Lungo la rotta balcanica

Una continua emorragia di clandestini. Di migranti. Un flusso inarrestabile. Arrivano a frotte di cento, duecento persone al giorno. Scendono dai boschi. Spuntano dagli alberi. Si mettono in cammino, molti dal Pakistan, poi calano verso Trieste ed entrano illegalmente nel nostro Paese. Siamo al confine con la Slovenia e percorriamo un tratto di rotta che fanno i clandestini per giungere in Italia. É notte fonda. Risaliamo i sentieri battuti dai migranti. A terra spuntano calzetti, scarpe, borse, zaini. Qui sono appena passati. Ci sono rifiuti, documenti, caricabatterie. La Rotta Balcanica viene percorsa ogni giorno da un numero di clandestini che supera di gran lunga le cifre degli sbarchi sulle coste siciliane. Secondo i dati forniti da Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere europee, da gennaio a ottobre 2022, sono stati 128.438 gli attraversamenti illegali nell’Unione Europea, con un balzo del 168 per cento rispetto ai primi dieci mesi del 2021. Sembra impossibile che ci sia una porta dell’Italia dominata da una invasione totalmente incontrollata. Senza respingimenti. Lunedì mattina qui, la polizia di frontiera ne ha rintracciati 118. Una funzionaria che incrociamo alla sottosezione di Ferretti a Trieste ci guarda con aria affranta. “Ne sono arrivati anche oggi?”, chiediamo. “Sì, come ogni santissimo giorno”. Vediamo i migranti ammassati mentre aspettano. Qui vengono prese le impronte, viene fatto lo screening sanitario e poi si effettuano le varie pratiche. L’ “accoglienza” nei centri è di competenza delle prefetture. Ma di fatto questa, di cui le anime belle si riempiono la bocca, non c’è. Agli intellò non interessa nulla se i clandestini finiscono con il riempire i piazzali delle stazioni in un hub a cielo aperto, come avviene a Trieste. Qui ne incrociamo centinaia. Qualcuno è in partenza per Milano. Qualche altro per la Germania. Ma molti vogliono rimanere in Italia. “Italy is good, Italy is good”, ci dicono. Sanno solo due parole. “Asilo, asilo” e “International protection”. Al mattino alle sette, chi ha l’invito da parte della polizia di frontiera a presentarsi all’ufficio immigrazione, fa la fila davanti alla questura per regolarizzare la propria posizione, chiedendo asilo o protezione. La maggior parte però si presenta spontaneamente e rientra nella cerchia di quelli non rintracciati. E sono tanti. Fonti della Verità ci dicono che se ogni giorno ne pescano 200, in realtà sono almeno il doppio. La presentazione in questura avviene un mese dopo il rintraccio, il che vuol dire che abbiamo migliaia di persone che di fatto rimangono in Italia clandestinamente. E ne siamo consapevoli. La questura poi trasmette le richieste di asilo alla prefettura affinché la commissione vagli la posizione del clandestino. E così passano altri due tre mesi. Dati alla mano, forniti dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, nel 2021 ci sono state 53.609 richieste. Di queste il 58% è stato respinto. Questo 58% dovrebbe andarsene dall’Italia ma, ci rivelano sempre le nostre fonti, di fatto non viene espulso e rimane qui. Solo il 14% prende lo status di rifugiato. Un altro 14% ottiene la protezione sussidiaria e un altro 14% la speciale. Dal Pakistan, per dire, su 7920 richieste nel 2021, ci sono stati 5583 dinieghi. I principali Paesi di provenienza sono Pakistan, Bangladesh, Tunisia, anche Afghanistan. L’ Egitto invece è la nuova presenza. Fonti ben informate ci dicono che tra i disperati che ogni giorno fanno la tratta si è sparsa la voce che in Italia si faccia presto ad avere i permessi. Ma anche qui stessa manfrina. L’83 % delle richieste egiziane viene rigettato. I migranti fanno ricorso e chi è uscito dalla porta rientra dalla finestra. L’anno scorso sempre la polizia di frontiera di Trieste in tutto il mese di ottobre aveva rintracciato 491 immigrati. Quest’anno 1932. Senza contare quelli non “censiti”. Il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, l’altro giorno è tornato a chiedere le riammissioni in Slovenia, in virtù di quell’accordo bilaterale del 1996. “Sulla rotta Balcanica – ha detto – non siamo Paese di primo ingresso e quindi è ingestibile di fronte a questi numeri dare risposte a una situazione che non si sarebbe dovuta creare”. “La situazione è insostenibile – dice alla Verità Lorenzo Tamaro, segretario provinciale del Sap Trieste – questa situazione non può essere scaricata sulla polizia che oltretutto lavora in forte carenza di organico e logistica inadeguata. Non abbiamo neanche delle norme adeguate e incisive come lo sono state quelle sulle riammissioni in Slovenia”. Prendiamo la via del ritorno. Incontriamo un gruppo di migranti. “Italy is very good”, dicono “I want to stay here. I want to stay here (Io voglio stare qui. Io voglio stare qui)”. Si fa sera. Nei boschi spuntano resti di indumenti e oggetti in continuazione. I clandestini hanno ricominciato a a camminare. Tra poche ore scenderanno verso Trieste. L’emorragia è inarrestabile. 

Serenella Bettin 

Pezzo uscito sul quotidiano La Verità il 17 novembre 2022 👇

Il mio servizio per Controcorrente Mediaset lo potete rivedere qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/migranti-come-arrivano-dai-balcani_F311547501047C03

Riprese di Carlo Brotto e Simon Barletti.

Montaggio: Simon Barletti.

Doppiaggio: Simon Barletti

Qui è quando abbiamo dormito in auto aspettando che calasse il buio per trovare i clandestini 👇

Serenella Bettin e Fausto Biloslavo 👇

E questo invece è un servizio realizzato con l’inviato di guerra Fausto Biloslavo nell’estate 2019 per il Giornale 🗞️

🎥📸 #Reportage: al confine tra la Slovenia e la Croazia. In viaggio tra i trafficanti della rotta balcanica. Qui il triplo dei clandestini dei barconi. E vogliono tutti venire in Italia.

LEGGI IL PEZZO 👇
http://m.ilgiornale.it/news/cronache/scudo-anti-migranti-1752804.html

GUARDA IL VIDEO 👇
http://m.ilgiornale.it/video/cronache/scudo-sloveno-fermare-i-migranti-1750166.html

Appunti della Bettin 📲 👟 📝 👇

Quattro considerazioni sulla Rotta Balcanica che i talebani dell’accoglienza non apprezzeranno. Sono rientrata dalla Rotta e ho voluto lasciare che i pensieri defluissero via. Li ho lasciati scorrere come scorre l’acqua sul lavello sporco. Ero così talmente piena di visioni, di luci, di voci, di suoni, respiri, sbadigli, sospiri, di persone, di parole che ho voluto prendermi qualche ora per stare in silenzio e respirare. Ho lasciato che i pensieri scivolassero via per capire se fossi io a vedere tutto amplificato. Non lo è stato. Ho atteso il far della sera dormendo in auto. Il mio libro sull’immigrazione, karma vuole, si chiama proprio “Aspettando che arrivi sera”. La Rotta Balcanica è quella cosa che ti entra dentro e che vedi dal finestrino dell’auto quando stai per arrivare nel bosco e devi lasciare la macchina e proseguire a piedi. Sono suoni ovattati che immagini nella mente. Sono rumori sospetti, di notte, con le scarpe che scricchiolano sopra le foglie. Sono soffi di fogliame che cade. Voci nel buio. Luci in penombra che sembrano fiammelle che sputano fuoco sopra Trieste. Sono guardrail che ti passano accanto. Sono ombre. Quiete. Silenzi sospetti. Ma soprattutto sono passaggi. Da una parte all’altra. Dal Pakistan all’Iran. Dall’Iran alla Turchia. Dalla Turchia alla Bulgaria. Fino alla Serbia, alla Bosnia. Dalla Bosnia alla Croazia. Dalla Croazia alla Slovenia. E giù in Italia. Da questa porta aperta sul nostro Paese ogni giorno entrano illegalmente centinaia e centinaia di migranti. Il giorno che sono arrivata la polizia di frontiera ne aveva rintracciati 118. Erano tutti lì in fila per le pratiche. I documenti. Lo screening sanitari. Gli occhi spenti. Fuori dalla testa. I piedi martoriati dalle piaghe. Sembravano unguenti. Sanguinanti. Pieni di bolle. Pareva il miele che ribolliva dentro l’acqua. Carta vetrata. Cemento. Gesso. Pieni di terra. A una funzionaria a cui ho chiesto “Sono arrivati anche oggi?”, mi ha risposto: “Sì, come ogni santissimo giorno”. La polizia è affranta. Non ha mezzi. Risorse. Strutture. Danno loro un invito a presentarsi in questura. E questi la mattina alle sette fanno la fila. In piedi come i dannati li vedi mentre aspettano per chiedere accoglienza e protezione. Quale accoglienza. Quale protezione. Avuto il foglio, il prossimo passo è la commissione. Che deve vagliare la posizione di ognuno. Passano mesi. E chi esce dalla porta spesso, grazie ai ricorsi, rientra dalla finestra. In questo limbo creato ad arte “migranti” rimangono nel nostro Paese. Ingrossano le fila delle stazioni. Le vie. I quartieri. Le strade. Clandestinamente rimangono in Italia. Dati alla mano, il 58% delle richieste che la commissione riceve viene rigettato. Ma di fatto, mi dice una fonte ufficiale, questi dall’Italia non se ne vanno. Le espulsioni costano troppo. Rimangono qui. Senza casa. Né lavoro. Né niente. Perché alle anime belle, progressiste con il filo di seta e le sciarpette di Hermes, questo non interessa. Alle anime belle non interessa se questi una volta arrivati in Italia pernottano davanti la stazione, bivaccano sui giardinetti, sostano in mezzo alla strada, dormono sopra i carrelli della spesa del discount (visto io con i miei occhi). No, ai talebani dell’accoglienza interessa altro. Chi se ne frega se questi disgraziati si annidano nei parchi. Per i radical chic l’importante è che vengano in Italia, poi se sono ridotti allo sfascio in mezzo alla gente che per passare deve fare lo slalom tra sacchi a pelo e tende e coperte, non è un problema. Stanno lì. Aspettando che arrivi sera.

A proposito vi consiglio sempre il mio libro 📚

Che trovate qui 👇

“Non stancarti mai di trasmettere”

Vi propongo qui la recensione di BookRider. Una fantastica triade di tre giovani professionisti che recensisce libri. E lo fa con dovizia di particolari, con abbondanza di prove, con ricchezza di argomenti. Dopo averli letti i libri, pagina dopo pagina, parola dopo parola.

Potete anche seguirli su Instagram 👉 https://www.instagram.com/bookrider/

Qui alcuni passaggi della recensione del mio libro

Aspettando che arrivi sera è un libro che apre a mille riflessioni, e fa parte di quei reportage giornalistici che aiutano a mettere seriamente in discussione la maggior parte delle nostre conoscenze. Su ogni argomento c’è la tendenza a parteggiare per una linea di pensiero o l’altra; in pochi decidono di entrare nel vivo per capire che la realtà è ben più complessa di un titolo sensazionalistico o di un minimale comunicato ANSA”

“Serenella Bettin è una perla rara, una giornalista che non ha paura di sporcarsi le mani verificando e approfondendo ogni possibile anfratto delle realtà che esamina”

“Il testo è in forma diaristica, e seguiamo l’autrice nel suo lavoro: raccoglie testimonianze dirette, incrocia dati, esamina fonti e documenti, è sempre in movimento”.

“Scopriamo di giri loschi e poco chiari all’interno delle cooperative, dove le indagini sono sempre troppo lente”.

“Il caso di Conetta è al centro del reportage. Serenella Bettin riesce a trasmettere immagini come pochi”

“Ero arrivata a Conetta con il fotografo Lorenzo Porcile. […] Ricordo quei cancelli che si aprivano e si chiudevano come a scandire il tempo che lì dentro sembrava essersi fermato. E ricordo quel tonfo secco, ignobile, freddo, sotto quel sole cocente. E ricordo anche quel filo spinato che vibrava ogni qualvolta il cancello si chiudesse. Così come ricordo gli occhi di quegli immigrati, dentro a quel recinto, dove a noi era proibito entrare. Appena arrivati, ci erano venuti incontro. Poi siccome lì davanti non potevamo stare, allora noi eravamo andati sul retro e lì i profughi avevano iniziato a sfogarsi. A gettarci addosso tutte le loro frustrazioni e mancanze della prima linea di accoglienza italiana, di quella bieca e corrotta accoglienza, abbracciata dal filo spinato.”

“Leggendo le storie narrate dall’autrice, sono stato travolto da un senso di indignazione. Come lei stessa nel diciannovesimo capitolo, però, il giornalista deve fare proprio questo: denuncia, fa arrabbiare, indignare, riflettere. Dovrebbe far saltare il lettore dalla poltrona. Il lungo pezzo di cui sto parlando – che potrebbe essere un ottimo vademecum del perfetto giornalista –, termina con: “Non stancarti mai di trasmettere”. Missione riuscita”.

Ma per leggerla tutta 👉 https://bookrider.it/aspettando-che-arrivi-sera-serenella-bettin-recensione/

LETTERA A CHI PREDICA ACCOGLIENZA E NON SA NEMMENO COSA SIA

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Mi chiedo soltanto dove stiamo andando. Le notizie si accavallano, si inseguono, si mischiano, si rimescolano, si accoppiano, si scollano, si condividono, si incollano. Ma in tutto questo il senso qual è? Me lo sono sempre chiesta. Sempre. Ogni giorno bombardati da mille notizie, da mille fatti, da mille eventi, quando la tua vita diventa inseguire quella degli altri, quando ogni giorno fai da imbuto e lasci defluire le notizie che una sopra l’altra spingono tra di loro, quando i fatti si mettono in coda davanti ai cancelli e spingono, spingono, spingono, fino a che non li buttano giù, bé il perché lo fai diventa essenziale. Indispensabile. Senza capirlo, senza rendertene conto, farlo non avrebbe senso.
Allora accade che o ti fermi un giorno e sparisci. Assapori, fai mente locale, riordini idee o ti accade un fatto che ti cambia così talmente tanto da farti capire, cazzo, perché lo fai. Ecco.
Mai, mai, mai come in questi giorni ho capito perché lo facciamo. Quando sono stata nell’ex base militare di #Conetta la prima volta, esattamente un anno fa, ero più presa dalla voglia dello scoop, dall’immortalare quella situazione che nessuno avesse. Lì dove un anno fa erano ospitati circa 700 migranti. Ora saliti a oltre 1100 e fino a tre mesi fa erano 1500.
Ero più presa dal dire “tutti i giornalisti importanti vanno a Conetta, ci vado anch’io”. Quando poi ci sono tornata la seconda volta per la rissa, la rivolta, il sequestro degli operatori, mi è salita l’indignazione, la rabbia, il rivoltamento dello stomaco che vomita esecrazione. Ma anche lì il potere dello scoop.
Quando ci sono stata per la terza volta ho avuto paura. Migranti in mezzo alla strada, in mezzo alla nebbia e io sola alle tre del pomeriggio in mezzo a una via di cui non vedevi né l’inizio né la fine. Hanno cominciato a venirmi incontro e a urlarmi “ciao bella, ciao bella”, fino a che un’auto, la mia salvezza, ha imboccato la strada dov’ero finita io, ho fatto l’autostop, loro si sono fidati e mi hanno riaccompagnato alla macchina. Allora lì, lo scoop non c’entrava più, in me la paura è stata guarita dalla rabbia e dall’indignazione, dall’imprecazione con cui volevo che qualcuno cambiasse le cose. La paura è stata placata dalla rabbia e dalla condanna nel vedere un paese di 197 anime, travolto e invaso dai migranti alle tre del pomeriggio. Ma soprattutto la rabbia perché tu #donna non eri libera di camminare per le strade della tua città.
Ho lasciato decantare la cosa. Ma la mia rabbia cresceva.
Quando l’altro giorno sono tornata a Conetta, sono entrata in base, dentro, dentro i bagni, dentro le stanze, dentro le “camere”, dentro la cucina, dentro la sala pranzo e allora ho capito perché lo facciamo. Perché ora, non conta la firma. Sì certo, conta, conterà sempre, siamo giornalisti e di certo quella volta non hanno lesinato sull’ego. Ma oggi un collega mi ha chiesto “ma chi siamo noi? Siamo così talmente importanti?”. Bé sì. Siamo dei #messaggeri. Dei servi. Dei servi delle notizie. Facciamo un servizio. Ma il nostro lavoro non è per noi, è per gli altri. Allora importante è il messaggio che diamo, quello che trasmettiamo, quello che sporcandoci ogni giorno in mezzo alla strada, in mezzo alla gente siamo in grado di riportare e far capire. Questo è importante. Conetta mi ha dato la netta consapevolezza che il nostro lavoro, quello che ci fa alzare alle quattro del mattino o quello che all’una di notte ti fa rispondere al telefono, è importante. Che il nostro lavoro ha un senso solo se lo si fa con la convinzione di poter far cambiare le cose.
Ecco a cosa serve il nostro lavoro. A cambiare, a far cambiare. A denunciare. A indignarsi e far indignare. Per me è stato Conetta, per altri sarà stato altro, ma chi entra in quel campo base anche solo per quattro ore ne esce cambiato. Sapere che nel 2020 al di là della strada che collega le province di Padova e Venezia si erge una struttura, dove le auto di chi ci lavora luccicano sotto il sole, dove le tendopoli immerse di puzza e sudore si stagliano nell’enorme distesa di campi, urla allo scandalo. Perché è un ghetto. Un vero e proprio ghetto. Un ghetto che hanno legalizzato e che da due anni promettono di chiudere. Invito tutti i politici, i parlamentari, i preti, i parroci ad andare a fare un giro a Conetta, ma entrarci dentro, sporcarsi le mani, i piedi, il sedere, metterci la faccia e a cercare di capire come sia possibile che in un paese che si dichiara civile ci sia una accozzaglia, un mucchio, un ammasso di persone ammucchiate dentro lo stesso recinto.
Anche quei sindaci che l’altro giorno hanno sostenuto #Minniti li invito ad andare dentro la base militare di Conetta e capire se è sufficiente che Minniti dall’alto del palco dica: “stop ai flussi, svuotiamo le basi”.
Perché intanto la risposta è stata che altri migranti sono arrivati. E ancora ne arriveranno. Allora se chi predica l’accoglienza intende vendere accoglienza per isterilimento di vite, se intende accogliere delle persone e metterle in un recinto, forse dell’accoglienza non ha capito niente.
Ma forse non c’è nemmeno molto da capire, dato che se si può accogliere lo si fa, altrimenti no. Minniti ha promesso soldi ai comuni che non faranno i capricci, perché il business quello che entra nelle tasche, quello l’hanno capito benissimo.
#adessobasta #meritiamolestinzione #conetta #immigrazione #immigrati#sbetti

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Conetta: tra nebbia e migranti 


Io li ho visti. Gli occhi di quei migranti. 
Persi. Perduti. Smarriti. Alcuni confusi. Disorientati. Turbati. 

Tristi. 

Li ho visti gli occhi di chi non sa cosa fare e di chi dimentica perfino il proprio nome. 

Ma ho visto anche quelli pieni di odio. Di ribellione. Di ingratitudine. Colmi di quella voglia che attira vendetta. 

Alcuni ti guardano come fossi un insetto da schiacciare. 

Altri ti deridono, ti prendono in giro. 

Ti dicono “ciao bella” mentre cammini per strada. Niente di diverso dai rozzi camionisti di tutti i giorni, che suonano il loro becero clacson alla vista di un essere umano che abbia il volto di donna. 

Ma quei migranti, con le infradito ai piedi quando la temperatura scende a meno cinque, con quei capelli a forma di mucca pronti a deriderti. 

Con quegli occhi neri pieni di rancore che vogliono, che pretendono, che ringhiano, che ragliano. 

“Noi non ci fermeremo – hanno gridato – noi non ci fermeremo”. 

E poi tutti in coro: “senza paura, senza paura”. 

Gli immigrati del campo di accoglienza di #Conetta, sabato hanno manifestato. Per cento profughi sono stati blindati due comuni. Ristoranti, negozi e bar chiusi. Hanno riaperto alle 16.35 di un pomeriggio d’inverno quando lì fuori è già nebbia e buio pesto. 

Gli immigrati pretendono cose che lo Stato non è in grado di garantire nemmeno agli italiani. 

Vogliono il permesso di soggiorno per tutti, i documenti per tutti, il lavoro per tutti, una casa al caldo, le medicine, le sigarette, le ricariche telefoniche e pure il telefonino. 

Se c’è il Wi-Fi meglio. 

Se non c’è, la soluzione è posizionarsi davanti al bar del paese con connessione free e sostare finché arriva sera.

Così i bar, ora, hanno tolto pure quella e addio Wi-Fi. 

Ma qui c’ha da fare chi ha permesso e fornito tutto ciò. Ora Minniti parla di voler dare un lavoro a questi migranti. Quale? Come? In che modo? Faremo fare anche a loro corsi di formazione? Tirocini e i tanto amati stage che tanto piacciono ai giovani? 

O creeremo veramente dei posti di lavoro. 

Perché l’accoglienza che abbiamo dato e assicurato finora a queste persone è il ritratto della mentalità italiana. 

“Stai qui buono. A te ci pensa mammà”. 

E così il Governo fa da balia agli immigrati. 

I prefetti si improvvisano tour operator. 

I ministri fanno selezione del personale. 

E noi, circondati. 

Quando ci dicono che anche i nostri nonni sono stati migranti, dovrebbero avere rispetto. Un rispetto spietato, per i nostri avi, per i nostri padri, per i nostri nonni, per i nostri bisnonni. 

Perché alcuni di loro hanno deciso di ripartire dove c’era la guerra e a sentire i loro racconti, vi posso assicurare che si sono fatti il culo quadrato per ricostruire tutto, spaccandosi le ossa, per spaccare pietre da usare come cuscini. 

Si sono ingegnati, si sono cercati un nuovo lavoro, e dove il lavoro non c’era se lo sono inventato. 

Quelli che dall’Italia se ne sono andati all’estero, si sono rimboccati le maniche, si sono dati da fare. Si sono affogati nel lavoro. Non sono stati in una sala d’attesa, come corpi vaganti, migranti e naviganti nella nebbia. 

Quelli che in passato hanno cercato lavoro altrove, l’hanno trovato davvero, senza pretendere che lo Stato lo trovasse per loro. Ma questa filosofia sta scomparendo. 

E lo Stato, il lavoro non lo trova nemmeno a noi italiani. 

Lo dovrebbe tutelare però, garantire. 

I rappresentanti dei migranti vogliono doppio. 

Vogliono che lo Stato glielo trovi e vogliono pure che glielo assicuri. 

Nel frattempo stanno lì chiusi nel centro aspettando che la terra giri dall’altra parte e incroci la luna. 

È il sistema che è malsano. L’aver accolto tutti e averli ingannati che qui c’era la fortuna. 

L’accoglienza fatta dalle cooperative pronte a lucrarci. L’accoglienza intesa come dolce far niente. Pensata come garanzia, come aspettativa, come attesa. 

Ma al di là di questo, io credo ci voglia coraggio. 

Ci vuole coraggio a manifestare e pretendere diritti per il solo fatto di essere qui. Ci vuole coraggio a rimanere seduti durante il giorno e pretendere che lo Stato passi i documenti, sapendo che lì fuori, proprio lì fuori da quel campo base, dove la gente d’estate taglia l’erba e tu con l’iPhone rimani a guardare, è pieno di italiani che lavorano e che quando il lavoro l’hanno perso si sono ammazzati. 

Da umana però, non posso non riconoscere come sia umanamente impossibile, e ribadisco impossibile, resistere in un campo base come quello di Conetta, ammassati per mesi come polli in attesa del timbro. 

Ma ci vuole coraggio anche per restare a guardare. 

Perché, la follia ora è che anche i migranti si sono accorti di come questa accoglienza non funzioni. 

E ci vuole molto più coraggio a restare zitti che a tentare di urlare.

#buonanottesbetti

#venezia #conetta #immigrati 

I veneziani, i sardi e i profughi

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Stigliano, Venezia, 26 novembre 2016

Sono le 22 e 30 di una tiepida sera d’autunno. Fa caldo fuori. Un caldo atipico anomalo. Inconsueto.
Entro in un locale per trovarmi con degli amici. La stanchezza di venerdì sera si fa sentire ma per un saluto e una tequila in compagnia c’è sempre posto. Finché aspetto i miei amici di ritorno da una cena (io non ci sono potuta andare per i miei normali orari di lavoro) entra un gruppo di ragazzi. Giovani. Sardi e comunque del Sud. È un gruppo che avevo conosciuto ancora qualche mese fa. E io, sarà perché parlo anche con Satana, sarà per la mia stramaledetta curiosità, fatto sta che avevamo scambiato qualche parola. Dopo qualche sera li incontrai di nuovo. Allora ci sediamo fuori dal locale, una sigaretta, due, tre e facciamo una lunga chiacchierata. Un ragazzo sardo, a cui se ne sono aggiunti altri poi, uno romano e uno napoletano.

 
Mi raccontano che nella loro regione non c’è lavoro, che non si sta bene. Che non è come qui al Nord che c’è voglia di lavorare.
Il ragazzo di Roma mi dice che si è messo in cammino dall’oggi al domani ed è venuto qui. Ha cominciato a bussare in tutte le aziende, ad andare a piedi in ognuna perché non aveva nemmeno il computer per mandare il curriculum, alla fine una l’ha preso. Uno dei ragazzi sardi mi dice che all’inizio qui lavorava come aiutante di una fabbrica che montava e smontava mobili. Così sbarcava il lunario. Adesso ha trovato posto in un’azienda da mattina a sera, a tempo determinato.
Il ragazzo napoletano è quasi rassegnato. Sa che se vuole lavorare deve restare qui. Giù è impossibile. Troppe infiltrazioni mafiose. Il ragazzo sardo ci racconta che giù di 300 offerte di lavoro, tre sono serie. Le altre fasulle. Nessuno paga. Nessuno risponde.

 

Tutti e tre sentono la mancanza della famiglia. Sì, ok sono spavaldi, hanno dai 23 ai 25 anni ma la nostalgia di casa, il vento, il mare del sud, qui non ci sono. Né ci saranno mai.
Ieri sera questi ragazzi li ho reincontrati. L’azienda li aveva mandati in trasferta e adesso sono tornati. Sono sempre all’erta, si danno da fare, cercano un posto di lavoro migliore. Ma si spaccano la schiena.
Nel Veneto ci sono arrivati, senza sapere dove andare. Senza nessuno che li accogliesse, senza nessuno che desse loro, per la prima sera, un misero tozzo di pane.
Le serate se la godono tra di loro.
Una birra, quattro risate e forse per Natale torneranno dalle loro famiglie.

 
Pochi chilometri più a sud invece ci sta un paese. Questo paese si chiama Stigliano.
È un mercoledì pomeriggio. Ore 15.45
Davanti la chiesa principale si sta svolgendo un funerale. Una madre di famiglia. Nel centro del paese le attività vanno avanti: il fruttivendolo che scarica la frutta, il negoziante che affetta un etto di prosciutto (non di più perché bisogna risparmiare), il macellaio che carica e scarica enormi container di carne, il fornaio che si prepara per la notte, la casalinga che stende i panni, il giardiniere dell’asilo che taglia l’erba, i nonni che accompagnano a catechismo il nipote e mamme e papà che corrono, fanno appena in tempo a prendere il figlio a scuole e ripartono per un altro pomeriggio di lavoro.
Poi poco più in là…

 
La vista sembra quasi incredula. Ci stanno loro. Ragazzi di colore, arrivati qui da qualche parte del mondo per essere accolti. Aiutati. E così ci sta quello che ascolta l’iPod, quello che chatta con lo smartphone, quello che ti sorride, quello che ci prova con le ragazzine, quello che mendica qualche spicciolo per acquistare sempre quel cazzo di misero di tozzo di pane e quello che sta sdraiato sulla panchina ad aspettare che faccia sera. Poi, prima che faccia buio si incamminano verso la loro nuova casa: una struttura privata nel rione di Tre Ponti che ha 100 abitanti.
Da lì entreranno nelle loro stanze, si metteranno nel letto, pancia in su, musica, qualcuno cucinerà per loro e “giù ragazzi che è pronto in tavola”.
Il giorno dopo la storia si ripeterà.
Ma intanto le mamme, i papà e i nonni di quei bambini sballottati a destra e sinistra avranno fatto in tempo a fare lavatrici, stendere i panni, pulire la casa, spazzare il cortile, stirare, cucinare, pagare le bollette, controllare i compiti per casa dei bimbi, preparare lo zaino, innaffiare i fiori, litigare con i vicini e dare da mangiare al pesce.

 

E i ragazzi?
Chi? Quelli sardi? Bè loro.
Loro a letto a mezzanotte. Domani alle 7 si ricomincia.
#buonanottesbetti