“Non stancarti mai di trasmettere”

Vi propongo qui la recensione di BookRider. Una fantastica triade di tre giovani professionisti che recensisce libri. E lo fa con dovizia di particolari, con abbondanza di prove, con ricchezza di argomenti. Dopo averli letti i libri, pagina dopo pagina, parola dopo parola.

Potete anche seguirli su Instagram 👉 https://www.instagram.com/bookrider/

Qui alcuni passaggi della recensione del mio libro

Aspettando che arrivi sera è un libro che apre a mille riflessioni, e fa parte di quei reportage giornalistici che aiutano a mettere seriamente in discussione la maggior parte delle nostre conoscenze. Su ogni argomento c’è la tendenza a parteggiare per una linea di pensiero o l’altra; in pochi decidono di entrare nel vivo per capire che la realtà è ben più complessa di un titolo sensazionalistico o di un minimale comunicato ANSA”

“Serenella Bettin è una perla rara, una giornalista che non ha paura di sporcarsi le mani verificando e approfondendo ogni possibile anfratto delle realtà che esamina”

“Il testo è in forma diaristica, e seguiamo l’autrice nel suo lavoro: raccoglie testimonianze dirette, incrocia dati, esamina fonti e documenti, è sempre in movimento”.

“Scopriamo di giri loschi e poco chiari all’interno delle cooperative, dove le indagini sono sempre troppo lente”.

“Il caso di Conetta è al centro del reportage. Serenella Bettin riesce a trasmettere immagini come pochi”

“Ero arrivata a Conetta con il fotografo Lorenzo Porcile. […] Ricordo quei cancelli che si aprivano e si chiudevano come a scandire il tempo che lì dentro sembrava essersi fermato. E ricordo quel tonfo secco, ignobile, freddo, sotto quel sole cocente. E ricordo anche quel filo spinato che vibrava ogni qualvolta il cancello si chiudesse. Così come ricordo gli occhi di quegli immigrati, dentro a quel recinto, dove a noi era proibito entrare. Appena arrivati, ci erano venuti incontro. Poi siccome lì davanti non potevamo stare, allora noi eravamo andati sul retro e lì i profughi avevano iniziato a sfogarsi. A gettarci addosso tutte le loro frustrazioni e mancanze della prima linea di accoglienza italiana, di quella bieca e corrotta accoglienza, abbracciata dal filo spinato.”

“Leggendo le storie narrate dall’autrice, sono stato travolto da un senso di indignazione. Come lei stessa nel diciannovesimo capitolo, però, il giornalista deve fare proprio questo: denuncia, fa arrabbiare, indignare, riflettere. Dovrebbe far saltare il lettore dalla poltrona. Il lungo pezzo di cui sto parlando – che potrebbe essere un ottimo vademecum del perfetto giornalista –, termina con: “Non stancarti mai di trasmettere”. Missione riuscita”.

Ma per leggerla tutta 👉 https://bookrider.it/aspettando-che-arrivi-sera-serenella-bettin-recensione/

Perché un libro sul covid

Ho presentato il mio libro appena uscito sul coronavirus a Castignano (Ascoli Piceno) e mi hanno chiesto perché un libro sul #covid.
Perché. Perché quel giorno, quando è scoppiato il covid in #Veneto sono subito partita per andare a documentare quello che stava succedendo. Con i miei genitori preoccupati che mi telefonavano e mi chiedevano: “ma dove vai? Non puoi stare a casa. Stai attenta. Cosa vai a fare?”.
“No – ho risposto loro – non posso stare a casa. È il mio lavoro, devo andare. Voglio andare”.
Ma soprattutto un libro sul covid perché il giorno dopo, quando ero sotto la doccia al mattino, lì in piedi, mentre l’acqua mi scivolava addosso e mi chiedevo se tutto quello avesse un senso, un pensiero mi è balenato nella testa avvolgendola ed eliminando il resto.
E il pensiero martellava più o meno così: “non avrei mai pensato di scrivere di una pandemia (già si vociferava lo fosse), abbiamo la fortuna di essere testimoni di un cambiamento epocale”. E quindi da quel momento ho iniziato a scrivere tutto.
L’intervistatore Andrea Fioravanti mi aveva detto che è un testo molto duro. Nudo. Crudo. “Testo doloroso – mi aveva scritto – a tratti ho sofferto”. Poi mi ha chiesto perché a forma di diario.
E anche lì in un baleno gli ho risposto.
Perché il giornalismo è un mestiere immediato.
Vive in quel momento. E tu lo devi fotografare. Illustrare. Riprendere. Descrivere. Raccontare. Ripigliare. Farci l’amore.
Così com’è. Nudo. Crudo. Come avviene in quell’esatto istante senza mezzi termini. Senza convenevoli. Senza compromessi. Senza tanti fronzoli.
È per questo che ho scelto questa forma. Perché credo sia quella più immediata. Più vera. Più fedele. Più leale. Quella che più descrive quegli attimi e qui momenti, a volte terribili, altre volte confortanti.
In queste pagine trovate la fotografia di quello che era in quel determinato istante. Con le ansie. Le angosce. Le paure. Le rabbie. Le sterzate. I sentieri scoscesi. In salita. In discesa. Asfaltati. Sterrati. Pieni di rovi. Pieni di rami.
È un libro dove c’è un pezzo della nostra piccola storia. Catapultato lì sulla carta.
Perché in qualunque cosa faccio lascio sempre un pezzo dell’anima.

#sbetti

Lo trovate in libreria. Online. Su Amazon. E sul sito della casa editrice Male Edizioni.

Fabio Polini Il Giornale Monica Macchioni Raffaella de 🌹

LETTERA A CHI PREDICA ACCOGLIENZA E NON SA NEMMENO COSA SIA

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Mi chiedo soltanto dove stiamo andando. Le notizie si accavallano, si inseguono, si mischiano, si rimescolano, si accoppiano, si scollano, si condividono, si incollano. Ma in tutto questo il senso qual è? Me lo sono sempre chiesta. Sempre. Ogni giorno bombardati da mille notizie, da mille fatti, da mille eventi, quando la tua vita diventa inseguire quella degli altri, quando ogni giorno fai da imbuto e lasci defluire le notizie che una sopra l’altra spingono tra di loro, quando i fatti si mettono in coda davanti ai cancelli e spingono, spingono, spingono, fino a che non li buttano giù, bé il perché lo fai diventa essenziale. Indispensabile. Senza capirlo, senza rendertene conto, farlo non avrebbe senso.
Allora accade che o ti fermi un giorno e sparisci. Assapori, fai mente locale, riordini idee o ti accade un fatto che ti cambia così talmente tanto da farti capire, cazzo, perché lo fai. Ecco.
Mai, mai, mai come in questi giorni ho capito perché lo facciamo. Quando sono stata nell’ex base militare di #Conetta la prima volta, esattamente un anno fa, ero più presa dalla voglia dello scoop, dall’immortalare quella situazione che nessuno avesse. Lì dove un anno fa erano ospitati circa 700 migranti. Ora saliti a oltre 1100 e fino a tre mesi fa erano 1500.
Ero più presa dal dire “tutti i giornalisti importanti vanno a Conetta, ci vado anch’io”. Quando poi ci sono tornata la seconda volta per la rissa, la rivolta, il sequestro degli operatori, mi è salita l’indignazione, la rabbia, il rivoltamento dello stomaco che vomita esecrazione. Ma anche lì il potere dello scoop.
Quando ci sono stata per la terza volta ho avuto paura. Migranti in mezzo alla strada, in mezzo alla nebbia e io sola alle tre del pomeriggio in mezzo a una via di cui non vedevi né l’inizio né la fine. Hanno cominciato a venirmi incontro e a urlarmi “ciao bella, ciao bella”, fino a che un’auto, la mia salvezza, ha imboccato la strada dov’ero finita io, ho fatto l’autostop, loro si sono fidati e mi hanno riaccompagnato alla macchina. Allora lì, lo scoop non c’entrava più, in me la paura è stata guarita dalla rabbia e dall’indignazione, dall’imprecazione con cui volevo che qualcuno cambiasse le cose. La paura è stata placata dalla rabbia e dalla condanna nel vedere un paese di 197 anime, travolto e invaso dai migranti alle tre del pomeriggio. Ma soprattutto la rabbia perché tu #donna non eri libera di camminare per le strade della tua città.
Ho lasciato decantare la cosa. Ma la mia rabbia cresceva.
Quando l’altro giorno sono tornata a Conetta, sono entrata in base, dentro, dentro i bagni, dentro le stanze, dentro le “camere”, dentro la cucina, dentro la sala pranzo e allora ho capito perché lo facciamo. Perché ora, non conta la firma. Sì certo, conta, conterà sempre, siamo giornalisti e di certo quella volta non hanno lesinato sull’ego. Ma oggi un collega mi ha chiesto “ma chi siamo noi? Siamo così talmente importanti?”. Bé sì. Siamo dei #messaggeri. Dei servi. Dei servi delle notizie. Facciamo un servizio. Ma il nostro lavoro non è per noi, è per gli altri. Allora importante è il messaggio che diamo, quello che trasmettiamo, quello che sporcandoci ogni giorno in mezzo alla strada, in mezzo alla gente siamo in grado di riportare e far capire. Questo è importante. Conetta mi ha dato la netta consapevolezza che il nostro lavoro, quello che ci fa alzare alle quattro del mattino o quello che all’una di notte ti fa rispondere al telefono, è importante. Che il nostro lavoro ha un senso solo se lo si fa con la convinzione di poter far cambiare le cose.
Ecco a cosa serve il nostro lavoro. A cambiare, a far cambiare. A denunciare. A indignarsi e far indignare. Per me è stato Conetta, per altri sarà stato altro, ma chi entra in quel campo base anche solo per quattro ore ne esce cambiato. Sapere che nel 2020 al di là della strada che collega le province di Padova e Venezia si erge una struttura, dove le auto di chi ci lavora luccicano sotto il sole, dove le tendopoli immerse di puzza e sudore si stagliano nell’enorme distesa di campi, urla allo scandalo. Perché è un ghetto. Un vero e proprio ghetto. Un ghetto che hanno legalizzato e che da due anni promettono di chiudere. Invito tutti i politici, i parlamentari, i preti, i parroci ad andare a fare un giro a Conetta, ma entrarci dentro, sporcarsi le mani, i piedi, il sedere, metterci la faccia e a cercare di capire come sia possibile che in un paese che si dichiara civile ci sia una accozzaglia, un mucchio, un ammasso di persone ammucchiate dentro lo stesso recinto.
Anche quei sindaci che l’altro giorno hanno sostenuto #Minniti li invito ad andare dentro la base militare di Conetta e capire se è sufficiente che Minniti dall’alto del palco dica: “stop ai flussi, svuotiamo le basi”.
Perché intanto la risposta è stata che altri migranti sono arrivati. E ancora ne arriveranno. Allora se chi predica l’accoglienza intende vendere accoglienza per isterilimento di vite, se intende accogliere delle persone e metterle in un recinto, forse dell’accoglienza non ha capito niente.
Ma forse non c’è nemmeno molto da capire, dato che se si può accogliere lo si fa, altrimenti no. Minniti ha promesso soldi ai comuni che non faranno i capricci, perché il business quello che entra nelle tasche, quello l’hanno capito benissimo.
#adessobasta #meritiamolestinzione #conetta #immigrazione #immigrati#sbetti

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I veneziani, i sardi e i profughi

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Stigliano, Venezia, 26 novembre 2016

Sono le 22 e 30 di una tiepida sera d’autunno. Fa caldo fuori. Un caldo atipico anomalo. Inconsueto.
Entro in un locale per trovarmi con degli amici. La stanchezza di venerdì sera si fa sentire ma per un saluto e una tequila in compagnia c’è sempre posto. Finché aspetto i miei amici di ritorno da una cena (io non ci sono potuta andare per i miei normali orari di lavoro) entra un gruppo di ragazzi. Giovani. Sardi e comunque del Sud. È un gruppo che avevo conosciuto ancora qualche mese fa. E io, sarà perché parlo anche con Satana, sarà per la mia stramaledetta curiosità, fatto sta che avevamo scambiato qualche parola. Dopo qualche sera li incontrai di nuovo. Allora ci sediamo fuori dal locale, una sigaretta, due, tre e facciamo una lunga chiacchierata. Un ragazzo sardo, a cui se ne sono aggiunti altri poi, uno romano e uno napoletano.

 
Mi raccontano che nella loro regione non c’è lavoro, che non si sta bene. Che non è come qui al Nord che c’è voglia di lavorare.
Il ragazzo di Roma mi dice che si è messo in cammino dall’oggi al domani ed è venuto qui. Ha cominciato a bussare in tutte le aziende, ad andare a piedi in ognuna perché non aveva nemmeno il computer per mandare il curriculum, alla fine una l’ha preso. Uno dei ragazzi sardi mi dice che all’inizio qui lavorava come aiutante di una fabbrica che montava e smontava mobili. Così sbarcava il lunario. Adesso ha trovato posto in un’azienda da mattina a sera, a tempo determinato.
Il ragazzo napoletano è quasi rassegnato. Sa che se vuole lavorare deve restare qui. Giù è impossibile. Troppe infiltrazioni mafiose. Il ragazzo sardo ci racconta che giù di 300 offerte di lavoro, tre sono serie. Le altre fasulle. Nessuno paga. Nessuno risponde.

 

Tutti e tre sentono la mancanza della famiglia. Sì, ok sono spavaldi, hanno dai 23 ai 25 anni ma la nostalgia di casa, il vento, il mare del sud, qui non ci sono. Né ci saranno mai.
Ieri sera questi ragazzi li ho reincontrati. L’azienda li aveva mandati in trasferta e adesso sono tornati. Sono sempre all’erta, si danno da fare, cercano un posto di lavoro migliore. Ma si spaccano la schiena.
Nel Veneto ci sono arrivati, senza sapere dove andare. Senza nessuno che li accogliesse, senza nessuno che desse loro, per la prima sera, un misero tozzo di pane.
Le serate se la godono tra di loro.
Una birra, quattro risate e forse per Natale torneranno dalle loro famiglie.

 
Pochi chilometri più a sud invece ci sta un paese. Questo paese si chiama Stigliano.
È un mercoledì pomeriggio. Ore 15.45
Davanti la chiesa principale si sta svolgendo un funerale. Una madre di famiglia. Nel centro del paese le attività vanno avanti: il fruttivendolo che scarica la frutta, il negoziante che affetta un etto di prosciutto (non di più perché bisogna risparmiare), il macellaio che carica e scarica enormi container di carne, il fornaio che si prepara per la notte, la casalinga che stende i panni, il giardiniere dell’asilo che taglia l’erba, i nonni che accompagnano a catechismo il nipote e mamme e papà che corrono, fanno appena in tempo a prendere il figlio a scuole e ripartono per un altro pomeriggio di lavoro.
Poi poco più in là…

 
La vista sembra quasi incredula. Ci stanno loro. Ragazzi di colore, arrivati qui da qualche parte del mondo per essere accolti. Aiutati. E così ci sta quello che ascolta l’iPod, quello che chatta con lo smartphone, quello che ti sorride, quello che ci prova con le ragazzine, quello che mendica qualche spicciolo per acquistare sempre quel cazzo di misero di tozzo di pane e quello che sta sdraiato sulla panchina ad aspettare che faccia sera. Poi, prima che faccia buio si incamminano verso la loro nuova casa: una struttura privata nel rione di Tre Ponti che ha 100 abitanti.
Da lì entreranno nelle loro stanze, si metteranno nel letto, pancia in su, musica, qualcuno cucinerà per loro e “giù ragazzi che è pronto in tavola”.
Il giorno dopo la storia si ripeterà.
Ma intanto le mamme, i papà e i nonni di quei bambini sballottati a destra e sinistra avranno fatto in tempo a fare lavatrici, stendere i panni, pulire la casa, spazzare il cortile, stirare, cucinare, pagare le bollette, controllare i compiti per casa dei bimbi, preparare lo zaino, innaffiare i fiori, litigare con i vicini e dare da mangiare al pesce.

 

E i ragazzi?
Chi? Quelli sardi? Bè loro.
Loro a letto a mezzanotte. Domani alle 7 si ricomincia.
#buonanottesbetti