Lungo la rotta balcanica

Una continua emorragia di clandestini. Di migranti. Un flusso inarrestabile. Arrivano a frotte di cento, duecento persone al giorno. Scendono dai boschi. Spuntano dagli alberi. Si mettono in cammino, molti dal Pakistan, poi calano verso Trieste ed entrano illegalmente nel nostro Paese. Siamo al confine con la Slovenia e percorriamo un tratto di rotta che fanno i clandestini per giungere in Italia. É notte fonda. Risaliamo i sentieri battuti dai migranti. A terra spuntano calzetti, scarpe, borse, zaini. Qui sono appena passati. Ci sono rifiuti, documenti, caricabatterie. La Rotta Balcanica viene percorsa ogni giorno da un numero di clandestini che supera di gran lunga le cifre degli sbarchi sulle coste siciliane. Secondo i dati forniti da Frontex, l’agenzia per il controllo delle frontiere europee, da gennaio a ottobre 2022, sono stati 128.438 gli attraversamenti illegali nell’Unione Europea, con un balzo del 168 per cento rispetto ai primi dieci mesi del 2021. Sembra impossibile che ci sia una porta dell’Italia dominata da una invasione totalmente incontrollata. Senza respingimenti. Lunedì mattina qui, la polizia di frontiera ne ha rintracciati 118. Una funzionaria che incrociamo alla sottosezione di Ferretti a Trieste ci guarda con aria affranta. “Ne sono arrivati anche oggi?”, chiediamo. “Sì, come ogni santissimo giorno”. Vediamo i migranti ammassati mentre aspettano. Qui vengono prese le impronte, viene fatto lo screening sanitario e poi si effettuano le varie pratiche. L’ “accoglienza” nei centri è di competenza delle prefetture. Ma di fatto questa, di cui le anime belle si riempiono la bocca, non c’è. Agli intellò non interessa nulla se i clandestini finiscono con il riempire i piazzali delle stazioni in un hub a cielo aperto, come avviene a Trieste. Qui ne incrociamo centinaia. Qualcuno è in partenza per Milano. Qualche altro per la Germania. Ma molti vogliono rimanere in Italia. “Italy is good, Italy is good”, ci dicono. Sanno solo due parole. “Asilo, asilo” e “International protection”. Al mattino alle sette, chi ha l’invito da parte della polizia di frontiera a presentarsi all’ufficio immigrazione, fa la fila davanti alla questura per regolarizzare la propria posizione, chiedendo asilo o protezione. La maggior parte però si presenta spontaneamente e rientra nella cerchia di quelli non rintracciati. E sono tanti. Fonti della Verità ci dicono che se ogni giorno ne pescano 200, in realtà sono almeno il doppio. La presentazione in questura avviene un mese dopo il rintraccio, il che vuol dire che abbiamo migliaia di persone che di fatto rimangono in Italia clandestinamente. E ne siamo consapevoli. La questura poi trasmette le richieste di asilo alla prefettura affinché la commissione vagli la posizione del clandestino. E così passano altri due tre mesi. Dati alla mano, forniti dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, nel 2021 ci sono state 53.609 richieste. Di queste il 58% è stato respinto. Questo 58% dovrebbe andarsene dall’Italia ma, ci rivelano sempre le nostre fonti, di fatto non viene espulso e rimane qui. Solo il 14% prende lo status di rifugiato. Un altro 14% ottiene la protezione sussidiaria e un altro 14% la speciale. Dal Pakistan, per dire, su 7920 richieste nel 2021, ci sono stati 5583 dinieghi. I principali Paesi di provenienza sono Pakistan, Bangladesh, Tunisia, anche Afghanistan. L’ Egitto invece è la nuova presenza. Fonti ben informate ci dicono che tra i disperati che ogni giorno fanno la tratta si è sparsa la voce che in Italia si faccia presto ad avere i permessi. Ma anche qui stessa manfrina. L’83 % delle richieste egiziane viene rigettato. I migranti fanno ricorso e chi è uscito dalla porta rientra dalla finestra. L’anno scorso sempre la polizia di frontiera di Trieste in tutto il mese di ottobre aveva rintracciato 491 immigrati. Quest’anno 1932. Senza contare quelli non “censiti”. Il presidente della Regione Friuli Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, l’altro giorno è tornato a chiedere le riammissioni in Slovenia, in virtù di quell’accordo bilaterale del 1996. “Sulla rotta Balcanica – ha detto – non siamo Paese di primo ingresso e quindi è ingestibile di fronte a questi numeri dare risposte a una situazione che non si sarebbe dovuta creare”. “La situazione è insostenibile – dice alla Verità Lorenzo Tamaro, segretario provinciale del Sap Trieste – questa situazione non può essere scaricata sulla polizia che oltretutto lavora in forte carenza di organico e logistica inadeguata. Non abbiamo neanche delle norme adeguate e incisive come lo sono state quelle sulle riammissioni in Slovenia”. Prendiamo la via del ritorno. Incontriamo un gruppo di migranti. “Italy is very good”, dicono “I want to stay here. I want to stay here (Io voglio stare qui. Io voglio stare qui)”. Si fa sera. Nei boschi spuntano resti di indumenti e oggetti in continuazione. I clandestini hanno ricominciato a a camminare. Tra poche ore scenderanno verso Trieste. L’emorragia è inarrestabile. 

Serenella Bettin 

Pezzo uscito sul quotidiano La Verità il 17 novembre 2022 👇

Il mio servizio per Controcorrente Mediaset lo potete rivedere qui 👇

https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/controcorrente/migranti-come-arrivano-dai-balcani_F311547501047C03

Riprese di Carlo Brotto e Simon Barletti.

Montaggio: Simon Barletti.

Doppiaggio: Simon Barletti

Qui è quando abbiamo dormito in auto aspettando che calasse il buio per trovare i clandestini 👇

Serenella Bettin e Fausto Biloslavo 👇

E questo invece è un servizio realizzato con l’inviato di guerra Fausto Biloslavo nell’estate 2019 per il Giornale 🗞️

🎥📸 #Reportage: al confine tra la Slovenia e la Croazia. In viaggio tra i trafficanti della rotta balcanica. Qui il triplo dei clandestini dei barconi. E vogliono tutti venire in Italia.

LEGGI IL PEZZO 👇
http://m.ilgiornale.it/news/cronache/scudo-anti-migranti-1752804.html

GUARDA IL VIDEO 👇
http://m.ilgiornale.it/video/cronache/scudo-sloveno-fermare-i-migranti-1750166.html

Appunti della Bettin 📲 👟 📝 👇

Quattro considerazioni sulla Rotta Balcanica che i talebani dell’accoglienza non apprezzeranno. Sono rientrata dalla Rotta e ho voluto lasciare che i pensieri defluissero via. Li ho lasciati scorrere come scorre l’acqua sul lavello sporco. Ero così talmente piena di visioni, di luci, di voci, di suoni, respiri, sbadigli, sospiri, di persone, di parole che ho voluto prendermi qualche ora per stare in silenzio e respirare. Ho lasciato che i pensieri scivolassero via per capire se fossi io a vedere tutto amplificato. Non lo è stato. Ho atteso il far della sera dormendo in auto. Il mio libro sull’immigrazione, karma vuole, si chiama proprio “Aspettando che arrivi sera”. La Rotta Balcanica è quella cosa che ti entra dentro e che vedi dal finestrino dell’auto quando stai per arrivare nel bosco e devi lasciare la macchina e proseguire a piedi. Sono suoni ovattati che immagini nella mente. Sono rumori sospetti, di notte, con le scarpe che scricchiolano sopra le foglie. Sono soffi di fogliame che cade. Voci nel buio. Luci in penombra che sembrano fiammelle che sputano fuoco sopra Trieste. Sono guardrail che ti passano accanto. Sono ombre. Quiete. Silenzi sospetti. Ma soprattutto sono passaggi. Da una parte all’altra. Dal Pakistan all’Iran. Dall’Iran alla Turchia. Dalla Turchia alla Bulgaria. Fino alla Serbia, alla Bosnia. Dalla Bosnia alla Croazia. Dalla Croazia alla Slovenia. E giù in Italia. Da questa porta aperta sul nostro Paese ogni giorno entrano illegalmente centinaia e centinaia di migranti. Il giorno che sono arrivata la polizia di frontiera ne aveva rintracciati 118. Erano tutti lì in fila per le pratiche. I documenti. Lo screening sanitari. Gli occhi spenti. Fuori dalla testa. I piedi martoriati dalle piaghe. Sembravano unguenti. Sanguinanti. Pieni di bolle. Pareva il miele che ribolliva dentro l’acqua. Carta vetrata. Cemento. Gesso. Pieni di terra. A una funzionaria a cui ho chiesto “Sono arrivati anche oggi?”, mi ha risposto: “Sì, come ogni santissimo giorno”. La polizia è affranta. Non ha mezzi. Risorse. Strutture. Danno loro un invito a presentarsi in questura. E questi la mattina alle sette fanno la fila. In piedi come i dannati li vedi mentre aspettano per chiedere accoglienza e protezione. Quale accoglienza. Quale protezione. Avuto il foglio, il prossimo passo è la commissione. Che deve vagliare la posizione di ognuno. Passano mesi. E chi esce dalla porta spesso, grazie ai ricorsi, rientra dalla finestra. In questo limbo creato ad arte “migranti” rimangono nel nostro Paese. Ingrossano le fila delle stazioni. Le vie. I quartieri. Le strade. Clandestinamente rimangono in Italia. Dati alla mano, il 58% delle richieste che la commissione riceve viene rigettato. Ma di fatto, mi dice una fonte ufficiale, questi dall’Italia non se ne vanno. Le espulsioni costano troppo. Rimangono qui. Senza casa. Né lavoro. Né niente. Perché alle anime belle, progressiste con il filo di seta e le sciarpette di Hermes, questo non interessa. Alle anime belle non interessa se questi una volta arrivati in Italia pernottano davanti la stazione, bivaccano sui giardinetti, sostano in mezzo alla strada, dormono sopra i carrelli della spesa del discount (visto io con i miei occhi). No, ai talebani dell’accoglienza interessa altro. Chi se ne frega se questi disgraziati si annidano nei parchi. Per i radical chic l’importante è che vengano in Italia, poi se sono ridotti allo sfascio in mezzo alla gente che per passare deve fare lo slalom tra sacchi a pelo e tende e coperte, non è un problema. Stanno lì. Aspettando che arrivi sera.

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In Kosovo la guerra non è mai finita

Sono atterrata a Pristina una sera di fine settembre di qualche anno fa. Era prima. Prima del covid.
Quando atterrai all’aeroporto e sentii due persone parlare in napoletano subito mi ci aggrappai. Scoprii dopo che erano due militari nella stessa base dove alloggiavo.
Un sogno il Kosovo che avevo fin da piccola. Quando guardavo Carmen Lasorella in televisione e quando scoppiò la guerra continuavo a ripetere: “Pristina, Pristina, Pristina”.
Soffrivo tremandamente per via della guerra, mi chiedevo se i bambini come me, quelli al di là del fronte, avessero da mangiare e da bere.
Un fazzoletto, il Kosovo, grande quanto l’Abruzzo. Dove ci convivono sei etnie differenti: albanesi, serbi, turchi, rom, bosniaci e gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo meridionale e di religione musulmana originario di Gora, a sud di Prizren. La bandiera del Kosovo, quel lenzuolo blu, infatti ha sei stelle: ognuna delle quali corrisponde alle sei etnie.
Quando sono arrivata avevo subito capito che fosse una terra particolare. Una tela piena di buchi, di ombre, di simboli e segnali, che rendono difficile e quasi utopica la parola “pace”.
La guerra civile qui non è mai finita. E il fermo immagine che ho nella testa sono quei cimiteri pieni di tombe che spuntano lungo le strade quando ti sposti da una città all’altra.
Qui non ci sono sfumature di grigio. Ogni etnia ha la sua truce e distinta tonalità. In alcune zone la guerra pare sia finita ieri e invece è finita vent’anni fa. Ancora ci sono le case completamente sventrate, bruciate; ci sono zone dove i bambini cucinano i peperoni per strada, o enormi distese di verde cenere dove la furia dell’uomo e delle bombe ha lasciato la terra incolta e arida. Non ci cresce più niente. Nemmeno la gramigna.
Una popolazione che è un caleidoscopio di fiammelle colorate che esplodono tutte. La tensione nell’aria la senti benissimo. La percepisci. La agganci. La fai tua. Ci convivi giorno e notte.
La apprendi quando capisci che per pronunciare Pejë, città del Kosovo occidentale, devi cambiare accento a seconda se hai a che fare con un albanese o con un serbo.
Una regione martoriata, squarciata, fatta a brandelli.
Sono figli della stessa terra e ancora si fanno la guerra. Quando a Sarajevo intervistai un ragazzo bosniaco gli chiesi: Perché tutto questo odio ancora? “Troppo male è stato fatto”, mi rispose.

sbetti

📸 Pristina settembre 2017

È bella Belgrado. Bellissima

Belgrado

È bella #Belgrado. È Bellissima.
Belgrado è un acquerello di colori, un intrigo di sapori, un groviglio di foglie colorate.
È un tripudio di scoiattoli che saltano sul prato e si arrampicano sugli alberi. Un intreccio di vecchiette che vendono lenzuola ricamate lungo le strade. Belgrado è un incrocio di cani randagi. C’ha ancora negli occhi il sapore della guerra. Lo vedi. Lo senti. Lo annusi. Lo percepisci. Lo vedi dai vestiti sgualciti. Dalle labbra secche. Dagli occhi impavidi.
A Belgrado c’è la vecchietta che dà da mangiare ai piccioni. C’è il pianista che suona in mezzo alla gente, ci sono i ragazzi che giocano a palla e i vecchietti che si sfidano a scacchi.
La mattina si sveglia con l’odore dei cappuccini, dei tramezzini e dei fornelli accesi.
Passi tra le scale di appartamenti ingrigiti e trovi le donne che fumano sigarette e si preparano al turno delle pulizie. Una sigaretta con loro. E fuori il chiarore del sole che ha sostituito quello delle bombe.
Ci stanno dei quartieri a Belgrado che nemmeno te li immagini. E stanno nei cunicoli dei palazzi. Nei condotti sotterranei. Negli stretti corridoi. Stanno sopra i tetti delle case. Tra le finestre degli innocenti. Lungo le scale. Dentro gli ascensori. In mezzo ai corridoi di palazzi fatiscenti. Enormi. Possenti. Con il pavimento ondulato e la sensazione di mal di mare. Stanno dentro le stanze. Fuori. Lungo i marciapiedi. Nelle case di periferia.
Stanno tra le storie delle persone. Quelle con cui ci puoi parlare.
Qui nella piazza centrale della capitale.
Qui dove la fitta e incolta vegetazione della Bosnia lascia spazio ai palazzi di Serbia.
Palazzi, luci, grattacieli, insegne luminose. La Dubai dei Balcani. La New York degli Stati Uniti.
Perché Belgrado è l’ incrocio tra il vecchio e il nuovo, tra il nuovo e il vecchio, tra il moderno e il contemporaneo.
La sera Belgrado si riempie di canti. Di balli. Di donne. Di uomini. Attorno ai tavoli dove stai mangiando arrivano i cantori. Contrabbasso. Chitarra. Mandolini. Fisarmoniche. Parlano di santi. Di morti. Di amori non corrisposti.
Capita di mangiare e di avere a fianco questi signori. Ricordano quelli del Titanic. “Ci prepariamo ad affondare con dignità, continuate, continuate a suonare”. Ma loro no. Loro non affondano. Loro vivono e fanno vivere.
La via principale è piena zeppa di locali. Quella scomoda. Quella con i sanpietrini. Quella che se per caso c’hai i mocassini, viene giù tutto. Anche i santi. E le madonne.
Quella che è tutto un sali e scendi e devi stare attento a camminare senza piantare il sedere per terra.
Ci sono locali che sembrano lanterne. Bugigattoli. Piccoli. Colorati. Alcuni freddi. Altri caldi. Stanno nei sotterranei. Con i soffitti in legno. Con le tavole azzurre. Con le tovaglie colorate. Quelle belle. Quelle bianche e rosse. Quelle bianche rosse e verdi. Quelle a quadratini che ricordano tanto i paesi di montagna. Poi ci stanno i tavolini fuori. All’aria aperta. I bagni incurvati, danzanti, fanno l’amore con le mattonelle e gli specchi, incastonati tra le pietre di un soffitto e il primo piano di un appartamento. Localini sotto le rocce. Nascosti tra le pietre di una città che torna a vivere. Alcuni illuminati a Natale. Altri addobbati dai mille colori. Inebriati di mille sapori. Fuori a illuminare le tavole ci stanno i lampioni. E i canti di questi signori cantori. In un torrenziale di note.
Poi ti capita di salire. Proprio lì. Proprio qui. Dove il Danubio e la Sava fanno l’amore.

#sbetti

#serbia

Quel giorno che intervistai il generale Kfor Nato e mi si scaricò il registratore

In foto Giovanni Fungo

di Serenella Bettin

Ancora ricordo quando atterrai quella sera sul suolo di Pristina. Erano le 21.45. Scesi dall’aereo e non c’era nessuno. D’un tratto sentii due voci parlare con un accento italiano, quello del Sud. Subito ne rimasi attratta. Mi sentii come rassicurata. Li raggiunsi. Cercai di capire da dove venivano le voci. Erano due militari di Napoli, che poi mi sarei ritrovata nella base dove alloggiavo. 

Chiesi loro se sapessero per diamine come diavolo si faceva ad attivare la rete kosovara del telefono. Avevo detto a mia madre che l’avrei avvisata, ma le avevo anche detto: “Se non senti aerei cadere, tranquilla che è andato tutto bene”. Ricordo quel giorno. Quando partii dall’aeroporto di Verona. La mano sulla spalla di mio padre che sembrava volermi dire: “Abbi cura di te”. 

Ad attendermi fuori dall’aeroporto a Pristina c’erano due militari. Uno era grassottello con gli occhiali. Una persona per bene. Chi glielo ha fatto fare pensavo a  sto giovanotto di venire qui a bruciare i giorni della sua età più bella. Salii su quel carro blindato con cui mi erano venuti a prendere. E da fuori vedevo le immagini di quella città che da piccola avevo sempre sognato di visitare, tanto che i miei mi dicevano che quando scoppiò la guerra sui Balcani, ero fissata. Ricordo ancora che i maestri delle scuole elementari andarono a chiamare mia madre perché preoccupati della mia preoccupazione per la guerra al di là dell’Adriatico. Un anno mi ricordo fecero la catena umana di mani lungo le sponde del mare, e io che ero in vacanza nelle Marche partecipai, convinta che i bambini al di là della sponda potessero vederci. Quando facevo il bagno al mare buttavo sempre l’occhio al di là dello scoglio. Di là mi dicevo, c’è la guerra. Quella che non guarda in faccia niente e nessuno e ti brucia la casa, ti ammazza i parenti, ti annienta l’anima. 

Quando arrivai in base Nato a Pristina, subito mi presero la valigia e me la portarono in camera. Poi mi portarono a cena. Dal Pi. Quello che cura le pubbliche relazioni. Ero tesa perché dovevo intervistare il Generale di Corpo d’Armata Giovanni FUNGO in carica, della Kfor, che il giorno dopo non poteva. 

E quindi l’intervista sarebbe avvenuta alle undici di sera. Prima però mangiammo. Un cuoco bravo, che sembrava uno di quei ciclisti che scendono dai monti, ancora con l’accento italiano, che preparava da mangiare e pure lo sapeva fare, mi aveva preparato pesce, verdure, purè di patate, pure un dolce. E il caffè. Poi arrivò il momento dell’intervista e mi accompagnarono nel container regale dove c’era il generale. Qui scorsi personaggi d’alto calibro, gente facoltosa, ci stava pure una donna con la gonna rosa e i tacchi blu ed era vestita tutta elegante. Attorno c’erano un sacco di piante. Era tutto lucido. Nitido. Perfetto. 

Mi fecero accomodare su un divanetto bianco e mi preparai per fare l’intervista. Il generale arrivò e mi scrutò da cima a fondo. I suoi occhi mi bucarono come il punteruolo buca il polistirolo del bimbo che si prepara a giocare con la carta dell’asilo. Si sedette dinanzi a me. Indossava la divisa e sotto quell’uniforme che pareva appena uscita dalla lavanderia, c’era un uomo che sotto sotto voleva anche essere simpatico. Cominciammo con le domande. Alcune concordate prima, perché in certi ambienti ci tengo a farvi sapere che le parole pesano più del piombo e non le puoi improvvisare e devi avere tempo di sceglierle con cura. 

Ma all’improvviso, come un topo in trappola, come un piccolo criceto quale mi sentivo, nonostante tutta quella strada, il registratore si scaricò. Lo guardai. In un attimo mi dissi: “Devi essere sincera. Sii naturale e trasparente e sarai apprezzata”. Lo guardi e gli dissi: “Mi si è scaricato il registratore”. Lui mi disse: “Cambi le batterie”. Ma le batterie erano dentro un contenitore. E il contenitore era dentro la valigia. E la valigia era dentro la camera. E la camera era dentro gli alloggi. E gli alloggi erano dall’altra parte. 

Lui mi scrutò. Ancora. E ancora. E quei suoi occhi che mi bucarono come il punteruolo del bambino, divennero spilli che mi trafissero. “Guardie! Andate nella stanza di questa ragazza e portate qui la sua valigia”. Chiamò gli ufficiali che andarono a prendere la valigia. E me la portarono nella sala regale. 

“É la sua prima missione”, mi chiese. 

“Sì”. 

“Si vede”, mi rispose. 

Questa è la mia intervista. Durò circa due ore. 

Le sue parole sono esattamente come lui me le ha dette. Ho cambiato solo qualcosina per questioni di forma. Ma il succo non cambia. 

Kfor è la forza militare Nato con l’obiettivo di ristabilire la pace. Ma questa missione è ancora attuale? 

Attualissima. Sono 19 anni che questa missione si sta sviluppando qui in Kosovo. Siamo passati da una situazione in cui agli inizi della missione c’erano 55 mila soldati della Nato schierati in Kosovo, a una in cui ce ne sono 4 mila, 4 mila e cento a seconda del periodo. Diciamo che a questa diminuzione progressiva è corrisposta una costruzione di strutture politico amministrative locali che hanno consentito di dare un certo livello di progresso ed evoluzione alla società”

Perché che società abbiamo oggi? 

“Oggi ci troviamo di fronte a una società piuttosto sofisticata, in cui ci sono un sistema mediatico sviluppato e una rete di amministrazioni locali che opportunamente guidati in questi anni, prima dall’ Onu e poi dall’ Ue, hanno consentito di portare questa regione a condizioni di vita paragonabili alle condizioni europee”. 

Sì ma quali sono gli obiettivi che ha questa missione e come sono cambiati?

“Gli obiettivi iniziali erano quelli di ristabilire un ambiente sicuro e garantire la libertà di movimento a tutti i cittadini del Kosovo, a prescindere da etnia e da religione. Ciò significa che la Kfor era direttamente responsabile per questi due aspetti. Con l’evoluzione della società kosovara si è assistito a una modifica dell’atteggiamento e delle responsabilità della Nato, in quanto i due compiti sono rimasti gli stessi, ma la Nato è diventata un elemento di supporto piuttosto che un responsabile primario”

Cioè? 

“Cioè ci troviamo in questo periodo di fronte a una struttura di sicurezza che è articolata su tre risponditori. Il primo è la polizia kosovara, un’entità di sicurezza locale; il secondo è la polizia dell’Unione Europea, la Iurex e il terzo è la Nato”. 

Sì ma non mi ha detto come sono cambiati concretamente gli obiettivi. 

“Ora l’intervento a supporto è un’attività di concorso, qualora dovesse succedere qualcosa di disastroso che riporta indietro il Kosovo ai primi anni della sua esistenza”. 

E quanta collaborazione c’è tra queste tre entità?

“C’è una collaborazione continua dal punto di vista operativo tattico, poi abbiamo una serie di ufficiali di collegamento che si scambiano informazioni in maniera continuativa e poi c’è una rete di procedure che viene applicata quando dal primo risponditore si debba passare al secondo ed eventualmente del terzo che è Kfor”. 

Lei è il 21 esimo comandante in carica, come ha trovato la situazione qui e come è cambiata rispetto al 1999?

“Io ero già qui nel 1999, la situazione è cambiata tantissimo, anche in termini di vita concreta. Oggi Pristina è una città illuminata e normale, nel ’99 c’era un coprifuoco dettato dal fatto che non c’era la corrente elettrica. Ma ora le condizioni di vita sono cambiate totalmente, è stato ricostruito il sistema scolastico, è stato ricostruito un sistema di strutture di sicurezza che fa capo alla polizia e alle forze di sicurezza del Kosovo. È stata ricostruita una rete di ospedali e dei sistemi di assistenza sociale che hanno ancora dei difetti di funzionamento ma che rispetto a prima hanno costituito dei vantaggi per la gente e la società”. 

Un posto perfetto insomma. 

“Non è un posto perfetto, c’è ancora bisogno di molto lavoro, è una zona strategica, perché è un crocevia per tutti i passaggi da est a ovest verso l’ Europa. La presenza di Kfor è ancora necessaria anche se adesso siamo in numeri ridotti, ma ancora oggi siamo una presenza che garantisce una certa deterrenza contro eventuali incidenti o fughe all’indietro che sono in contrasto con la necessaria sicurezza e tranquillità che deve essere mantenuta in questa regione particolare. 

Perché che tipo di traffici ci sono qui? 

Storicamente è una zona di passaggio, ci sono stati negli anni scorsi, nei Balcani occidentali, grossi flussi migratori, per cui si spingevano verso il Nord Europa. La presenza attiva della Alleanza Atlantica e delle Nazioni europee in generale, è fondamentale per garantire l’ Europa da sorprese o sconvolgimenti che potrebbero causare problemi anche in Europa, o anche in Italia che è vicinissima”. 

Scusi una curiosità che mi ribolle dentro. Ma come vengono eletti i comandanti in carica? 

“La Nato assegna a una Nazione il comando della missione, l’ Italia in questo momento è al quinto mandato consecutivo del comando. Si sono alternati quattro generali di divisione italiana. Nel passato c’era un’alternanza tra la Germania, la Francia e l’ Italia. Diciamo che circa una decina di comandanti su 21 sono stati italiani”. 

Sì ma come vengono scelti? 

“Vengono scelti sulla base delle caratteristiche personali, sulla base del trascorso – nel mio caso hanno scelto il più bravo – mi sorride – simpatico – si è già dimenticato del registratore scarico — io sono stato qui tre volte e il fatto che abbia delle esperienze pregresse nella specifica regione ha contribuito a farmi scegliere”. 

Quanti uomini e quante unità siete?

“Siamo scesi a circa 4000, 4100. Oscillano. Le unità sono 10 a livello reggimento battaglione, tutte multinazionali. Quindi vuol dire che qui c’è una nazione guida più altre nazioni che contribuiscono. Di queste dieci, 4 sono a comando italiano. Questa è una grossa soddisfazione perché è un riconoscimento da parte della Nato delle capacità operative e delle capacità di comando che vengono date alle forze armate italiane”. 

Quali assetti ipotizzabili in futuro per Kfor? Mica potrete rimanere sempre qui. 

“Attualmente noi ci troviamo a disporre di diverse tipologie di forze. Ci sono i Multinational Battle Group, ne visiterà uno domani, che sono dei reggimenti di fanteria leggera che garantiscono la deterrenza, sono lì sul posto pronti a intervenire se qualcosa va veramente tanto tanto storto. Poi abbiamo i Jrd, che sono costituiti da un numero variabile di Lmt, piccoli nuclei di soldati armati in maniera molto leggera, che vivono a contatto con la popolazione. La maggior parte di loro infatti non vive in caserma, ma nelle field house che sono delle case adattate alle esigenze di vita e di sostegno logistico di questi militari e questi vanno in giro, contattano il sindaco, il medico, la casalinga, per vedere e capire se l’evoluzione sociale del paese, della regione corrisponde alle aspettative della gente. Esercitano anche operazioni di feedback su di noi per capire se la situazione si sta evolvendo in maniera ordinata senza turbative e a volte esercitano anche attività di collegamento con le realtà amministrative locali per correggere determinati comportamenti che magari non sono completamente in linea con quelle che sono le esigenze della gente nei comuni e nei villaggi. 

E come sono le aspettative della gente? 

“Ogni anno viene condotto un sondaggio sulla fiducia nelle istituzioni kosovare. Ci sono delle società che lo fanno per conto delle istituzioni kosovare e la Kfor si piazza ogni anno prima o seconda tra le istituzioni di cui la gente si fida di più. Noi siamo anche sostenuti da una fitta attività di progetti Cimic, di cooperazione civile e militare. Ossia dove individuiamo un determinato problema a livello locale, mobilitiamo forze in patria. Ci sono varie nazioni che forniscono fondi, aiuti professionali, materiali che servono a un ospedale carente o una scuola carente. Miglioriamo le condizioni di vita della gente e la gente è estremamente soddisfatta di questo. Solo negli ultimi 60 giorni con dei fondi Nato siamo riusciti a finalizzare 52 progetti Cimic, su questi si inseriscono tutti i progetti nazionali che sono sicuramente più di 100, 120”. 

Ma ci saranno dei problemi. Ci sono? 

Il problema più grosso è lo sviluppo economico che chiaramente determina un tasso di disoccupazione molto elevato, soprattutto tra i giovani. Tra i giovani soprattutto sotto i 26 anni di età c’è un tasso di disoccupazione che rasenta il 60%, questo porta i giovani a voler migrare soprattutto verso il centro Europa, sono giovani con un livello di istruzione abbastanza elevato, provengono da una società in cui l’accesso a Internet è garantito al 98% della gente. In cui la gente legge; ci sono giornali, periodici, settimanali in numero abbastanza vario per consentire al cittadino di leggere e capire senza essere influenzato da una sola sorgente di informazione”. 

Ho letto che il Kosovo non sta messo bene nella graduatoria della libertà di stampa. Ci sono molti giornalisti minacciati. 

“L’informazione qui una è istituzionale e un’altra è libera (privata). Chiaramente ci sono dinamiche che corrispondono alle nostre, non dimentichiamo che essendo una regione frontiera ha sempre subito l’influsso da dieci anni a questa parte di Europa e Stati Uniti e quindi si sono adattati in maniera abbastanza rapida a quelle che sono le nostre caratteristiche soprattutto nell’ambiente mediatico”. 

Il problema del terrorismo islamico qui quanto è avvertito? 

“Qui dobbiamo parlare di radicalismo islamico. Negli anni scorsi il Kosovo è stata la regione che ha prodotto il più alto numero di foreign fighters pro capite, cioè paragonandolo al numero di gente che abita questo posto. Perché? Perché c’è una situazione a livello socio economico che portava ad avere delle condizioni di disagio che potevano essere compensate con delle elargizioni in denaro da parte di organizzazioni che avevano interesse a penetrare questa zona dal punto di vista religioso. Dobbiamo pensare che nel 1999, c’erano 200 moschee, ora ce ne sono 730. Non tutte presidiate da un imam, ma hanno determinato una presenza fisica visibile del tentativo di cambiare le tradizioni di questa popolazione che è sempre stata a maggioranza islamica ma che ha sempre avuto un approccio molto moderato all’islamismo. Per cui c’è questo tentativo, è una questione di statistica, se uno esercita questa pressione su migliaia di persone riuscirà a tirare via quei dieci, quindici, venti elementi che saranno estremamente convinti di quello che hanno sentito e che probabilmente sono soggetti ad essere influenzati in maniera semplice e ad andare a fare i foreign fighters in Siria o in Iraq. 

Ci sono già cellule radicate qui? 

“Cellule no, qui questa presenza di radicalizzazione determina una presenza indiretta non tanto del terrorismo quanto una capacità di reclutamento e sostegno logistico che va a favore delle capacità operative che l’ Isis aveva in Siria o in Iraq. Non parliamo tanto di terrorismo quanto di reclutamento e radicalizzazione che sono la base poi del terrorismo. I quattro veneziani per dire venivano da questa parte qua. 

E scontri fra etnie ce ne sono?

“Nel 98, 99 la guerra è stata una guerra interetnica, tra le due principali etnie: quella serba e kosovara. C’è adesso una minoranza serba che è circa il 10% della popolazione, articolata in due diverse tipologie: a nord ci sono 4 municipalità di kosovari serbi, sono 4 municipalità monoliticamente kosovaro serbe; a sud al di la del fiume Ibar ci sono una serie di enclave più o meno numerose che sono disperse su tutto il territorio”. 

Quale il collante di queste comunità? 

“Una serie di chiese ortodosse che sono qui in Kosovo da secoli, ma più di conflitti tra etnie, parliamo di animosità verbale che emerge ogni tanto quando c’è uno scontro di interessi a livello locale”. 

Interessi di che tipo? 

“Se c’è la casa che è stata liberata nel 1999 e non si sa dal regolamento catastale di chi sia, magari c’è un serbo o un kosovaro albanese che ne reclamano la proprietà e non sempre questi conflitti vengono risolti in maniera urbana”

Come sono i rapporti con la Serbia dal 2008? 

“La Serbia considera ancora il Kosovo come una sua provincia, esiste un dialogo che è pilotato dall’ Ue, un dialogo tra Pristina e Belgrado in cui il rappresentante per l’ Ue, la Mogherini è riuscita a far sedere attorno a un tavolo il presidente della Serbia e il presidente del Kosovo e hanno ricominciato un timido riavvicinamento. Una serie di colloqui e di contatti che dovrebbe portare a una normalizzazione dei rapporti tra le due entità. Parliamo di tempi ancora abbastanza lunghi nel tempo, non è una cosa che si risolverà in tre, quattro anni”. 

Altri problemi? Criminalità, droga, prostituzione? 

“La prostituzione non è evidente, ci sono dei commerci di droga, ci sono delle attività criminali che vengono contrastate dalla Kosovo Police, dalla polizia kosovara che è una struttura di sicurezza ben organizzata, sufficiente per numero di addetti e che comprende una certa aliquota di poliziotti provenienti dalle minoranze che costituiscono questo paese, per cui kosovari serbi, kosovari albanesi, rom, bosniaci e che per quel che vediamo noi giornalmente, questa polizia opera con una certa efficacia e riesce ad avere il controllo della situazione. Chiaramente è una zona di passaggio, una zona in cui trafficare è facile e quindi nonostante gli sforzi c’è una attività criminale che usa questo posto per far transitare droga”. 

E l’immigrazione clandestina? 

“Non c’è tanto transito di immigrazione clandestina in quanto non è un paese facilmente attraversabile dagli immigrati via terra e c’è anche un certo traffico di riciclaggio del denaro. 

Quindi rimarrete qui per sempre? 

“La progressione e l’evoluzione della missione non è dettata da termini temporali, ma da condizioni raggiunte. Ci sono una serie di situazioni da conseguire e una volta conseguite, si dicono i cosiddetti benchmark che vengono conseguiti, analizzati e nel momento in cui vengono conseguiti e analizzati si rivede lo schieramento di Kfor. Per i prossimi anni a venire resteremo sugli attuali livelli di forza”. 

Va bene grazie. 

“Grazie a lei”

Serenella Bettin

Pristina, 21 settembre 2017

In Kosovo, tra imam radicali, moschee e foreign fighters

9 novembre 2018

da Pejë (Kosovo)

Siamo lungo la strada che conduce a Pejë, città del Kosovo occidentale. Caricati su un mezzo dell’esercito, ci accompagnano i militari della Kfor, la forza internazionale a comando Nato che dal 1999 presidia l’intera regione. Una terra ancora martoriata e distrutta dalla guerra. Tranne le città principali, oggi ricostruite, in periferia le case sono ancora sventrate e annerite dalle bombe. Case crollate dove non arriva luce, acqua, gas. Dove non ci sono strade. E in mezzo alle case trafitte, stanno le moschee. Belle, rigogliose, imperiali, svettano in mezzo alla campagna kosovara come luoghi intoccabili. E le vedi passando, ovunque, anche in mezzo alle città; si innalzano tra i bar, i ristoranti, in mezzo ai giardini, incastonate tra i palazzi, ma anche sparse qua e là lungo le strade che portano a Pristina, a Mitrovica, a Pejë. Molte moschee sono riconoscibili con la loro forma tipica, le loro pareti dorate e i minareti, ma altre sono strutture spacciate per centri culturali.

Un numero, quello delle moschee, che cresce in maniera esponenziale, anche grazie ai finanziamenti che provengono da Arabia Saudita e Turchia. Il ventunesimo comandante in carica della Kosovo Force, il generale di divisione Giovanni Fungo, che a novembre scorso ha ceduto il testimone al suo pari grado Salvatore Cuoci, ci spiega che «nel 1999 c’erano 200 moschee e ora ce ne sono oltre 700». Una fonte del Giornale assicura che il numero delle moschee sia salito a 900, considerando sia le 607 esistenti prima della guerra, sia quelle costruite dopo. Delle 900, il 10% non è riconoscibile: almeno 90 o 100 sono mimetizzate. «Ci sono anche case private usate come luoghi di preghiera». Un’indagine di Balkan Insight rivela che negli ultimi dieci anni le moschee erette senza permesso sono oltre cento. Un boom di costruzioni illegali di cui le autorità municipali fanno fatica a tenere il conto. Si parla di 113 moschee riedificate dopo la guerra (delle 218 distrutte) dalla comunità islamica del Kosovo. Balkan Insight ha rivelato che quasi tutte sono state erette illegalmente. Soprattutto a Prizren, considerata la città dei minareti abusivi cresciuti dal 1999. Il 70% delle 77 moschee di Prizren non aveva permesso di pianificazione. Pare siano 54 le moschee abusive, c’era anche un piano per abbatterle.

Ma chi le finanzia? Nel 2015 dalla Turchia passarono milioni di euro per il Kosovo, come aveva riportato Zeri, quotidiano in lingua albanese a Pristina: milioni di euro stavano arrivando in Kosovo «ma non come investimenti o per aiutare l’economia o finanziare progetti, ma per ricostruire strutture religiose». Dozzine di nuove moschee inoltre sono state finanziate attraverso l’agenzia di cooperazione e coordinamento turca (Tika), istituita dal governo turco e gestita direttamente dall’ambasciata in Turchia. Ma soprattutto l’Arabia Saudita, il Kuwait e altre nazioni islamiche hanno investito molto nella ricostruzione del Paese e nella costruzione di moschee. Dal 1999 in poi Riad ha cominciato a mandare finanziamenti e uomini per diffondere il wahabismo. Milioni di euro, trasferiti attraverso organizzazioni caritatevoli che servivano a diffondere estremismo e terrorismo. Prima a favore di al Qaida, poi dell’Isis. Secondo l’Osservatorio internazionale per i diritti, si stima che solo i fondi sauditi filtrati nei Balcani attraverso organizzazioni caritatevoli dedite al proselitismo superino i 500 milioni di dollari. E alcune moschee sono indicate come veri centri di reclutamento del terrorismo. Il giornale Koha Ditore (Daily Time) di Pristina ha puntato il dito contro due moschee: una nella capitale e una a Mitrovica. A Pejë quattro moschee sono rette da un imam wahabita. Non solo, almeno ogni anno una decina di persone parte per andare a studiare in Arabia Saudita e torna radicalizzata. A coloro che cercano di reclutare promettono dei premi in cielo, a chi indossa un velo o aderisce a una visione più integralista della religione offrono 300 euro al mese. A girare per le città ancora non si vede la presenza radicata di donne con il velo o uomini con la barba, ma a molti giovani vengono offerte borse di studio per frequentare scuole islamiche in Arabia Saudita. Gli estremisti islamici stanno usando queste organizzazioni come canale ideale per la creazione di cellule terroristiche in varie zone. E il Kosovo, al di là dell’Adriatico, grande quanto l’Abruzzo, sta diventando il più grande covo di radicali islamici nel cuore dei Balcani.

«Negli anni scorsi il Kosovo è stata la regione che ha prodotto il più alto numero di foreign fighter pro capite diceva il generale Fungo -. C’è una situazione a livello socio-economico che porta ad avere condizioni di disagio che possono essere compensate con delle elargizioni in denaro da parte di organizzazioni che hanno interesse a penetrare questa zona dal punto di vista religioso. Qui dobbiamo parlare di radicalismo islamico. Le moschee non sono tutte sono presidiate da un imam, ma hanno determinato una presenza fisica visibile col tentativo di cambiare le tradizioni di questa popolazione. Non parliamo tanto di terrorismo quanto di reclutamento e radicalizzazione che sono la base poi del terrorismo». Questo accade nelle aree particolarmente depresse. E il Kosovo lo è. «C’è un tasso di disoccupazione che rasenta il 60% – spiega Fungo – soprattutto tra i giovani sotto i 26 anni. Questo li porta a volere emigrare verso il centro Europa, sono giovani con un livello di istruzione abbastanza elevato, provenienti da una società in cui l’accesso a internet è garantito al 98% della gente». Il ministero dell’Interno aveva contato 360 fondamentalisti kosovari di cui 300 uomini e 60 donne, unitisi allo Stato islamico. Fonti ufficiali ci dicono che sono 400 i foreign fighter partiti per andare a combattere in Siria o in Irak, su una popolazione totale di un milione e 800mila abitanti. Tutta gente che prima o poi tornerà, in Kosovo, come in Italia. E a giugno scorso sei persone sono state arrestate con l’accusa di avere pianificato attacchi terroristici nel Paese e contro le truppe della Kfor. Il gruppo, cinque uomini e una donna, voleva creare un’organizzazione per mettere in atto azioni di terrorismo, compresi attacchi suicidi, anche in Francia, Belgio, Albania e Macedonia.

👉 https://www.ilgiornale.it/news/nel-kosovo-radicalizzato-cuore-islamico-deuropa-1599237.html

Viaggio nel Kosovo radicalizzato

6 ottobre 2017

da Mitrovica (Kosovo)

U n pezzo di terra grande tanto quanto l’Abruzzo, in cui convivono sei differenti etnie. Il Kosovo si estende per 10.908 chilometri quadrati circondato da Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia. Una foglia di terra immersa in una conca, martoriata e distrutta dalla guerra. Ancora si vedono le case di periferia semi distrutte, sventrate, squarciate dalle esplosioni delle bombe e annerite dai colpi di mortaio. L’aria puzza ancora di polvere e di devastazione, se non fosse per quella sigaretta che ci accendiamo. Abitazioni dove non arriva acqua, luce e gas con nemmeno una strada per accedervi e dove i giardini sono diventati cimiteri.

La guerra è finita diciotto anni fa. La bandiera dello stato del Kosovo, la sagoma colorata di giallo su sfondo blu, ha sei stelle: ognuna corrisponde alle sei etnie. Ci sono gli albanesi, i serbi, i turchi, i rom, i bosniaci e ci sono i gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo meridionale e di religione musulmana originario di Gora, a sud di Prizren. Di queste sei comunità etniche, tra la serba e la albanese corre ancora l’odio. Soprattutto a Mitrovica, città del Kosovo settentrionale. Con i suoi 307mila e 500 abitanti è considerata capoluogo del Kosovo del Nord, ma è spaccata in due metà da un ponte, quello di Austerlitz, che dovrebbe unirla e che più volte l’ Unione europea ha tentato di aprire e di inaugurare. Sotto ci passa il fiume Ibar. Nella parte Nord, vivono i serbi; in quella Sud gli albanesi.

Andiamo a Mitrovica la mattina del 22 settembre. Sveglia alle 5.55. Due pattuglie dell’unità specializzata dei carabinieri italiani, la Msu (Multinational Specialized Unit) il cui comando dall’11 settembre scorso è affidato al colonnello Marco Di Stefano, ci vengono a prendere a Pristina, dove alloggiamo nella base militare di Kfor, la Kosovo Force, forza militare internazionale a comando Nato che dal 1999 presidia l’intera regione con l’obiettivo di mantenere un ambiente sicuro e garantire la libertà di movimento a tutti i cittadini a prescindere dall’etnia. Una forza che ora conta 4.500 militari e che molto ha fatto dal 1999. L’attuale comandante è il generale di divisione Giovanni Fungo.

Saliamo sulla jeep dei carabinieri con l’appuntato scelto Vilmer Mandelli e alla guida il carabiniere Alessandro Cocchis. Percorriamo la strada che conduce dritta in Serbia. Attorno distese di boschi, pietre e un grande ammasso di piombo a forma di gianduiotto. Ci fermiamo in una specie di autogrill, nei locali non si può fumare, ma in Kosovo tutti lo fanno. I carabinieri ci dicono che nella città dove stiamo per andare è visibile la spaccatura tra le due parti, al di là e al di qua del ponte. Arrivati a Mitrovica Nord la statua del principe serbo Lazar svetta davanti a noi. Non si avverte subito la divisione della città. Solo le bandiere serbe che sventolano sopra le nostre teste, sul viale Peter King, rimarcano il governo. La gente passeggia, i bar offrono caffè a cinquanta centesimi, i bambini vanno a scuola e i venditori dei banchetti offrono giornali e sigarette. Percorriamo il viale, ma dritto davanti a noi la strada è sbarrata. Un grande pannello di lamiere ci rimbalza davanti impedendo la visuale. Lì dietro sta il ponte di Austerlitz.

Un ponte costato la bellezza di un milione e 200mila euro, i cui lavori di ristrutturazione sono cominciati nel 2015 e dove ora gli unici che possono passeggiare liberamente sono i cani. L’accesso ai veicoli non è consentito. Lo stemma con le 28 stelle gialle su sfondo blu ricorda il marchio europeo. «Riaprirà al traffico tra meno di sei mesi il luogo emblematico delle tensioni tra Serbia e Kosovo» si leggeva sulla stampa locale ad agosto 2016 dopo che ad annunciare l’apertura del ponte era stato il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). Ma siamo a fine 2017 e quel ponte restaurato e nuovo di zecca, che brilla, luccica e sa di nuovo, resta una lingua di asfalto vuota con alle estremità ogni tipo di ostacolo. Tutto quello che serbi e albanesi hanno potuto mettere per bloccare il transito l’hanno messo: lamiere di ferro, sacchi sopra la strada, tubi in cemento, transenne. L’assetto Msu di Kfor presidia il ponte 24 ore su 24.

I carabinieri spiegano che se dovesse andarsene la forza militare a comando Nato, il Kosovo sarebbe un vulcano pronto a esplodere. I rapporti tra serbi e albanesi non sono facili, la gente teme ritorsioni e viaggia senza targa, in modo da non essere riconosciuta. Appena valichiamo il ponte ed entriamo nella parte Sud della città, lasciandoci alle spalle le bandiere serbe, si trova una moschea, giusto davanti alla parte Nord a maggioranza ortodossa. Ma le divisioni non sono solo nell’aria. La città di Mitrovica ha due sindaci, due amministrazioni. La parte Nord è sede delle istituzioni serbe riconosciute da Belgrado ma non dal governo secessionista kosovaro. «I conflitti interetnici ci sono soprattutto qui spiega a Il Giornale il colonnello Di Stefano Basta una piccola scintilla per creare situazioni di tensione che potrebbero portare a episodi di violenza».

L’ultimo due settimane fa. Alcuni agenti della Kosovo Police venuti da Pristina sono stati picchiati da un gruppo di persone con il volto coperto. I serbi non hanno accettato che la Kp facesse perquisizioni nella Croce Rossa serba. «La nostra presenza è utile continua Di Stefano funge da deterrente con un posto fisso sul ponte e pattuglie mobili, ma la situazione non è stabile». Infatti «Albania: fuck Serbia» si legge a caratteri cubitali su una casa uscendo dalla parte Sud. Per adesso, è ora di rientrare.

👉 https://www.ilgiornale.it/news/cuore-spaccato-mitrovica-e-ponte-che-non-riesce-unire-1449614.html

Da Belgrado… passando per Jasenovac… il reportage sul Giornale

Dopo avere lasciato la Repubblica serba di Bosnia Erzegovina, partiamo alla volta di Belgrado. Ma prima di imboccare l’autostrada, al confine tra la Bosnia e la Croazia, c’è il campo di concentramento di Jasenovac. Il più grande lager dei Balcani nella seconda guerra mondiale. Il terzo dopo Auschwitz e Buchenwald. Impossibile non fermarsi. Qui, le persone che ci arrivavano venivano uccise con una brutalità bestiale. Alcuni morirono di fame, altri di sete. Di stenti. Altri congelati con i liquidi in pancia. Venivano scuoiati. Sgozzati. Presi e cannibalizzati. Alcuni decapitati. Bruciati. Affogati. Molti assistevano alle esecuzioni. Lo srbosjek, il tagliaserbo, era un coltello speciale, sempre fisso al polso, con una lama all’ingiù che serviva a sgozzare le persone in un colpo solo. Un frate, Peta Brzica, in una sola notte ne scannò 1.360. C’erano settimane in cui il fiume Sava, che ora ci scorre accanto, era perennemente tinto di rosso. Erano serbi. Rom. Ebrei. Il religioso che dirigeva il campo, Miroslav Filipovic Majstorovic, lo chiamavano Frate Satana. Frate Satana diceva messa. Uccideva e poi pregava. Un rito meccanico, chirurgico. Uno di quei riti che gli uomini non hanno dimenticato, ma dove la storia non ha insegnato nulla. E in questo immenso campo verde, il rumore dell’accendino che accende la sigaretta è l’unico in questo silenzio spettrale.

Ci rimettiamo in viaggio alla volta di Belgrado. Ci accompagnano tre mezzi dell’associazione Love. Arriviamo alle otto di sera. La fitta e incolta vegetazione della Bosnia ha lasciato spazio al cielo grigio della Serbia. A mano a mano che cala il buio e ci avviamo verso la capitale, le gramigne lasciano posto ai palazzi, alle luci, ai grattacieli. La Dubai dei Balcani la chiamano, la New York della Serbia. Perché è bella Belgrado, bella davvero. È bella da far venire i brividi. La città è un intreccio di colori, di sapori, di foglie colorate, un via vai di scoiattoli che saltano sul prato e si arrampicano sugli alberi. Belgrado è un insieme di canti, di balli la sera, di cani randagi e di vecchiette che vendono lenzuola lungo le strade. C’è un’anziana che dà da mangiare ai piccioni, un pianista che suona in mezzo alla gente, i ragazzi che giocano a palla e i pensionati che si sfidano a scacchi.

Un libro, cadutoci tra le mani per caso, parla della magia di Belgrado, The Magic of Belgrade. Momo Kapor, il suo autore, morto nel 2010, era arrivato a Belgrado partendo da Sarajevo a nove anni e ha iniziato a raccontarla. A illuminarla. Storie, frammenti, aneddoti. Un nativo di Sarajevo che racconta la Serbia. Eppure, si sono fatti la guerra. Una delle più atroci: fratelli contro fratelli, amici contro amici, mariti contro mogli. A vent’anni dalla fine, a vent’anni da quando la Nato bombardò Belgrado, impossibile dimenticare. Popoli della stessa vecchia nazione, prima che la Jugoslavia si dissolvesse, perennemente in conflitto. La Bosnia con la Serbia. La Serbia con la Bosnia. Una Serbia che non vuole entrare nella Nato ma che attende ancora l’ingresso nell’Unione europea. E l’ago della bilancia è il riconoscimento del Kosovo che riaccende i riflettori. Un problema, quello del riconoscimento internazionale che è solo una delle questioni che il Kosovo deve ancora risolvere. Il giochetto mosso alla Serbia è che se per entrare nell’Unione europea, occorre riconoscere il Kosovo, allora non sarà mai. «La Nato ha bombardato la Serbia per il Kosovo – spiega al Giornale, Jovan Palalic ora segretario generale del Partito popolare serbo ed eletto al suo quinto mandato all’Assemblea nazionale serba nel 2016 – voleva che il Kosovo fosse un paese indipendente, ma per i serbi non lo sarà mai, il Kosovo è parte della Serbia». Un Paese, la Serbia, che andrà a elezioni l’anno prossimo e dove se arrivi con un visto dal Kosovo lo considerano uno smacco. Impossibile accettare il visto di un Paese che non riconoscono. «Riguardo all’Unione europea – continua Palalic – non possiamo dire che la Serbia non voglia entrare, ma ora il processo è bloccato per la posizione di Macron. La Francia non vuole l’allacciamento dei Balcani all’Ue. Macron ha problemi in Francia e secondo me sono problemi domestici».

https://www.ilgiornale.it/news/belgrado-ora-si-allontana-e-guarda-russia-e-cina-1795947.html

Il presidente della Repubblica di Serbia, Aleksandar Vucic, però, vorrebbe scendere a compromessi con il Kosovo e ha aperto un dialogo. A cui il Kosovo avrebbe risposto picche. «La Serbia – ci dice Palalic – vuole parlare con il Kosovo. Vogliamo un compromesso, tutto si può fare, ma dentro la nostra risoluzione dove il Kosovo è parte della Serbia». E quindi se la prospettiva è che la Serbia venga estromessa dall’Ue, allora meglio stringere accordi con Cina e Russia. «Due settimane fa – ricorda Palalic – abbiamo stretto un accordo con l’Unione economica euroasiatica per il libero mercato, possiamo esportare merce senza dazi doganali. Un’opportunità anche per le aziende italiane». Un convegno a Verona un mese fa ha lanciato un monito agli italiani per investire in Serbia ed evitare le sanzioni russe. Non solo. Il governo serbo ha schierato i poliziotti cinesi accanto ai propri. E i rapporti con la Bosnia? «In questo momento sono complicati perché non c’è un governo in Bosnia – spiega Palalic -. Noi vogliamo mantenere l’Accordo di Dayton, i musulmani invece vogliono distruggere il potere della Repubblica serba. Non è una guerra tra Serbia e Bosnia ma è una guerra tra musulmani croati e serbi ortodossi che vivono in Bosnia». Già una guerra. Ancora la guerra. Così tornando in Italia, lungo la via del ritorno, una domanda continua a martellarci. Perché ancora tutto questo odio? «Troppo male è stato fatto», ci aveva risposto un ragazzo di Sarajevo.

Mi sono cibata delle loro storie – Gračac – Croazia 🇭🇷

Sono entrata dentro le loro case.

E ho ascoltato le loro storie. Mi sono cibata delle loro parole. Non come quelli che predicano integrazione e tengono il culo bene al caldo. Con tutte le comodità del mondo. Senza sforzi. Parassiti. Mediocri. Inutili.

Amebe senza testa. Sterili.

Le cose per capirle bisogna vederle. Bisogna viverle. E ancora.

Ancora non si capisce abbastanza.

E allora quella che vedete qui sotto è l’entrata di una casa.

Dove queste popolazioni ci hanno accolto.

Siamo arrivati qui dopo un lungo viaggio. Uno di quelli a 180 all’ora quando la macchina sfreccia immersa nella landa di arbusti gialli verdi dorati arancioni marroni. Abbiamo corso per arrivare in tempo. Per arrivare giusti per pranzo. Ma per il pranzo delle 13 non ci siamo arrivati. Erano le quattro e mezza del pomeriggio. E loro ci hanno aspettato.

Hanno pranzato con noi. Anche la bimba che magari a sette anni c’aveva pure fame.

Siamo a Gračac, una località della Regione Zaratina. Arriviamo che il sole che sta scendendo. Fa quasi pure freddo. Quel primo freddo che ti penetra dentro e ti riempie di nostalgia dei vecchi inverni. Quando fuori fa freddo e alle cinque fa già buio.

Fuori si vedono le ragazzine sedute sopra a quei tavolini di pietra. Si scambiano confidenze. Ascoltano musica. Mangiano patatine. Stanno seduta a gambe incrociate sopra quei tavoli. Quando vedono che stiamo per scattare una foto, si mettono pure in posa. Qualcuna accenna a un simpatico saluto. “Are we nice?”, ci chiede una ragazza.

Per pranzo entriamo. Ci fanno accomodare. Sopra i tavoloni ci stanno i testi con dentro le cose ancora calde da mangiare. Carne. Maiale. Pollo. Verdure cotte. Verdure crude. Purè di fagioli. Le verdure sono stratosferiche. Mai mangiato verdure così buone. Hanno quel sapore intatto naturale genuino, che qui nemmeno se c’hai l’orto.

Poi. Poi alla fine caffè. Rigorosamente turco.

E allora con queste persone abbiamo parlato. Ci hanno raccontato.

E allora mi arrabbio. Mi arrabbio terribilmente tanto quando sento che la gente ci dà dei fascisti o dei razzisti. Mi arrabbio tremendamente tanto quando la gente predica integrazione e vive col culo posato senza fare il minimo sforzo. Giusto quel minimo necessario per fare giusto un po’ più del dovuto.

Ma non ci si formano i pensieri dietro a un computer stando a casa a twittare.

E a facebookare se non sapete nemmeno cosa ci sta al di là del mare. Il vostro mare perdio. Il vostro mare.

E allora poi alla fine. Alla fine ci siamo congedati. Il buio lentamente avanzava. Era ora di ripartire. Ci siamo rimessi in macchina. Diretti verso la prossima meta. E così continuando il viaggio.

#sbetti

Siamo parti dello stesso sterco

Quello che vedete qui è il campo di concentramento di Jasenovac. Il più grande campo di concentramento dei Balcani. Il terzo dopo Auschwitz e Buchenwald. Siamo a un centinaio di chilometri a sud est di Zagabria, vicino al confine croato – bosniaco.

E questo è il frutto dell’ignoranza dell’uomo. Del suo essere ignorante. Rozzo. Becero. Animale. Imbruttito. Incivile. Zotico. Questo è il frutto dell’essere bestia. Di quella convinzione di sentirsi superiore. Di poter prevaricare. Di poter distruggere. Uccidere. Ammazzare.

Qui, in questa immensa valle che si apre davanti ai miei occhi e dove non riesco a immaginare che davanti a tutto questo verde siano morte sgozzate e torturate le persone, ecco qui dove sento le grida di bambini impauriti, le urla di madri terrorizzate e gli spasmi di padri ammazzati, ecco qui morirono almeno 100 mila persone. Secondo le stime. Erano serbi. Rom. Ebrei.

Un campo di concentramento attivo durante la seconda guerra mondiale, tenuto in piedi pure dai frati francescani. Frate Satana lo chiamavano quel religioso Miroslav Filipovic – Majstorovic che lo dirigeva. Frate Satana diceva messa. Uccideva e poi pregava.

Ed è qui che avvenne la maggior parte dei massacri operata dagli Ustasha contro le etnie non croate e non cattoliche dello Stato Indipendente di Croazia. Così. Come se domani a voi vi prendono, vi entrano in casa, vi caricano su un treno merci e vi ammazzano perché siete veneti e non siciliani. Quanto rozzo è l’uomo. Quanto animale è l’essere umano. Ammazzare uno perché anziché essere nato in una regione, nasce in un’altra. Quanto è limitato. Quanta paura in queste considerazioni.

E allora qui dove vedete le montagnole c’erano le baracche. Poi distrutte. E dove vedete le travi di legno, ecco quello era il percorso che il treno faceva carico di deportati. Qui la gente ci arrivava e sistematicamente veniva ammazzata. Le persone furono uccise con una brutalità inimmaginabile. Alcuni morirono di fame e di sete. Altri di stenti. Altri congelati con i liquidi in pancia. O nell’intestino. Ma alcuni. Alcuni vivi venivano scuoiati. Sgozzati. Presi e cannibalizzati. Decapitati. Bruciati. Affogati. Alcuni assistevano alle esecuzioni. Così. Mentre due tenevano il prigioniero per le braccia e un altro lo decapitava con un’ascia. Lo Srbosjek, il tagliaserbo, era un coltello speciale, costantemente fisso al polso, con una lama all’ingiù che serviva a sgozzare le persone in un colpo solo. Un frate, Peta Brzica in una sola notte ne scanno 1360.

C’erano settimane in cui il fiume qui accanto, che vi farò vedere in foto, il fiume Sava, era perennemente tinto di rosso. Il rosso del sangue. Molti bambini venivano bruciati vivi nei forni di mattoni trasformati in crematori. Almeno 8 mila i bambini morti.

Allora dinanzi a questo orrore, non c’è santo che tenta. Non ci sono madonne. Non c’è religione. Giustificazioni. Cause. Da qualsiasi parte. Destra. Sinistra. Sud. Giù. Centro. Qui è la merda umana. Qui c’è lo sterco dell’uomo che diventa un tutt’uno con il proprio corpo. Con la propria anima. Del resto. Come disse uno scrittore di cui ora non ricordo il nome, e nemmeno esattamente le parole, ma so che facevano più o meno così: sono parti dello stesso sterco, divisi a metà dal coltello della propria ignoranza.

#sbetti

Il cielo di Bosnia 🇧🇦

Il cielo della Bosnia non è lo stesso cielo di un Paese in pace. No. Non lo è.

Sì certo di notte ci stanno perfino le stelle. Ma sono stelle mai cadute. Senza sogni. Poche speranze. Nemmeno desideri. Lo si percepisce guardando negli occhi queste persone. Parlando con loro. Osservandoli. Scrutandoli.

Lungo la strada che ci conduce nella Bosnia Erzegovina la vegetazione si fa sempre più ingombrante. Fitta, rigogliosa, disordinata, ammucchiata.

Gli alberi trafitti dalla nebbia spuntano nelle strade. La nebbia è fitta. Mette ansia. Tristezza. Malinconia. La tensione di questi paesi è palpabile. Le case portano ancora i segni della guerra. Diroccate. Semidistrutte. Sventrate. Incomplete. Fuori non sono nemmeno pitturate. Case basse. Alcune senza finestre. Quartieri assembrati di qua e di là. Dove in mezzo alle case spuntano le croci dei cimiteri. Di quei morti ammazzati dalla noncuranza dell’uomo. Dall’ingordigia. Dalla bramosia. La gente che la guerra l’ha vissuta è morta vent’anni, anche se viva.

Quelli che si sono visti i soldati entrare nelle case e ammazzare mogli figli bambini, quelli che hanno visto le loro case rase al suolo hanno gli occhi pieni di rassegnazione. Di costernazione. Nei loro occhi non ci sta nemmeno più la rabbia.

Hanno gli occhi spenti. Tristi. Piccoli. Sofferenti. Quasi piangenti. Annacquati nello stagno del dolore. Come fossero morti. Come fossero anche loro sepolti.

Come se la loro anima fosse lì, tumulata, sotto ancora i cumuli delle macerie e non si fosse mai più risollevata. Mai più spolverata. Mai più pulita. Del resto.

Del resto cosa vuoi pulire quando la guerra ti ha portato via tutto. Quando la guerra ti ha stuprato le moglie. Quando la guerra ti ha portato via i figli. Quando la guerra ti ha ammazzato i genitori. Quando la guerra ti ha massacrato la famiglia. Quando la guerra ha preso e ti ha ridotto in brandelli.

Cosa vuoi pulire. Non si pulisce più niente. L’anima è già stata segnata.

La sofferenza e il dolore fanno parte di te.

I giovani invece, ho notato che hanno gli occhi più luminosi. Più vegeti. Più belli. Si vede che sulla loro strada ci sono stati sentieri che riportano sempre a ieri, ma sono più speranzosi. Più convinti. Meno macchiati.

Più belli. Anche se i percorsi di questa terra, così disgraziata e barbaramente dilaniata dalla guerra, non si cancellano.

Quelli no rimangono.

#sbetti

Le distese di landa (Bosnia parte 1) 🇧🇦

Intere distese di landa, praterie e boschi di conifere. Siamo lungo il viaggio che ci conduce in Bosnia e attraversando la Crozia, tutto intorno è un tappeto di foglie dorate. Rosse. Gialle. Verdi. Marroni. Arancioni. Qualcuna spunta pure rosata. È l’autunno che gioca con i colori. È l’autunno che scalda le foglie. Che le rende più belle. Che le colora. Che le dipinge. Che tinge il pennello nella tavolozza e crea capolavori.

Quell’enorme stradone che attraversa la Croazia si riempie di foglie colorate. Di tinte acquerelli. Di paesaggi naif. Di arbusti. Alti. Bassi. Sempreverdi. Boschi di conifere. Cespugli arrotondati. Pini che spuntano. Gli alberi quelli più alti se ne stanno piantati come tanti stuzzicadenti. Tronchi gialli. Marroni. Perfino bianchi.

Le colline attorno a noi formano un contorno dai profili umani. Da una parte di sta il sole che colora il cielo di rosa. Dall’altra ci stanno le montagne che ti avvolgono come il caldo di una coperta.

Perché sì. Perché quando vado in un posto nuovo. Mentre sto percorrendo la strada e vedo le montagne sparire dietro di me, le colline andare, le pianure srotolarci sotto le ruote mentre passa la musica e si consuma una sigaretta, mentre fai mille risate con i tuoi compagni di viaggio, penso sempre a dove sto andando. A quanto grande è il mondo. Penso a come saranno quelle colline di notte. Sento l’auto macinare asfalto sotto le ruote e mi viene sempre la nostalgia e la voglia di nuovi viaggi. Di nuove scoperte. Di quelli già fatti. Penso al paesaggio circostante che mi si cuce in quel momento addosso, che mi rimane impresso, e lo sento mio. Parte di me. Lo sento come se volesse accompagnarmi verso la prossima meta. La prossima destinazione. La prossima casa.

Perché è la sensazione che quando viaggio afferro il mondo. E scopri te stesso.

E da qui continuando.

#sbetti