Minchia signor tenente

Minchia signor tenente.

Ieri stavo rientrando dalla spiaggia. E mentre aspettavo degli amici mi sono seduta sul gradino di una casa. Mi sono accesa una sigaretta, ho aperto Facebook e mi sono apparsi tutti i post del carabiniere ucciso a Roma. E allora ce n’è stato uno che mi ha colpito. Ed è quello di un amico, un amico da una vita come dice lui, che mi è rimasto impresso nella mente.

Un amico che indossa la divisa. E che ogni giorno rischia la vita. Allora il post diceva così: “Minchia signor tenente e siamo qui con queste divise

Che tante volte ci vanno strette

Specie da quando sono derise da un umorismo di barzellette

E siamo stanchi di sopportare quel che succede in questo paese

Dove ci tocca farci ammazzare per poco più di un milione al mese

E c’è una cosa qui nella gola, una che proprio non ci va giù

E farla scendere è una parola

Se chi ci ammazza prende di più di quel che prende la brava gente.. minchia Signor tenente..”.

Non c’erano tante altre parole se non quelle della canzone. La ricordate no? E così sotto ho commentato “Minchia signor tenente”. Minchia signor tenente. Poi. Poi per tutta la giornata di oggi la mia testa continuava a ripetermi in testa questa strofa, queste parole, queste verità e mi sono chiesta quanti uomini ancora dobbiamo perdere per arrivare a fare qualcosa. Già, ma cosa. Cosa si può fare se fai un lavoro per cui esci di casa al mattino, tua moglie ti saluta, ti sfiora con le labbra, abbracci tuo figlio e rischi di tornare dentro una bara? Cosa si può fare? Bè, si può fare tanto. Si può fare tanto. Si può intanto cominciare a sbattere in galera un po’ di persone, un po’di delinquenti, un po’ di farabutti; poi alcuni se li può prendere e lasciarli lì a lavorare. E poi si può cominciare a difendere le nostre forze dell’ordine. Non a processarle se si difendono. Perché io me li ricordo quei casi dove se aggredisci un poliziotto ti danno i domiciliari, o ti mettono il braccialetto elettronico. Oh sì, me lo ricordo quel migrante del Gambia che a gennaio dell’anno scorso, a Chioggia, aveva rotto la spalla a un poliziotto. Era stato condannato a un anno con sospensione della pena, poi il processo per direttissima, e poi riaccompagnato in questura, non contento il tipo aveva aggredito altri tre poliziotti. Tre. Mica uno. Tre, ferendoli. Ma il giudice non aveva ravvisato gli estremi per contestare la resistenza a pubblico ufficiale e quindi venendo meno la resistenza, le lesioni non sono perseguibili d’ufficio ma solo su querela.

E allora ci chiediamo cosa mai debba fare uno per “porre in essere”, questa locuzione che a voi tecnici del diritto piace tanto e che stavate inculcando pure a me, ecco ci chiediamo cosa mai debba fare uno per ravvisare gli estremi della resistenza a pubblico ufficiale. Ah forse lo deve ammazzare. Lo deve prendere e gli deve tirare otto coltellate fino a che il corpo in un bagno di sangue non comincia a spasimare, a sobbalzare, ad ansimare, a chiedere aiuto, a implorare pietà per poi lacerare e straziare a terra. Ecco cosa deve fare. Cioè in Italia per ravvisare gli estremi per un reato, e quindi per essere colpevole una persona la devi ammazzare. Sennò ci stanno tutte le attenuanti del caso. Ci sta la condizionale. La buona condotta. Il non volevo. Non pensavo. Ma fai sul serio. Oh mio Dio sono provato. Come è provato ora, Elder Finnegan Lee, statunitense, che con Christian Gabriel Natale Hjort, è accusato dell’omicidio di Mario Cerciello Rega.

Mario che si era sposato da un mese, Mario che amava la moglie, Mario che amava gli amici, Mario che era appena tornato dal viaggio in Madagascar, Mario che aiutava i poveri, Mario che doveva ancora disfare le valigie, Mario che era barelliere per l’Ordine di Malta e Mario che accompagnava i malati a Lourdes e a Loreto.

Ecco chi avete ammazzato. E allora io li ho visti i carabinieri traditi dallo Stato, i poliziotti indagati, quelli menati che se si difendono rischiano il carcere, gli uomini in divisa che rischiano la vita e che se per caso premono il grilletto non hanno scampo, non hanno attenuanti, non hanno giustificazioni. Le giustificazioni in questo Paese di merda ce l’hanno solo i delinquenti. Per non parlare poi dei carabinieri, dei poliziotti, dei finanzieri, dei militari che c’hanno le divise rotte, che devono comprarsi le magliette, che non c’hanno la benzina, che non ricevono i soldi degli straordinari; uomini in divisa costretti a lavorare nelle porcilaie di qualche caserma che “nemmeno le latrine al fronte”. Ecco come fate lavorare i nostri servitori dello Stato. Quelli che non sono abbastanza per controllare ogni giorno dove poggiate il culo.

Perché adesso, adesso, adesso tutta la politica piange il carabiniere, tutti quelli garantisti piangono il carabiniere, ma mi chiedo se domani ve ne sarete già dimenticati. Perché allora, allora Faletti all’inizio cantava: “tutti aggrappati a un filo e non sappiamo dove”. Già. E allora “glielo dico sinceramente. Minchia signor tenente”.

#sbetti

A noi controcorrente ma mai controcuore

Oggi mi è successa una cosa. Ero intenta a scrivere in un bar, uno di quei bar dei paesi di un centro dove la gente tutta si conosce e dove se entra qualche “foresta” tutti si chiedono chi sei. Allora entro in questo bar. Vado in bagno. Ordino da bere. Ordino la mia dose di caffè. E mi siedo fuori. Tirava un leggero venticello caldo che all’ombra si stava pure bene. Insomma sono lì, apro il computer. Faccio mente locale e mi metto a lavorare. Ma non ho tempo di pensare al caffè. E nemmeno all’acqua e limone che intanto stava ribollendo di caldo sopra il tavolino. Il caffè rimane lì per una buona mezz’ora. Solo la sigaretta riesce a non distrarmi. Insomma sono lì che faccio il mio lavoro, con la testa china, la schiena contratta, i pugni tesi e gli occhi fissi, quando sento che mi passa accanto una persona. In quel momento però dovevo fare un incrocio di dati. Di numeri. Di cifre. Di cose che devono portare e quindi non riesco a guardare altrove. A pensare ad altro. Avete presente no? Quando siete talmente concentrati che può cadere pure il mondo e voi ve ne fregate. Una volta a me è successo. Sì. Stavo scrivendo un pezzo che doveva andare via il prima possibile, quando a un certo punto, classico temporale estivo del Nord, è andata via la luce, ha iniziato a grandinare, i fogli hanno cominciato a roteare per la stanza, fuori l’Apocalisse, e io lì ferma immobile con le finestre aperte, impassibile per cercare di finire. Mi sono accorta che dentro era entrata l’acqua dopo un’ora che il cielo aveva smesso di tirare giù tutto. Ma insomma vi dicevo di oggi. Allora sono lì che sono intenta a scrivere e incrociare quando sento una persona dietro di me. E una. E due. E tre volte. Finisco una parte del mio lavoro. Allento la tensione. Alzo lo sguardo, fumo una sigaretta e tac. Arriva la cameriera. Una cameriera molto dolce. Gentile. Che tutta timorosa ma con una dose di coraggio mi dice: “ma cosa scrivevi prima?”. Allora io la guardo. C’avrà quindici anni in meno di me. E le dico: “figlia mia ancora non te lo posso dire, faccio la giornalista”. Questa sgrana gli occhi. Mi guarda. E mi dice: “Davvero????? Oddio wow!!!”. E io: eh sì. Poi a un certo punto continuando a fissarmi con le pupille che si ingigantivano sempre più mi dice: “complimenti però. Hai coraggio”. Già coraggio. Allora inizia a chiedermi cosa scrivo. Dove. Quando. Come. Perché. Se l’ho sempre voluto fare. Se mi piace. Come si fa a entrare. Che lei vorrebbe fare politica ma non sa da che parte iniziare. E ora non ricordo nemmeno il nome di questa ragazza. Che mi ha lasciato pure mezzo croissant. Cioè mi ha detto che il suo nome corrisponde alle ultime tre lettere del nome di suo padre e alle ultime tre lettere del nome di sua madre. E che i suoi genitori sono albanesi. Insomma lei continua a farmi domande. E io tento di raccontarle. Sempre così quando ti chiedono che mestiere fai. Ci stanno alcuni che sgranano gli occhi e ti dicono: “ma di lavoro?”. Allora io rispondo loro: “No sai, siccome a casa non ho il giardino, il tempo che tu impieghi per tagliare l’erba, ecco io lo investo per scrivere”. Ma per favore. E poi invece ci sono quelli, e sono i più belli, che spalancano gli occhi e ti dicono: “veramente??? Che strano incontrare un giornalista. Non ne ho mai visto uno”. E così ti guardano come se fossi un mostricciattolo, un animale in via di estinzione, un insetto da scacciare. Un po’ come dire: “sai ieri ho visto un vermiciattolo sul mio giardino”. “Davvero? Non ne ho mai visto uno”. E poi. Poi ci sono quelli, e sono frequenti, che vogliono sapere com’è la giornata tipo del giornalista e quindi si siedono al tavolo con te, tu puoi pure essere in compagnia del Papa, e iniziano: “ma spiegami com’ è la tua giornata. Cioè ti svegli al mattino e cosa fai?”. Allora tu gli spieghi che ti svegli al mattino e leggi i giornali. Ti fai il caffè. Vai in bagno. Fumi. Se ti avanza tempo prima di uscire pulisci. Tutte cose che fanno i comuni mortali. E poi. Poi gli dici che se la tua agenda al mattino prevede cinque cose oppure sei. Ecco magari ti puoi trovare a sera che hai lavorato come una matta, ma che quelle cinque cose non le hai fatte, perché ne sono subentrate altre, perché c’erano altre cose più importanti da fare, perché la stampa segue gli eventi, perché ti si sono accavallati gli impegni, perché il tipo che doveva arrivare non può più venire, perché suvvia la stampa è bellezza tuttavia!

E allora loro rimangono sbalorditi e ti chiedono sì insomma come fai. E allora gli dici che si fa. Che lo senti dentro. Che lo fai perché è parte di te. E che ti piace. E poi. Poi ci sono alcuni che alla fine ti dicono: “ma scusa, ma ne vale la pena? Cioè in un mondo come quello di adesso, dove ci sono i social, dove l’informazione è controllata”. Insomma alcuni partono con tutte ste cagate a cui tu vorresti anche rispondere. Ma ti limiti a fissarli e dire sì. Solo una volta ho chiesto a uno che ammazza galline se ne valesse veramente la pena. Ma capite poche volte, solo se ti addentri nella campagna. E allora vi rispondo qui. Sì che ne vale la pena. Perché il giornalismo come lo intendiamo noi non è fatto di comunicati stampa, di dichiarazioni prese fatte confezionate per lustrare qualcuno che appena volti il culo ti dà del giornalaio. Il giornalismo come lo intendiamo noi, quelli controcorrente, è fatto di inchieste, di reportage, di gente che rischia la vita in prima linea sotto i colpi delle bombe, è fatto di realtà da svelare, di mondi da scoprire, di polvere da sollevare. È fatto di puntini da unire. Senza niente pronto. È il giornalismo della strada. Di quelli che per capire devi essere come loro. Il giornalismo dove ci si sporca con coraggio e senza avere paura.

Perché poi. Poi alla fine, parlando del più e del meno la cameriera dal nome che unisce le lettere del padre e della madre mi fa: “alla fine se sei onesta con te stessa, non perdi mai”.

Già. E allora sempre controcorrente.

Ma mai controcuore.

Dedicato a chi ha coraggio.

E non ha paura.

#nottesbetti ❤️

Un mare pieno di conchiglie 🐚

Dal diario del 23 luglio 2018.

Dalla mia terra.

Adoro quando il mare é cattivo. Quando si agita, quando scalza, quando si increspa, quando sbatte sugli scogli e come un amante si prende sbeffeggiando la sabbia, starmene qui a guardarlo. Sì insomma in spiaggia non c’è nessuno, non ci sono i cagacazzi che fanno il défilé, non ci sono i palestrati che controllano se la zucchina mangiata a pranzo è andata a mettersi sulla chiappa destra o su quella sinistra, non ci sono i genitori maleducati di figli altrettanto maleducati che poveri hanno preso da padri e madri e non ci sono quelli che urlano fingendo di parlare di cose serie. Non ci sono nemmeno i baldanzosi che per andare a buttarsi in acqua prendono la rincorsa, ma sbagliano la mira e ti infilano il piede sulla chiappa destra mentre stai dormendo al sole. Ed è una goduria sapete. Starsene qui. Ora così. Una goduria. Sì. L’unico vocio è quello delle onde che sbattono tra di loro. Quel vorticoso suono cupo. E se ti siedi qui e te ne fotti della sabbia bagnata vedi a poco a poco il cielo che cambia. Prima blu. Poi arancione. Poi rosa. Poi viola. Poi quasi grigio. E poi vedi quelle onde che creano vampate d’acqua di vapore formando sopra il mare una sottile nebbia, una sottile nebbia d’acqua. Le onde formano tanti grossi grassi rulli che si ingrossano e si ingrassano sempre più su quel mare che prima era piatto e che ora sembra voler dire qualcosa. Poi dopo un po’ si calma. E allora adesso che ti sei calmato. Dimmi che t’è successo oggi. Che eri così inquieto e irrequieto. Perché quando tu sei così, sto così anch’io.

#buonaseratasbetti ❤️

Manuel #Bortuzzo: tra dieci anni sarò in piedi

🏊 Ho conosciuto Manuel Bortuzzo l’altra sera a #Noale. Me ne sono rimasta in disparte fino all’ultimo perché volevo ascoltare per poi scrivere. Accade sempre così quando mi rapporto con chi ha sofferto. O soffre. Fino a che non ho preso coraggio, l’ho salutato e gli ho detto: “Ciao Manuel! Grandissimo!”. Lui mi ha preso la mano, mi attirato a sé e mi ha salutato. Una forza immensa. Una potenza della natura. E nelle sue parole la trovate tutta.

Sul #Giornale

#tutticonmanuel

LEGGI IL PEZZO 👇

#sbetti

http://m.ilgiornale.it/news/2019/07/22/manuel-bortuzzo-tra-dieci-anni-torno-in-piedi/1730207/

Adoro #Milano. La adoro

Adoro #Milano. Ma io mi innamoro di qualsiasi città. Sangue zingaro che non sono altro. Ma quando dici alla gente che vai a Milano, alcuni ti dicono “che palle”. Cioè la gente pensa che Milano sia la città dei negozi, dei palazzi, del caos, del traffico, della gente inscatolata come sardine dentro la metro, che arriva giusta quei due minuti esatti giusto in tempo per prendere la coincidenza del treno entrando dal gate con scritto “vietato – no entry – verboten – forbitten”. Almeno così a me è successo. Sì insomma dovevo prendere il regalino per mia nipote e non mi sono accorta che il treno direzione Udine stava partendo. Il mio. Non avevo il tempo per farmi controllare il biglietto. Ho beccato un guardiano di Trenitalia e gli ho detto con gli occhi amorevoli: se perdo questo sono fritta. E allora dicevo Milano non è solo la città dei negozi. E dei locali. Milano è piena di arte. Cultura. Bellezza. Milano è piena zeppa di localini dove ci stanno le cose buone da mangiare. E allora la adoro perché ti entra dentro in un modo che non sai spiegare. È la città del tutto incastonato perfettamente tra una frazione di secondo e l’altro che ti riempie di energia. La città dell’ok ci sei. La città del “ogni coincidenza è la mia”. Tutto comincia quando scendi alla stazione. Sei lì che non vorresti farti travolgere da quel turbine impetuoso che scorre nelle strade. Nelle persone. E invece. Invece ti ritrovi catapultata in un mondo che all’inizio non sembra il tuo. Sì insomma. Le prima volte che venivo a Milano mi dicevo. Mamma mia che città. A me sembrava pure calma. Ma era caotica. Caotica da morire. Io che l’avevo vista la prima volta a 15 anni. Ero salita sulla Madonnina. Un giro lungo il centro e poi. Poi me ne ero tornata a casa. Ora. Ora scendi e procedi a passo svelto. Impari ad agganciare la metro giusta. A capire che quando arrivi in stazione verrai travolta da gente che infila i trolley tra le gambe degli altri, gente che corre, che spinge, che aspetta, gente che tutti in fila indiana, in giacca e cravatta si prepara, corre, pranza, parla. Tutti con gli auricolari senza fili che sembrano parlare da soli. E poi. Poi impari che c’è un app se ti serve un taxi. Che ti avvisa quando arriva con un messaggino su whatsapp. Impari dove fanno i gelati buoni. Dove si beve un caffè spaziale. Impari a non mangiare per strada. A camminare a passo teso. Testa alta e col sole attorno. Perché é bella Milano. Bella. Il suo caos inscatolato ti mette una voglia di fare pazzesca. E domani vi racconto di questi scorci di Milano.

Continuando il viaggio.

#sbetti 💙

L’auto che esce di strada non la puoi richiamare

Questa notte a #Jesolo sono morti cinque ragazzi. Quattro viaggiavano sulla stessa auto. Un altro di 28 anni invece, Brian Merletti, si è schiantato addosso a un platano alle cinque del mattino. Anche a Cesena sono morti altri quattro ragazzi. I quattro morti di Jesolo hanno tutti dai 22 ai 23 anni. E sono Riccardo Laugeni, Leonardo Girardi, Eleonora Frasson, Giovanni Mattiuzzo. Rientravano da una notte passata nei locali della movida jesolana. Come tanti altri ragazzi. Giovani e meno giovani. Funziona così a Jesolo. Nella località balneare più movimentata del litorale veneto. Ci si trova. Qualcuno fa l’aperitivo in spiaggia. Si va a mangiare qualcosa e poi si conclude la serata in qualche discoteca o in qualche locale con la musica a palla. Ma è normale. Non c’è niente di male a volerlo fare.

Allora quando stamattina mi hanno avvisato e ho visto le notifiche sul cellulare la mia mente è tornata indietro a quel 2 giugno 2014. A quando mi chiamarono perché davanti al bowling a Mirano (Venezia) era successo un incidente spaventoso. Quella notte lì sull’asfalto persero la vita Margherita Noè e Federico Talin. Lei aveva 16 anni. Lui 18. E stavano rientrando da una serata con gli amici. Tremendo l’impatto con un’altra auto che correva a velocità folle. E io me la ricordo quella volta. E mi ricordo quei giorni. Mi ricordo lo strazio dei genitori. I pianti degli amici. Lo strazio dei sopravvissuti. Mi ricordo le testimonianze di chi aveva visto quei ragazzi morire. Sono incidenti devastanti, che ti sconquassano l’anima. Lì per lì, quando lavori, non capisci. Non ragioni. La realtà non arriva direttamente alla coscienza. È una difesa. Ma poi. Poi ci pensi. La sera quando torni a casa e hai passato il giorno ad annotare i nomi dei morti sul taccuino e a scrivere di morti sulla strada ci pensi. E allora prima ascoltavo il telegiornale e la causa principale degli incidenti è la distrazione. Al terzo posto ci sta l’alta velocità. La distrazione appunto. Colpa nostra. Colpa di questi maledetti iPhone che tanto anche se guardi un attimo dopo non cambia nulla. La notifica su whatsapp rimane lì. La chiamata persa anche. Puoi richiamare. Ma l’auto che esce di strada non la puoi richiamare. I social anche se non li guardi tutti i minuti puoi anche guardarli dopo. La strada. La strada cazzo non la puoi guardare dopo. Non puoi. La strada la devi guardare in quell’esatto istante. Perché basta poco. Basta una frazione di secondo a portare via una vita intera. E poi la velocità. La velocità. Ne ho visti incidenti per la folle velocità. Bolidi impazziti che corrono a rotta di collo, che macinano chilometri di asfalto in pochi minuti. Ma tanto. Tanto non serve a nulla. Non cambia niente se anziché arrivare alle 12 arrivi alle 12.15 piuttosto che non arrivare mai. Non cambia assolutamente nulla. E poi. Poi non è vero che se corri più veloce sei più figo e attiri le donne. La gente ignorante pensa di essere all’autodromo. Si fa i selfie la volante. Fa le storie su Facebook. Su Instagram. Così come fosse tutto sempre fatto per mostrarlo agli altri. La gente fa i video a 220 all’ora ammazzando i figli. Come è accaduto venerdì notte sulla Trapani – Palermo. Un padre che guida a velocità folle con i due figli a bordo e filma la pietosa scena. Uno aveva 13 anni. L’altro in fin di vita ne ha 9. Allora io non lo so più dove stiamo andando. Ci si schianta nelle strade condividendo una cazzo di storia su Facebook. Una storia che rimane per 24 ore.

#sbetti

La Francia figlia di buona donna

Ma avete problemi! Problemi seri.

Allora no. Allora. Allora prima ero in auto e alla radio sento che la Francia premia la capitana #Carola #Rackete per aver salvato i migranti in mare. Praticamente le due capitane della Sea Watch 3, Carola Rackete e Pia Klemp, riceveranno la medaglia Grand Vermeil, la massima onorificenza del Comune di Parigi. La medaglia sta a significare “la solidarietà e l’impegno di Parigi per il rispetto dei diritti umani” e va alle due operatrici umanitarie tedesche.

Il rispetto dei diritti umani?

Cioè la Francia! La Francia. La Francia ci parla di diritti umani? Proprio la Francia che con i migranti ci ha fatto vergognare. Ha fatto schifo. Ha fatto ribrezzo. Ha fatto morire le donne in gravidanza. Proprio la Francia che i migranti li ha presi e li ha tirati per i capelli, li ha respinti con le armi e i manganelli.

E allora ricordiamo ai francesi le pietose e vergognose scene di Ventimiglia. Di Bardonecchia. Facevano vomitare. Ricordiamogliele. Ricordiamo alla Francia di aver lasciato morire una donna che aspettava di dare alla luce un figlio. Ricordiamoglielo. Si chiamava Destinity, il caso, e stava cercando di raggiungere il territorio francese perché era malata. Era al settimo mese di gravidanza quando nel febbraio dell’anno scorso aveva tentato la traversata del Colle della Scala con il marito, nigeriano anche lui, richiedente asilo.

Ma la Gendarmeriè, che l’eleganza del nome non rispecchia il volto, l’ha intercettata e riportata in Italia, lì, scaricata alla stazione come si scaricano i pacchi dei vagoni merci.

Il bambino poi è nato, pesava meno di un chilo. Cioè meno di un chilo e la Francia parla di solidarietà. Migranti abbandonati nei boschi. Lungo il fiume Roja. Migranti scaricati alle stazioni. Migranti costretti a pisciare dentro i contenitori per le urine. Migranti respinti. Migranti menati. Migranti presi a manganellate. Migranti allo stremo. Migranti a cui sono state tagliate le suole delle scarpe. A cui sono state sequestrate le schede sim. E in mezzo a tutti questi c’erano anche minori. Dodici anni che in Libia magari sono stati malmenati, detenuti e rinviati illegalmente in Italia. Ecco qual è il rispetto dei diritti umani secondo la Francia. Eccolo!

E secondo un rapporto perfino di una Ong, “dalla reintroduzione dei controlli alla frontiera nel 2015 la polizia francese ha regolarmente commesso violazioni dei diritti dei migranti“. Eccoli i diritti umani. Loro, che pure costringevano i minori a dichiararsi maggiorenni e a dire che lì non ci volevano stare.

Perché poi no. Perché poi. Perché poi viene fuori che l’ Italia è figlia di buona donna perché qui la capitana è indagata e in Francia invece è un’eroina. Sì.

Ma quando la Francia sputava in faccia ai migranti chi era la puttana?

#sbetti

Vergognatevi

Ma non vi vergognate? Non vi vergognate?

Dove siete? Siamo la vergogna del mondo. La feccia. La spazzatura. Siamo tutto quello che un Paese come l’Italia non dovrebbe diventare. E invece. Invece dovete svegliarvi. Allora no. Allora dopo Carola era è da un po’ che non scrivevo. Dovevo riposare le dita. Ma ieri. Ieri l’Inps ha snocciolato alcuni dati. Ci sono cinque milioni di pensionati italiani che vivono con una pensione di meno di mille euro al mese. Meno di mille euro al mese. Cinque milioni di pensionati italiani. Cioè la fame praticamente. In un mondo dove le cartolerie per farti spedire una mail ti chiedono un euro, e lo fanno anche con i pensionati, con i vecchietti, che non sapendo nemmeno cosa sia una mail, vanno in cartoleria. Ecco dicevo in un mondo dove costa perfino pisciare fuori casa, chi vive con meno di mille euro fa la fame. Ci trattano proprio come morti di fame. E allora l’Italia è quel Paese dove uno lavora una vita, mette via soldi, risparmia, investe, fa mutui, compra casa, regala la casa ai figli, ara la terra, si smazza, si sveglia all’alba, paga le bollette, le pratiche burocratiche, paga i sindacati, i bolli delle auto, le tasse, i rifiuti, la tassa sui panni stesi, sulla cacca dentro i pozzi, per poi trovarsi a settant’anni anni a farsi prendere per il culo da voi che invece i mille euro al mese ve li spendete in pranzi di caviale, champagne e i migliori cognac. Perché se la politica vuole fotterti e toglierti pure le mutande dal culo lo fa con i guanti, con gli asciugamani di seta, lo fa con eleganza, con tatto, non lo fa ruttandoti in faccia. No. Lo fa con il sorriso. Con apparente parsimonia. Con fare mellifluo.

Cioè uno in Italia lavora una vita, sputa sangue, manda a scuola i figli, li fa studiare, fa i conti con tasse e bollette, si sveglia presto al mattino, corri di qua, corri da là, paga l’Imu, la Tasi, paga sti cazzi, paga le cure, le spese, paga la badante a madre e padre, paga l’asilo dei preti e delle suore per mille euro al mese, per poi farsi prendere per il culo da voi che i mille euro al mese ve li mangiate vomitando zampe d’agnello dorate. Ridicoli. Goffi. Ignorate che in Italia ci sono cinque milioni di pensionati che vivono con una pensione da pulircisi il culo. Nemmeno immaginate la fatica che hanno fatto per quella pensione da morti di fame come li trattate. Voi. Voi super pagati che spendete soldi di qua e di là e poi vi fate i selfie alla mensa dei poveri. Pagliacci. Voi che spendete e spandete a destra e a sinistra e parlate di progetti di riforma sociale. Voi che twittate dalle poltrone lucidate col sedere dei collaboratori dei Ministeri e poi avete il resto del Paese che governate che muore di fame. Fanalino di coda ci hanno definito. Gli ultimi della classe. Voi. Voi che non vi siete lontanamente resi conto di cosa voglia dire governare. Voi che state formando giovani incapaci di lavorare, parassiti della società, amebe, giovani che aspettano a casa i soldi dello Stato anziché rimboccarsi le maniche e farsi il culo quadro . E poi voi. Voi che siete quelli delle pensioni, voi che anziché invogliare le persone a lavorare dite: rimanete pure a casa, a voi ci pensa lo Stato. Voi che la gente muore di fame e protestate se vi abbassano lo stipendio di 900 euro. Se vi diminuiscono di numero. Se vi lasciano a casa. Allora dove siete? Dove siete quando l’Italia non ha nemmeno da bere? Dove siete quando in Italia ci sono oltre otto milioni di poveri e quasi tre milioni costretti alla mensa dei poveri? Dove siete quando uno che prima lavorava si presenta alla mensa dei morti di fame con gli occhi spenti, la maglia con i buchi, il giubbino sgualcito, i sandali rotti ai piedi e fa l’elemosina? Non vi fa pena una persona di settant’anni che ha sempre lavorato, che ha sempre servito lo Stato, che ha sempre tenuto al caldo il vostro sedere, vedere che un giorno, anziché godersi la pensione é costretto a chiedere in ginocchio un misero tozzo di pane? Dove siete?

Dove straminchia siete?

#sbetti

Fare politica con il culo

Dal diario di Facebook del 18 giugno scorso

Ma io credo che la gente sia stanca sapete. Stanca. Da quanto sia stanca, credo che tra poco comincerà a cagarvi in testa.

E allora in questi giorni ho avuto modo di pensare. Di riflettere. Di mettere in fila i tasselli. Insieme i pezzi. E in tutto questo caos c’ho visto tanta finzione. Tanto opportunismo. Tanto arrivismo. Tanto “intanto arriviamo poi si vedrà”. E allora. Allora in questo ammasso di gente che non sa dove andare ho visto uomini senza palle, strafottenti, arroganti, indegni. Ho visto donne false, di quelle che ti fanno il sorriso, che vendono parole al vento, che si mettono in prima linea per avere una sedia. Per avere una penna. Per avere una mano alzata. Per avere anche loro un posto di comando. Un posto di comando nel mondo. Gente che la targhetta conta più della coscienza. Filibustieri. Corsari. Falsi. Arroganti. Arrivisti. Gente di quelli che la mattina si guardano allo specchio e si sentono soddisfatti per aver ancora una volta messo da parte gli elettori. E allora. Allora ne abbiamo viste di tutti i colori. Ovunque. Gente andata da sinistra a destra. Da destra a sinistra. Gente che passa di palo in frasca a seconda di dove tira il vento. Di dove volge la prua. Di cosa è più opportuno. Gente che non si riconosce più nei valori. Che siccome sa di non avere speranze volge lo sguardo altrove. Personaggi che prendono impegni e poi te li ritrovi spalmati sorridenti, con la foto venuta male, che ti voltano il culo per passare dall’altra parte. Per salire sul carro. Avete presente no? Un po’ come i bambini che alla sfilata dei carri mascherati per Carnevale vogliono salire sul carro più bello. Su quello più colorato. Su quello che più fa festa. Su quello che più fa casino. E così. Così si sale tutti sullo stesso carro. Tanto tira.

Perché poi. Poi ci sono quelli mosci. Molli. Quelli che le sere d’estate era cinema all’aperto con popcorn in prima fila e ora, ora stanno lì su, con la targhetta appesa alla giacchetta. Come sono piccoli gli uomini. Come sono accontentabili. Come fanno tutto pur di avere un ritorno. Pur di avere qualcosa in cambio. Egoisti. Non pensano che ai loro interessi. Perché poi funziona così. Poi prima gli uomini si fanno la guerra e poi come cani bagnati tornano. Ti si arruffianano. Ti si avvinghiano addosso alle calcagna e non te li scrolli di dosso. E poi. Poi ci sono quelli che non hanno né arte né parte, che stanno in politica da quando è nato Cristo, che non hanno chissà quale nome o valore ma che te li ritrovi sempre lì, lì, lì, lì cazzo lì, derisi da tutti, in mezzo ai piedi.

E sono quelli che la politica non sanno farla, che parlano a vanvera, che promettono e non mantengono. Quelli che si vogliono imporre. Quelli che usano il potere per sottoporre. E sono i caregari. Quelli che il sedere è diventato un tutt’uno con la sedia impagliata con il legno della scopa di saggina.

Sono quelli che pur di poggiare il sedere venderebbero l’anima al diavolo. E così. Così in questo mondo governato da gente ingovernabile abbiamo tutto. Abbiamo quelli che poggiano il culo. Che lo hanno appoggiato. E che continueranno a farlo. Abbiamo quelli che si fanno prendere per il culo. Quelli che ti ci prendono. Quelli che lo venderebbero. E poi. Poi abbiamo quelli che il sedere te lo voltano. E che credono che la politica, quella fatta bene, ecco non sia quella fatta con il cuore, con l’anima, con lo spirito di squadra, con l’impegno e la cura.

No ci sono anche quelli che credono che la politica migliore sia quella fatta con il culo. Perché in fondo. In fondo basta colpire la pancia, per andare di corpo.

#buonanottesbetti

#sbetti

Noi “No Yes Man”

Dal diario di Facebook del 1.luglio di un anno fa.

Io appartengo a quella categoria di farabutti che per non aver detto “Yes Man” sono stati cacciati.

Allora cari Yes Man come va? Dunque adesso vi racconto una cosa. Venerdì sera ho conosciuto Guido #Bertolaso. Una persona squisita. Una persona che già a vederlo scendere dal treno, lì in quella stazione di Padova, si vede che sa il fatto suo. Pronto. Attento. Risoluto. Ecco. Poi l’ho rivisto ieri. Allora ieri sera quando sono arrivata a casa ho pensato che c’è un momento la sera, quando rientri e ti spogli di tutto. Di tutto. Metti giù gli anelli. Gli orecchini. I vestiti. Ma ci sono cose di cui non riesci a spogliarti. No. Ci sono cose che non si scrollano mai di dosso. E che rimangono nella mente anche dopo aver dormito dodici ore di fila. E sono le persone che incontri. I discorsi. Le parole. Ecco, quelle rimangono appiccicate come la pece sulle mani di una ballerina che si prepara alle parallele e rimangono lì. Tutta la notte. Tutto il giorno. Tutta la vita. Se ne stanno attaccate come una scimmietta pronta a batterti sulla testa con la zampetta, ogni volta che ne avrai bisogno o ne dovrai fare uso. E infatti. Allora ieri mattina Guido Bertolaso a un convegno dedicato alla protezione civile ha fatto un magistrale intervento. E io, se non fosse stato che in quel momento avevo tremila cose in mano tablet telefonino agenda e via discorrendo, avrei gettato tutto per terra, alzato le braccia al cielo e applaudito a più non posso. Allora Bertolaso se ne stava sopra quel palco con addosso ancora quel giubbino e con quella voce roca e colta ha iniziato a parlare. E parlava. Parlava. Parlava. Parlava che sembrava che non volesse mai finire. E parlava che lo avresti ascoltato per ore. E a me sono sempre piaciute quelle persone che con la voce roca parlano e dalle corde vocali traspare una voce carica di esperienza. Mi sono sempre piaciute sì. Allora lui ha iniziato dicendo che negli ultimi anni gliene hanno dette di tutti i colori. “Ho fatto otto anni di purgatorio per non dire inferno – ha detto – durante i quali avevo deciso di stare completamente zitto per vedere cosa sarebbe successo dopo le vicende giudiziarie che mi avevano colpito”. Otto anni in cui l’hanno accusato di tutto. Corruzione, omicidio colposo, “tutte le peggiori accuse che si possono affibbiare – ha detto – a uno che del servizio ai cittadini, al proprio Paese e allo Stato ne ha fatto la parola d’ordine anche come comandamento, addirittura anteponendo questo genere di interessi a quelli che sono i rapporti umani come una famiglia delle figlie e tutta una serie di altre attività”. Allora Bertolaso poi ha cominciato a parlare di quella attività. Della protezione civile. Di come sia importante fare rete. Fare squadra. Di come si lavori anche fino a notte inoltrata, fino alla mattina dopo, senza dormire, senza mangiare, senza a volte bere, sotto la pioggia, al freddo, al gelo, o al sole, con le peggiori condizioni atmosferiche ma l’obiettivo rimane sempre quello: salvare vite umane. Non la sorveglianza alla sagra della salsiccia. Sì quello si può fare ma l’obiettivo primario è salvare quando c’è l’emergenza. E poi Bertolaso ha raccontato di quando stava nelle zone terremotate e aspettavano fino alle tre di notte per avere un piatto di pasta dentro dei container o delle tende. Container che lo Stato avrebbe dovuto sostituire con delle casette entro due mesi. Due mesi. Non due anni. Ma lo Stato si sa è sempre in ritardo. Arriva in anticipo solo per chiederti di pagare. Solo per avvisarti della scadenza. Allora dicevo ha raccontato della sua esperienza con le zone terremotate e poi ha raccontato di quelle notte che ci fu lo tsunami. Lo svegliarono nel cuore della notte. E lui nel cuore della notte. Mobilitò il mondo. Chiamò chi di dovere. Bloccò i voli. Chiuse gli aeroporti. “Avevamo creato una rete internazionale”, ha detto sempre con quelle voce roca come se fumasse e con quelle corde vocali che narrano l’esperienza. Non come adesso. Che ognuno non pensa che al suo piccolo orticello. Piccole molli zavorre che impediscono perfino di fare rete. Di fare squadra. E poi. Poi Bertolaso ha raccontato di quel giorno ai funerali di Giovanni Paolo II. Una folla oceanica. Gente da tutto il mondo. Dodici ore di coda prima di poter entrare dentro la Basilica. Quella notte fecero una notte intera di briefing e ne uscirono che ciascuno sapeva perfettamente cosa avrebbe dovuto fare. E poi. Poi Bertolaso ha parlato dell’importanza di essere pratici. Di ridurre la burocrazia. Dell’importanza di essere presenti e di crederci sempre. E poi. Poi c’è stata una cosa che mi ha colpito. E che avrei fatto proprio quello che ho detto. Avrei gettato tutto per aria. Alzato le braccia al cielo e applaudito per ore. “Abbiamo creato un gregge di yes man – ha detto – asserviti alla politica che ogni giorno non dicono il proprio parere perché hanno paura di essere cacciati”. Già. Ventri molli. Amebe. Gente senza spina dorsale.

E infatti. Cari spioni di #Facebook. Io appartengo proprio a quei farabutti invece, che per aver detto il proprio parere e per aver detto “no man” sono stati cacciati.

#sbetti

Ma che ne sapete voi di come ci si sente a trent’anni

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L’Italia è quel Paese dove ognuno può fare quel cazzo che gli pare. Ma che lascia i propri figli morire di fame.
Allora oggi ero seduta a scrivere in un bar, il titolare esce e mi fa: “ti vedo triste”. Io triste? No. Sono incazzata. Incazzata. Allora ultimamente mi capita di parlare con dei giovani, che mi raccontano le loro esperienze. I loro sogni. I loro desideri. I loro pensieri. I loro progetti. I loro desideri raccolti e buttati negli sciacquoni dei cessi. E più ci parlo più mi dico che il nostro è un Paese di cacca. Che crolla su sé stesso. Che zoppica. Che sovrasta e soffoca ogni iniziativa. Allora questi giovani hanno vent’anni. Venticinque. Trenta. Sono studenti. Diplomati. Laureati. Masterizzati. Sono persone che hanno fatto corsi. Esami. Seminari. Dottorati. Assegnisti di ricerca. Che collezionano caselline per riempire i curriculum nell’attesa che qualcuno apra loro la porta e dica: “prego si accomodi, le faremo sapere”. Ed è gente formata, plurilaureata, informata, documentata, alcuni sanno tutto di tutti i requisiti per accedere a qualche master, bando, a qualche richiesta di finanziamento, progetto europeo, perché in Italia, in Italia, in Italia funziona che per quanto tu possa studiare e ti possa formare, non sarai mai abbastanza formato. Non avrai mai abbastanza studiato. Imparato. E per fortuna. Ma poi. Poi arriva il giorno a quarantadue anni in cui vorrai mettere in pratica la tua teoria. E invece. Invece ti ritrovi a dover fare pure il corso di formazione per allestire le vetrine dei salami e dei prosciutti. Per mettere le candeline fuori quando è Natale. E per tirarle dentro quando è passato Capodanno. E allora oggi prima del burrascone del temporale estivo riflettevo e volevo dire una cosa a quei quattro dilettanti allo sbaraglio che da qualche anno si succedono tra le sedie ben pagate di Quirinale, Governo e Parlamento.
Che ne sapete voi. Che ne sapete. Che ne sapete di come si sta a trent’anni. Di come ci si sente a venticinque. Di come ci sente a ventitré quando ti chiedono l’esperienza. Quando cercano personale non pagato che sappia fare. Quando ti propongono stage. Sottostage. Sovrastage. Cazzo stage. Quando ti dicono che sì, che puoi intanto iniziare e che poi qualcuno valuterà se pagare. E che ne sapete voi di quanto un giovane fatica ad andare avanti. Se il lavoro non c’è. Se quello che c’è viene pagato male. Se ci stanno le cameriere in nero che lavorano a quattro euro l’ora. Se ci stanno le parrucchiere che si pagano i corsi di formazione. Se ci stanno gli stagisti che pagano il pranzo agli avvocati. Se ci stanno quelli che vengono presi per tre mesi, e poi lasciati a casa. Quelli che non hanno tutele. Che non vedono prospettive. Che non vedono garanzie. Che non vedono futuro. Che ne sapete voi di come ci si sente a trent’anni quando ti svegli la mattina e vedi un mare sconfinato tinto di nero. Di come ci si sente a trent’anni quando questi giovani vorrebbero farsi una famiglia, crescere dei figli e invece fanno ancora i conti con le aranciate e gli spritz pagati con gli spiccioli avanzati. Che ne sapete voi di come ci si sente a trent’anni quando sei costretto a rincorrere di tutto per non perdere il lavoro. Quando vorresti andare in ferie e non ci puoi andare. Cosa ne sapete. Cosa ne sapete voi se i giovani mettono al mondo figli destinati all’infelicità. La nostra è una società che produce figli a cui non sa ancora se sarà in grado di garantir loro un futuro. Di farli lavorare. Di farli crescere. Di farli studiare. Di farli innamorare. Mettiamo al mondo figli destinati a essere servitori di un destino che non hanno scelto. E poi. Poi. Poi che ne sapete di come ci sente a trent’anni con l’affitto da pagare, con la spesa da fare, con le bollette da mettere in conto. Con le pulizie da fare tra un ritaglio di tempo e l’altro. Che ne sapete di come ci si sente se per resistere devi stare in coppia per dividere le spese. Perché una persona single qui, su questa terra, mica ci riesce a stare da sola. No. Gli affitti stanno alle stelle. Quelli delle bettole pure. La fortuna che puoi avere è farti un appartamentino in una casa di proprietà di famiglia. Ma sennò. Sennò cosa fai? Vai a chiedere un mutuo, ti ridono in faccia. A 37 vogliono le garanzie di mamma e papà. A 40 anni ancora ci sta gente che una casa non ce l’ha. E allora. Allora se non ci diamo una mossa. Se non urliamo che questo mondo non va bene. Se ci adeguiamo. Se ci adattiamo. Se ci pieghiamo. Se non ci rimbocchiamo le maniche, la nostra è una vita sprecata. E chi ama la vita non si piega. E allora volevo dire una cosa a questi dilettanti allo sbaraglio. A voi. Voi che state al Governo. A voi che ogni giorno studiate, twittate, postate, voi che ogni giorno ci fate vedere quanto bello sia il sole di Roma o di Bruxelles, a voi che studiate come risollevare questa Italia, che fate riforme, che proponete proposte, che fate piani, progetti, che studiate bonus, incentivi, ma dove straminchia siete? Dove? Perché voi. Voi. Voi ma che cazzo ne sapete di come ci si sente a trent’anni?
#sbetti

Tutte le Carole in mare

L’altro giorno stavo discutendo con mia madre sulla #SeaWatch3. E a un certo punto mia madre mi fa: “Ma se questi hanno fame? Se questi hanno sete? Dove li porti? Li fai morire?”. E allora questa domanda ha iniziato a rimbalzarmi in testa. E me la sono portata e me la porto ancora addosso. E ci ho visto mia nipote, così piccola e bella che proprio in questi giorni ha iniziato a mangiare e quando la guardo mentre la madre o la nonna le danno quella disgustosa pappetta che ho pure assaggiato, penso a quanto sia bello dare da mangiare e da bere a un figlio che ha fame. A un figlio che ti chiede di bere. E allora ho provato a mettere in fila i pezzi. E ve li scrivo qui, un attimo, di getto. Allora ricapitolando il 9 giugno scorso la Sea Watch 3 torna in mare. Era stata sequestrata il 19 maggio dalla Procura di Agrigento, dopo che aveva soccorso sessantacinque migranti ed era entrata in acque italiane. Questo nonostante il divieto del capo del Viminale Matteo Salvini. Il 12 giugno, la Sea Watch salva cinquantatré migranti che si trovavano a bordo di un gommone al largo della Libia. E questo se già fa alterare il ministro dell’Interno, mette sul piatto della bilancia che nel caso in cui la nave farà rotta verso l’Italia saranno applicati i nuovi strumenti del decreto sicurezza bis per impedire l’accesso alle nostre acque territoriali. Ma. Come sempre accade, strasbattendocene di tutto e di tutti, il pomeriggio del 26 giugno, la nave, governata dalla capitana #CarolaRackete, forza il blocco ed entra in acque italiane, con destinazione Lampedusa. “Li porto in salvo”, aveva detto. E infatti. La sequenza è questa. La Sea Watch 3, ferma da tre giorni al largo, decide di entrare in porto. La nave entra nel porto di poppa. La motovedetta della Gdf intima l’alt per ben tre volte. (Provateci voi a non fermarvi a un posto di blocco). La motovedetta si posiziona per impedire l’attracco, la nave si stringe verso la banchina e la motovedetta si muove per non rimanere schiacciata. Questa la ricostruzione. La nave entra in acque italiane e la capitana viene arrestata. “Avevano fame –aveva detto – minacciavano il suicidio”. Che ci posso credere. Li ho visti gli occhi di quei migranti che non hanno più sogni, né speranze, né desideri. Quegli occhi di chi sperava in un futuro migliore e invece è stato tradito da falsa accoglienza che con i profughi ci ha fatto i soldi. La capitana dice che l’ha fatto per necessità. Ma la procura la smentisce. Il procuratore capo Luigi Patronaggio dice: “Carola Rackete non ha agito in stato di necessità. Attraccata alla fonda aveva ricevuto, nei giorni precedenti, assistenza medica ed era in continuo contatto con le autorità militari per ogni tipo di assistenza”. Anzi non solo, la documentazione sequestrata sulla Sea Watch e i referti delle visite mediche dicono che i migranti erano in buone condizioni di salute. Inoltre la procura dice che la capitana con la sua manovra avrebbe di proposito schiacciato la motovedetta. Insomma una violazione dietro l’altra. Il divieto del Viminale, l’alt della Gdf e pure la posizione dell’Unione Europea. Di questa Europa totalmente incapace di gestire il fenomeno immigrazione che per anni ha fatto e continua a far piangere. La Corte europea dei diritti umani di Strasburgo aveva respinto il ricorso presentato da alcuni dei migranti a bordo al fine di sbarcare subito in Italia. E così capitana indagata per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per violenza e resistenza contro una nave da guerra (la motovedetta non lo è, bisognerebbe capire se lì lo è) e per resistenza a pubblico ufficiale. E allora. Allora dovremmo chiedere alla capitana perché ha agito, perché ha deciso di andare contro l’Italia se non per creare uno scontro politico, perché ora, ora non va nemmeno bene che quelli che la domenica vanno a battersi il petto in chiesa e che al sabato sera portano la famigliola a mangiare biologico e vegano per la moglie e che ordinano vino bianco con il pesce e postano le foto di mangiate domenicali rotolando come maiali, non è nemmeno giusto che questi le diano della “troia”, della “zoccola”, della “puttana”, o che le venga augurato di essere violentata. “Sarai violentata dai tuoi negri”, aveva scritto uno. Addirittura quel genere umano non commestibile che l’ha insultata quando è scesa dalla nave aveva detto che poverino era ubriaco. Tanto in Italia va bene pure essere ubriachi. E quindi, quindi siamo arrivati alla fine, con una capitana tedesca, una nave battente bandiera olandese, una Ong tedesca che detta norme condizioni e necessità all’Italia. Con l’Olanda che si, dà ragione all’Italia ma sostanzialmente se ne sbatte, con il presidente tedesco che ci bacchetta e con la Francia, la Francia, la Francia, con la Francia che ci dà lezioni di buonismo e umanità. Lei. Lei con le sue vergognose scene di Ventimiglia, Bardonecchia e compagnia cantante. Ma poi. Poi come al solito le rotture di cazzi ce l’ha l’Italia, per poi scoprire la sera del 2 luglio che Carola è libera, che ha vinto la solidarietà, che ha vinto il diritto hanno detto i suoi legali, che il Pd ha attivato la raccolta fondi e che Carola è diventata pure socia onoraria dell’Arcigay.

Ecco a cosa serviva tutto questo.

E allora madre, madre, madre poveri quei migranti che hanno fame e che hanno sete e che stanno in balia di tutte le Carole in mare.

#sbetti

#iononstoconcarola

Rimango alquanto basita da quello che leggo nei social. E da questa raccolta fondi avviata dal Pd, per pagare multa e spese legali alla capitana. E rimango alquanto basita perché leggo commenti da bar. Osteria. Le peggiori bettole sulla faccia della terra. Mica le bettole dove ti fanno buono da mangiare eh. No. Le bettole, bettole punto. Allora leggo di gente che ride. Che scrive: “la peggior terrorista è stata arrestata”. Gente che fa pure del sarcasmo perché tanto in Italia di terroristi ne abbiamo tanti, almeno arrestate quelli giusti.

Con tutti quelli che ci sono arrivati grazie all’immigrazione incontrollata. Ma vedete qui c’è poco da scherzare. Cioè ancora la gente non è riuscita a capire che Carola Rackete è stata arrestata perché ha forzato il blocco navale nonostante ci fosse stato un divieto, è entrata in acque italiane, ha violato il codice della navigazione, ha infranto norme regolamenti discipline disposizioni. La gente non è riuscita a capire che Carola rischia fino a quindici anni di carcere per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per rifiuto di obbedienza a nave da guerra, per resistenza o violenza contro nave da guerra. Contro nave da guerra. Non rischia 15 anni di carcere per essere salita a bordo e aver portato da mangiare e da bere a 42 esseri umani. Che lo avrei fatto pure io. Rischia quindici anni di carcere perché ha infranto uno dei più rigorosi codici. Non rischia quindici anni di carcere perché ha alleviato le sofferenze dei profughi. O perché gli ha portato acqua pane vestiti asciugamani puliti. Rischia quindici anni perché se n’è strasbattuta di tutto e di tutti. E non è coraggio. È incoscienza. Come a dire: tanto in Italia si può fare quello che si vuole, prendi una nave la governi, asfalti i posti di blocco, al massimo ti faranno una multina cosa vuoi che sia. Tanto poi ci sarà sicuramente qualcuno che penserà ad avviare una colletta per una giusta causa. E infatti. Infatti.

La colletta è arrivata.

E allora rimango basita perché mi chiedo come mai con tutta quella gente che in Italia non può pagarsi l’avvocato, che magari finisce nei guai per legittima difesa, per necessità, per causa forza maggiore, o perché magari finisce nei guai perché ci si trova, è disgraziato, la sfiga, sai mai cosa ti può capitare nella vita. Ecco dico.

Come mai per tutti questi disgraziati non avviate qualche colletta?

#sbetti