Basta tamponi a tutti. Non ha senso

Milano Farmacia Formaggia

Questa cosa dei tamponi a tutti ci sta sfuggendo di mano.
La settimana scorsa ero a Milano e davanti la farmacia Formaggia, in corso Buenos Aires, ci saranno state sì e no 500 persone in fila.
Tutta gente – a vederla sana – in coda per farsi bucare il naso. Fuori al freddo.
Che se non prendi il covid ti prendi la broncopolmonite diretto.
Ma questa gente doveva fare il tampone per andare a lavorare, per partecipare alle feste, perché si è trovato a pranzo col positivo, perché vive in casa con un contagiato, perché una buona fetta rientra tra quelle persone che invocano la guerra dei padri e dei nonni con i cannoni e le bombe, e rifiutano di farsi iniettare un farmaco che eviterebbe loro di finire al campo santo.
Costringendo gli altri che si sono vaccinati a vivere in clausura. Il 25 gennaio avanti di questo passo saremo tutti in quarantena.
Il fatto che dopo un anno abbiamo molti più contagi e molti meno morti (l’anno scorso il giorno di Santo Stefano per dire erano 10.407 casi e 261 morti, quest’anno 24.883 contagi e 81 morti) ecco questo significa, checché ne dicano i no vax, che il vaccino funziona.
Perché più ci si vaccina più la letalità del virus si abbassa.
Anche perché questa corsa ora forsennata a farci tamponare il nasino come se dovessimo andare ai grandi magazzini il giorno dell’apertura dei saldi, costringe milioni di italiani sani e vaccinati in quarantena. “Abbiamo oltre l’80 % della popolazione generale che è protetta – ha scritto Matteo Bassetti su Facebook l’altro giorno – non possiamo continuare a mettere in quarantena e in isolamento forzato decine di persone per ogni tampone positivo”. Perché ora funziona che se tuo figlio è in classe con un positivo. Ma tuo figlio è negativo. Devi comunque fare la quarantena fiduciaria perché non si sa mai, il virus. Il rischio è di trovarsi con gente che sta bene, non ha niente, isolata, col mondo che si ferma, l’economia che si paralizza, le bollette che lievitano e il Pil che si arresta. “Se continuiamo in questo modo – ha detto Bassetti – cioè a tamponarci tutti anche chi non ha sintomi o magari ha un raffreddore, cosa potrebbe accadere il 25 gennaio con magari 1,5 milioni di persone contagiate? Vorrebbe dire avere 10 milioni di persone ferme e in quarantena”.
Occhio che questo, come penserà qualche pirla, non è un assist per i no vax.
Anzi. È la riprova che i vaccinati si ammalano meno e contagiano poco. Fatevi sta puntura.
Al mondo c’è di peggio.

#sbetti

La presidenza del Consiglio dei ministri a Natale non ha niente da fare

Da Libero di oggi 29 dicembre 2021

Sarà perché si avvicina la fine dell’anno e si fa la lista dei buoni propositi, ma all’ufficio nazionale Antidiscriminazioni razziali della presidenza del Consiglio dei ministri (Unar), il 28 dicembre, non passa proprio niente. L’ufficio ha scritto una lettera al Consiglio comunale di Verona per chiedere la rimozione di una mozione del 27 aprile 1995. La numero 336. Roba di 26 anni fa.
Con tutte le questioni che sta affrontando questo sgangherato Paese. Mozione che non ha alcun carattere vincolante, non è una delibera, non è “dura lex sed lex”. È un atto politico che impegna, anzi impegnava, l’amministrazione in quel momento. La lettera, a firma del direttore Triantafillos Loukarelis, fa leva sul fatto che la mozione consiliare andrebbe a negare i diritti delle unioni civili ai gay. Ma era il 1995. Di unioni civili ancora non si parlava. Anzi non si conversava nemmeno così tanto di gay e mondo Lgbt. Una Verona dove la sinistra sostiene che il diverso fatichi a integrarsi. Il ritratto vorrebbe fornirlo Paolo Berizzi che, per Rizzoli, ha recentemente pubblicato “È gradita la camicia nera. Verona, la città laboratorio dell’estrema destra tra l’Italia e l’Europa”.
Tornando alla mozione “tuttora in vigore al comune di Verona”, si legge nella missiva, è in palese contrasto con la Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali ma anche con la legge Cirinnà, che ha introdotto nell’ordinamento italiano l’istituto delle unioni civili”. La mozione, in sostanza, impegnava “l’amministrazione comunale a non deliberare provvedimenti che tendano a parificare i diritti delle coppie omosessuali a quelli delle famiglie naturali costituite da un uomo e una donna”. “È inaccettabile che a quasi 30 anni di distanza il Consiglio comunale non abbia provveduto a rimuovere quella che è a tutti gli effetti una grave limitazione alla tutela delle unioni omosessuali”,!continua l’Unar. Nel 2018 i consiglieri comunali di sinistra, Federico Benini e Michele Bertucco, avevano presentato un ordine del giorno con cui chiedevano la revoca della mozione. “L’odg”, spiega Leonardo Ferrari, presidente del Consiglio comunale, “è stato messo in calendario più volte e mai discusso per questione di tempi. Prima si votano le delibere, poi il resto. Gli stessi proponenti hanno sostituito quell’odg con altri più urgenti. Il tema del 1995, poi come tutti sanno, è stato ampiamente superato dalle leggi nazionali”. Insomma questa mozione non è la Carta Fondamentale della Repubblica italiana. Lascia il tempo che trova. Ma è evidente che l’Unar di tempo ne ha tanto. Soprattutto da perdere.

#sbetti

“Papà faccio io”

Mestre Galleria Barcella dicembre 2021

“Papà faccio io”.
Il negozio sta al numero 13 lungo la Galleria Barcella di Mestre a ridosso di piazza Ferretto. È la Fioreria Florì Di Zancanaro Stefania. Mi fermo fuori perché mi serve una pianta. Dentro ci sta una ragazza. Non so decifrare quanti anni abbia. Mi dicono che durante la prima ondata, questa parola che scandisce i nostri lassi di tempo di adesso, questa fioreria consegnava i girasoli e le begonie in bici.
Il padre c’avrà all’incirca sessant’anni. O forse più. Ha il giubbotto pesante tutto coperto dalle fatiche del giorno.
Questa mattina aveva sistemato le piante fuori. Questa sera quando sono arrivata le stava portando dentro, al riparo dal freddo. Oggi c’è il gelo.
Non conosce estati o inverni. Sabati né domeniche. Natale. Vigilia. Pioggia. Vento. Afa.
Nebbia e tempesta.
La figlia abile. Capace. Ferrata. Navigata.
Non si perde in chiacchiere. Ha il volto di un ovale bellissimo dal nitore incarnato. I lineamenti sembrano quelli di una ragazza d’oltre mare. Non importa quale.
I lunghi capelli le scendono lungo le braccia. E le coprono quella giacca a vento a quadri rossa che sta sopra un’altra giubbotto. Perché qui fa freddo. Dentro. Fuori. Fuori. Dentro.
Le mani le muove alla svelta. Incarta e impacchetta regali come il direttore d’orchestra dirige la sua musica. Prende la carta, la apre, la impacca, ci mette dentro il vaso. Richiude. Avvolge. Prende il nastro. Con le mani crea rivoli di filo dorato. Li sgancia nell’aria. Li prende. Li riacciuffa. Li riacchiappa. Con la cucitrice li cuce assieme. Poi prende la forbice e li tira all’indietro fino a farli diventare riccioli d’oro. Riccioli di raso.
Ci mette sopra un fiocchetto e il pacco è fatto. “È un regalo vero?”. “Sì è un regalo”.
A vedere una ragazza così, che aiuta il padre in bottega che lavora alla svelta mi viene da pensare a quei giovani sul divano narcotizzati e stuprati dal reddito senza lavoro. Dal guadagno senza sacrificio.
“Prendo questa pianta”, ho detto.
“Papà faccio io”, lei ha risposto.

#sbetti

Malati invisibili

Micol Rossi

Il mio cammino ha incrociato quello di Micol Rossi due anni fa. Prima del covid.
Di lei mi colpì subito la sua grazia. La sua bellezza. La sua tenacia. La sua forza e la sua calma nel spiegarti le cose.
Micol Rossi, che tre giorni fa ha fatto 30 anni, è l’Angelo Guerriero. La Maria del Carnevale di Venezia 2019, colei che è scesa dal campanile di San Marco.
Da quando aveva 12 anni soffre di una malattia cronica all’intestino, la sindrome di Crohn, che le causa disagi nella vita di tutti i giorni, affettiva, lavorativa, relazionale e la costringe a passare giornate negli ospedali. A spese proprie.
Una malattia invalidante. Che non concede sconti. Non dà tregua. Sono quelle malattie invisibili dove la gente ti vede in un modo, ma tu dentro ti senti un un altro. Sono quelle malattie che si prendono il tuo corpo. La tua mente. La tua vita. Il tuo lavoro. Le tue relazioni sentimentali. Sono quelle invalidità che non vengono riconosciute. Perché non si vedono. Sono autoimmuni, croniche, “significa che le avremo per tutta la vita. Non esiste una cura al momento. Sono invisibili dall’esterno. Non si vede se la persona sta soffrendo”. Causano bullismo. Discriminazione. Emarginazione.
Da anni Micol combatte con questo morbo. Da anni si batte perché cambi qualcosa. Per trovare ascolto. Aveva scritto anche al presidente della Repubblica Sergio Mattarella il quale le ha fatto recapitare una lettera scritta da qualcun altro dove la ringrazia per “per averlo reso partecipe della TUA ESISTENZA”. Che tradotto vuol dire: “Tanti saluti”.
Ora Micol con altre persone ha dato vita a un’associazione. “Guerrieri Invisibili”.
Aiutano persone con malattie croniche invalidanti che vogliano unirsi a loro raccontandosi.
Lo scopo è sensibilizzare. Avete un aiuto. Un supporto psicologico. Un miglioramento del rapporto medico paziente. Un miglioramento delle condizioni economiche e lavorative.
Perché ricordo che una volta su Facebook una mia amica aveva scritto:
“Stanotte sono stata paralizzata dal dolore, indomabile, non riconducibile a qualcosa di concreto. Una notte insonne e frustrante, in seguito alla quale andare a lavorare sarebbe stato impossibile per chiunque. Si chiama FIBROMIALGIA e accompagna la vita di alcune persone che rimbalzano per anni da uno specialista all’altro, curando sintomi superficiali e senza mai poter arrivare a una rimozione delle cause. (…). È un attentato perenne alla realizzazione professionale e alla serenità relazionale. Ma anche alle finanze, perché espone a rischi di licenziamento e fa spendere un patrimonio in terapie. Sparisce e riappare in modo infido: basta un momento di stress o un cambiamento repentino di temperature. E la paura che tutto possa ricominciare, quando si è finalmente nel pieno di un momento di tregua, rende instabili e tormentati”.
Perché non è vero che se non si vede, non esiste.
Queste persone lo sanno che se non vedi.
Senti.

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Guerrieri Invisibili

Un ragazzo bianco è stato ucciso ma alla sinistra non interessa

Appare evidente ormai come la violenza dell’anno, quella che sarà ricordata nei discorsi di Capodanno, sarà un’altra.
Perché di altre violenze, fondamentalmente, non chiava una tega a nessuno. Gianluca Veneziani su Libero ne ha parlato ancora lunedì scorso.
Ebbene sì. La prova? Davide Giri è il ricercatore italiano di 30 anni, ammazzato a coltellate ad Harlem (New York), il 2 dicembre scorso, da un venticinquenne afroamericano.
Vincent Pinkney, questo il nome dell’assassino, con vari precedenti penali a carico – 11 arresti per rapine e aggressioni e nel 2015 una condanna a 4 anni di reclusione – lo ha trucidato perché bianco.
Davide Giri è stato il primo che gli capitava a tiro. E quindi ha preso e l’ha ammazzato. Fatale la coltellata all’addome.
Giri era originario di Alba e appparteneva a quella schiera di soggetti che della loro vita non voglio perdere neanche un minuto. Lui cervello in fuga dall’Italia. Una specializzazione a Shangai, in Ingegneria elettronica, poi la grande sfida degli Stati Uniti: candidato a un PhD alla Columbia University.
Ora mi immagino se fosse stato il contrario.
Ossia se ad ammazzare fosse stato un bianco. E se ad essere ammazzato fosse stato un nero.
Le Boldrini e company e tutti gli intellettuali di sinistra, e intellò, e radical chic e talebani del politicamente corretto, avrebbero quanto meno chiamato la Cia, l’FBI, l’esercito.
Avrebbero organizzato conferenze stampa travestiti da arcobaleno con le scritte “Ddl Zan e basta al razzismo”. “E per favore no! Non è possibile. Ancora tutto questo”. “Questi atti sono assolutamente da condannare”, avrebbero scritto social media manager in erba costretti a rispondere al telefono alle tre del mattino.
Per giorni avrebbero riempito i tristi social orientati a sinistra, urlando e gridando come forsennati che “Mio Dio aiuto! C’è un problema di razzismo. Aiuto no! Non si può! Per carità. Dobbiamo adottare le politiche dell’integrazione, dell’inclusione, della fratellanza sociale” e altre simili cagate dettate da quella fetta di popolazione che gira col Porsche del padre e va in giro a pisciare sulle vetrine dei negozi.
Per giorni si sarebbero tenute manifestazioni. Eventi. Lanterne lanciate in aria. Monologhi. Minuti di silenzio.
Il Fedez di turno avrebbe mulinato le sue storie su Instagram mandando al diavolo tutta quella fetta di politica che a parere suo alimenta l’odio. La violenza.
Le femministe sarebbero scese in piazza berciando. Urlando come oche giulive. I calciatori si sarebbero inginocchiati pre partita. Perché è morto un nero.
Invece siccome è morto un bianco.
Allora la morte di un bianco diventa quasi normale. Diventa una cosa di secondo ordine. Tale per cui se vai in certi posti (capirai Harlem) allora devi essere consapevole dei rischi che corri. Perché potrebbe esserci qualche squinternato che ti fa fuori per il tuo colore di pelle.
Un po’ come qui.
Quando lanciarono le uova addosso a una donna di colore. Poi si scoprì che questo era figlio del Pd.
Buon inizio Feste.

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Un uomo è morto ma non interessa a nessuno

Mentre il popolo del politicamente corretto si diverte a squittire e colorare con gli acquerelli i vari tipi di reato, domenica a Lorenzago di Cadore, il paese famoso per le vacanze di Karol Wojtyla, è morto un uomo.
Solo che siccome abbiamo a che fare con un pensionato, allora frega niente a nessuno.
Tanto meno a quelli molto attenti invece ai culi.
Allora questo vecchietto si chiamava Angelo Mainardi, aveva 82 anni, ex calzolaio, per anni gelatiere all’estero e come chiarirà l’autopsia è morto d’infarto.
Sabato notte i banditi gli sono entrati nella sua abitazione in via Riva, in questo paesino di 600 anime, dove un episodio del genere qui non si era nemmeno mai visto.
Era l’una e mezza di notte.
Angelo stava dormendo al piano terra. I ladri sono entrati urlando “fuori i soldi. Fuori i soldi”.
Ma lui vecchietto, pensionato. Abitante di montagna. Una vita passata a incatramare e forgiare scarpe e apparecchiare i gelati per gli altri, cosa volete che avesse.
I rapinatori erano in tre. Incappucciati. Lo hanno legato con una grossa corda da montagna e lì hanno cercato i soldi ovunque. L’anziano che aveva il borsello sopra il tavolo della cucina ha detto loro: “prendete. Prendete quello”.
E se ne sono andati con 200 euro. Duecento euro. Rubati a un uomo che ha lavorato una vita.
Angelo lì è rimasto paralizzato. Solo dopo quattro ore è riuscito a chiamare il fratello e chiedere aiuto. Quando i soccorritori sono arrivati i parametri del vecchietto erano perfetti. Così il giorno dopo i familiari gli hanno portato il pranzo.
Ma tempo due ore e Angelo muore.
Allora sono curiosa di sapere cosa diranno i sostenitori della politically correct.
Cosa diranno quelli che le nostre case e strade sono sicure. Suvvia. Cosa volete. La criminalità è sempre esistita. O quelli che “bene ci siano i criminali. Diamo lavoro agli agenti”.
Sono curiosa di sapere come si comporteranno i giudici.
Se una volta presi i malviventi, ammesso si riesca a prenderli, andranno a cercare ogni singolo elemento per dimostrare che, aperte virgolette “se non ci fosse stata la rapina magari Angelo sarebbe ancora vivo”.
E se come avviene per le vittime di reato, andranno a cercare qualsiasi ago nel pagliaio per dimostrare che in realtà se ti entrano in casa il colpevole sei tu, mica loro che o ti minacciano, o ti colpiscono, o ti fanno morire d’infarto.
Andate. Andate a dimostrare: “che no. Mio Dio. Per la teoria della casualità adeguata non possiamo ovviamente accertare, tecnicamente paradossalmente, che l’anziano se non ci fosse stata la rapina sarebbe ancora vivo”.
Ma nel frattempo mi raccomando. Continuate a discettare su Facebook.
Commentare col culo al caldo è un lusso che ultimamente anche gli stolti si possono permettere.

#sbetti

Ascoltate il vostro intuito. Lui sa tutto

Nasce tutto per caso. Un giorno di agosto.
Questa mattina ho “tenuto una lezione” nella scuola media di Castignano in provincia di Ascoli Piceno. Il sindaco per l’occasione ha preso 30 Libero.
Tutti i ragazzi con i giornali sotto mano. C’erano anche quelli collegati in videoconferenza.
Ma la cosa nasce ad agosto scorso quando il sindaco Fabio Polini mi dice: “Serenella mi piacerebbe tanto organizzare qualcosa per questi ragazzi. Li vedo così smarriti, così persi, così sperduti. Vorrei tanto farli confrontare con la realtà. Vorrei che si interessassero a qualcosa. Che si appassionassero a qualcosa. Questa pandemia poi, li ha smarriti ancora di più”.
Allora io gli dico che sì certo. Che possiamo assolutamente organizzare. Che è una bella cosa. Che d’inverno scendo e organizziamo sicuramente. Questa mattina si è tenuta la lezione. Due ore e mezza piene zeppe di domande. Racconti. Testimonianze. Ho cercato di raccontare loro com’è la vita del giornalista. Quando comincia la mattina. Quando va a letto la sera. Cosa fa durante il giorno. Quali sono le fonti. I caratteri. Cosa vuol dire scrivere un pezzo partendo dal dove. Come. Quando. Chi. Cosa. Perché. Ho detto loro cosa sono le battute. E ho raccontato di quanto sia bello questo mestiere.
Io non sono una di quelle che ti dirà “il giornalista non lo fare”. Ti dico che se ti capita, come è capitato a me, e se senti che è la tua strada, ti dico di continuare. Perché non sono nessuno per negare anche solo con l’immaginazione i sogni di qualcuno.
Ho raccontato di quanto sia bello. Di quanto sia a volte anche doloroso e brutto. Di quando non te lo scrolli di dosso. Perché quello che racconti ti segna. Ti forma. Te lo porti appresso. Ci vai a letto la notte. Ho raccontato di quando entri dentro il dolore degli altri e a volte non trovi le parole per farlo capire. Per farlo parlare. Ho parlato loro dell’importanza delle fonti. Della bellezza che ha questo mestiere: ti mette a contatto con gli altri, con le persone, i contatti, i collegamenti, gli amici, aerei, treni, viaggi, e poi magari ci scopri cose nuove.
E ci scopri storie. Da scrivere. Da raccontare. Da narrare. Così. Quando è stato il momento delle domande mi hanno sorpreso questi ragazzi.
Sì insomma in un paesino del centro Italia che conta 2 mila anime, ho trovato ragazzi così preparati, curiosi, attenti, provocatori, dinamici; no legnosi, no ferrigni, no macigni. Ma argille aperte a tutto. All’ascolto. Alla condivisione.
Mi ha colpito quel bambino che mi ha chiesto perché la mia collaborazione a La Nuova Venezia è durata così poco. L’aveva letto su internet. Curiosi questi ragazzi. Sgaggi. Con l’aiuto delle insegnanti, con un linguaggio accessibile glielo abbiamo spiegato.
Mi ha colpito il ragazzo che mi ha chiesto se ho mai avuto l’impeto di mollare tutto. Incredibile come i bambini siano cosi empatici. Così introspettivi. Ti leggono dentro che nemmeno te ne accorgi.
Mi ha colpito la ragazzina che mi ha chiesto quali caratteristiche deve avere una persona per fare questo lavoro: umile, dinamica, curiosa. Ma soprattutto sensibile. Il tatto. Il non avere diritto a entrare dentro le storie. Quando una storia la puoi raccontare, o la devi raccontare, devi solo ringraziare.
Mi ha colpito la bambina che mi ha chiesto quali strumenti uso per il mio lavoro. Brava. Pragmatica. Pratica.
Mi ha colpito il bambino che mi ha chiesto cosa ho provato la prima volta che sono andata nella Ex Jugoslavia. Gliel’ho raccontato. Mi sono aperta. Ci ho messo tutta me stessa.
Mi ha colpito anche il sindaco quando entrando a gamba tesa ha detto: “io la mattina non vado al bar a leggere il giornale, me lo vado a comprare, perché per me il giornale del mattino è come il pane. Lo devi sentire scricchiolare. Devi sentire le pagine che si staccano le une con le altre”.
Mi ha fatto rabbrividire. Non ci avevo mai pensato.
Poi alla fine di tutto. I saluti.
L’augurio di vederci presto. La preside Luigia Romagni mi ha detto: “La pandemia ha avuto una non piacevole influenza sui ragazzi, vanno aiutati a guardarsi dentro e a liberare le paure, forse noi adulti in questo momento non siamo in grado di aiutarli. Più che salire in cattedra ora è tempo di confronto, ascolto e condivisione di belle testimonianze di vita. Quindi grazie per la sua testimonianza, così intensa e forte umanamente”.
Ma sono io che li ringrazio. Poi. Poi ho detto loro: “non perdetelo mai. Non perdete mai il contatto. Il confronto. La voglia di stare insieme. E nella vita seguite il vostro intuito. Quello che sentite dentro. Quello sa tutto”.

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Che palle sta palpata. Sempre la solita minestra

Che palle però. Sempre la stessa minestra.
Io ricordo ancora quel faccia da genitale che in centro a Treviso mi palpò il culo. Certo direte voi. Adesso esplodono tutte. Tutte col culo palpato. Avevo 17 anni. Era maggio. Forse giugno. Pieno centro. Ero ferma a parlare con le mie amiche
quando a un certo punto passa un tizio che poggia la mano sul mio sedere e mi palpeggia. Mi spreme la chiappa destra come fosse un limone. Avevo pantaloni bianchi, belli, attillati. Maglia nera, larga, lunga come piaceva a me e Buffalo ai piedi.
Mi girai e il mio istinto mi disse di mandarlo a fanculo. Cosa che feci.
Lo fissai con disprezzo, schifata. Quasi come fosse un animale, un insetto da schiacciare. Stetti sulla soglia del male. Ero giovane. Per un giorno ebbi quel gusto dell’amarena marcia addosso. Quel salame rattrappito. Rancido. Odore di vomito. Ma era semplicemente un palpeggiamento. Nulla di grave, si sopravvive.
Le testa di minchia ci sono sempre state. I coglioni anche. I rozzi e i beceri pure.
Fortunatamente però mi capita spesso, anzi ogni giorno, di incrociare maschi e uomini nel mio lavoro e non mi pare che il mio sedere sia un ventaglio di spalmate sul culo.
Ma l’altra sera le donne si sono scatenate.
Alla notizia che Greta Beccaglia, giornalista della Tv Toscana è stata palpeggiata, apriti cielo. L’assist perfetto. Il tiro in porta che tanto non cambia il campionato.
Tutte le donne hanno iniziato a fare a gara a chi avesse ricevuto più palleggiamenti e palpeggiamenti nel posto di lavoro, pronte come sempre a strillare che la donna è un essere menomato. Inferiore. Con il sedere che sporge.
Il faccia da genitale che prima si è sputato su una mano e poi ha toccato il sedere della giornalista la dice lunga in effetti sul livello intellettuale e intellettivo ed emotivo che ha questa persona. Becero. Rozzo. Disumano. Da burino.
Ma la maggioranza delle donne che interviene come fossimo tutte merce da imbarco e da sbarco, non si può sentire.
Complice, scusate, a volte un atteggiamento troppo remissivo della donna che dinanzi a una palpata di culo, anziché tirare un gancio, sorride.
Pensare che in fondo non sia niente. Chiappa più. Chiappa meno.
Poche hanno il coraggio di prendere e andarsene.
Prima di fare la giornalista, nel mio continuo peregrinare di studio legale in studio legale, una volta capitai da un penalista che una mattina con la voce viscida mi disse: “ti si vedono le mutandine, che colore le hai? Rosse?”.
Mi alzai. Lo mandai a fareinculo.
E gli dissi che mi sarei cercata un altro studio dove poter lavorare. E non farmi guardare il colore delle mutande. Che poi quel giorno erano nere.
Il gesto del tifoso della Fiorentina è assolutamente da condannare.
Ma ho visto post e tweet assolutamente fuori luogo che parlano di violenza, femminicidi, assassini. Estremismi e slabbramenti pericolosi che rischiano di svilire chi di violenza soffre veramente. Perché tanto qui è semplice. Qui basta un tweet, l’hashtag giusto e ti ritrovi nel ciclone perfetto.
Il tipo in questione, che tiene pure famiglia, rischia una condanna per violenza sessuale. Che per una palpata, scusate, ma mi pare esagerata.
E questo non perché non sia solidale, ma perché le donne violentate esistono veramente.
E non mi sento rappresentata da questa parte che condanna una palpata e rimane senza fare niente.
Vorrei si parlasse di vita vera. Vorrei si parlassero dei problemi seri. Veri. Critici. Vorrei si parlasse di vita quotidiana. Che la politica intervenisse quando ci sono veramente dei problemi da risolvere. Non quattro tweet e penosi hashtag scritti e composti al telefono mentre stai prendendo un volo.
Vorrei si parlasse della paura delle donne di tornare a casa di notte da sole. Di prendere la metro quando non c’è nessuno. Della continua lotta che fanno per essere indipendenti economicamente, per non pesare sulle famiglie, per non dipendere sempre e comunque.
Vorrei si parlasse delle storie delle donne. Che si celebrassero le loro imprese. I loro prodotti.
Vorrei si parlasse della sicurezza nelle strade. Nelle stazioni. Di quanto sia complicato attraversare di notte l’ Italia e fermarsi al distributore in riserva, chiedendo all’uomo dell’Autogrill, se può guardarti mentre fai benzina – a me è successo veramente, una notte tornando da Trieste. Vorrei si parlasse delle donne maltrattate in casa, violentate dai parenti, segregate dai mariti. Vorrei si parlasse di come queste donne quando vai a denunciare si sentono non credute. Respinte.
Nessuno parla della giornalista aggredita perché stava girando un pezzo.
Ecco vorrei si parlasse di questo.
Non prendendo la palla al balzo con le palpate nel culo.

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