qualcosa, io ci sono passata da sola e a parte qualche tossico che voleva vendermi fumo o roba bianca non ho trovato, eppure questa ragazza è stata aggredita. Anzi, lui non contento ha menato pure l’amica che avrebbe tentato di difenderla. Lui prima l’ha seguita. Poi l’ha bloccata, l’ha fermata. E infine ha tentato di violentarla. Una brutale aggressione.
Dopo numerose ricerche, l’autore di tale misfatto viene individuato in un richiedente asilo somalo di vent’anni che viene rintracciato dentro al centro accoglienza di Malalbergo, paesino a pochi chilometri da Bologna.
Anche qui ci sono stata ieri e devo dire che non ho trovato niente di che. Anzi. Uno dei centri più ben messi che abbia mai visto – il che la dice lunga, perché se nonostante le elargizioni che offriamo a questi ospiti, il ringraziamento è violentare la gente stiamo freschi.
Ma non è questo il punto, il punto è che tale codesto somalo giunto in Italia, quando è stato rintracciato dagli uomini di polizia, è stato arrestato. Ma nonostante la cattura, poco dopo è stato rimesso in libertà a causa dell’assenza dello stato di flagranza, così come se l’immigrato abbia compiuto una quisquilia, una roba da niente, che volete che sia, ha solo tentato di violentare una donna.
La notizia del rilascio quindi è apparsa nei giornali locali e sapete com’è la storia. Che quando le cose appaiono sui giornali… insomma il somalo viene rimesso dentro di nuovo.
Il questore dispone un ordine di trattenimento per pericolosità sociale collocandolo presso il Cpr di Milano, Corelli. Ma passa un giorno e siccome in fondo non è tanto pericoloso, viene trasferito come si trasferisce un pacco Amazon – senza manco tracciamento – in questo centro a Malalbergo. Quindi da Milano il somalo torna a Bologna, uno pensa stia dentro, e invece.
Invece passa un giorno, e notizia di oggi – vi giuro sembra una barzelletta – il somalo torna libero. Avrà solo l’ obbligo di firma e l’obbligo di dimora a Malalbergo. Il che fa abbastanza ridere che uno che abbia tentato di violentare una donna abbia l’obbligo di dimora a un quarto d’ora da dove l’ha aggredita.
Ma vi giuro che questi giorni dovendo seguire la roba mi son divertita. Perché ogni mattina aprivo il Resto del Carlino per vedere i recenti sviluppi e leggevo questa continua palilalia di parole e ripetizioni, una mattina il somalo era stato preso, poi fermato, poi rilasciato, poi in carcere, e poi ancora libero.
Ah dimenticavo il giudice che non ha convalidato il fermo è donna. Avanti.

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Centocinque anni: sopravvissuto ai gulag russi

Quando arrivo nella sua casa di Villanova di Camposampiero nel padovano, Giuseppe Bassi, 105 anni, compiuti il 3 febbraio scorso, sta leggendo il giornale. Non capita tutti i giorni di incontrare un tale miracolo della natura. Un uomo che ti stringe la mano con ancora una tale foga addosso.
Le braccia spalancate che agguantano le pagine e quel volto immerso tra la carta, dipingono un’immagine che mai si vorrebbe vedere annacquare. E non posso pensare di raccontare la sua vita con i colori dell’acquarello perché per quegli anni lontani devo usare soprattutto il nero: la prigionia, la sofferenza, il dolore, la tragedia. Colore che lui – uno degli ultimi, se non l’ultimo per davvero, sopravvissuti italiani ai gulag russi – dopo la liberazione, ha intonso e amalgamato con i colori dell’ocra, dell’oro e dell’argento, e della sua vita ne ha fatto un capolavoro.
Due figli, Carlo e Alberta; tre nipoti.
Benedetta, pensate, che sta in questi stessi metri quadri, è nata, dopo 100 anni, il giorno prima del nonno. Qui sotto lo stesso tetto.
La vita che scorre, l’una il prolungamento dell’altra.
Gigante negli anni, minuto nel fisico, ancora per colazione ogni mattina rigorosamente beve latte e Nesquik con sbriciolati dentro otto biscotti. Appena entro nel salone, si alza, balza in piedi, mi accoglie.
Fatto prigioniero dalle truppe russe e deportato nei campi di concentramento, in prigionia ci rimase 42 mesi, dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946 passando per i campi di Tambov, Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino.
E questa è la mia intervista uscita su Libero

La prima domanda sorge quasi spontanea. 

Ma dove la trova la forza a 105 anni? 

“I 105 non li sento come peso. Si affronta la vita in modo normale, come si era vissuti prima, si continua a vivere con quella normalità”. 

Bassi, una vita tanto normale non direi, ha fatto la campagna di Russia…

“Sì, ho fatto il mio dovere di militare, ero sottotenente e ne sono uscito vivo”. 

Quando capì che l’avrebbero spedita in Russia? 

“Ma in realtà sono stato io. Ricordo che il 3 febbraio 1942 incontrai un vecchio maresciallo della caserma di Padova. Aveva in mano un foglietto: stava arruolando qualche soldato per andare in un reggimento che sarebbe partito per la Russia. Allora gli ho detto che mettesse in nota anche me perché volevo essere come tutti gli altri. La sera quando tornai a casa raccontai a mio padre il fatto e lui mi disse: se questa è la tua volontà”. 

E poi cosa accadde? Come è finito nei campi di concentramento? 

“A dicembre arrivò la chiamata. Noi eravamo in linea sul Don, vede qui da questa cartina… dal fronte del Don fino alla valle di Arbusowka, la valle della morte, nei giorni precedenti si era scatenata l’offensiva russa e qui mi hanno fatto prigioniero”. 

Che giorno era?

“Era la Vigilia di Natale del 1942”. 

Le va di raccontarci come l’hanno presa. 

“Siamo stati circondati ad Arbusowka, abbiamo resistito alcuni giorni senza mangiare, dormendo al ghiaccio. Dopo alcuni giorni però ci siamo dovuti arrendere, non avevamo cibo, da bere, non avevamo armi per difenderci. Ci avevano ormai stretto in una tenaglia; tre carri armati tedeschi in nostra difesa ci giravano attorno ma finita la benzina è avvenuta la resa”. 

E da lì?

“Da lì, dalla valle della morte fino ai lager il percorso fu tutto a piedi”. 

A piedi? 

“Sì, molti morirono durante le marce, almeno ventimila persone morte nel tragitto per raggiungere i campi. Insomma, era dura. Poi una volta giunti nei campi, durante il giorno si lavorava con turni massacranti”. 

Vi davano da mangiare? 

“Sì, un tè caldo al mattino, un pezzetto di burro e un pezzo di pane. A mezzogiorno c’erano zuppa e cassia, sa cos’è la cassia?”. 

No… 

“Era una polentina di miglio, avena, orzo, grano e mais. Abbiamo vissuto così per quattro anni ma ci sono stati prigionieri che sono stati trattenuti e hanno fatto quattordici anni di prigionia. E dire che nel mio campo non ci furono episodi di cannibalismo”. 

Mio Dio. E dove?

“Vicino al mio, quello di Crinovaia. C’era una grande ex caserma della cavalleria dello Zar e in questi capannoni sono finiti circa 30 mila prigionieri del Corpo d’Armata Alpino. Qui si sono trovati alla mercé di soldati russi crudeli e fanatici. Siccome da mangiare non ce n’era, per cibarsi andavano alla ricerca di polmoni, fegato, parti del corpo che si potessero cuocere con facilità. Squartavano i cadaveri e quello era il loro cibo”. 

Se la sente di raccontarci la vita nel campo? 

“Si lavorava duro. E si scavavano le fosse comuni dove buttare i corpi. Ma io avevo localizzato la zona dove scavavamo le fosse, e questo fu fondamentale”.

Si spieghi meglio.

“Io ho sempre fatto il geometra. E lì disegnavo sulle cartine delle sigarette, era l’unica carta che avevo, ogni Natale facevo un disegno della prigionia. Disegnavo l’interno del campo. Ne facevo settanta, ottanta copie e le mandavo agli amici e grazie ai miei disegni – vede questi? – vede – vede – Ecco, grazie a questi disegni, dove magari indicavo il segnale della direzione del vento, poi è stato possibile rinvenire le fosse comuni”. 

Oh mio Dio, questa storia è bellissima. 

“Adesso alcuni miei disegni sono contenuti all’interno del museo del campo di Suzdal con una sezione dedicata”. 

È più tornato lì? 

“Sì due volte, sono cittadino onorario dal 2004. E dire che sono vivo grazie a un anello”. 

Ce la racconti. 

“Quella mattina mi avevano tirato fuori dalla fila per fucilarmi, facevano così loro, poi il soldato russo si è accorto che alla mano avevo un anello. Lui diceva: “Davajte” che significa dammelo in russo. Io gliel’ho dato, lui si è dimenticato del kaput e io sono ancora vivo. Sa i russi erano molto attenti agli oggetti di valore. Come agli orologi da polso”. 

Lei ne aveva uno? 

“Sì, ce l’ho ancora, glielo prendo. Per i russi l’orologio da polso era una rarità, loro non li avevano. Siamo stati noi soldati a portare gli orologi. Un orologio era valutato anche tre chili di zucchero e quando l’ho saputo ho preso l’orologio e me lo sono nascosto nella scarpa, così ero l’unico a sapere sempre l’ora”. 

E da qui il nome del suo docufilm? Perché lei ha fatto anche un film. 

“Eh sì, i miei compagni di stanza mi chiedevano: “Bassi! L’ora?”. E da qui il film “Bassil’ora”. Poi il 4 novembre di due anni fa mi fecero Cavaliere della Repubblica Italiana”. 

Quando la rilasciarono dal campo di prigionia?

“Dopo quattro anni, il 7 luglio 1946, dopo quattro anni tornai a casa”. 

La guerra, le guerre… nel 2024. Che effetto le fa?

“La guerra ancora nel 2024 non è possibile. Per quanto riguarda la Russia, io so cosa significa Russia. Per il resto, guardo le immagini, torno indietro con la testa e non posso non pensare alla guerra come a qualcosa che faccia soffrire”. 

Serenella Bettin 

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Libero, 16 febbraio 2024
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Sangiovanni è libero di fare quel cazzo che gli pare

Impossibile fermarsi.
C’è stato un fatto oggi apparentemente insignificante che mi ha fatto riflettere.
Sangiovanni, giovane e noto cantante vicentino, all’anagrafe conosciuto come Giovanni Pietro Damian, ha annunciato nel suo canale Instagram che si ferma un attimo.
Scrive Sangiovanni: “”Grazie al festival ho capito che essere se stessi e dire la verità è importante, bisogna accettare quello che si è. Non riesco più a fingere che vada tutto bene e che sia felice di quello che sto facendo”. E poi continua: “Non sto mollando, credo tanto nella mia musica e in questo progetto ma allo stesso tempo non ho le energie fisiche e mentali in questo momento per portarlo avanti”.
Dio mio apriti Cielo. I soldatini addetti alla reception della macchina del fango hanno iniziato a muoversi e da lì quando il fango si muove la fatica poi sta nello spalarlo fuori.
La “notizia”, infatti, apparentemente senza significato ma mediaticamente colma piena di significati interpretati e interpretabili nel giro di breve dagli altri, è rimbalzata ovunque nei social media, nei social media dei media, nei media dei social media, nei video, nei tg, nei siti. Chiunque aveva già creato un’immagine di Sangiovanni con stampata la sua frase davanti.
E soprattutto chiunque si era sentito in diritto di commentare comodamente dal divano di casa una questione fisica mentale che fatica a comprendere anche Sangiovanni stesso.
(Dio mio che grandi che siete, quando ho qualche crisi esistenziale – e vi giuro che ne ho tante – vi chiamo perché mi risolvereste gran parte dei problemi).
Ma questa roba che se uno si ferma diventa un evento da gestire in un modo globale a livello sociale è una roba di una mostruosità assurda. Da malati mentali ve lo giuro.
Sangiovanni ha semplicemente detto nella sua cazz di pagina privata Instagram che si deve fermare per un po’. Ma viviamo in un mondo che ci vuole talmente così tanto performanti – io me ne fotto altamente – che ci vuole così tanto talmente attivi, reperibili, online, connessi, che la notizia che qualcuno si ferma per un attimo diventa una roba di una deformazione animalesca che uno si chiede chi ci sia mai dietro a qualcuno che decida di fermarsi per un po’. (E fermatevi per un po’! Smettetela di rompere il caz…).
In un mondo dove improvvisati opinionisti ci deliziano anche su cosa abbiano mangiato la sera prima, in un mondo che ci vuole sempre presenti nei social ma non nella vita, un artista che comunica uno stop di qualche giorno, mese, ora, anno chi lo sa – sono affari suoi – diventa la notizia del giorno tale per cui tutti si sentono in dovere di raccontare e in diritto di commentare e in diritto dovere di farci le loro sporche teorie e dietrologie e chissà che altro. E sarà depresso. E sarà che è andato in crisi. E sarà che non ha retto. E sarà che c’è rimasto male. Ma che ve frega? Che cazz ne sapete?
Nel 2024 dove la vita è vissuta solo attraverso un dannatissimo fottutissimo schermo, una causa fisiologica, una pura questione psico fisica, una questione così naturale come andare al cesso diventa una roba aliena.
Per quanto mi riguarda onore a Sangiovanni che ha avuto il coraggio e la libertà di anteporre la sua felicità alle aspettative degli altri. Non tutti lo fanno e continuano a stare in mezzo ai coglioni.
Ma lui ha fatto quello che dovrebbe fare ogni essere umano. Lavorare. Mangiare. Riposarsi. Fermarsi se si è stanchi. Riflettere, che di convinti ce ne sono tanti.
E soprattutto farsi i cazzi propri.
Non è difficile. Provateci anche voi.

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Maledetto bastardo

Poi sei arrivato. E ti sei impadronito di me. Un virus. O chissà qualche altro epiceno virale senza sesso che si è infilato nel mio corpo e ci si è divertito un mondo.
Mai avrei potuto immaginarlo quando d’estate stavo sul balcone delle ferie a fantasticare le prossime storie da raccontare.
Prima, prima facevi un rumore strano. Uno strano bruciore. Me t’è cominciato come un bruciore in mezzo al seno, in mezzo ai due seni. Hai presente lì, lì in mezzo. Lì proprio lì dove punta il seno. Dove ho il tatuaggio.
Non all’altezza del capezzolo. Ma poco più giù sopra l’ombelico.
Sono arrivata a casa dal montaggio quel giorno e ho cominciato a sentire un bruciore lì in mezzo.
Ma non era un bruciore costante. Era un pizzichio. Un fragorio. Un bizz a intervalli. Come una cimice che sta morendo e che ogni tanto emana gli ultimi ronzii di vita, tu già ronzavi dentro di me.
Poi sei arrivato. Ed è stata quella sera.
E lì mi è andato via l’appetito. Lì m’è t’è preso un cappio sul collo che giuro era impossibile da togliere. Ho provato ad appoggiarmi al divano. Alla stufa. Sono uscita fuori a fumare una sigaretta. Ma niente. Il cappio continuava e già non avevo più fame. Così ho preso, mi sono accesa l’ennesima sigaretta. Mi sono fatta una camomilla. E sono andata a letto.
Ma dormire era praticamente impossibile. Tu non andavi né giù. Né su. Te ne stavi lì. Pronto a esplodere. E sei esploso.
La notte hai cominciato a fare il vigliacco. A correre. Correre su e giù per il mio corpo. Prima su. Poi giù. Poi di nuovo su. Poi ancora giù e non mi lasciavi in pace. E più dicevo basta, più mi facevi star male.
Virus intestinale mi hanno detto.
Il giorno dopo. Il giorno dopo ero devastata. Distrutta. Sfibrata. Avevi preso tutto di me. Mi avevi voltata e rivoltata, ridotta come un calzino, che sembravo un tronco senza liquidi e senz’acqua. Hai presente? Hai presente quando prendi un giunco e ci togli la linfa? E questo si irrigidisce tutto e si secca.
Senza manco un ciuffo di muschio verde che cresce sul gomito dove ci sta l’ombra.
Mi avevi scarnificato fino all’osso, col mento rovesciato per terra, con le gambe risucchiate della penultima cellula di acqua presente nel mio corpo. Non riuscivo nemmeno ad alzarmi. Ad andare in bagno. A parlare. La gente continuava a chiamarmi ma io non avevo nemmeno la forza di alzare il telefono. Le persone con cui dovevo finire di montare un servizio si sono arrangiate da sole. Ho mandato loro dei vocali che non ho ancora il coraggio di riascoltare. La mia voce sembrava quella di una che non parla da anni. Non mi hai fatto mangiare. Per fortuna però mi hai fatto dormire. E così per due giorni. Poi è arrivata la febbre. E da lì è ricominciata la spossatezza. Quando il medico mi ha visitato ha trovato la mia pressione a 50. Avevi scombussolato tutto brutto maledetto. E poi la pressione. La saturazione. E altre cose che ora non sto a qui dirti. Fino a che. Fino a che sabato non sono riuscita a venire in piedi autonomamente. Non c’era più il tuo bruciore sullo stomaco. Il tuo nodo in gola. La tua febbre che saliva. Tu che mi voltavi e rivoltavi. Ma c’eri tu che mi facevi sentire come in mare. In barca. Continui sbandamenti. Oscillamenti. E così è arrivato lunedì. Ora non oscilli più tanto, non sbandi più. Forse solo la paura. Ma so che te ne sei andato. Giù dentro al water. Come tutti i più grandi pezzi di merda.

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Dite Grazie. Il mondo è pieno di stronzi

Grazie. Lo vedevo cosi indaffarato quel cameraman, così impicciato, così affaccendato e immerso, totalmente occupato con la mente ben salda su ciò che doveva fare e con quegli occhi vigili su ciò che stava accadendo che mi sono sentita di ringraziarlo.

Lui mi ha guardato con due occhi sbalorditi come a dire: grazie di cosa, sono qui per questo. Grazie, che parola. Quante volte la diamo per scontata. Quante volte la pronunciamo a mezza bocca, come fosse un segnalibro che metti sempre al solito posto in un libro impolverato sopra il comodino, e quante volte non la diciamo, la diamo per assodata, e invece no, non è scontato niente. Un grazie si deve sempre. Grazie quando ti aprono la porta, quando fanno qualcosa per te, quando investono del tempo per starti appresso. Diciamo che quell’operatore me l’ero mangiato prima, ero sbroccata, la tensione, l’ansia, l’adrenalina, quando giri certi servizi hai una serie di sentimenti concentrati tutti insieme che un caleidoscopio in confronto ti sembra un mare calmo, tranquillo, poco mosso. E vengono fuori tutti insieme quei sentimenti, te li senti addosso, ti divorano, ti salgono le gambe, ti prendono la pancia, la gola, ti salgono fino alla bocca, gli occhi, la testa, il cuore. È qualcosa che ti invade, pervade, che ti sconvolge ed è come mettere la testa dentro al frullatore. Sconvolta, sconquassata, così com’ero, me la sono presa con lui, gli avevo detto parole che non merita. Ma quando fai un lavoro siete tutti nella stessa barca, nella stessa regata, nella stessa vela. Poi quando siamo risaliti, e percorrevamo quei ponti, e quelle calli, e quei campi – si chiamano così le piazze di Venezia – quando ci scostavamo da quel fiume di gente che ci veniva addosso, quando facevamo a bracciate per farci spazio tra la folla, in mezzo a quella nuova di gente che si muoveva come muove la spumiglia quando la metti sopra il nastro dal fornaio – ricorda che una nuvola non sa perché si muove in una certa direzione e a una certa velocità. Segue un impulso, è li che deve andare – ecco quando siamo risaliti, in mezzo al volo dei gabbiani, in mezzo agli albori della sera, al crepuscolo del tramonto, in mezzo al vocio della gente, gli ho detto: grazie. Poi quando mi sono girata, ho incrociato quest’uomo, c’avea un blocco tra le mani e annotava i suoi pensieri. Su di un foglio, una sola parola: grazie ancora.

Ditelo questo cazzo di grazie, non date nulla per scontato.

Il mondo è pieno di stronzi.

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Sami Modiano: “Fino a che campo parlerò”

Io me la ricordo quella voce. Quella voce così flebile, soave, fioca e tenue. Me la ricordo. Ho chiamato Sami Modiano un pomeriggio di qualche anno fa.
Avevo visto un documentario in televisione e mi misi in testa che avrei assolutamente voluto parlare con quell’uomo, così mi misi alla ricerca del numero. E tempo qualche ora sulla mia mano destra scritto a penna c’era il suo contatto, così l’ho chiamato. E mi sono presentata. Mi era rimasto impresso quel suo volto rigato e rugato dalle lacrime. Quella sua voce sommessa. Appena percettibile. Smorta. Quella voce come a provare vergogna. E una feconda timidezza che ti porti appresso per la vita. Mi avevano colpito le sue parole soavi capaci di entrare nei cuori nonostante fossero piene di orrore. Di sterminio. E di morte.
Lui è un sopravvissuto di Birkenau. Rapito quando aveva 13 anni, rimasto in prigionia per sette mesi, lui voleva farla finita.
Ma quando si ha a che fare con la morte, c’è una cosa che ti tiene attaccato alla vita stessa. Ed è l’amore. Lui si ricordò di quello che gli aveva detto suo padre, morto ammazzato, come la sorella.
“Sami tu ce la devi fare”, gli aveva detto.
E così ce l’ha fatta. Si è salvato. Dopo 60 anni ha iniziato a raccontare. “C’è una cosa che posso fare – ha detto – una. E fino a che campo sarà quella di parlare per chi non c’è più”.
Alla fine della nostra telefonata, mi ha detto: “Mi ripeta il suo nome”.
“Serenella”.
“Ha un bel nome Serenella, grazie”.
“Grazie a lei Sami. Grazie a lei”.
Grazie. Una parola sconosciuta. Che racchiude l’essenza del nostro lavoro. Del diffondere. E tramandare.

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Ilaria Salis: veramente l’Europa accetta questa roba?

Davvero l’Europa vuole questa roba? Davvero l’Europa accetta questa roba? Legata come fosse al guinzaglio, con schiavettoni alle mani e ai piedi, le manette con serraggio a vite che le inchiodano i polsi, il cinturione nero di fibra dura che le circonda la vita, fissato con delle catene che le impediscono perfino di starnutire e mettersi la mano davanti la bocca, e quel catenaccio che la tiene al guinzaglio e la trascina così come fosse una bestia o un animale da rinchiudere. Un esemplare del circo che ha finito la sua corsa è trattato meglio. E poi quei piedi incatenati anch’essi, con quei due blocchi di ferro pesanti che solo a guardarli fanno inorridire anche i morti. E poi quegli uomini che la detengono e la trascinano, con giubbotto antiproiettile, in tenuta antisommossa, e con un passamontagna nero calato sul volto.
Signori, l’Europa che ci impallina tutti se non adottiamo le misure green, l’Europa che ci redarguisce perché da noi i processi durano troppo, ci regala questo show e permette che un essere umano sia accompagnato in giudizio come fosse un animale.
Ilaria Salis è diventata un caso politico. Detenuta in una struttura di massima sicurezza a Budapest, la Salis è accusata di aver partecipato insieme ad altri estremisti di sinistra a una aggressione violenta contro estremisti di destra. Era l’11 febbraio 2023, l’anno scorso. Ilaria era a Budapest contro il raduno dei militanti neonazisti per il Giorno dell’Onore. La Salis si è sempre dichiarata innocente. Ha rifiutato un patteggiamento a 11 anni e ha chiesto di poter visionare i video che non la riprenderebbero in volto. Ma a lei viene contestata anche l’affiliazione ad Hammerbande, un gruppo di estrema sinistra, nato a Lipsia, in Germania, che vorrebbe “assaltare i militanti fascisti”.
Nata a Monza, cresciuta in Brianza, si è diplomata col massimo dei voti nel liceo classico della città, il suo attivismo è sfociato nell’occupazione di una fabbrica in disuso – chi l’avrebbe mai detto – e da lì ne è nato un centro sociale.
La sua storia, prima dello scoppio del caso, non era conosciuta. Quel giorno a Budapest la prelevarono da un taxi e la condussero in carcere.
Da quando è dietro le sbarre non fa che leggere. Al di là della sua colpevolezza o meno, le immagini che arrivano da Budapest sono qualcosa di indegno. Qualcosa che oltrepassa il limite del civile e dell’umano. Perchè nessuna persona dovrebbe essere portata in un’aula di tribunale per ottenere giustizia, trascinata in catene. Lo spettacolo è umiliante. Degradante. È qualcosa che non si può vedere.
E c’è un’altra cosa disturbante.
E cioè tirare in ballo il governo italiano per le condizioni disperate e degradanti in cui versa la Salis. Lei ha denunciato in una lettera lo stato del carcere in cui si trova: vestiti sporchi, senza assorbenti, cimici nel piatto. Ma a qualcuno piace parlare tanto per dare fiato alle trombe, addossando la responsabilità del trattamento ricevuto da Ilaria al governo italiano che, perdonate, ma non vedo come possa c’entrare.
Invece di sparare stronzate, preoccupatevi del fatto che in Europa abbiamo un Paese che detiene i propri reclusi come fossero animali, incatenati ai piedi, ai polsi e alle mani, inchiavati e ammanettati come fossero bestie. Questa cosa vi dovrebbe far riflettere. Perchè il grado di civiltà di un governo si misura dal trattamento che riserva verso i deboli, compresi i detenuti.

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Eurabia

Eccola l’ Eurabia. Eccola. Piazza Duomo, Milano. Capodanno 2024. Eccola l’Eurabia che si prende le nostre piazze. Che prende forma, che si impossessa delle nostre tradizioni e ci impone i suoi costumi. L’ultimo dell’anno, saranno felici i talebani dell’accoglienza indiscriminata, in piazza a Milano – io ero presente – c’erano solo loro. Gli immigrati. Gli stranieri.
Non c’era un italiano nemmeno a pagarlo oro. La lingua prevalente era l’arabo. Ovunque ti voltavi, non vedevi altro che musulmani, islamici, bandiere rosse con la stella a punte, ragazzini di seconda generazione, bande di nordafricani, baby gang. Sono loro che si sono prese le nostre piazze. Issati come si issano i pennoni al centro della piazza, popolavano i gradini gridando in coro e sventolando le bandiere del Marocco.
Sono scesa a Milano domenica pomeriggio dopo un viaggio sospeso tra la nebbia e i pensieri umidi che mi affollavano la testa.
Guardavo fuori da quel finestrino e vedevo nient’altro che foschia, veli di caligine, coltre; i campi coltivati coperti di brina si susseguivano uno dopo l’altro che parevano formare un tutt’uno. Sembravano dipinti con l’acquerello, usando l’acqua sporca intinta di nero che si fa grigio. Ogni tanto tra le teste assonnate di un Frecciarossa semivuoto spuntava qualche albero denutrito, spoglio, scarnificato, magro. Fino a che non sono scesa in Centrale. Il clima era spettrale. Cupo. Angosciante. E angoscioso.
Scendo e mi pareva di essere su un’altra dimensione, non c’era il solito tran tran dei giorni feriali, o di quelli festivi; l’ultimo dell’anno è sempre un giorno di trapasso, un giorno che si porta il peso del tracollo dei 364 andati e la foga di quelli che verranno, i buoni propositi, la lunga lista di cose da fare, l’agenda, i sorrisi dimenticati. Prendo un taxi e appena giungo sul posto, a indicarmi la via ci sta un bengalese. La stazione infatti era vuota, non c’erano le solite panchine piene di immigrati o gli ammassi di gente che dorme per terra, noncurante di tutto e di tutti. Gli immigrati, i ragazzini, avevano già iniziato la lunga processione verso Piazza Duomo. Le bottiglie rotte per terra. La città spenta e frastornata dal fragore dei primi petardi. Le loro grida. Le loro forsennate urla. E le bandiere. “Milano oggi – per loro – è come Baghdad”. E infatti arrivata in Galleria Vittorio Emanuele II eccoli gli stranieri che arrivano uno dopo l’altro.Arrivano a frotte. Non li ferma nessuno. Sono dieci, venti, cento, mille. Sono tantissimi e come in un formicaio invadono lo slargo. Acquartierate attorno alla piazza, ci sono le baby gang e le bande dei ragazzini di seconda generazione. Fumano. Bevono. Girano canne. Urlano. Gridano. La droga qui scorre a fiumi. Il Capodanno è il loro. La piazza anche. “Io italiano! Io italiano! Questa casa mia”, mi grida in faccia un ragazzo marocchino. C’avrà all’incirca 16 anni. Attorno a lui i suoi amici con bottiglie di birra, pezzi di vetro e petardi in mano. Il boato dei botti si propaga in galleria. E il frastuono spacca i timpani.
Ma manca veramente poco, e la polizia di Stato è costretta a intervenire. Caschi, scudi, manganelli. La polizia avanza tra la folla. E procede verso la piazza. Come al solito è lo scontro di civiltà che esplode. Nel quartiere San Siro, scoppia la guerriglia. Lo scontro, ancora una volta, è tra la polizia e gli immigrati. I giovani cercano di aggredire gli agenti. Gridano loro: “Figli di p****ttana”, “pezzi di m….”, “sbirri”. Lanciano sassi. E sparano colpi con le pistole. Tutt’attorno è il caos.
Oriana Fallaci lo aveva predetto. E la sua non era un’invenzione. Ma non è stata compresa. La vedevano come una delirante.
Oggi le sue parole hanno il suono della profezia. Scrive la Fallaci ne La Rabbia e l’Orgoglio: “Sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente – oppure d’apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione) – non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all’Inverso. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria dei Politically Correct, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. (…) Una guerra che essi chiamano Jihad, Guerra Santa.
Una guerra che mira alla conquista del nostro territorio(…) Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare (…) E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra storia…”.
Sveglia gente! Sveglia!
SVEGLIATEVI

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Milano, piazza Duomo, Capodanno 2024