Nessun controllo. Strade in balia del buio e dei banditi. Anziana massacrata

Accendete quelle cazz di luci. Volevo rendervi edotti di un fatto che mi è accaduto qualche giorno fa e che mi ha lasciato parecchio indignata.
Praticamente ho fatto qualche giorno a casa e l’altra notte è suonato l’allarme.
Ma facciamo retromarcia. Era all’incirca l’una e prima ha iniziato a strimpellare la sirena di un vicino. I cani abbaiavano. E latravano. Ma latravano che pareva si scannassero.
L’allarme si è interrotto, e dopo una mezz’oretta ha iniziato a suonarne un altro, di un’altra casa, sempre nello stesso quartiere.
I cani hanno iniziato ad abbaiare di nuovo. L’allarme nuovamente si è interrotto e dopo una mezz’oretta ha iniziato a suonare il mio. Balzo in piedi. Prendo. Controllo. Pare tutto a posto e dopo un quarto d’ora suona di nuovo.
I cani riprendono il loro concerto. E così sbraitano. Latrano. Urlano. Abbaiano. Latrano che pare si vogliano scannare. Così apro la finestra e tonf, sento un tonto sordo. Come un arnese che casca. O un tizio che cade da qualche tetto. Non lo so. Poteva anche essere un gatto. Da dentro casa perlustro un attimo la zona, dico ora chiamo i carabinieri, mi affaccio e non vedo una luce accesa.
Non ne vedo una. Tutti i lampioni per strada sono spenti.
In giro non si vede un lampeggiante, una volante. Niente di niente. Il giorno dopo mi informo e mi dicono che è normale. Le luci a una certa ora vengono spente, alcuni giorni anche prima dell’ora prevista e in giro è buio pesto. Così chi rincasa tardi si caga in mano e chi la mattina deve andare a lavorare perché fa i turni se la fa sotto.
Ora io non so se il comune di Santa Maria di Sala, in provincia di Venezia, abbia deciso di investire i soldi per le feste in Villa a suon di spritz e prosecco, o per i vivai di lampioni spenti, anziché decidere di rinfoltire e rimpolpare i bilanci dell’amministrazione comunale per l’illuminazione nelle piazze. In giro è buio pesto. Non ho visto alcun controllo. Nessuna pattuglia. A gennaio scorso invece mi hanno fermato al bar del paese mentre sorseggiavo il caffè prima di andarmi a guadagnare il pane, per farmi esibire i documenti.
Ma sapete perché vi dico questo?
Perche qualche giorno fa a Conegliano (Treviso) una donna anziana di 72 anni, Margherita Ceschin, è stata massacrata, e ripeto massacrata, da un barbaro incivile che le è entrato in casa per derubarla e rapinarla.
Il barbaro incivile praticamente l’ha colpita alla testa con un colpo che l’ha stesa. Poi non contento le ha fracassato e sfondato il torace e poi l’ha soffocata tappandole naso e bocca.
Ecco, poi venitemi a dire che la difesa non è legittima, mi raccomando.
Fatevi tutte le vostre seghe mentali, fino a che non vi capita si intende.
I miei ossequi

sbetti

Saman Abbas. Il parroco di Novellara scioccante: “qui ho scoperto la fila indiana”.

Sono stata a Novellara in Emilia Romagna a ottobre scorso per seguire il caso di Saman Abbas. E ho capito che con queste persone non ragioni.

Arrivo a Novellara nel primo pomeriggio dopo aver attraversato distese di campi. Qui in questa terra dell’Emilia Romagna tra il Po e la Luna dove gli alberi fanno da guardia agli argini, è stata uccisa Saman Abbas, la ragazza pachistana di 18 anni scomparsa un anno e mezzo fa tra la notte del 30 aprile e quella del 1 maggio.

Novellara è un paese tipico emiliano, li vedi questi archi sospesi, queste piazze immense, queste biblioteche, aule studio che quasi ti vien voglia di tornare all’Università. In giro è pieno di immigrati. Qui come mi dirà il parroco ci sono molte comunità. Quella Sikh. Quella pachistana. Quella marocchina. La pachistana è la più frammentata.

Le incontro queste ragazze con il velo che escono da scuola. E queste bambine ancora senza tenda intorno che non sanno cosa le attenderà da grandi. La città è divisa. Da una parte stanno gli italiani. Alla faccia dell’integrazione. Dall’altra stanno i pachistani. Impossibile amalgamare le due culture. Sono proprio un altro mondo.

Avvicino una ragazza pachistana che indossa il velo. Facciamo due parole. Che poi diventano tre quattro cinque. Un’ora di conversazione. Mi dice che ha sposato suo cugino. Le chiedo se sono innamorati e lei mi guarda con sto fare come a dire: “Ma tu imbecille credi ancora nell’amore? Figlia mia accontentati. Io l’amore non so manco cosa sia”, pare che mi dica. Ma alla fine mi risponde: “Ci trovavamo bene”. Le chiedo quanti anni ha. Lei mi risponde 25. Vorrei prenderla per mano. Dirle “ascoltami vattene ti prego, lascialo, prendi in mano la tua vita, getta il velo e fuggi via”. Ma niente non riesco. Del resto c’avea degli occhi che parevano dirmi: “tu sei contenta, ma io sono felice solo di essere ancora viva”. Sai mai. In Pakistan se non sposi chi vogliono loro prendono e ti ammazzano. Che insulto. Che sfregio. Capisco che non c’è niente da fare. Queste ragazze sono talmente soggiogate che credono che sia normale sposarsi col cugino di vent’anni più grande. Avvicino un gruppo di pachistani e chiedo loro se in Pakistan si usa far così. Un tizio mi risponde che anche in Italia e nelle altre parti del mondo ci sono i femminicidi e gli omicidi quindi lui non capisce dove sia il problema. Rimango pietrificata. Non oso dire nulla. In quel momento gli sputerei in faccia. Ma non posso. Lui mi guarda con aria di sfida. Io volto i tacchi e me ne vado. Ed è proprio questo che non si vuole capire. Che questa ragazza è morta per mano dell’Islam. Una parola che si fa fatica a pronunciare. Infatti, poco dopo intervisto il parroco e gli chiedo con ancora la voce che mi trema per la rabbia e il cuore che stridula per la collera, insomma gli chiedo se per lui sia normale instaurare un dialogo con una cultura che crede che la donna sia inferiore. Lui mi risponde che a Novellara ha imparato cosa vuol dire andare in fila indiana. Ossia il maschio davanti. La donna dietro. Io gli dico che non mi pare sta gran cosa. E lui mi risponde che non è un’imposizione. È un modo di essere. Gli dico che diamine che sta dicendo, è ancora peggio! È naturale allora che sia così. Che la donna sia meno e l’uomo di più e che quindi debba stare dietro. Lui mi dice: “noi non eravamo diversi 50 anni fa”. Tratta la materia con una freddezza che mi spiazza. Ho le mani sudate. Mi siedo. Gli chiedo come sia possibile che un uomo arrivi a preferire l’onore della famiglia all’amore per la figlia. Mi dice: “l’onore è eterno. È sacro”. “Anche l’amore è eterno”, gli faccio eco. “Gli uomini passano”, mi risponde. “L’onore della famiglia si tramanda”.

Ho la schiena che mi trema. Lui anche. Il resto del reportage è un rimpallo tra un ufficio e un altro. Uno scarica barile di fondo. Dove uno non è competente. L’altro non se ne occupa. Quell’altro manco. È la mia entrata con la telecamera nascosta nelle scuole. Ai servizi sociali. Con la gente che ti sbatte in muso il telefono e il citofono e che ti chiude la porta in faccia. È la minaccia dei padroni di casa: “se non andate via chiamo i carabinieri”. Saman era un fantasma. Il dirigente scolastico aveva già denunciato al sindaco del Pd, ai servizi sociali, al comandante della polizia locale, che Saman non frequentava le scuole. Ma nessuno se n’era occupato.

A scuola Saman ci va fino alla terza media. Poi basta. Dal 2017 al 2020, quando Saman denuncia i genitori, che ha fatto sta ragazza? Dov’era? Cosa faceva? Nessuno aveva capito che era in pericolo? Alle mie domande nessuno ha risposto.

#sbetti

Il mio servizio per Mediaset qui 👇 clicca il link

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/il-grido-inascoltato-di-saman_F311547501040C11

Al buio contro il caro bollette. E il paese torna al Medioevo

C’è stato un tempo quest’inverno in cui abbiamo pensato che per far fronte ai rincari energetici avremmo dovuto spegnere le luci. Nei paesi. Nei locali. Nei bar. Nei ristoranti. Nelle chiese. Nelle case. Nelle piazze e nelle strade. C’è stato un tempo in cui abbiamo creduto che il click di spegnimento, che segna quella lancetta dello spending review, fosse l’unica soluzione. Una soluzione accettabile. Quella di uscire la sera dalla messa e trovare buio. Quella di andare a cena fuori e trovare buio. O cenare così a lume di candela. Quella di svegliarsi all’alba per andare a lavorare e trovare ancora e ancora buio. Buio pesto. Fitto. Non una luce. Non un lampione. Immagini di un tempo andato. Scene da Medioevo con le torce in tasca e le fiammelle sotto i porticati.

Il montaggio di questo servizio per Mediaset, realizzato ad Arzergrande, un paesino nel padovano in Veneto, è stato realizzato grazie alla maestria e alla professionalità dei cameraman Carlo Brotto e Simon Barletti.

Un intreccio sonoro di immagini. Situazioni. Scene. Alti. Bassi. Chiari. Scuri. Di accensioni. E di droni perfettamente intersecati con i lampioni.

Per un disguido tecnico il nome all’inizio del servizio è sbagliato.

Qui il mio reportage 👇 clicca sul link

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Il mio 8 in condotta

Era il 2002. L’anno della quarta liceo. L’anno dei 18 anni. Quando diventi maggiorenne e inizi a chiederti cosa voglia dire. Quel giorno stavo facendo una lezione di danza – per prendermi qualcosina insegnavo danza ai più piccoli – quando mi arrivò un messaggio sul cellulare. “Serenella hai 8 in condotta”. All’epoca non c’erano i telefonini quelli belli di adesso. Quelli dove qualcuno ti poteva mandare la foto. E se trovi qualche idiota di foto te ne manda 35 in serie. All’epoca c’erano delle casse che parevano computer di bordo. Non c’erano le app, i registri elettronici dove ci mettono il becco i genitori, e gli studenti sanno tutto in tempo reale, anche se il giorno dopo il prof di italiano abbia il cagotto o meno.
All’epoca c’erano i voti che uscivano in bacheca che li metteva la bidella aprendo con la chiavetta quella vetrina, che durante l’anno si riempiva di circolari, corsi di lingue e annunci teatrali. Ricordo che finii la mia lezione di danza e che finita, ormai erano le sette di sera, presi di corsa lo scooter e andai subito al liceo. Volevo vedere con i miei occhi quell’8 in condotta che mi avevano comunicato. Non può essere dicevo. Alla fine mi sono sempre fatta il mazzo tanto. Prima, infatti, ai licei si studiava con un altro ritmo. Non come adesso che se dai una versione in più per casa ti condannano per violenza privata.
Il liceo stava a 35 chilometri di distanza da dove abitavo; quando scelsi la scuola, scelsi quella il più possibile distante da casa perché volevo cavarmela da sola. Durante tutto il tragitto, tirai lo scooter oltre il limite del consentito ma comunque consentito dal codice della strada, per arrivare in tempo. La scuola era aperta fino alle otto di sera e non potevo andare a letto se prima non avevo visto. Chiamai anche il mio ragazzo dell’epoca e gli dissi che per motivi x che a lui non riguardavano quella sera non ci saremmo potuti vedere. Lui ci rimase male ma sono cose che capitano a tutti, prima o poi passano anche le delusioni amorose.
Arrivai davanti la porta del liceo, erano le 19.57. Lo ricordo ancora. La bidella che non so se fosse quella che aveva affisso i voti con la chiavetta nella bacheca dove durante l’anno ci finivano i corsi di lingue, stava chiudendo il portone. Lasciai lo scooter in mezzo alla strada. Tolsi con fretta il casco, e mi precipitai sopra le scale, trovai la porta a vetri chiusa e la bidella che dal vetro mi faceva cenno: “mi dispiace figlia mia, ho già chiuso”. Le feci il gesto di aprirmi per favore, “la prego mi apra, ho fatto 35 chilometri in scooter, non mi lasci andare via senza prima aver visto i voti, per favore, la scongiuro”. Mi scese una lacrima. E lei, forse madre, forse zia, forse nonna, si lasciò intenerire e mi aprì. Sembrava la governante di qualche collegio austriaco. “Non un minuto di più mi disse”. Mi precipitai davanti la bacheca. Cercai la classe. 4. Ap. Ap. Ap dicevo, dov’è la 4Ap. La trovai. Scorsi in fretta i nomi. Ero la terza, quarta non ricordo esattamente. Seguii con il dito la riga dei voti. E tac eccolo. L’8 in condotta con la media dell’8.47. In diritto avevo 9. Anche in latino. Rimasi di sasso mezzo secondo. La bidella mi richiamò all’ordine. Mi disse: “devo chiudere!”. E me ne andai. Non versai una lacrima. Tornai a casa e lo dissi ai miei genitori. I miei mi dissero: “Rifletti sul perché te l’hanno dato e qualche volta morditi la lingua”. Era proprio così.
Ora i tempi – paradossale perché non ho 80 anni – sono cambiati, ma mi chiedo cosa avrebbero dovuto fare quei ragazzi che hanno sparato pallini in faccia alla prof per avere un 8 in condotta o meglio la bocciatura?

sbetti

Baby gang. “Noi vestiti di nero così non si vede il sangue”

“Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo”. Sono “ragazzini”, hanno tutti dai tredici ai sedici anni. A volte anche otto. Li incontro un sabato notte accanto alla stazione di Padova. Sono in quattro, tutti vestiti uguali, zaini in spalla, guanti neri, i cappucci delle felpe che avvolgono le teste. Il capetto, quello più basso e tarchiato, ma assai sveglio, mi viene incontro senza indugio. Abbiamo invaso il suo territorio. E si sente minacciato. “Fammi vedere i tuoi documenti, chi sei? Cosa vuoi sapere?”. “Chi siete? Cosa fate?”, chiede. “Noi facciamo parte della baby gang AK47, hai presente il fucile? Ecco quello. Noi se vogliamo prendiamo uno e lo ammazziamo. Il nostro divertimento è bere, fumare, picchiare”.

Mi addentro in mezzo a loro. Sono quasi tutti stranieri. “Ragazzini di seconda generazione”, come li chiamano i progressisti.

Qui a Padova in zona stazione c’è un vero e proprio formicaio. Ma anche in Prato della Valle o in pieno centro. Sono divisi in gruppi a seconda delle nazionalità. Ci sono albanesi, marocchini, tunisini, romeni. I capetti li riconosci subito. Sguardo duro. Schiena dritta. Spalle fiere. Hanno intorno una nuvola di adepti che li segue. Se non fai come il gruppo sei tagliato fuori. Se li guardi più di mezzo secondo comincia la sfida e c’è da aver paura. In Prato della Valle, un gruppo ci spiega che “ci sono i Maranza, a Milano vengono chiamati Zanza. Bisogna essere tutti vestiti uguali e soprattutto di nero perché bisogna picchiare la gente e se picchi qualcuno non si vede il sangue”. Ci sono maschi, femmine. Quando si menano è proprio la vista del rosso vivo che li eccita. Il pugno preso in faccia. Il calcio. Il fatto che se rispondi, “l’altro ti rispetta”. “Ti senti invincibile – mi dice un bullo pentito – ti sale l’adrenalina nelle gambe ed è bellissimo”. “Una volta hanno fatto Verona contro Padova”, mi dice un ragazzino. Avrà all’incirca 12 anni. Accanto una ragazzina con addosso un piumino e sotto seminuda dice che “qui è normale e ogni weekend scoppia la rissa”.

A Mestre nel veneziano, la situazione non è diversa. I teppisti si annidano attorno al centro commerciale. Molti urlano, danno fastidio alle persone, sputano. Una banda turca, in pieno centro, mi mostra la maglia rossa con scritto “Turkey”. Hanno dai 13 ai 17 anni. “Urliamo per fare casino. Se uno inizia a fissarci io vado lì e lo colpisco. Per entrare nel nostro gruppo devi essere turco e nato in Turchia, siamo sempre i migliori e puntiamo i più grandi. Siamo dei criminali”. “Loro – mi dice un altro indicando due giovani – sono stati presi e schedati dalla polizia. Hanno menato un ragazzo perché ha insultato la loro patria e la loro madre”. Un ragazzo mi passa accanto con la bottiglia di vino in mano. “Noi siamo baby gang. Siamo tutti moldavi. Questa sera beviamo perché domani abbiamo un incontro. Siamo 30 contro 5. Da noi si usa così”.

Infatti. I vandali delle bande giovanili stanno tenendo sotto scacco intere città. Milano, Torino, Udine, Bologna, Roma. Bevono, si menano e hanno armi. Si organizzano nei social, Tik Tok, Instagram, si danno appuntamento in un luogo all’ora x e comincia la rissa. Albanesi contro marocchini. Tunisini contro romeni. Turchi contro moldavi. Neri contro bianchi. Bianchi contro neri. A Padova è anche accaduto che prendessero a bottigliate dei clienti seduti ai tavolini di un bar. Altre volte prendono di mira qualche coetaneo e non c’è verso di fermarli. Un ragazzino di 14 anni che intervisto nel Polesine, quest’estate è stato pestato a sangue. “Mi hanno fermato per chiedermi se avessi sigarette e soldi – racconta – mi hanno rubato 15 euro. Erano in quattro, poi c’erano altri sei, sette ragazzi. Alcuni avevano la mia età. Altri due più piccoli. Il ragazzo più piccolo mi diceva: “se mi incolpi un’altra volta io ti ammazzo”. Mi hanno picchiato, ho perso sangue e sono finito in ospedale. Avevo una lesione alla mandibola sinistra. Non è la prima denuncia che prendono, più di una volta hanno picchiato qualcuno”.

Un investigatore privato che raggiungo Giuseppe Tiralongo, a Roma ha “sventato” un omicidio. Ingaggiato dai genitori del ragazzino, italiano, ha scoperto che costui stava pianificando l’uccisione di un uomo con alcuni amici. Avevano già la pistola. “Qui non si parla più di baby gang – dice – sono vere e proprie bande di criminali. Ragazzini annoiati, anche della Roma bene”. Una nota del ministero dell’Interno del 7 ottobre scorso parla di baby gang come “una realtà in aumento in Italia”. Transcrime, il centro di ricerca tra la Cattolica, Alma Mater e l’Università di Perugia, il mese scorso ha pubblicato uno studio sulle Gang giovanili nel nostro Paese. “Nella maggior parte dei casi i membri sono italiani”, quelle “composte in prevalenza da stranieri di prima o seconda generazione sono più frequenti nel Nord del paese rispetto alla media nazionale. Mentre situazioni socioeconomiche di marginalità e disagio sono evidenziate in prevalenza nelle regioni del Sud”. Il report del Servizio analisi criminale della Polizia criminale sui minori, a febbraio scorso, parlava di 25 mila minori denunciati o arrestati nel 2021, con un +10%. In aumento del 20% i reati di lesioni personali, danneggiamento, minacce, omicidio doloso, rapina, resistenza e violenza a pubblico ufficiale. In crescita anche i traffici di stupefacenti e la percentuale degli stranieri all’interno di queste bande: dal 44 al 46 %. Ragazzi violenti, gruppi criminali, iniziano ad armarsi sul web e poi spaventano le piazze.

Serenella Bettin

La Verità – sabato 26 novembre 2023

Durante il servizio girato per Mediaset con il cameraman Carlo Brotto siamo stati colpiti da dei sassi lanciati dai ragazzi

Il nostro servizio qui 👇 clicca il link.

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/vita-da-baby-gang_F311547501046C05

E questa la mia intervista a un bullo pentito.

Intervista inedita ad un ragazzo che racconta la sua esperienza passata all’interno di una baby gang 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/confessioni-di-un-ex-baby-violento_F311547501046C08

Immagini inedite

Impallinano la prof: 9 in condotta. Abbiamo fallito tutti

Uno all’estero che legge i giornali italiani penserà che siamo una canea di imbecilli. Non si capisce per quale motivo la narrazione in Italia debba sempre essere così surreale e grottesca.
Nel giro di due giorni da un lato abbiamo i genitori che presentano ricorso contro la bocciatura del figlio che aveva accoltellato la prof.
E dall’altro ci sono gli studenti che sparano pallini in faccia ai docenti e vengono promossi con il 9 in condotta. Perfino al tiratore scelto hanno dato 9. E che diamine. Dategli anche la medaglia. Dategli la lode! Da un lato quindi l’Italia mammona incapace di accudire i figli facendoli crescere con la convinzione che se accoltelli un professore e vieni bocciato, stai tranquillo tanto mamma e papà con un bravo avvocato ti tirano fuori. E dall’altro l’Italia del degrado culturale, del disboscamento dell’anima, della gramigna che cresce, incapace di farsi rispettare e dettare regole. Era ottobre scorso quando uno studente dell’istituto di Rovigo sparò pallini in faccia alla prof di scienze, Maria Cristina Finatti, ed era maggio scorso invece quando lo studente di Abbiategrasso (Milano) dinanzi alla richiesta della docente, Elisabetta Condò, di riparare un brutto voto, prese un pugnale da caccia e la accoltellò.
L’avvocato della famiglia ha detto che il ragazzo era bravo, aveva buoni voti e che l’unica insufficienza era in storia con la professoressa in questione e che questa cosa della bocciatura è una mossa quasi pilatesca. Il legale ha detto che non è un bel segnale.
In entrambi i casi le docenti non hanno mai ricevuto alcuna scusa da parte dei genitori.
Del resto questi sono alcuni degli esempi dei genitori di oggi. Presenti ma assenti. Sono quelli che si scrivono a tutte le ore nelle chat dei genitori della scuola hashtag #compiti per le vacanze per sapere cosa ha detto “quella deficiente della professoressa in classe” perché il deficiente di suo figlio non era attento.
Sono quelli che si presentano dal preside se il figlio ha avuto un brutto voto o quelli che fanno le giustificazioni perché c’è la settimana bianca e uno zaino in più in macchina con i libri per studiare non ci sta. Una preoccupante marmaglia in crescita che se ne fotte della società e delle regole. Che sputa, imbratta i muri, si ubriaca, insulta, mena, prende a cazzotti la gente nei treni o per strada, scalcia, spara pallini in faccia, lancia coltelli. Ma la scuola non è una somma di voti sulla base di nozioni imparate a memoria. La scuola è convivenza. Vivere civile, un percorso fatto di fatti, incontri, parole, scambio di idee, confronti. Se un dipendente accoltella il proprio datore di lavoro, anche se porta su il fatturato come minimo viene licenziato. Si chiama etica. Quella che cercavo al liceo negli sguardi della gente.
A quell’avvocato e a quei genitori che hanno presentato il ricorso andrebbe spiegato che se accoltelli qualcuno non meriti la promozione. E a quei docenti che hanno autorizzato il 9 in condotta a chi spara pallini in classe andrebbe spiegato che forse non era manco da promuovere.
In questa giungla di sentenze è evidente che non ci sono più famiglie. Non ci sono più scuole. Non ci sono più istituzioni. Abbiamo fallito tutti.

sbetti

Lungo la rotta balcanica

Una continua emorragia di clandestini. Di migranti. Un flusso inarrestabile. Arrivano a frotte di cento, duecento persone al giorno. Scendono dai boschi. Spuntano dagli alberi. Si mettono in cammino, molti dal Pakistan, poi calano verso Trieste ed entrano illegalmente nel nostro Paese. Siamo al confine con la Slovenia e percorriamo un tratto di rotta che fanno i clandestini per giungere in Italia. É notte fonda. Risaliamo i sentieri battuti dai migranti. A terra spuntano calzetti, scarpe, borse, zaini. Qui sono appena passati. Ci sono rifiuti, documenti, caricabatterie. La Rotta Balcanica viene percorsa ogni giorno da un numero di clandestini che supera di gran lunga le cifre degli sbarchi sulle coste siciliane. Secondo i dati forniti da Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere europee, da gennaio a ottobre 2022, sono stati 128.438 gli attraversamenti illegali nell’Unione Europea, con un balzo del 168 per cento rispetto ai primi dieci mesi del 2021. Sembra impossibile che ci sia una porta dell’Italia dominata da una invasione totalmente incontrollata. Senza respingimenti. Lunedì mattina qui, la polizia di frontiera ne ha rintracciati 118. Una funzionaria che incrociamo alla sottosezione di Ferretti a Trieste ci guarda con aria affranta. “Ne sono arrivati anche oggi?”, chiediamo. “Sì, come ogni santissimo giorno”. Vediamo i migranti ammassati mentre aspettano. Qui vengono prese le impronte, viene fatto lo screening sanitario e poi si effettuano le varie pratiche. L’ “accoglienza” nei centri è di competenza delle prefetture. Ma di fatto questa, di cui le anime belle si riempiono la bocca, non c’è. Agli intellò non interessa nulla se i clandestini finiscono con il riempire i piazzali delle stazioni in un hub a cielo aperto, come avviene a Trieste. Qui ne incrociamo centinaia. Qualcuno è in partenza per Milano. Qualche altro per la Germania. Ma molti vogliono rimanere in Italia. “Italy is good, Italy is good”, ci dicono. Sanno solo due parole. “Asilo, asilo” e “International protection”. Al mattino alle sette, chi ha l’invito da parte della polizia di frontiera a presentarsi all’ufficio immigrazione, fa la fila davanti alla questura per regolarizzare la propria posizione, chiedendo asilo o protezione. La maggior parte però si presenta spontaneamente e rientra nella cerchia di quelli non rintracciati. E sono tanti. Fonti della Verità ci dicono che se ogni giorno ne pescano 200, in realtà sono almeno il doppio. La presentazione in questura avviene un mese dopo il rintraccio, il che vuol dire che abbiamo migliaia di persone che di fatto rimangono in Italia clandestinamente. E ne siamo consapevoli. La questura poi trasmette le richieste di asilo alla prefettura affinché la commissione vagli la posizione del clandestino. E così passano altri due tre mesi. Dati alla mano, forniti dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, nel 2021 ci sono state 53.609 richieste. Di queste il 58% è stato respinto. Questo 58% dovrebbe andarsene dall’Italia ma, ci rivelano sempre le nostre fonti, di fatto non viene espulso e rimane qui. Solo il 14% prende lo status di rifugiato. Un altro 14% ottiene la protezione sussidiaria e un altro 14% la speciale. Dal Pakistan, per dire, su 7920 richieste nel 2021, ci sono stati 5583 dinieghi. I principali Paesi di provenienza sono Pakistan, Bangladesh, Tunisia, anche Afghanistan. L’ Egitto invece è la nuova presenza. Fonti ben informate ci dicono che tra i disperati che ogni giorno fanno la tratta si è sparsa la voce che in Italia si faccia presto ad avere i permessi. Ma anche qui stessa manfrina. L’83 % delle richieste egiziane viene rigettato. I migranti fanno ricorso e chi è uscito dalla porta rientra dalla finestra. L’anno scorso sempre la polizia di frontiera di Trieste in tutto il mese di ottobre aveva rintracciato 491 immigrati. Quest’anno 1932. Senza contare quelli non “censiti”. Il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, l’altro giorno è tornato a chiedere le riammissioni in Slovenia, in virtù di quell’accordo bilaterale del 1996. “Sulla rotta Balcanica – ha detto – non siamo Paese di primo ingresso e quindi è ingestibile di fronte a questi numeri dare risposte a una situazione che non si sarebbe dovuta creare”. “La situazione è insostenibile – dice alla Verità Lorenzo Tamaro, segretario provinciale del Sap Trieste – questa situazione non può essere scaricata sulla polizia che oltretutto lavora in forte carenza di organico e logistica inadeguata. Non abbiamo neanche delle norme adeguate e incisive come lo sono state quelle sulle riammissioni in Slovenia”. Prendiamo la via del ritorno. Incontriamo un gruppo di migranti. “Italy is very good”, dicono “I want to stay here. I want to stay here (Io voglio stare qui. Io voglio stare qui)”. Si fa sera. Nei boschi spuntano resti di indumenti e oggetti in continuazione. I clandestini hanno ricominciato a a camminare. Tra poche ore scenderanno verso Trieste. L’emorragia è inarrestabile. 

Serenella Bettin 

Pezzo uscito sul quotidiano La Verità il 17 novembre 2022 👇

Il mio servizio per Controcorrente Mediaset lo potete rivedere qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/migranti-come-arrivano-dai-balcani_F311547501047C03

Riprese di Carlo Brotto e Simon Barletti.

Montaggio: Simon Barletti.

Doppiaggio: Simon Barletti

Qui è quando abbiamo dormito in auto aspettando che calasse il buio per trovare i clandestini 👇

Serenella Bettin e Fausto Biloslavo 👇

E questo invece è un servizio realizzato con l’inviato di guerra Fausto Biloslavo nell’estate 2019 per il Giornale 🗞️

🎥📸 #Reportage: al confine tra la Slovenia e la Croazia. In viaggio tra i trafficanti della rotta balcanica. Qui il triplo dei clandestini dei barconi. E vogliono tutti venire in Italia.

LEGGI IL PEZZO 👇
http://m.ilgiornale.it/news/cronache/scudo-anti-migranti-1752804.html

GUARDA IL VIDEO 👇
http://m.ilgiornale.it/video/cronache/scudo-sloveno-fermare-i-migranti-1750166.html

Appunti della Bettin 📲 👟 📝 👇

Quattro considerazioni sulla Rotta Balcanica che i talebani dell’accoglienza non apprezzeranno. Sono rientrata dalla Rotta e ho voluto lasciare che i pensieri defluissero via. Li ho lasciati scorrere come scorre l’acqua sul lavello sporco. Ero così talmente piena di visioni, di luci, di voci, di suoni, respiri, sbadigli, sospiri, di persone, di parole che ho voluto prendermi qualche ora per stare in silenzio e respirare. Ho lasciato che i pensieri scivolassero via per capire se fossi io a vedere tutto amplificato. Non lo è stato. Ho atteso il far della sera dormendo in auto. Il mio libro sull’immigrazione, karma vuole, si chiama proprio “Aspettando che arrivi sera”. La Rotta Balcanica è quella cosa che ti entra dentro e che vedi dal finestrino dell’auto quando stai per arrivare nel bosco e devi lasciare la macchina e proseguire a piedi. Sono suoni ovattati che immagini nella mente. Sono rumori sospetti, di notte, con le scarpe che scricchiolano sopra le foglie. Sono soffi di fogliame che cade. Voci nel buio. Luci in penombra che sembrano fiammelle che sputano fuoco sopra Trieste. Sono guardrail che ti passano accanto. Sono ombre. Quiete. Silenzi sospetti. Ma soprattutto sono passaggi. Da una parte all’altra. Dal Pakistan all’Iran. Dall’Iran alla Turchia. Dalla Turchia alla Bulgaria. Fino alla Serbia, alla Bosnia. Dalla Bosnia alla Croazia. Dalla Croazia alla Slovenia. E giù in Italia. Da questa porta aperta sul nostro Paese ogni giorno entrano illegalmente centinaia e centinaia di migranti. Il giorno che sono arrivata la polizia di frontiera ne aveva rintracciati 118. Erano tutti lì in fila per le pratiche. I documenti. Lo screening sanitari. Gli occhi spenti. Fuori dalla testa. I piedi martoriati dalle piaghe. Sembravano unguenti. Sanguinanti. Pieni di bolle. Pareva il miele che ribolliva dentro l’acqua. Carta vetrata. Cemento. Gesso. Pieni di terra. A una funzionaria a cui ho chiesto “Sono arrivati anche oggi?”, mi ha risposto: “Sì, come ogni santissimo giorno”. La polizia è affranta. Non ha mezzi. Risorse. Strutture. Danno loro un invito a presentarsi in questura. E questi la mattina alle sette fanno la fila. In piedi come i dannati li vedi mentre aspettano per chiedere accoglienza e protezione. Quale accoglienza. Quale protezione. Avuto il foglio, il prossimo passo è la commissione. Che deve vagliare la posizione di ognuno. Passano mesi. E chi esce dalla porta spesso, grazie ai ricorsi, rientra dalla finestra. In questo limbo creato ad arte “migranti” rimangono nel nostro Paese. Ingrossano le fila delle stazioni. Le vie. I quartieri. Le strade. Clandestinamente rimangono in Italia. Dati alla mano, il 58% delle richieste che la commissione riceve viene rigettato. Ma di fatto, mi dice una fonte ufficiale, questi dall’Italia non se ne vanno. Le espulsioni costano troppo. Rimangono qui. Senza casa. Né lavoro. Né niente. Perché alle anime belle, progressiste con il filo di seta e le sciarpette di Hermes, questo non interessa. Alle anime belle non interessa se questi una volta arrivati in Italia pernottano davanti la stazione, bivaccano sui giardinetti, sostano in mezzo alla strada, dormono sopra i carrelli della spesa del discount (visto io con i miei occhi). No, ai talebani dell’accoglienza interessa altro. Chi se ne frega se questi disgraziati si annidano nei parchi. Per i radical chic l’importante è che vengano in Italia, poi se sono ridotti allo sfascio in mezzo alla gente che per passare deve fare lo slalom tra sacchi a pelo e tende e coperte, non è un problema. Stanno lì. Aspettando che arrivi sera.

A proposito vi consiglio sempre il mio libro 📚

Che trovate qui 👇

Maturità al via. La vostra strada sarà quella che vi stravolgerà la vita

La notte prima degli esami.
Ieri durante un’intervista che mi hanno fatto per l’inchiesta sulla Bibbiano dei nonni, il giornalista Antonino D’Anna a un certo punto mi fa: “Serenella cosa farai domani?”. Io ci ho pensato qualche secondo, che in radio pare un’eternità e gli ho risposto: “Domani studio”. Sto facendo un’altra inchiesta e domani studio. Io me la ricordo la notte prima degli esami. Era il 2003. L’estate torrida. Quella calda afosa. Quella che ti mancava l’aria. Quella che l’afa la sentivi che ti cappiava il collo. Te lo stringeva. Te lo stritolava. Te lo ingolfava. Quella che ti facevi la doccia e ti pareva di non essertela fatta. Mica c’erano i condizionatori potenti in ogni stanza come oggi.
Quella che ti lavavi le mani e sudavano sudavano sudavano. Erano unguenti, pingui, lasciavano la scia sulla carta che pareva il lardo di un maiale sopra il tavolo del banconiere.
Io avevo già le dita ribelli. Dio se le avevo. Avevo capito che se volevi lottare potevi farlo con le parole. Assaporavo quei suoni che le parole e la musica mi regalavano e ringraziavo sempre Iddio quando qualcuno mi insegnava una parola nuova. Era l’estate calda e afosa dove i piedi ti si incatramavano per terra. Sentivi le gambe pesanti galleggiare, te le portavi appresso come fossero croci. Così dimagrita e scarnificata da stress e notti insonni. Arrivai al tema di italiano con quattro vocabolari in mano. Garzanti. Zanichelli. Sinonimo e contrari. Il vocabolario vecchio di mio nonno passato a mia madre che glielo aveva passato a suo fratello a mio zio che lo aveva passato a me dove mio nonno ci aveva studiato all’Università. Ero lì vestita di nero, con i capelli legati, dimagrita di quattro cinque chili, gli occhi annebbiati dal sonno, ingigantiti dalle occhiaie. E quelle dita che volevano scrivere. La sera prima l’avevo passata con le mie amiche a casa dei miei a mangiare olive ascolane, quante risate a volte isteriche, l’ansia. il dubbio. Il traguardo. Il confine. Il conforto. Quanti sentimenti tutti nello stesso giorno. La falsa illusione di diventare grandi. Quella mattina la sigaretta prima di entrare fu la più bella.
Al tema presi 15/15. Un tema perfetto. Fuori le righe. Non una riga fuori posto. Parlavo di diritti. Di diritti umani. Avevo trovato un professore fuori dagli schemi che apprezzava le mie teorie. Ci sono dei diritti universali dicevo, che diamine! Che vanno al di là delle bandiere. Destra. Sinistra. Blu. Verde. Rosse. Fucsia. Vanno al di là delle ideologie. Vanno al di là della religione. Mi ero incaponita poi con questi diritti umani perché credevo che da lì provenisse l’etica. Quella che cercavo. La cercavo negli sguardi della gente. Nel lavoro. Nello studio. Nella danza. Negli amici.
Feci il tema. Gli esami passarono. Feci l’orale e da lì iniziò un altro mondo. E quanti altri ancora. Gli esami continuarono. E non finirono mai. Mai, nemmeno ora in ogni pezzo, in ogni servizio, in ogni parola. Nemmeno prima quando cercavo la mia strada.
Poi un giorno la tua strada arriva. Ti si presenta davanti e ti stravolge la vita. Te la prende e te la rovescia la vita. Ci fa le capriole. Le acrobazie. Le spaccate in aria. Inizi a calpestarla. E capisci che quello che stai facendo era quello che avevi sempre cercato. A chi oggi ha la maturità – mi piace ancora chiamarla così – dico: cercate sempre la vostra strada. E quando l’avete trovata abbiatene rispetto, trattatela con cura. Perché sarà l’unica che darà un senso alla vostra vita.

sbetti

Il papà di Martina Rossi: “me l’hanno ammazzata, sono già in semilibertà”

Bruno Rossi è da un po’ che non parla. Dentro al cuore conserva un macigno tremendo sigillato a vita in seguito alla morte della figlia. Mi metto in testa che voglio intervistarlo. C’è il caso di Giulia Tramontano e la sua testimonianza può essere importante. Recupero il contatto. Lo chiamo. Ma la prima telefonata non lascia ben sperare. Non mi do per vinta e ci riprovo.
Bruno Rossi ha 83 anni ed è il padre di Martina. Quella ragazza strappata alla vita a 20 anni perché voleva sfuggire a uno stupro. I condannati sono già in semilibertà.
Era agosto 2011. Martina è in vacanza con le amiche a Palma di Maiorca in Spagna. Una notte Martina scappa dalla terrazza dell’albergo dove alloggiava per difendersi da uno stupro e precipita di sotto. Dopo qualche giorno Martina muore. Per i fatti vengono condannati Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, oggi più che trentenni, residenti a Castiglion Fibocchi (Arezzo). La difesa ha sempre sostenuto che Martina si fosse suicidata. Dopo una prima condanna a sei anni, i due vengono assolti in appello, ma la cassazione, il 7 ottobre 2021, dieci anni dopo, li condanna a tre anni per tentata violenza sessuale. L’altra fattispecie, morte in conseguenza di altro reato, si è prescritta e da ottobre scorso i due sono già in semilibertà.
Quando ho parlato con il padre ho visto un uomo distrutto dal dolore. La voce roca. Che si fa flebile. Il cuore in frantumi. E quel dolore che non si rimargina. Non passa. Non si placa. Si esacerbera in una lenta e pacata consapevolezza e rassegnazione. Come la sabbia che si deposita sopra la duna. Come un dromedario senz’acqua che cammina da mesi nel deserto. Rimane lì impresso nel cuore. Bruno lo coccola. Lo culla. Fa in modo che il dolore sia meno doloroso possibile.
Martina era la sua unica figlia. Lei avrebbe dovuto scrivere la sua storia. Lui le aveva affidato le sue memorie. Quelle di un padre. E di un gran lavoratore. Voleva diventare nonno. Ma gli hanno tolto anche un figlio. Quando l’ ho intervistato a un certo punto, parlando delle donne che lavorano, mi ha detto: “Noi lavoravamo entrambi. E quando è nata Martina e mia moglie non c’era, io la chiamavo per sapere come si facesse la pasta. Li ho capito che andava buttata prima l’acqua”.
Come in tutte le cose della vita i passaggi sono fondamentali. Ma è molto inutile continuare a parlare di giornate contro la violenza sulla donna se non si vogliono cambiare le leggi. Se in Italia abbiamo leggi caotiche confuse interpretabili permissive. Se la morte si prescrive e i condannati possono uscire prima di galera. È molto inutile dire alle donne che devono denunciare se ancora non abbiamo fatto un salto culturale. Quello per cui un No deve rimanere no. Quello per cui se vengo a cena da te non vuol dire che ci stia. Le donne continueranno a essere uccise. E chi le ha abusate, con un buon avvocato uscirà di prigione. Prima l’acqua. Poi la pasta…
La mia intervista a Bruno Rossi su Grazia di questa settimana 👇

sbetti

Una semplice bravata

“Una bravata”. Torno sul caso degli youtuber – e scusate se nascondo il volto ma non voglio sporcarmi le mani con simili esemplari – che con la Lamborghini si sono schiantati addosso alla Smart con dentro una madre e i suoi figli. La piccolina è in ospedale.
Manuel, il bimbo di 5 anni è morto.
Stando alle testimonianze del preside di una scuola accanto a dove è avvenuto l’incidente, per i genitori dei ragazzi, questa roba qua, questa roba per cui i tuoi figli di 20 anni noleggiano un bolide, un suv Lamborghini Urus, un’auto che vale oltre 240 mila euro, che costa quanto un appartamento; questa roba per cui questi, qualcuno fatto e strafatto, si mettono alla guida di un bolide del genere e sfrecciano per la città seminando il panico; e questa roba per cui i tuoi figli organizzano le sfide su YouTube e su tiktok e si credono di poter dominare il mondo e l’universo e pretendono di dire alla gente cosa dovrebbero fare e dove dovrebbero andare, ecco questa roba qua è una bravata.
Questa roba per cui questi ti fanno vedere come passano 50 ore di fila dentro una macchina di lusso, che potrebbe permettersi uno che sputa sangue dalla mattina alla sera e che dirige un’azienda, sarebbe una bravata.
Questa roba per cui – ho letto una testimonianza nei social di una ragazza che si trovava in ospedale e che ha assistito alla scena – il padre di Manuel arriva urlando in lacrime e grida e urla a più non posso, con tutto se stesso, con quanto fiato e lacrime aveva in corpo, perché se avesse potuto l’avrebbe ammazzato quello strafottente che gli ha ammazzato il figlio, e questa roba per cui ti muore un figlio e ti manca l’aria e vorresti morire al suo posto, per dirgli – svegliati – non può essere – prendi me – questa roba per cui una famiglia è distrutta e la madre gridava e gridava e la sorella è ricoverata gravemente, questa roba sarebbe una bravata.
Come quando io da piccola tirai un calcio a un pallone e sfondai la porta del garage del mio vicino.
Del resto basta vederli i figli. Quegli sguardi di chi può tutto. Perché tanto ha i soldi. Quei denti ancora da latte. Incapaci di affrontare la vita. Quella pelle ancora liscia perché a loro la vita non li aveva ancora toccati, ed è stato concesso tutto.
E che dire di quelli che hanno giustificato. Che hanno detto “è capitato a tutti di rischiare”. Che hanno detto “anche voi avrete corso il rischio”.
No, io non ho mai corso il rischio di prendere un bambino come un birillo e ammazzarlo. Non ho mai corso il rischio di noleggiare una Lamborghini per far vedere – “fratello, bella bro, qui ce potemo fa’ pure un bambino” – come si vive chiusi in una Lamborghini per 50 ore.
Ora non mi stupirei se possano renderci edotti su come si viva per anni chiusi in carcere.

sbetti

Quella Lamborghini sfrecciava da giorni, nessuno li ha fermati

È successo. È successo ancora. È successo che un’auto del cazz pilotata da uno youtuber, con altri quattro pirloni a bordo, si schiantasse addosso a una smart con dentro una mamma e i suoi figli. Due bambini. Di tre e cinque anni. La piccolina è in condizioni gravi.
Quello di cinque è morto. Morto.
Il gruppo di youtuber, come si fanno chiamare adesso quelli che hanno male sotto le ascelle, si chiama TheBorderline. Border, confine. Line, linea. Linea di confine. Caso limite. Linea di demarcazione tra due condizioni definite. In questo caso la loro stupidità. E il lusso sfrenato. Il loro obiettivo era una sfida da condividere nei social, ossia far vedere come si vive in una Lamborghini per 50 ore. Senza interruzioni. Senza pause. Senza dormire. Senza forse manco mangiare. Farsi di canne, alcol. Droga.
Matteo Di Pietro, uno dei cinque, è risultato positivo ai cannabinoidi.
Da due giorni si filmavano per le strade con il mezzo di lusso, per postare i video sul loro canale seguito da 600 mila iscritti e con oltre 152 milioni di visualizzazioni dal 2020. Il gruppo organizza sfide, challenge come le chiamano adesso. Con votazioni, clic a pagamento, condivisioni, like. Tra queste anche il fatto di restare in auto 50 ore di fila. Dieci mesi fa a bordo di una Tesla avevano usato lo stesso format. Ottenendo un ottimo successo con oltre 2 milioni di visualizzazioni. Nessuno li ha fermati.
Ed è successo. È successo ancora. Il Borderline è sbroccato. La linea si è rotta. Il confine è debordato.
La Lamborghini si è schiantata addosso alla Smart e per il piccolo non c’è stato niente da fare.
Nel 2019, era estate, lungo l’autostrada Palermo – Mazzara del Vallo, un padre ha perso un figlio di 13 anni in un incidente. L’autista era il padre stesso. Andava a 220 all’ora con a bordo i suoi due figli, registrando e postando un video in diretta su Facebook. “Siamo in diretta, siamo in diretta”, poi più niente. Dopo qualche chilometro la Bmw su cui viaggiavano si è schiantata addosso a un muretto di cemento armato. Lo schermo è diventato nero e da il buio. A morire è sempre chi non c’entra nulla. Chi è indifeso. Debole.
Anche nel 2015, stavo ai giornali locali, e trovai un video su Facebook di una pirata della strada che aveva appena investito un vecchietto. Fui costretta a passare la notizia perché nei locali funziona così.
Ma anche qui, la madre con a bordo la figlia guidava con la bottiglia di vodka in mano, senza mani, e piedi sul volante.
Le vite condotte all’estremo. Al limite. L’ebbrezza di esserci. Di farsi vedere. Di avere visualizzazioni. Like. Condivisioni. Di vedere le statistiche. Le impression, il livello di engagement. Di guardare i numeretti salire. Gli incassi anche. Di vedere quei fottutissimi cuoricini dei cornuti apparire. Siamo arrivati all’assurdo paradosso che fa più scalpore la vita che condividi che non quella che vivi. La vita priva di emozioni. Finito un video si pensa a quello dopo. Fa più chiasso quello che devi mostrare che non quello che provi veramente. Quello che devi aggiornare. Far vedere.
Ci si schianta nelle strade condividendo un video su TikTok. O una cazz di storia che dura 24 ore e si porta via una vita intera.

sbetti

Berlusconi. Hanno fatto di tutto per avvilirlo. Ma lui è sempre tornato

Lo hanno attaccato. Combattuto. Detestato. Boicottato. Lo hanno avversato. Contrastato. Osteggiato. Oppugnato. Hanno fatto di tutto per avvilirlo. Lo avevano dato per finito tante volte e lui è sempre tornato.
Gli hanno fatto la guerra per 30 anni e poi ci hanno fatto i governi, gli accordi, i patti. D’Alema, Bersani, Letta, Renzi, Conte.
Conte, che nemmeno si è degnato di andare ai funerali.
A meno di 24 ore dalla morte di Silvio Berlusconi, le iene avevano già iniziato a infierire.
Hanno trovato da dire per i maxi schermi in piazza Duomo. Quelle televisioni giganti che invece si possono mettere per le manifestazioni a tinte arcobaleno. Come se la piazza non fosse già deturpata da orribili pubblicità e qualunque scenografia vi campeggi qualora ci sia un evento.
Hanno trovato da polemizzare per il funerale di Stato. Qualcuno ha dovuto dire loro che esiste una legge, la 36 dell’87, che stabilisce perché si fa un funerale di Stato a una personalità che è stata presidente del Consiglio quattro volte. Lui che addirittura ha visto due presidenti della Repubblica essere eletti per due cariche. Gliel’hanno dovuto spiegare perché quelli che l’hanno sempre visto come un intralcio per la scalata al potere non lo sapevano. Sono monchi. Monchi di diritto. Monchi di leggi. Monchi di senso etico. Monchi di un briciolo di umanità.
Come fai a distanza di 12 ore dalla morte di un uomo a pubblicare una prima pagina con il ritratto di lui e il titolo “La Repubblica del banana”.
Come fai a denigrare un uomo che non c’è più. È morto. È passato altrove. È andato da un’altra parte. Ha lasciato questa dimensione. Non può controbattere. Non può appellarsi. Non può difendersi. Non può nemmeno riderci sopra. Che vili gli uomini.
Come fai nella tua università, per un posto in prima pagina, a dire che tu le bandiere a mezz’asta non le metti. Montanari, dico a lei. Come.
Chissenefrega se lei non le vuole mettere, Berlusconi finirà nei libri di storia. Lei probabilmente nemmeno nelle guide per scegliere l’università.
Rosi Bindi ha detto che il lutto nazionale è inopportuno. Perché Berlusconi era divisivo. Ci si è aggiunto Crisanti, dicendo che Berlusconi non merita i funerali di Stato. Crisanti. Ma ve lo ricordate Crisanti?
Berlusconi non era divisivo. Berlusconi era trasversale, liberale, la sua umanità andava oltre l’ideologia. Era la nostra regina Elisabetta. Per quanto cambiavi argomento, potevi continuare a parlare solo di lui. Era televisione, politica, economia, finanza, giustizia, sport, calcio, edilizia, quotidiani, programmi. Ha saputo costruire strade che nessuno aveva mai percorso, ha saputo costruire case dove nessuno ci aveva mai provato, ha saputo innovare, rivoluzionare.
Era tutto. Visionario, innovatore, padre, cav, cavaliere, dottore, presidente, nonno, marito, compagno, leader. Era il suo sogno. Ha segnato l’inizio e la fine di un’epoca. L’Italia di oggi, di quest’oggi, di queste ore è un’altra Italia.
La si deve reinventare. La si deve far stare a galla, disgraziata ammaliata e attorniata da tre mari. Così affaccendata. Così distratta. Così insoddisfatta. L’Italia di prima non esiste più. È un’altra roba. Un’altra Storia.
I latini, più eleganti e più nobili di noi così rozzi e trozzaloni, dicevano “de mortuis nihil nisi bonum”, “dei morti niente si dica, se non il bene”.
Arrivederci Presidente, mi piace pensare che da lassù, a tutti i vili, lei stia facendo una gran bella
pernacchia.

sbetti

Il post ripreso anche da Nicola Porro

👉 https://www.nicolaporro.it/lo-dico-a-montanarico-berlusconi-da-lassu-vi-fa-una-pernacchia/

Berlusconi. Hanno fatto di tutto per avvilirlo. Ma lui è sempre tornato

Lo hanno attaccato. Combattuto. Detestato. Boicottato. Lo hanno avversato. Contrastato. Osteggiato. Oppugnato. Hanno fatto di tutto per avvilirlo. Lo avevano dato per finito tante volte e lui è sempre tornato.
Gli hanno fatto la guerra per 30 anni e poi ci hanno fatto i governi, gli accordi, i patti. D’Alema, Bersani, Letta, Renzi, Conte.
Conte, che nemmeno si è degnato di andare ai funerali.
A meno di 24 ore dalla morte di Silvio Berlusconi, le iene avevano già iniziato a infierire.
Hanno trovato da dire per i maxi schermi in piazza Duomo. Quelle televisioni giganti che invece si possono mettere per le manifestazioni a tinte arcobaleno. Come se la piazza non fosse già deturpata da orribili pubblicità e qualunque scenografia vi campeggi qualora ci sia un evento.
Hanno trovato da polemizzare per il funerale di Stato. Qualcuno ha dovuto dire loro che esiste una legge, la 36 dell’87, che stabilisce perché si fa un funerale di Stato a una personalità che è stata presidente del Consiglio quattro volte. Lui che addirittura ha visto due presidenti della Repubblica essere eletti per due cariche. Gliel’hanno dovuto spiegare perché quelli che l’hanno sempre visto come un intralcio per la scalata al potere non lo sapevano. Sono monchi. Monchi di diritto. Monchi di leggi. Monchi di senso etico. Monchi di un briciolo di umanità.
Come fai a distanza di 12 ore dalla morte di un uomo a pubblicare una prima pagina con il ritratto di lui e il titolo “La Repubblica del banana”.
Come fai a denigrare un uomo che non c’è più. È morto. È passato altrove. È andato da un’altra parte. Ha lasciato questa dimensione. Non può controbattere. Non può appellarsi. Non può difendersi. Non può nemmeno riderci sopra. Che vili gli uomini.
Come fai nella tua università, per un posto in prima pagina, a dire che tu le bandiere a mezz’asta non le metti. Montanari, dico a lei. Come.
Chissenefrega se lei non le vuole mettere, Berlusconi finirà nei libri di storia. Lei probabilmente nemmeno nelle guide per scegliere l’università.
Rosi Bindi ha detto che il lutto nazionale è inopportuno. Perché Berlusconi era divisivo. Ci si è aggiunto Crisanti, dicendo che Berlusconi non merita i funerali di Stato. Crisanti. Ma ve lo ricordate Crisanti?
Berlusconi non era divisivo. Berlusconi era trasversale, liberale, la sua umanità andava oltre l’ideologia. Era la nostra regina Elisabetta. Per quanto cambiavi argomento, potevi continuare a parlare solo di lui. Era televisione, politica, economia, finanza, giustizia, sport, calcio, edilizia, quotidiani, programmi. Ha saputo costruire strade che nessuno aveva mai percorso, ha saputo costruire case dove nessuno ci aveva mai provato, ha saputo innovare, rivoluzionare.
Era tutto. Visionario, innovatore, padre, cav, cavaliere, dottore, presidente, nonno, marito, compagno, leader. Era il suo sogno. Ha segnato l’inizio e la fine di un’epoca. L’Italia di oggi, di quest’oggi, di queste ore è un’altra Italia.
La si deve reinventare. La si deve far stare a galla, disgraziata ammaliata e attorniata da tre mari. Così affaccendata. Così distratta. Così insoddisfatta. L’Italia di prima non esiste più. È un’altra roba. Un’altra Storia.
I latini, più eleganti e più nobili di noi così rozzi e trozzaloni, dicevano “de mortuis nihil nisi bonum”, “dei morti niente si dica, se non il bene”.
Arrivederci Presidente, mi piace pensare che da lassù, a tutti i vili, lei stia facendo una gran bella
pernacchia.

sbetti