Aiutate questa donna. “Mio marito in carcere per avermi difeso. Ha perso 50 chili”

La donna che vedete in questa foto si chiama Maria Angela Distefano.
E l’uomo è il marito Guido Gianni.
Guido Gianni dal 28 maggio 2021 è chiuso dentro al carcere di Palermo. E la moglie mi dice che Guido ha perso 50 chili. Cinquanta.
Per Cospito hanno fatto tanto can can, invece un padre di famiglia può anche ridursi pelle e ossa.
“Ha perso 50 chili, ha voglia di mangiare solo quando glielo porto io, ”, mi racconta la moglie.
Moglie che ogni sabato fa 240 chilometri per andarlo a trovare. Avanti e indietro. Indietro e avanti. Un viaggio faticoso e dispendioso.
Il tempo a disposizione con lui? Un’ora. Un’ora in cui racchiudere, senza farle vedere, lasciando un barlume di lucore, tutte le ansie, le angosce, le preoccupazioni. Un’ora in cui provare a raccontarsi con le parole che sgorgano dalla bocca, mentre alcune restano incastrate tra i magoni dell’amore, un’ora in cui provare a baciarsi con gli occhi, ad accarezzarsi con l’immaginazione, a guardarsi in volto per capire se è cambiato qualcosa. Un’ora in cui ogni sabato è un tassello che si aggiunge a questa torre di sofferenza e di dolore. Un’ora in cui vederlo invecchiare è un po’ come vederlo morire. Non è di certo quel “volevamo invecchiare insieme”. Anche perché Guido ha 63 anni. Condannato a 12 anni di carcere, quando esce da lì Guido ne ha quasi 80.
La sua “colpa”?
Aver reagito a una rapina da parte di un commando armato per difendere la moglie.
Era il 18 febbraio 2008.
In quel giorno entrano in tre dentro la gioielleria Nicolosi (Catania), un piccolo paesino alle pendici dell’Etna, una gioielleria che moglie e marito avevano messo insieme con tanto sacrificio, una di quelle dove quando entri ti senti avvolto dal focolare materno, dal calore familiare che solo una famiglia può trasmettere e creare con l’andar del tempo.
Maria Angela quel giorno viene strattonata per i capelli. E minacciata con una pistola alla tempia e al cuore. “Io sono stata picchiata e presa in ostaggio con una pistola
puntata al petto e malgrado li imploravo di non farmi del male perché cardiopatica, loro continuavano a inveire e minacciare di ucciderci”.
Sono attimi concitati il marito non sa che fare. E a vedere la moglie così, Dio mio gli sembra di morire. Muore per davvero. Quando ti accadono simili cose una parte di te muore. Se ne va. L’attimo dopo sei un’altra cosa. Nella colluttazione partono dei colpi, due banditi muoiono e uno rimane ferito.
“C’era presente un cliente, anche
lui minacciato. Due di loro hanno aggredito mio marito e durante la colluttazione, sono partiti dei colpi involontari che hanno ucciso due di loro e ferito il terzo”, racconta Maria Angela.
Condannato per duplice omicidio volontario (mi chiedo volontario di cosa dato che i rapinatori nessuno li aveva chiamati) e tentato omicidio volontario, la Cassazione – a 14 anni e 3 mesi dal fatto – ha condannato Gianni a 12 anni e 4 mesi.
“Il processo è durato cinque anni e il nostro è
stato un calvario immenso”.
Uno dei banditi inoltre risultò coinvolto nella operazione Squalo della direzione distrettuale antimafia di Catania contro il clan Santapaola – Ercolano.
La moglie è dilaniata dal dolore. La sento al telefono e la voce è ormai spezzata. Affranta. Prostrata. Sgorga fiamme e fiumi di dolore.
La storia di suo marito è simile a quelle dei tanti Graziano Stacchio, Walter Onichini e tanti altri; padri di famiglia, lavoratori, che per difendere i loro cari, da vittime dei banditi diventano perseguitati della magistratura e vedono le loro vite distrutte.
“Guido ha difeso me, la sua vita, quella di un cliente – dice Maria Angela – non può pagare per la malvagità dei suoi assalitori. Guido è un marito e padre modello, dedito alla famiglia e ligio al dovere. Non merita di stare in carcere, quel luogo non gli appartiene”.
La moglie ha chiesto la grazia. Ma la grazia è stata rigettata. Così ha scritto al premier Giorgia Meloni.
“Sono disperata, piango sempre e ho paura che Guido la dentro morirà, e io insieme a lui”. “Presidente le parlo a cuore aperto: la prego mi aiuti a far tornare Guido alla sua vita ed alla sua amata famiglia. Sta molto male e mi si stringe il cuore vederlo soffrire. Se lei avesse la possibilità di andarlo a trovare, si renderebbe conto di che persona splendida sia Guido”.
“Da 17 mesi le nostre vite sono state sconvolte – scrive su Facebook la figlia Aurora Giannì – Non hanno solo condannato te ma anche a noi. Non è giusto tutto quello che stiamo passando. Che qualcuno faccia qualcosa”.

sbetti

Aveva gli occhi che pareva un demone infuocato e mi urlava dietro

Aveva gli occhi che parevano quelli di un demone infuocato. Guardateli questi occhi. Guardateli.
Sono stata sabato scorso a trovare questo signore a Castellarano di Reggio Emilia. Castellarano è anche una bella cittadina. Che nemmeno te la immagini. Ci si arriva prendendo l’autostrada che attraversa Modena. Sassuolo. Eccetera. Eccetera. Passi anche per una cosa chiamata CeramicLand. Perché qui sta il cuore della produzione della ceramica.
Castellarano invece in zona collinare sulla riva sinistra del fiume Secchia, è un borgo storico fluviale molto suggestivo, tra vicoli in pietra, slarghi e piazzette restaurate, case e palazzi ben tenuti. Solo che. Solo che anche qui ci sono le case occupate.
Arrivo a casa di questo signore ghanese che non paga l’affitto e che ha il contratto scaduto da oltre un anno e mezzo che è quasi mezzogiorno. La proprietaria gli suona il campanello. Ma lui non vuole scendere. “Vieni tu su”, le dice. Io lì per lì sono titubante poi dico: “Ok andiamo. Andiamo su”. L’aria era pure solforosa. Pressante.
Gli chiedo perché non se ne sia ancora andato, come mai con un contratto scaduto da oltre un anno lui sia ancora lì. Gli chiedo perché nonostante un’ordinanza di sfratto lui continui a rimanere fregandosene di tutto. E di tutti. Fottendo la gente. Fottendo lo Stato. Poi. Poi gli dico: “Allora tu riconosci di avere un debito verso questa donna”. Donna che tra l’altro è disperata. Non sa come fare per tirare a campare. Questa casa era la sua pensione. E ha fatto perfino lo sciopero della fame. Lui mi dice: “Sì sono 3 mila euro”. Io gli dico di no. Gli dico che gliene deve oltre 16 mila. Ma lui. Lui in un baleno esplode. E i suoi occhi si fanno rossi. Vermigli. Cremisi. Sembravano palle infuocate che saettano nel cielo. In un lampo sembrano deflagrare. Paiono venire fuori dalle palpebre che contengono gli occhi. Le sue pupille erano dilatate. Il suo iride era ingigantito di rabbia e violenza. I suoi nervi hanno iniziato a ingrossarsi. E le sue vene erano gonfie di collera. A un certo punto ha iniziato a gocciolare sudore e a me son tremate per un attimo le gambe. È esploso in un “No! No! No! Nooooooo”. E lo diceva così bilioso, iracondo, che pareva impossibile tenerlo. Da lì ha iniziato a farneticare. A gesticolare. E in preda a un violento turbamento ha iniziato a bestemmiare. Gli ho detto: “Stai bestemmiando e dici anche di essere cristiano”, e lui ha continuato. Credeva di incutermi timore ma non ho fatto né un passo indietro. E nemmeno un passo avanti. Sono rimasta di marmo. Ho continuato a fissarlo dritto negli occhi. E lui all’improvviso. All’improvviso ha iniziato a guardarmi. A fissarmi. A squadrarmi. Mi guardava il volto. Il seno. Le gambe. Le braccia. Mi fissava come a dire: “Io sono un uomo. Tu una donna”. Ma non gli ho dato retta. Aveva lo stesso sguardo che un felino riserva alla sua preda. Questa non è gente che viene in Italia e si converte al Cristianesimo di punto in bianco. Nel loro profondo la donna è considerata un essere inferiore. Come fosse una gallina. Fatto sta che questo signore continua a occupare una casa che non è sua. Continua a non pagare soldi alla proprietaria. Continua a fottersene di tutto. Tanto da che può chiedere sei mesi e il giudice magari glieli concede. Sa che avrà lo Stato dalla sua parte. Sa che i suoi diritti, a differenza della proprietà privata, sono garantiti dalla sciatteria e dal pressapochismo e dall’inefficacia e inefficienza delle nostre leggi. Questa è tutta gente che i talebani dell’accoglienza proteggono.
Buonisti col culo degli altri. Fino a che non occupano casa tua.

sbetti

Picchia tutti. Ma non si può far niente

Ecco chi è il picchiatore seriale di Venezia.
Qui l’anteprima del mio servizio andato in onda su #FuoriDalCoro il 27 settembre scorso.

Per continuare 👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro/immigrati-lirregolare-violento-che-terrorizza-venezia_F312803501004C24

Riprese e montaggio di Giuseppe Vassallo Francesco Bortot, Caterina Carbognani, Manuel

#Fuori dal coro

Picchiatore seriale. La realtà in bianco e nero

Dal diario di Facebook. 28 settembre 2023

L’aggressore seriale a Venezia.
Questa sera ho preso e sono uscita per fare una lunga passeggiata. All’inizio non voleva essere tanto lunga. Poi lentamente si è allungata. E si è fatta estesa. Distesa. Andava come vanno i tempi della televisione. Lunghi ma serrati. Prolungati ma fitti. Stretti. Ma veloci.
È una settimana che sto sotto una storia di un seriale a Venezia che vi giuro mi è venuto il voltastomaco a vedere come la gente sostanzialmente se ne frega. Anzi non la gente normale. Quella?
Quella povera soffre. Mi è venuto il voltastomaco a vedere come le istituzioni e chi dovrebbe proteggerci se ne fregano allegramente.
Ma soprattutto ho raccolto le voci di quella gente, della gente normale, di quella che ogni giorno lavora. Va a scuola. Va ad allenamento. Va in ufficio. E ha paura. Ha paura a rincasare la sera.
Mi chiedo come in un Paese che voglia definirsi normale si possa avere il terrore di tornare a casa la sera senza finire con una coltellata piantata nell’addome. Orbene.
A Venezia si aggira un seriale. Un aggressore. No. Non è finzione. Non è fiction, non è montaggio. Non è fantascienza.
Il mio servizio lo trovate su Fuori dal Coro (link nei commenti). È realtà. A Venezia si aggira da mesi e da anni un pazzo che va in giro a colpire e aggredire la gente. Che potrebbe realmente aggredire e colpire chiunque. Che entra in azione di notte. Si aggira col buio. Cammina con un coltello in mano. E nessuno, nessuno fa niente. Mi chiedo che mondo sia quello dove chiedi aiuto e nessuno fa niente. Le stesse forze dell’ordine si sentono impotenti, devono aspettare che agisca. Ma quando agisce è troppo tardi. E di vittime ormai c’è ne sono parecchie.
Con la riforma Cartabia poi è diventato tutto una barzelletta. Devi denunciare prima della decorrenza dei termini e per sporgere devi prendere l’appuntamento. E se prendi appuntamento magari i termini decorrono veramente. Così devi attendere che qualcuno ti molli una coltellata e poi ci vuole la querela di parte. E nel frattempo quello se ne sta libero, in giro, capace di colpire chiunque.
Ma mi ha fatto venire il voltastomaco la messa a tacere del fatto – shh silenzio – che facciamo brutta figura – La gente si allarma poi – i turisti – che dicono i turisti. Suvvia Venezia è la città che se ti tuffi da un ponte ti fanno un daspo (con tutto il rispetto per carità) ma se accoltelli qualcuno rimani libero. Fino a che. Fino a che non ci scappa il morto.
Poi dicono che non facciamo niente. Che non c’è sicurezza. Eh no. Infatti.
La sicurezza non c’è. E non è finzione. Non è fiction. Non è immaginazione. Non è la percezione del cittadino come ha osato dire qualcuno.
È la realtà. La dura e nuda realtà. E la realtà non è colorata. Non presenta sfumature, non ha dissolvenze, effetti speciali.
È tutto terribilmente a colori. O bianco, o nero. Ma è tutto nitido. E sta lì davanti agli occhi di tutti.
Questi giorni ho fatto appostamenti. Sono stata fuori la notte. Ho fatto ricerche, ho raccolto le testimonianze dei giovani aggrediti e ci ho visto negli occhi l’impotenza. Il terrore. Il senso di colpa. La tragica consapevolezza che non puoi far niente, che quello che ti sta capitando pare sia un incubo senza fine. Quando stasera ho decollato le mie gambe e mi sono accesa una sigaretta e poi le sigarette sono diventate due tre quattro, era tardi. Era buio. Ero sfinita. Sentivo le gambe che andavano da sole. Agli auricolari andava la musica. Mi sono rivista davanti a quelle persone che per un attimo si sono affidate a me per avere un aiuto, e mi sono detta che è questa la vita che ho scelto, quella che ho deciso, quella che dà voce alla gente che non ha abbastanza amplificatori per poter urlare. Quella che raccoglie le storie. E le fa proprie. E dopo averle vissute. Le racconta. Senza dissolvenze. Senza effetti speciali. Senza sfumature. In bianco e nero. E a colori.

sbetti

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Hanno usato la nostra debolezza per costruire la loro forza

La settimana scorsa sono stata a Venezia a seguire la manifestazione pro Palestina e mi sono posta alcune domande sul principio della imbecillità umana. Cioè quando il seme di tale imbecillità inizia a propagarsi.
La manifestazione era organizzata da alcuni comitati di sinistra e non ho udito una condanna che fosse una alle stragi commesse dai terroristi di Hamas.
Ma soprattutto mi sono stupita di una cosa. Alla manifestazione ho visto tanti ragazzotti giovani con ancora i denti da latte; ragazzini dei centri sociali, con i pantaloni abbassati, le tende usate come maglioni, le scarpe sbucciate, e le borse di tela usate come porta rifiuti.
E lì mi sono detta ma che strana questa gente che inneggia ad Hamas e scende in piazza con le bandiere della pace.
Ma che strana questa gente che lotta per una vocale, che si sente offesa se la chiami avvocato anziché avvocata, consigliere anziché consigliera, sindaco anziché sindaca, presidente anziché presidenta, che pubblica su Instagram foto insulse di ciocche staccate, che lotta per una A al posto della O e poi appoggia l’islam che tratta le donne come fossero terreni da coltivare e le considera al pari delle galline. Ma che strana questa gente che si batte per i diritti dalle tinte arcobaleno e poi tifa Hamas che gli omosessuali li sterminerebbe tutti.
Ma che strana. Ma che strana questa gente che anziché apprezzare le libertà, inneggia a quelli che la parola libertà non entra nemmeno nei dizionari. Già. Ma che strana. La gente è strana sai. Stranissima.
La gente tifa Hamas e non si rende conto che abbiamo i terroristi in casa, che mentre il mondo era impegnato a lottare per i diritti tranne che per i nostri che mentre il mondo era impegnato con i deliri degli ecoimbecilli, che mentre il mondo era impegnato con altre questioni di lana caprina, superflue, inutili, evidentemente futili, “i nipotini di Allah” lavoravano per sotto, metro dopo metro, minuto dopo minuto, secondo dopo secondo, centimetro dopo centimetro.
Inneggiare ad Hamas significa appoggiare l’ideologia genocida di Hamas. Significa approvare l’odio contro gli ebrei, l’odio contro gli occidentali, l’odio contro gli infedeli. Li chiamano così, loro, quelli che non sono musulmani, e infedeli siamo anche noi.
La guerra di Hamas contro Israele non è contro Israele e “basta”. Non è contro gli ebrei. Esce dai perimetri dello Stato con la stella blu e lo sfondo bianco e confina con le radici dell’Occidente.
È una guerra alla nostra democrazia, contro le nostre libertà, contro il diritto alla vita, alla libertà, alla dignità, alla felicità. È un attacco ai nostri valori, alla nostra civiltà. Non è una guerra contro Israele e “basta”. Le azioni di Hamas non sono una reazione a quanto Israele avrebbe fatto ma sono il frutto di un disegno e di uno schema ben preciso che trova le fondamenta nei versetti del Corano, che risponde a una ideologia medievale, islamista che confonde il potere con le religione e che condanna tutti gli infedeli. Dietro ai giovani massacrati mentre partecipavano a una festa, dietro alle irruzioni in casa, dietro alle donne violentate e usate come trofei, dietro a quelle immagini di bambini decapitati e sgozzati ci sono loro modus operandi, la loro ideologia, il loro statuto, il loro odio per tutto ciò che è Occidente. Preoccupa solo il fatto che giovani – e vi assicuro che a Venezia ce n’erano tanti – che dovrebbero amare le nostre libertà, che dovrebbero lottare per i diritti di tutti, approvino quelli che le libertà le odiano, le disprezzano, le tranciano, le dissacrano. I terroristi di Hamas vincono solo perché loro credono nella loro identità e nelle loro non libertà, nella loro costrizione e nel loro totalitarismo, perché hanno fatto della loro fede islamica la loro ragione di vita. Siamo noi che siamo troppo deboli. Che rinneghiamo ciò che siamo. Che dissacriamo ciò che abbiamo. Siamo noi che presi dal politicamente corretto non ci siamo resi conto che piano piano si infiltravano, usando la nostra debolezza per costruire la loro forza.

sbetti

Occupano le case. Gli insegnamenti trasmessi ai figli

Quel figlio me lo sono trovato davanti. E non sapevo che fare. Ha guardato quella telecamera come fosse una pistola. E mi sono sentita morire.
Questa settimana sono stata a Reggio Emilia. Ci sono stata per trattare una casa occupata. Una di quelle case che gli incivili occupano e rimangono impuniti. Tutelati dallo Stato.
Lui e lei, i proprietari, sono di Napoli. Venuti in Emilia Romagna negli anni 90 per lavoro, in Emilia ci sono rimasti. Fino a qualche anno fa avevano una casa. Un appartamento. L’appartamento sta lì in un quartiere di Reggio Emilia che ti pare di stare in un carcere. Dio se sembra un carcere. Sembra un carcere capisci. Un carcere. Le persiane abbassate. La gente che urla. La madre che se la prende col figlio. Il malato di mente che gironzola dicendo sempre le stesse cose. Il figlio che non va a scuola. L’immigrato. Il carpentiere sottopagato. Il ragazzo che c’ha una crisi di nervi e tira un pugno sul muro. C’ha la maglietta larga. E i pantaloni blu abbassati. Ha i nervi ai polsi. Gli occhi che orbitano fuori dalla testa. Le bave alla bocca.
Giuseppe e Jolanda decidono di andarsene da quella casa e sempre a Reggio Emilia comprano un’altra casa. Fanno un mutuo perché non c’è la fanno a comprarla. In questa vita che concede spazi agli immigrati irregolari, la gente che lavora fa finanziamenti che porta in tomba. Solo che a garanzia della prima casa ci mettono la prima. E la prima la affittano.
L’affitto va a a una famiglia di nigeriani. Gilbert Christopher (in foto) e Gilbert Catherine. Hanno tre figli. Lui fa il magazziniere. Faceva. Fa. Forse. Non lo so. Lei invece non fa niente. E l’affitto non lo pagano da oltre un anno.
Allora ci sono stata. Li ho aspettati. Ho suonato loro il campanello. Più volte. Gliel’ha suonato il proprietario. Abbiamo battuto sulla porta. Lei c’ha sfottuto. C’ha preso per i fondelli. Ci ha riso dietro, c’ha riso in faccia. Siamo saliti di nuovo. Si sono fatti negare.
E poi è arrivato a casa il figlio. Noi ce ne stavano su al terzo piano davanti la porta della loro casa. Quando si apre quella dell’ascensore. Da qui sbuca il figlioletto. C’avra avuto all’incirca 10 anni. Aveva una cartellina di tecnica in mano. Sai quelle cartelline che ti fanno comprare a inizio anno per metterci dentro il materiale che a volte non sai manco come usare.
Alle spalle c’avea lo zaino. E alla vista della telecamera non sapeva come fare. Come una lucertola che ti entra in casa e appena si sente minacciata cerca di sgattaiolare via. Di scappare. Di nascondersi. Con un passo è indietreggiato. Noi eravamo in otto. Lui era da solo. C’ha guardato. Ha guardato quella telecamera. L’ha guardata come fosse una pistola. E mi sono sentita morire, gli ho detto: “Vai, tranquillo. Non ti facciamo niente”. Lui, come un carcerato in esposizione pubblica in preda alla vergogna, si è fatto coraggio. Si è fatto avanti. Ed è entrato. Tempo due nano secondi ed era dentro. Io ho chiamato la madre. La stessa che poco prima mi aveva riso in faccia. Mi aveva deriso. Mi aveva oltraggiato, mi aveva detto che avrei potuto mettere lì pure una branda. Tanto lei non sarebbe scesa. E mi sono sentita morire per il figlio. Mi sono chiesta che insegnamento gli potesse dare una famiglia del genere. Una famiglia che se ne frega. Che se ne fotte. Che ti fotte.
Mi sono chiesta che cosa potesse lasciare una madre del genere che non fa capire ai propri figli che l’affitto va pagato. Che bisogna lavorare. Contribuire alle spese. E mi sono detta che non ci sarà mai integrazione per queste persone che le anime belle vorrebbero tutte in Italia ma nelle case degli altri.
Mi auguro solo che quel figlio un giorno capisca che per vivere in una casa bisogna pagare l’affitto o comprarsela.
Il mio servizio a Fuori dal Coro.

sbetti

Mestre. Quei corpi carbonizzati tra le lamiere

Guardatela bene questa foto. L’ho scattata ieri sopra il cavalcavia di Mestre. Guardate il parapetto.
Ieri mattina sono uscita di casa per girare i servizi e il cielo sapeva di cenere. Aveva il colore plumbeo, del colore del piombo, opprimente, cupo, fosco, grigio, livido.
Toglieva il fiato da quanto cupo era.
L’odore oggi, qui sopra, era quello della morte.
L’aria è quella ferma rappresa di chi non crede ai propri occhi.
Il cielo è quello grigio cinereo che sa di corpi carbonizzati tra le lamiere.
Qui martedì sera, proprio qui, in questo punto maledetto, un autobus con a bordo dei turisti stranieri, ha sfondato il guard rail e il parapetto, ormai vetusti, e che “sembrano di cartapesta”, precipitando giù dal cavalcavia e schiantandosi al suolo.
Del resto basta guardarli questi parapetti, questi guard rail, così arrugginiti, così rancidi, così sbilenchi.
Non riuscirebbero nemmeno a sorreggere una bici, figuriamoci un bus di 13 tonnellate. Peccato che un guard rail, qualora ci fosse stato in quel punto, dovrebbe essere omologato per sorreggere un autocarro di 67 tonnellate.
Il bilancio è stato pensantissimo. 21 morti. 21. E 15 feriti. Tra le vittime anche un neonato. E un neonato che invece si è salvato. Del resto è così la vita, con una mano ti dà, e con l’altra ti toglie.
Un cavalcavia vetusto questo. Che c’ha oltre 50 anni, le cui barriere di protezione che sembrano ringhiere delle galline nei cortili, dovevano essere sistemate e rifatte anni e anni fa. Ma niente è stato fatto, oggi ho parlato con assessore e mi ha detto che non c’erano i soldi, che quel cavalcavia in effetti è un obbrobrio.
Il 4 settembre scorso in questo cavalcavia sono partiti i lavori e cantavano tutti in coro: “Sicurezza nelle strade, mai più vittime”. Oggi ho letto anche nella cronaca locale che qualcuno ha detto; “Tragedia che annulla le differenze politiche”.
Ma de che? Che vuol dire?
Invece piuttosto, chiedo, perché i lavori non sono stati fatti quando dovevano essere fatti? La tragedia del cavalcavia di Mestre si poteva evitare?
Il ponte Morandi insegna.
Oggi fuori dell’ospedale c’era il viavai di gente. I giornalisti però non potevano entrare perché come al solito ti dicono quello che devi dire e scrivere. Qui è stata allestita una stanza per i parenti delle vittime. Le persone si sorreggevano l’un con l’altra. Controllavano i documenti, parlavano con gli psicologi.
Fuori dall’obitorio ero uno strazio continuo. E qualcuno mi parla di differenze politiche.
Nel triste e forsennato berciare di tutti, un miracolo però è avvenuto.
Quel neonato sopravvissuto alla strage. È rimasto inviluppato tra i rottami dell’autobus accartocciato, rannicchiato forse tra i corpi di padre e madre che evidentemente prima dello schianto, in questi istanti orribili mentre l’autobus cadeva, hanno tentato il tutto e per tutto per salvarlo.
Una reazione istintiva in questo immenso miracolo della vita che fa i conti con l’agonia della morte.
Oggi sulla Verità. E ieri sera a Fuori dal Coro.

sbetti

Ph: Serenella Bettin