Genitore 1, genitore 2

A quei quattro cagacazzi che vorrebbero togliere la festa della Mamma, quella del Papà, il Natale, la Pasqua, la festa di fine anno, il presepe, il crocefisso, i canti, pure i santi, volevo dire una cosa. Sì. E ve la voglio dire questa cosa. Allora dovete sapere che mia madre fa l’insegnante. L’insegnante in una scuola elementare. Una di quelle stampo vecchio sapete. Una di quelle che mette la passione nel lavoro. Che non attende i soldi a fine mese per incularli allo Stato. Una di quelle che in tutto quello che fa mette il cuore, che la scuola, i bambini, il lavoro vengono prima, che la scuola, i bambini, il lavoro sono la vita. Ecco e allora dicevo, mia madre fa l’insegnante e l’altro giorno mi fa: sai sto preparando un lavoretto da far fare ai bimbi per la festa della Mamma. Che quest’anno è il 12 maggio.

Ma, ma, “ho quel bimbo a cui è morta la mamma”. E allora io le dico: “mah allora non fare niente se ci sta male, boh non so..” e lei: “eh no, sai che me l’ha chiesto lui? Mi ha detto che vuole fare il lavoretto. Ci tiene, perché così poi porta il lavoretto in cimitero”.

Stop. Brividi. Ho sentito bene.

Allora in quel momento mi sono venute in mente quelle volte che mi sono trovata a discutere con qualcuno che tentava di inculcarmi in testa che: no! Che la festa della mamma va abolita, che quella del papà pure, che la recita di Natale va tolta, che il crocefisso anche, che siamo tutti uguali belli cicciobelli, che il mondo è a colori, e che tentava di inculcarmi in testa con quegli occhi ebeti inebetiti in orbita “genitore 1”, “genitore 2”. Ecco e allora ripensavo a tutte queste questioni e mi sono detta che facciamo tanta pena. Sì. Che facciamo tanta pena difronte alle parole di un bambino che vuole fare il lavoretto a scuola per portarlo sulla tomba di una madre, e poi in parlamento abbiamo gente strapagata il culo che si scorna per far cambiare quello che è sempre stato. Facciamo tanta pena sapete. Tanta. E mi sono detta che tutta questa gente strapagata il culo che si scorna per genitore 1 e genitore 2 e genitore 3 se per caso uno dei due si fa scopare da due anziché da uno, ecco che tutta questa gente della vita non ha capito un cazzo.

Perché allora sentiamo. Sentiamo.

Sentiamo da questi dotti della democrazia e libertà dove dovremmo collocare un bambino che vuole portare il fiore sulla tomba della madre. Lo mettiamo dentro alla stanza di quelli che sono nati da genitore 1. Lo mettiamo dentro alla stanza di quelli che sono nati da genitore 2. O gli facciamo vivere quella giornata con il lavoretto fatto a scuola.

Perché vorrei tanto sapere da chi è nato quello che rivendica genitore 1 e genitore 2, che rinnega pure la propria madre. Vorrei tanto sapere da chi è nato il figlio del genitore 1 che non è in grado nemmeno di pronunciare madre padre. Vorrei tanto sapere da chi è nato colui che non riesce a dire grazie nemmeno alla madre. Ingrati che non siete altro. Codardi. Incapaci di provare gratitudine per chi vi ha messo al mondo.

Vorrei tanto saperlo sì.

#nottesbetti

#sbetti

Si lavora a tutto spiano

In questi mesi sto conoscendo altre nuove persone. Il nostro lavoro è così. Passiamo da una stella cadente a un’altra senza cadere mai. Al massimo, se si cade, ci si rialza.

Poi quando la stella cadente passa si rimbalza sui pianeti dell’universo, piombando su un’altra nuova stella cadente.

E allora dicevo in questi mesi sto conoscendo un sacco di gente, sì. È sempre così. A ogni nuovo o prossimo lavoro. Conosci gente nuova, nuova gente, instauri relazioni più o meno durature, tessi i rapporti che tessono le fila di questo mondo, apri parentesi, ti appassioni, magari ti innamori, con qualcuno stringi amicizia, con qualcun altro una semplice conoscenza, con qualche altro ancora ti odi, vieni a parole, ti scontri, no è meglio così, no è meglio colà, no non vedi che te l’avevo detto, era meglio come dicevo io, ma no cosa dici, insomma un coacervo di gente che parla rimbalza respira si affanna, non si annoia, non molla, ma che soprattutto vive. Già. Perché come mi capita sempre, quando mi cibo di questa vita che scorre, quando senti il flusso degli eventi correrti addosso e venirti incontro, ecco in tutti questi rapporti senti la vita. C’è la vita che scorre. Perché mi è capitato poi, che quando finisce quel lavoro non sempre ci si saluta e ci si segue su Facebook. Con alcune persone si resta in contatto. Si esce. Magari nascono nuove amicizie. Si danno vita a nuovi progetti. Nuovi sogni e nuovi desideri. E allora questi giorni si lavora sodo. Si lavora duro. Si lavora tutti insieme all’unisono. Chi prende appunti. Chi studia. Chi parla. Chi discute. Chi progetta. Chi programma. Chi disegna. Chi annota. Chi pensa. Chi stancato, batte i pugni sul tavolo. Chi arriva divora caffè. Chi cammina su e giù, chi fuma. Chi corre. Chi va con calma.

Perché mai come in queste situazioni, quando ci sono giorni che devi correre contro il tempo, quando ci sono giorni che ogni minuto è quello prezioso, ci si rende conto di quanto sia importante la squadra. Il lavoro di gruppo.

Perché a volte mettendo insieme le forze, condividendo le idee, spingendo avanti dritti fino all’obiettivo si raggiungono grandi risultati. Gli stessi che avevamo sognato e in cui abbiamo creduto.

#sbetti ❣️

L’importanza delle tradizioni ❤️

L’importanza delle #tradizioni.

Allora adesso vi dico io dell’importanza di queste tradizioni. Sì.

Allora il giorno di Pasqua ero al telefono con mia #nonna. Una nonna di cui forse ancora non vi ho mai parlato. Una nonna lontana. Lontana centinaia e centinaia di chilometri. Ma una nonna vicina. Una nonna che c’ha la bellezza di ottantacinque anni ma che ancora indossa cappellini, va a farsi la piega dal parrucchiere, indossa abiti sgargianti in tinta con le scarpe e si fa pure la manicure.

Se è estate invece indossa abiti sgargianti in tinta con i sandali. Sandali zeppe.

Una donna moderna. Una nonna moderna.

Una nonna di quelle che ti dicono che la #libertà viene prima di tutto. Di quelle che ti dicono che “mi raccomando non sposarti troppo presto, perché intanto, intanto c’è tempo. Fai le cose tue”. Già.

Una nonna che ha imparato dalla vita le cose più dure. Una nonna forte, coraggiosa, che ora sta in piedi da sola. Una nonna che “hai presente quello che ha imparato nonna nel corso degli anni? Ecco io l’ho imparato molto prima”.

E allora dicevo ieri ero al telefono con la nonna. Quest’anno il giorno di Pasqua non abbiamo potuto passarlo insieme. E allora mi ha detto che ha mangiato l’agnello. Che ha preparato il pranzo pasquale. Che si è pettinata. Che ha apparecchiato la tavola. Che ha fatto tutto quello che la tradizione consiglia di fare. Perché mi ha detto: “se perdiamo anche queste tradizioni, di noi cosa rimane? Hai visto cos’è successo in Sri Lanka?”.

Già. E allora varie volte mi sono chiesta dov’è stiamo andando. Con questo mondo sempre più frivolo. Con questo mondo sempre più liquido. Con questo mondo sempre più privo di punti di riferimento. Sempre più cafone verso le tradizioni. Sempre più grezzo verso i valori. Con questo mondo che sputa in faccia ai nostri padri e ai nostri genitori.

Perché la tradizione non vuol dire per forza religione. Ma vuol dire che nella vita ti hanno trasmesso qualcosa in cui credere e che almeno una volta la pena rivivere: una situazione. Un sentimento. Un valore. Un emozione. Un’identità. Un legame che unisce due regioni, due città.

E allora anche se nata al mare e molto libera, mi sono sempre sentita legata a queste tradizioni, a queste radici che crescono sotto agli alberi e ti permettono di svettare, e mi sono sempre detta che sì, che le tradizioni, i punti “fissi” vanno mantenuti, perché sono quelli in cui ogni tanto con la nave torni in base. E fai benzina.

E quindi eccoci qua.

A festeggiare la Pasqua come tanti anni fa.

#buonanottesbetti

#sbetti

A una donna che sta male

Oggi ho incontrato una donna. La conoscevo. La conosco. Ma non sapevo stesse male. E allora l’ho vista venire avanti mentre era sorretta da un’altra donna. E allora la vedevo venire verso di me. E mentre veniva verso di me, mi dicevo: io questa donna la conosco. Io questa donna l’ho vista da qualche parte. Io questa donna mi ricorda qualcuno ma non so chi. Poi. Poi si è avvicinata. Mi ha sorriso. Mi ha salutata. E mi ha detto: ciao Serenella.

E allora io le ho detto: ma ci conosciamo?

Avevo capito stesse male. Ma sapete quelle situazioni in cui il tempo corre più veloce dei pensieri e non riesci a fare in tempo a fermare il tempo per dire quello che vorresti.

Ecco, e allora lei mi fa: “sì, ti ricordi…” e mi ha detto dove e come ci eravamo conosciute.

E allora io le ho detto: ma sei tu?

E lei: “eh sì, sono io”.

E non lo so come ci sia rimasta. Ma io ero quasi incredula. Non sapevo che dire.

Perché aveva il volto circondato da un velo. E sotto quel velo aveva la pelle di un colore roseo, ma roseo vivo. E aveva gli occhi. Gli occhi che brillavano di luce. Gli occhi che dicevano: il male è dentro di me, ma io sono viva. Viva.

E allora mi ha fatto brutto vederla.

Perché non avrei mai voluto vedere una persona star male.

Poi però non mi sono azzardata a dire niente. Sono rimasta fissa. Immobile.

Un’altra persona mi chiamava ma io fissa immobile in quel cazzo di pezzo di strada continuavo a fissare quel metro quadro di asfalto e mi chiedevo perché il male colpisce gli uomini.

Gli essere umani.

E allora la guardavo, e per un attimo avrei voluto scappare da quell’ammasso di gente attorno a noi e mettermi a piangere. Ogni tanto mi capita. Ogni tanto lo faccio. Ma non mi sono sentita di dire niente. Niente. Non mi sono sentita di chiedere come stai. Di dire che hai.

Nella vita degli altri, nel dolore, nella malattia, facendo questo lavoro, ho imparato che si entra in punta di piedi, senza fare rumore, senza creare oppressione, chiedendo permesso, non come quei cafoni che in bagno ti aprono la porta del cesso.

Ho imparato che si entra nel dolore degli altri, senza creare i presupposti per vivere quel dolore. E che tu difronte a quello che provano gli altri, sei niente.

Non si fa come quei quattro cagacazzi convinto che sono pronti a chiederti come procede solo per sapere le ultime novità, solo per sapere; e solo perché la curiosità è più forte del rispetto, è più forte della vergogna, più forte del buon senso.

Solo per la bramosia di dire so anch’io.

Solo per dire. Appunto.

E allora ne ho viste di situazioni dove il dolore piomba addosso dall’oggi al domani e come un turbine sconvolge la vita, te la sconquassa. Te la stravolge, te la lacera.

Quel dolore che non lascia tregua e che non lascia altra via d’uscita se non il percorrerlo e uscirne vincitori.

E allora non lo so se ora questa persona mi sta leggendo, ma volevo provare a lanciare un messaggio, perché alla fine puoi dire tante cose, puoi dire tante parole, tante, tantissime, bellissime ma nulla conta più della tua testa, del pensiero positivo, della forza, e della convinzione di potercela fare.

Perché come ti ha detto oggi una persona: “ricorda che dopo la notte, c’è sempre il giorno”.

#sbetti

Notre Dame brucia

Qui dove nemmeno Dio è eterno.

Allora eccola l’ira del diavolo. Quella per cui gli islamici esultano. Quella per cui gli estremisti islamici godono. Eccola. Eccola. E allora questo è il dialogo che cerchiamo. L’Europa che vogliamo. Questa è l’integrazione che professate nelle piazze. Che inculcate nelle scuole. Che vomitate nei social. Il Site, il sito di monitoraggio dell’attività jihadista su internet, ha riferito di jihadisti ed esponenti di gruppi estremisti che hanno esultato sul web alla notizia dell’incendio che ha devastato la cattedrale di Notre Dame, condividendo foto e immagini sui social network.

Come fosse una notizia da brindare. Come fosse una notizia da riempire con festoni e faccine sorridenti.

Come fosse una notizia da condividere sui sociale per dire che qualcuno ci ha punito. Per dire che quello che credevi eterno un giorno si sbriciola davanti a te. Perché io me la ricordo la Cattedrale di Notre Dame. Sì. Sì che me la ricordo. Era di una imponenza maestosa. Arrivai davanti la cattedrale che era mattino presto. Avevo dormito poco. E ricordo che appena la vidi un brivido mi corse la schiena. Se ne stava lì massiccia imponente con queste sue enormi Torri che svettavano al cielo che si innalzavano verso l’alto. E tu ti sentivi piccola. Ma piccola. Piccola. Piccola. E più ti avvicinavi più ti sentivi piccola. E più ti allontanavi più ti sentivi altrettanto piccola. La Cattedrale di Notre Dame era qualcosa di indescrivibile, di maestoso, qualcosa avvolta da un non so che di mistero come se dentro ci fossero quei monaci vestiti con le tonache lunghe che svaniscono nel cuore della notte sparendo nel buio. Insomma aveva un non so che di tutto questo. Ma dentro il patrimonio era impareggiabile.

E allora chi ha visto l’incendio oggi ha visto sotto gli occhi impotenti e atterriti la Cattedrale bruciare. L’ha vista andare a pezzi. Sgretolarsi. Ha visto la guglia cadere. Ha visto una Cattedrale mangiucchiata dalle fiamme, ridotta in brandelli, smembrata, snervata, slabbrata da cani che non lasciano nemmeno le ossa. In alcuni punti la Cattedrale è rimasta in piedi come sta in piedi uno scheletro sorretto da un filo di ferro. Ecco cosa è rimasto della Cattedrale di Notre Dame. Del simbolo della cristianità. Ed ecco cosa accade quando i Cristiani vengono colpiti. Che gli jihadisti esultano. Che gli estremisti applaudono. Così, come se l’unico scopo del loro mondo sia quello di attaccarli e vederli bruciare.

#sbetti

Una manica di deficienti

Stiamo crescendo una manica di deficienti e non ce ne rendiamo conto. Allora a proposito di #bullismo. Oggi mi ferma una insegnante per strada e mi dice: “sai ho letto il tuo pezzo oggi su quella ragazza picchiata dal suo compagno di classe, nove anni…”.

“Già”, faccio io.

“Però sai – continua lei – adesso ti racconto questa. Allora la settimana scorsa eravamo in classe durante l’ora di ricreazione quando un bimbo si alza, si avvicina al compagno e gli tira un pugno perpendicolare alla testa, io rimango esterrefatta e subito grido Filippo (nome di fantasia) ma cosa stai facendo! Mi alzo e vado dal compagno che aveva ricevuto il pugno. Filippo mi dice che era solo un gioco e che praticamente su internet c’è scritto che se vuoi dimostrare di essere forte devi colpire il tuo compagno in testa e vince chi riceve più colpi e resiste di più”.

Un po’ come il “knockout”, il gioco degli adolescenti balordi americani, che nel 2015 aveva terrorizzato New York e il resto del Paese.

Così l’insegnante cosa fa. Chiama i genitori, siamo in una scuola elementare, e la mamma dice che sì. Che in effetti il figlio passa molto tempo su internet, guarda il tablet e poi la rete chissà dove ti porta.

Il tablet dice la madre è l’unico “gioco”che lo fa stare zitto e tranquillo.

E infatti. Te li vedi i bambini e i ragazzini di oggi. L’altro giorno uno, avrà avuto circa 14 anni, mentre camminava mi è venuto addosso, perché aveva lo sguardo fisso sull’iPhone. Voi pensate che abbia alzato il capo e chiesto scusa. Ma vanne.

Del resto se a Bolzano hanno messo i pali antibotte per riparare le persone che mentre camminano vanno a sbattere, capite come possiamo crescere solo una banda di coglioni.

Cioè la società che si adegua a questi comportamenti così pericolosi è letale.

E allora dicevo li vedi questi ragazzini. Questi bambini. Se hanno dai cinque ai 12 anni e la sera escono ancora con mammà e papà, i genitori li siedono sul tavolo, danno loro il tablet, fanno cenno di stare zitti e prego rincoglionitevi tutta la sera! Navigate dove non potete navigare. Non si vedono più quei bambini vivaci, questi bambini vispi allegri attenti, quelli che si rincorrono tra i tavoli. Ora si vedono bambini violenti. Che ti pestano perché credono che tanto il mondo reale sia come quello virtuale. Giocano a fare i supereroi. Pensano di avere superpoteri.

Ragazzini che dai 13 ai 18 anni non si scambiano più nemmeno i baci. Limonano su whatsapp. Si scambiano foto hard. Deridono i compagni. Prendono per i fondelli le compagne. Si scambiano video scottanti. Ragazzini che, come mi ha detto ieri il neuropsichiatra infantile Pajno Ferrara che ho intervistato, “hanno sempre più contatti e sempre meno relazioni”. Perché a questo portano i social, gli smartphone, al pensare di avere 3254 amici e di essere sempre connessi perché altrimenti si è fuori dal mondo.

Gente che addirittura anche se hai trent’anni fa fatica a comunicare. Si lascia su whatsapp. Ti manda le faccine perché non riesce nemmeno a dire grazie o vai a cagare. Le faccine hanno sostituito i sentimenti. Per ridere mando la faccina sorridente. Per piangere mando le lacrime. Gente che si offende se non c’è la faccina. Ci siamo fatti talmente prendere per il culo dalle faccine che se non ci sono le faccine sparisce l’educazione. Gente che non fa più fatica a scrivere. Che ti manda messaggi vocali. Che ti detta un cazzo di messaggio, dove poi devi impiegare un quarto d’ora per interpretare, perché non si capisce nemmeno che straminchia ci sia scritto. Punto. Cazzo. Amen. Gente che non sa aspettare. Gente che non sa nemmeno più andare dentro a un ristorante e chiedere un tavolo per due perché con l’app sì è dimenticato di prenotare. E allora stiamo crescendo come degli amebi sapete perché per ogni cosa non facciamo più niente. Per trovare una strada c’è il navigatore. Per parlare con le persone esiste whatsapp. Per fare la spesa c’è la spesa a casa. Per dirti ti amo c’è il cuoricino. Per dire che ridere c’è la faccina. Per dirti merda c’è la cacca. Per dirti vieni a bere qualcosa c’è il bicchierino. Tutto ha sostituito tutto. Per ordinare qualcosa c’è Amazon. Per qualsiasi cosa c’è una cazzo di app inventata all’ultimo minuto.

All’uomo. All’uomo non è rimasto nulla se non abbassare la testa e digitare. O mandare un vocale. Oppure dettare. Punto. Cazzo. Amen.

#sbetti

Oggi ho conosciuto una donna

Oggi ho conosciuto una donna. È polacca, ha 48 anni e c’ha pure due figlie. Due figlie gemelle. Di 28 anni. Ha avuto le figlie quando di anni ne aveva 20. E poi da sedici anni è venuta a stare qui in Italia. Prima c’è venuta per trovare la sorella. Poi c’è venuta per ritrovare la sorella. Poi c’è venuta per ritrovare ancora la sorella e così una due tre quattro volte, alla fine in questa Italia c’è rimasta. In questa Italia che gli italiani trattano peggio della fogna. In questa Italia che resiste su questa cartina geografica e che ancora non affonda. E allora dicevo é venuta in Italia. E mentre mi parlava di lei del suo lavoro delle sue figlie, c’aveva gli occhi che le bombardavano passione. Che le abbondavano di voglia di fare. C’aveva gli occhi di quelli che vengono in Italia per lavorare. Per farsi una vita. Per migliorare. Non aveva gli occhi di aspetta che tramonti il giorno e che faccia sera. E c’è una cosa infatti che noto in alcune donne straniere che vengono in Italia per lavorare. Ed è la voglia di fare. Il credere che si possa fare tutto. Lo slancio. La passione. L’entusiasmo. È questa voglia che traspare dagli occhi e che fa sembrare possibile anche ciò che non lo è. E le vedete sapete. Le riconosci subito. Stanno ai banconi dei bar con i guanti in mano e tirano giù quel guanto con i denti, fanno sfiorare il polso sui capelli per mettersi a posto il ciuffo. Stanno nei bagni dei locali o degli autogrill, ferme lì mute immobili che paiono dire: devo solo resistere, c’è una vita là fuori. Oppure stanno sedute in qualche aula universitaria e sembrano non stancarsi mai. Viverla tutta questa vita che a loro ora è concesso vivere. Berla fino all’ ultimo goccio. Sembra che di quella vita che forse gli era stata tolta, ora se ne vogliano riappropriare, che se la vogliano riprendere tutta, studiando, approfondendo, imparando. Cercando di non buttare via nemmeno mezzo secondo di questa vita che ora hanno. E allora oggi parlavo con questa donna e a un certo punto mi ha detto che lei ama l’Italia. Ma che molti nascono in altre parti del mondo e che per il solo fatto di nascere da un’altra parte, significa che hai la vita segnata.

Poi però. Poi mi ha detto un’altra cosa: “sai, non tutti hanno la possibilità di nascere in un Paese come questo; molti hanno genitori che non hanno chissà quali possibilità o che mettono i figli sulla cattiva strada, però poi c’è anche chi un giorno decide di prendere partite e di cambiare la sua vita”.

E allora questo mi ha fatto riflettere. Perché non si cambia scrivendo su Facebook “oggi si cambia”, “oggi riparto da me”, “oggi vita nuova”, o postando qualche frase di tutte quelle innumerevoli stronzate e cagate che questi distributori di deficienza ci propinano. No. O non si cambia lamentandosi. O provando a sistemare le cose.

C’è anche chi la vita, l’ha cambiata per davvero.

#nottesbetti

#sbetti

Questa Italia che finisce nel cesso

Allora adesso ve la racconto io questa Italia del cazzo che non concede sconti. Che non concede premi tranne ai delinquenti. Che non aiuta i bisognosi. Che non dà sussidi se non ai terroristi. E ve la racconto io sì. Ve la racconto io questa Italia fottuta che si è fottuta il cervello fottendosi le persone. Allora l’altro giorno è morto il papà di un mio amico. Un amico di quelli veri. Un amico di quelli che ti ci puoi dire tutto. Puoi parlare di festa. Di uno spillo. Di filosofia. Lui che ci è pure appassionato. Puoi parlare di cultura. Di arte. Di droga e di sesso. Un amico di quelli con cui devo sempre andare a vedere l’alba come quella di questa foto che lui ha scattato.

Un amico che ti dice le cose in faccia senza preoccuparsi delle conseguenze. E allora dicevo è morto il papà di questo mio amico. E io mi ricordo una sera di qualche mese fa quando il mio amico mi disse che il padre stava morendo. Eravamo seduti fuori al tavolino di un bar a fumare la nostra sigaretta quando mi disse che il padre stava molto male e che lui non sapeva che fare. Ma poi. Poi come in tutte le cose, vai avanti, non ci pensi. Vivi ogni giorno una realtà ma quando poi la sera esci vuoi staccare. Non pensare.

Poi l’altro giorno. L’altro giorno un messaggio.

Allora il mio amico che è pure forte, non si fa prendere da piagnistei. No. Affronta la cosa con la solidità di un uomo. Così l’altro giorno ci dovevamo vedere e ho pensato che avrei dovuto avere tatto. Perché in fondo gli era appena mancato un pezzo. Gli era appena mancata una parte di sé, quella che un giorno decide di darti la vita.

Ma ieri. Ieri in Facebook scrive una cosa. Che mi ha fatto riflettere. E che ora ho riporto qui.

“Ci lavori due anni – scrive su Facebook- per carte, documenti, scartoffie per ottenere una accompagnatoria ma la usi solo 2 mesi. Riprendi il tutto in mano per un inserimento in una casa di riposo per un malato terminale ma ti serve SVAMA, ISEE e documenti di ogni tipo compreso foto di quanti peli hai sul culo. Finisci questo ma nel frattempo tutto ciò non serve più e quindi devi ripartire con tutt’altre carte. Intanto ti bloccano tutto, pensione compresa quindi una persona anziana non ha di che vivere. Questa è l’Italia di merda, laddove non funziona un cazzo, quell’italia malata di ladri e corrotti che se si accorge che hai cinquanta euro messi da parte, dopo una vita di lavoro e sacrifici, trova il modo per incularti anche quelli”.

Già. Perché allora questa è l’Italia del cazzo. Quella dove per avere un’accompagnatoria ci vogliono due anni. Quella che quando la ottieni non ti serve più. Due anni di carte, cartine, carrette, buste, pratiche. Due anni di uffici. Di telefonate. Di mail. Due anni di giri a vuoto. Due anni su e giù con l’auto. Due anni dove ci paghi pure le marche da bollo e il caffè agli impiegati. Due anni fatti per mandare avanti la burocrazia che affonda il paese. Che macina l’acqua. Che spegne il fuoco con l’incendio. Due anni passati a ottenere una accompagnatoria che usi due mesi. Perché poi. Perché poi accade che il padre abbia bisogno di una casa di riposo, quelle dove accudiscono i malati terminali, perché se un figlio lavora tutto il giorno non può stare a casa, e perché se uno sta a casa non porta a casa i soldi che ti servono proprio per ottenere le carte. E così. Così mesi di altre richieste. Altre telefonate. Altre dichiarazioni. Altri giri. Altri soldi. Altre carte. Fino a che. Fino a che il padre muore e tutte quelle carte, tutti quei giri, tutte quelle mail, tutte quelle pratiche finiscono giuste dritte nel cesso. Di questa Italia del cazzo.

#nottesbetti

#sbetti

La vecchiaia

Domenica a mezzogiorno ero in un locale. Uno di quelli sapete dove fanno gli aperitivi e le cose buone da mangiare. E allora dicevo ero in questo locale e ho visto un uomo. Un vecchietto. C’aveva gli occhiali e il sorriso spento. Gli occhi non si vedevano nemmeno, come se non c’avessero più nulla da guardare, coperti da quegli occhiali con cui guardava il mondo. Poi mi sono girata e dall’altra parte ho visto una donna. La donna circa settant’anni c’aveva le unghie rosse e un cappottino viola. L’uomo invece c’avrà avuto circa ottant’anni, forse di più e se ne stava lì seduto su quella panca di legno con il capo abbassato e le mani posate sul tavolo rivolte verso l’alto.

Le dita che faticavano a stare dritte, se ne stavano flosce sopra quel tavolo, che sembravano quelle di un umano senza vita, come attendessero. Come attendessero che qualcuno le andasse a prendere. Già. Attendevano.

E allora ho preso il mio caffè, sono uscita, mi sono fumata la mia sigaretta e quando sono rientrata dietro di me ci stava quella donna, con le unghie rosse e il cappotto viola. Se ne stava da sola seduta su uno di quei tavolini dove ti portano i bagigi e le patatine e davanti a sé aveva un calice pieno di spritz.

Allora ho guardato quell’uomo. E ho guardato quella donna. E ho chiesto al titolare del locale chi fossero. Mica perché sono invadente.

Ma perché è un po’ che li vedo lì. E allora la titolare mi ha detto che lui è un vecchietto che c’avrà all’incirca ottant’anni e che la moglie è morta tre anni fa. Ma che siccome con i figli non va tanto d’accordo e siccome lui a casa non si fa da mangiare, allora la domenica va lì e almeno mangia da solo ma in compagnia. Sì insomma nell’atmosfera di un locale. Nella casa di chi non ha casa. Insomma sì guarda le persone. Ascolta un po’ di musica in sottofondo. E intanto aspetta. Attende. Attende il cibo. Attende l’acqua.

Attende il caffè. Attende la sera.

La donna invece è un po’ più giovane, è sposata ma siccome a casa forse non ci vuole stare allora anche lei va lì. E attende.

E allora non lo so. Non lo so. Ma stanotte mi sono trovata a sognare la vecchiaia. Non la mia, la vecchiaia di alcune persone care. E c’è stato un momento in cui ho avuto una sensazione bruttissima che anche ieri mattina quando sono andata a correre, mi portavo appresso. Ed era la sensazione di chi è vecchio e aspetta di morire. E sarà perché ultimamente ne vedo tanti di vecchietti. O forse li vedevo anche prima, ma ora ci faccio caso. Vedo il vecchietto che conta gli spiccioli al bar. Quello che passeggia solo soletto sotto la pioggia. Quello che ogni mattina e ogni sera sempre alla stessa ora, fa sempre lo stesso percorso. E quello che la sera ti passa davanti con le spalle ricurve e cammina e cammina piegandosi in avanti che sembra portarsi appresso il macigno della vita. E poi vedo pure quello che compra i Ferrero Rocher al bar. Che si prende il giornale. O quello che esce con il sacchetto delle medicine sulle mani.

Come questo signore qui che lento avanzava e in una sera d’inverno lungo le calli veneziane.

E allora oggi quando ho ripensato a questo sogno ancora quella sensazione c’era. Perché mi sono detta, come, come si faccia a sopportare l’idea di aver vissuto e di prima o poi doversene andare. Come a dire basta. Come a dire che in questo mondo non ho più niente da dare. No. Perché credo che queste persone, ancora abbiano molto da dare. Basta soltanto stimolarle e farle rivivere. Sì insomma credo che abbiano ancora una vita da vivere. Quella della vecchiaia, senza dover patire il peso di chi aspetta.

#nottesbetti

Ad Anita, che ancora non sa leggere

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Questo è il primo racconto di una serie di racconti che raccontano la vita di Anita, mia nipote. E questa è la sua nascita. #sbetti 

Ti ho aspettato. Dio se ti ho aspettato.
Dio quanto ti ho aspettato.
Allora questa storia comincia nove mesi fa. Ma vi racconto l’ultima parte. Quella che vale nove mesi. Quella per cui a un certo punto piangi e gridi al cielo che la vita è la vita più bella che abbiamo.
Allora questa piccola storia di una storia durata nove mesi comincia l’altro giorno.
Mia sorella, è lei la persona di cui vi sto parlando, Ambra Bettin, quella che vedete in fondo nella foto, inizia ad avere forti fitte. E fanno male. Ma male cane. Ma male da lacerare lo stomaco. L’intestino. Gli organi vitali. Va al pronto soccorso ma dal pronto soccorso la risposta è chiara: dobbiamo aspettare. Allora torna a casa. Ma le fitte continuano. Aumentano. Non si arrestano. Anita si muove. E sono fitte sempre più forti. Sempre più. Una. Due. Tre. E poi ogni dieci minuti una. Due. Tre. E poi ogni sei minuti. Una. Due. Tre. E poi ancora. E ancora. E ancora. E poi ogni cinque minuti. Una. Due. Tre. E sono fitte lancinanti. Prendono la schiena. Prendono la pancia. Prendono tutto. E intanto. Intanto i minuti passano. Le ore anche ma l’attesa è snervante. Allora prendo l’auto perché devo uscire per lavoro. Fuori le strade sono piene zeppe di luci. La gente comincia ad addobbare a Natale. Ma le luci stesse da sole fanno molto Natale. Le vetrine dei negozi si addobbano di ghirlande e bacche rosse. I fanali dell’auto tagliano a metà l’asfalto e su, su in alto, alzo lo sguardo e c’è una luna piena. Ma piena, che più piena non si può. Se ne sta dietro quella torre dell’orologio che scandisce i minuti e batte il tempo.
Allora mi dico: ci siamo.
Arriva sera tardi e le fitte si fanno sempre più forti. Sempre più lancinanti. Sempre più dilanianti. Una fitta dura dai quattro ai cinque minuti. Poi. Poi la fitta passa. Ma poi. Poi passano cinque minuti. E ancora. Ancora un’altra fitta. Allora io non ce la faccio a vederla così. Vado da mia madre. E mi metto a dire se mai sia possibile che una donna per partorire debba soffrire come un cane. Se sia mai giusto. Qual è il senso. Insomma mi metto a discutere, per passare il tempo sulle teorie del Cristianesimo e del dolore, per dire se mai sia giusto che una donna soffra così per dare alla luce il creato. Allora mia madre mi dice che di lotte le donne ne hanno fatte tante, ma quella per far partorire senza dolore, quella no. Quella non l’hanno fatta. E allora torno in salone e vedo mia sorella soffrire. E se avessi potuto mi sarei presa io una parte di male di lei. Avrei fatto a cambio. Le avrei dato metà pancia. Metà schiena. Un braccio. Bastava che il male fosse diviso a metà. E invece. Invece no. Allora è tardi. Le fitte si fanno sempre più forti. Ma dall’ospedale hanno detto che il travaglio non è ancora iniziato, che quelle non sono contrazioni. Che quello è niente in confronto a quello che dovrà affrontare dopo. Ma niente. Mia sorella non ce la fa più. “Non ce la faccio più a vederla cosi”, mi dice il suo compagno.
Così si prende e si va in ospedale. La corsa. Quelle auto che partono e si mettono in coda. Le grida. Le urla. Le fitte. Questa piccola creatura che non vuole uscire. Ma una vocina dentro di me che sembra dirmi ci siamo. E allora mi accendo una sigaretta. E poi un’altra e un’altra ancora. E ho pianto. Dio solo sa quanto ho pianto. Ho pianto tanto, ma tanto, ma tanto. Ho pianto tanto quando tutti ti aspettavamo. Sono arrivata dentro a quel corridoio di ospedale con il cuore che scoppiava dalla gioia, con il volto pieno di lacrime ma con la pena di vedere mia sorella soffrire. Ma niente. Ancora niente. Ancora te ne stavi lì. E non volevi uscire. Allora ho provato a chiamarti. A invocarti. A fare in modo di far star tranquilla mia sorella. Ma nulla. A mezzanotte sono usciti i medici: “la teniamo qui ma è ancora lunga”. Poi. Poi ieri. Io che scrivo su Whatsapp a mia sorella. Mia sorella che mi risponde. Ciao come va. Forza dai. Posso venire lì. Meglio di no non ti fanno entrare. Ora provo a dormire. Quando. È da poco passata l’una. E inizia. Ricomincia. Le contrazioni stavolta sono fortissime. Una ogni pochi minuti. E poi un’altra. Un’altra e un’altra ancora. Non si può più aspettare. Ma è ancora lunga dicono. Allora ci mettiamo il cuore in pace. Sì continua a lavorare. Poi. Poi nel pomeriggio quella telefonata. In lacrime. “È nata”. Sono nel mezzo del lavoro. Vado a Padova. Saluto i colleghi. Ci stanno Fausto Biloslavo e Gian Micalessin che presentano il loro libro Guerra Guerra Guerra. Li saluto. E poi. Poi corro. Corro. Corro. Prendo l’auto e schiaccio l’acceleratore a più non posso. Dio quanto ho schiacciato quell’acceleratore. Le auto che sbucano da ogni dove. Le rotonde piene. Le luci sono tante ciocche che fanno festa. Le auto che corrono sopra l’asfalto e che sembrano trainarmi verso quella piccola creatura. Qualcuno scrive sul telefonino. Il papà manda una foto. È uno spettacolo. La gente in piazza a Padova fa shopping compera, parla, cammina passeggia. Ci sono le bancarelle quelle prima di Natale. Ci sono già quelle con i dolci i torroni e le carrube. Ci sono già quelle dove é già Natale. Allora tutti corrono. Tutti si affrettano. Tutti che sembrano volerti dire: “vai Serenella corri”. E allora alla radio suona Baglioni. “Sono nato anch’io sotto un quadrato di stelle”. E infatti. Si è fatta sera. Mancano pochi chilometri. Parcheggio. Scendo dalla macchina. Per cena mangio un mandarino e un pacchetto di cracker. Mi accendo una sigaretta. Cammino più veloce che posso. Entro. Sgattaiolo dentro a quel reparto dove ci stanno le ciocche dei bambini e delle bambine, dentro a quel reparto dove ci stanno i bambini che piangono, le mamme che allattano e i papà che vanno in panico. Percorro un corridoio. Poi un altro. Poi torno indietro. Guardo dentro a tutte le stanze. Fino a che. Fino a che non leggo il tuo nome. Fino a che non riconosco la ciocca. Sei tu. Sei qui.
Busso. Entro. Sono dentro. E dentro ci sta lei. Ci stai tu.
Questo batuffolino rosa pieno di vita dentro a questa culla. E poi. Poi ci stanno loro Mamma e Papà. Il resto. Il resto ora ve lo racconta lei. Perché il resto è l’inizio di quello che sarà uno straordinario racconto.
Continuando il viaggio.
#ziasbetti
#sbetti
#nottesbetti

Si lavora a spron battuto

Questi sono per me giorno concitati. Incasinatissimi. Si lavora a ritmo serrato. Minuto per minuto. Secondo per secondo. Non fai in tempo a svegliarti al mattino che non ti accorgi nemmeno di aver dormito. Non fai in tempo a svegliarti al mattino che subito il telefono comincia a tintinnare. A strimpellare. A gridare. I messaggi si accavallano. Le chiamate pure. Quelle sveglie messe lì da un mese, quando da un mese a questa parte ti svegli prima della sveglia, ecco quelle sveglie continuano a suonare e a ricordarti che è tardi. E poi le notifiche su whatsapp. I giornali che arrivano. Le mail che piovono.

Non fai in tempo a rispondere a una chiamata che sotto ce ne sta un’altra. Non fai in tempo a prendere appunti con il block notes sulla gonna che subito scatta il verde.

E non fai in tempo a sederti per mangiare che tac squilla il telefono e magari al telefono ci sta quello che per dirti due cose in croce impiega la bellezza di 44 minuti perché si sa la brevità è dono di pochi. E allora tu negli altri 38 minuti disponibili fai altro. Scrivi. Mangi. Leggi. Pulisci. E questi parlano. Parlano. Parlano. Poi ti chiedono se hai capito. E tu brillantemente rispondi sì: gli ultimi 38 minuti corrispondono esattamente ai primi sei moltiplicati per quattro col resto di due.

E allora dicevo sono giorni concitati, la mattina una cosa dietro l’altra, uno scritto dietro l’altro, organizza, annota, leggi, prendi, fai. Non fai in tempo a finire un lavoro che ne arriva un altro, non fai in tempo a rispondere ai 384 messaggi su whatsapp giunti nel giro di un’ora che subito ti si infila un’altra conversazione. E non è la prima volta che sbaglio destinatario. Oggi a qualcuno ho mandato dei cuoricini. Una volta a un politico anche importante ho scritto “Ciao amore”, e frequenti sono quei messaggi che valgono bene per tutti. E l’ultima volta c’ho pure azzeccato infatti. Volevo mandare un messaggio a uno. L’ho mandato a un altro, per lavoro si intende, e andava bene uguale. O come stasera, saluto un Marco perché mi sembra veramente quel Marco e in realtà era un altro Marco. E così ogni tanto gira dalla tua parte. Per non dimenticare di tutto quello che lascio in giro. Stamattina dall’ottico c’ho lasciato gli occhiali da sole. Anche se pioveva. Così sono tornata indietro ma dovevo far benzina. E allora mi sono detta: torno indietro e poi faccio benzina. Insomma vado a riprendermi gli occhiali da sole, torno al distributore, tac, nel giro di mezz’ora benzina aumentata. La sfiga.

E poi le mail. Rispondi a una ne arriva un’altra. Mandi un comunicato. Ne serve un’altro. Mandi una foto. Taglia la foto. Chiama. Squilla. Trilla. Gli appuntamenti si infilano nell’arco della giornata come i pezzi di carne e i peperoni che si infilano negli spiedini. E ogni tanto mi sembra di essere come in uno di quei giochi che c’avevo da piccola e dove ci stava quello che ci sta alla giostra di Gardaland, Atlantide, e dove se eri brava e pigiavi i bottoni al tempo giusto, il tipo simile a quello della giostra di Gardaland infilava i cerchi dentro le lance che sguazzavano nell’acqua.

Ecco e allora ogni tanto mi sento così. Come se dovessi a spron battuto, combattendo il tempo, infilare tutte le cose nella lancia della giornata. Così ogni tanto, per ricaricarmi, me ne vado in posti sperduti, al mare, in montagna, in collina, a correre, a cantare, prendo la bici e osservo il paesaggio.

Perché nonostante questi ritmi serrati, mentre infili gli impegni uno dietro l’altro si assapora la vita.

#nottesbetti

#sbetti ❤️

Giovanni Paolo II

È morto il 2 aprile del 2005. E aveva 84 anni. E allora io me lo ricordo quel giorno. Anzi no. Me la ricordo quella settimana. Stavo preparando l’esame di Diritto dell’Unione Europea, che a vederla adesso questa Unione Europea mi chiedo quando facciano un esame per tenerla in piedi questa Unione Europea.

E allora dicevo stavo preparando l’esame e non riuscivo a studiare. No.

Dicevano che il Papa si era aggravato, che era questione di giorni. Che non ce l’avrebbe fatta. E infatti. Così è stato.

E allora ricordo che la notte prima della morte del Papa la passai ad ascoltare la radio per sapere le notizie aggiornate. E c’era gente da tutto il mondo. In ogni stazione si parlava del Papa, di quel Papa amato da tutti, che stava morendo. Di quel Papa voluto da tutti che ci stava lasciando. E ricordo che alla radio – ancora non c’era questo vomitevole e snervante tam tam su Facebook dove i politici si fanno preparare il tweet di turno pronto da twittare nell’esatto istante in cui il Papa muore. No. All’epoca ancora c’era un po’ di rispetto. Ci si guardava negli occhi. Si accendeva la tv. Si sintonizzava la radio. Si ascoltavano le persone senza commentare. Senza per forza voler dire la propria – allora dicevo ricordo che alle stazioni delle varie radio quella notte chiamava gente da tutta Italia, gente che piangeva, gente con il fiato sospeso, gente che si preparava per andare a Roma. Per andare in capitale. Per andare nella Città del Vaticano.

E allora ricordo che ascoltavo quelle parole e più le ascoltavo, più piangevo. Perché c’ero affezionata sapete a quel Papa. C’ero affezionata. Sì. L’avevo incontrato. L’avevo salutato. Ma non ricordo bene. Ero piccola. Avevo paura. E poi mi piaceva la sua capacità di farsi amare senza ostentare. La sua capacità di dire tutto senza paura. “Convertitevi”, l’urlo di dolore contro la mafia. Mi piaceva sì. Mi piaceva perché lo vedevo lungimirante. Trainava i giovani. Infondeva sicurezza. E testimonianza.

E allora ricordo anche che quei giorni alla tv passavano sempre le immagini di quel Papa con quella canzone della GMG, la Giornata Mondiale della Gioventù, a cui avrei sempre voluto partecipare. E allora si vedeva questo Papa che davanti a una folla oceanica di giovani alzava le mani, cantava in coro e sorrideva. E tutti applaudivano, tutti cantavano, tutti si levavano in coro.

Un boato di gente che cantava, che applaudiva. Un esempio.

Ma poi. Poi la sera del 2 aprile ricordo che ero fuori con i miei amici. Era sabato se non sbaglio. Ed eravamo andati in un locale. E io non avevo voglia di andare in quel locale ma il moroso dell’epoca ci volle andare perché mi disse: “purtroppo è vecchio”.

E allora andammo in quel locale. E io me ne volevo andare. E più sentivo parlare più me ne volevo andare. Quando. Quando a poco meno delle 22, sugli schermi di una tv dentro il pub appare la notizia che il Papa alle 21.37, me lo ricordo come fosse ora, era morto. Che il Papa è morto. E allora mi venne da piangere. Uscii a fumare una sigaretta e piansi. E così da lì partirono dei giorni in cui non riuscivo a studiare ma dovevo. In cui restavo incollata alla tv a guardare quei fiumi di persone provenienti da ogni parte del mondo e giunti a San Pietro per rendere omaggio al Papa, per ringraziarlo.

Oltre un milione di persone presero parte ai funerali di quel Papa, 300 mila in Piazza San Pietro, 700 mila nei vari maxi schermo sparsi qua e là nella città di Roma, oltre 200 capi di Stato e di governo, molti anche i rappresentanti delle religioni cristiane e no, 164 cardinali in un turbine di folla e di ringraziamenti.

La protezione civile venne allertata in un piano che mai si era visto.

Sì, perché tra tutte le cose di questo Papa me ne viene sempre in mente una.

E mi accade ogni volta che vedo qualcosa di bello. Come questi fiori visti oggi.

O mi accade ogni volta che faccio qualcosa di bello. Ed è questa: “Prendete in mano la vostra vita e fatene un capolavoro”.

#nottesbetti

#sbetti