Qui è un altro mondo. Ascoli Piceno

“Lei ha un numero di telefono?”. “Certo. 0736”.
No non è un cellulare.
Qui funziona ancora così.
Qui la gente c’ha i giardini aperti, le case anche. Qui la gente gioca ancora a pallone come testimonia la foto di Cristiana Mangani.
Pulendo i tetti della chiesa di Ascoli c’hanno trovato una caterva di palloni.
L’altra sera sono finita in mezzo alle colline ascolane a mangiare coniglio – io vegetariana – e a bagnarmi di dialetti marchigiani, cadenze mai dimenticate, percorsi scoscesi, sapori tipici; qui dove i paesi sembrano presepi, dove le case stanno incastonate sulle colline e la gente semplice ti apre le porte di casa come fossi di famiglia.
Lei c’ha il maglioncino a righe e i pantaloni larghi. Il grembiule. La classica donna che si dà da fare. Lei non mangia seduta a tavola con gli ospiti. Lei serve in tavola. Lei c’ha da fa’.
“Ma tu non magni?”. “No Serenè. Io tengo da fa’”.
Le pietanze devono arrivare belle calde. Subito cotte. A km 0. Poi lei ripassa. Ripercorre la tavolata e ti chiede se ne vuoi ancora. Ma nel mentre te lo chiede te l’ha già messo nel piatto.
“Eh daje piene natro occo’ – E dai prendine un altro po’. Che è sssuuu pochetto – che è sto pochetto”.
“La vo la panna? La vuoi la panna?”.
“No te so ditto che nun la vojo – No ti ho detto che non la voglio”. “Ma dai. Ma vanne. Ma mica se magna ppe fame quessa – Ma no dai. Ma va. Ma mica si mangia per fame questa”.
“Ah no? E che è? E dai piatela. E dai prendila”.
Lei è gentile. Cordiale. Buon’anima. È la donna che tra le sue occupazioni esclusive c’ha l’andamento di casa. La vedi la casa. Il focolare acceso. Le videocassette. La posta sopra il tavolo. Le medicine. Mica come noi che stiamo tutto il giorno fuori e quando rientriamo non troviamo nemmeno le saponette.
Quando lei ride, ride così di gusto che ti viene voglia di inondarti ancora di dialetti marchigiani, cadenze mai dimenticate, percorsi scoscesi, sapori tipici, qui dove i paesi sembrano presepi,!dove le case stanno incastonate sulle colline e la gente semplice ti apre la casa come fossi di famiglia. Lei è la donna che fa da mangiare per tutti. Nel senso che lo fa per davvero. Di lavoro fa la cuoca. E lo fa alla divina.
Mescola il coniglio come fosse un figlio da accudire. Poi lo condisce. Lo guarda. Lo divide. Lo isola. Lo separa. Lo adorna di pomodorini e basilico. Di olive nere e prezzemolo. Lo rimescola. Te lo mette nel piatto come il prete dà la comunione al cristiano. Poi prende l’insalata e ripassa un’altra volta. Tutto deve finire.
Ti versa la macedonia come fosse una pozione magica. Il caffè te lo prepara come lo vuoi. Poi ti chiede se ci vuoi lo zucchero o meno. Io abituata a berlo amaro. Sì lo zucchero ma non mescolare lascialo nel fondo. “Eh daje fa fa’ a essa”, le dice il compagno. “E dai. Fai a fare a lei”.
Lui c’ha la parlata folta. Densa. Spessa. Si vede che ama mangiare e godersi la vita. Di professione fa il vino. L’olio. L’aceto. Fa pure l’anisetta, il liquore tipico marchigiano che fa 45 gradi e quando l’ho bevuto mi stava andando di traverso tutto. “Te lu so ditto che dovei sta attEnta. Te l’avevo detto che dovevi stare attenta”.
Poi ci sta l’avvocato che ce l’ha su con la nazionale italiana. Che ha perso contro la Macedonia. Irriverente. Piccante.
Accanto ci sta quello con le sopracciglia folte. Sembrano binari del treno. Arriva qualcuno. Qualcuno alla porta. “Ah essulo. Va’ chi è rrivatu – ah eccolo guarda chi è arrivato”. E in un tripudio di festa si ricomincia il giro. “Sci magnatu? La vo’ la macedonia? Hai mangiato? La vuoi la macedonia?”. “Io la macedonia me la magno. Ssiii stupidi ha perso contro la Macedonia. Ma ieteve a fanculo. Io la macedonia me la mangio. Sti stupidi hanno perso contro la Macedonia. Andatevene a fanculo”.
“Zitti mo’ ve faccio ride. Zitti adesso vi faccio ridere. Santì te lu recordi Santì?”.
“No. Chi Madonna è Santì?”.
“Come chi Madonna è. Killu che c’avia lu fricu che abitava ecco sotto a nu”.
“Santì te lo ricordi Santì? No chi Madonna è Santì? Come chi è? È quello che c’aveva il bambino che abitava sotto a noi”.
Arriva la seconda pietanza. “Oh quessa è calla calla. Oh questa è calda calda”.
“Eh daje pìene un atro occo’”.
Mi guardo attorno. Sorrido. Rido.
Un altro mondo per davvero.

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Esiste un posto a Venezia che è calma. Tranquillità. Quiete. Lentezza

Ghetto ebraico Venezia

Esiste un posto a Venezia dove si respira un’aria avvolta da una quiete particolare.
Appena fatto il ponte delle Guglie e oltrepassata la trattoria Pontini, se ti incanali dentro una calletta chiamata Calle Ghetto Vecchio subito vieni avvolta da una sensazione di pace surreale.
Calma. Tranquillità. Quiete. Lentezza.
Il fragore e l’eco assordante dei turisti vengono sostituiti con la camminata lemme lemme e le parole lente di persone in fila indiana che si dirigono verso uno dei quartieri più spirituali della laguna.
Il Ghetto ebraico.
Il ghetto più antico d’Europa e al mondo.
Un rettangolo piccolo e raccolto della comunità ebraica con i musei, gli alti edifici, le sinagoghe, i ristoranti kasher, le botteghe artigianali. Ci sta anche uno che cerca “un portaceste a chiamata”. Vedi foto. Che roba sarà mai un portaceste a chiamata.
Mimetizzate poi tra gli alti palazzi poi ci stanno le serie di cinque finestre delle sinagoghe. Stanno in alto all’ultimo piano perché al di sopra di quelle non ci deve essere alcun terreno.
È qui in questo ghetto che vennero chiusi gli ebrei. Una piazza, Gheto Novo che è il più antico, circondata di palazzi tinti di giallo rosso e marrone alcuni ammuffiti altri candidi perfetti dove ancora ci stanno i balconi verdi aperti con la gente che si affaccia. Un luogo singolare. Antico. Un viaggio nel tempo. Dove la gente siede sulle panchine. Consuma qualcosa all’aperto. Dove davanti la Casa israelitica di riposo passeggiano i vecchi con la schiena ricurva e la kippah in testa. Dove la gente si saluta. Porta rispetto. Scatta qualche foto. Dove sotto i capitelli di quei palazzi tinti di giallo rosso e marrone alcuni arrugginiti altri ammuffiti altri candidi perfetti ci stanno i bambini che giocano a nascondino con i genitori. Dove ci stanno le stampe piene di gatti Veneziani. Un lavacro. Una sorta di bagno nella pace. Poi oltrepassato il ponte riprende la via dei localini, cicchetti Veneziani, dove la gente si stende al sole…

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Ubriaco a 150 all’ora, ammazza due donne. Le gare clandestine sono una moda

Il barbaro che mercoledì sera ha ucciso le due donne lungo il Terraglio, a Preganziol in provincia di Treviso, è un 25 enne rom finito nelle inchieste sui furbetti delle case popolari. Tant’è che ora il sindaco di Treviso Mario Conte gli vuole togliere la casa.
In Facebook il rom fornisce un’immagine di sé alquanto belgioisa e sfarzosa, ostentando lusso, bella vita, champagne, Rolex e abiti eleganti.
Giusto per non fare nomi, lui si chiama Ronnie Levacovic. Mercoledì sera sfrecciava a 150 all’ora in una folle gara clandestina con la sua Bmw M2 nera che ha travolto completamente la Citroen C1 dove viaggiavano Mara Visentin e Miriam Cappelletto. Due amiche. Mara faceva la casalinga e aveva 63 anni. Miriam era un’impiegata e di anni ne aveva 51. La loro auto è stata centrata in pieno, scaraventata nel fosso, finendo la sua corsa addosso a una muretta di cemento. Sono morte sul colpo.
Per loro non c’è stato nulla da fare.
Un po’ come quelle due splendide cugine ammazzate la sera del 30 gennaio, da Dimitre Traykov, bulgaro, già condannato per guida in stato d’ebbrezza, poi scappato; il quale quando quella sera i carabinieri sono andati a prenderselo a casa aveva il tasso alcolico tre volte oltre il consentito.
Le due ragazze erano Jessica Fragasso, 20 anni di Mareno di Piave (Treviso), e Sara Rizzotto, 26 enne di Conegliano.
Quella della corsa clandestina tra le auto è un fenomeno abbastanza diffuso anche nel veneziano. Da cittadina noto e odo con le mie orecchie che ci sono paesi che di notte vengono letteralmente presi d’assalto dal fragore e dai rombi di questi bolidi guidati da scapicollati a cui non darei in mano nemmeno uno scopettino per pulire il cesso.
Più volte ho reso palese la cosa, senza ottenere nulla, tanto è vero che le corse continuano.
Un giorno al bar mentre controllavano il Green Pass alla gente per bene, ho anche detto che ci sarebbero dei controlli da fare per le gare folli tra le auto di notte.
Ma ancora non vedo nulla.

#sbetti

La guerra è una merda

Mariupol – febbraio 2022

La guerra è una merda. Mettetevi una mano sulla coscienza. Basta. Dal diario di Facebook del 9 marzo scorso.
Hanno attaccato l’ospedale pediatrico di Mariupol. In totale violazione del cessate il fuoco.
La guerra è questa roba qua. La guerra è questa MERDA qua. La guerra è questo SCHIFO qua. La guerra è questo SANGUE qua.
Facciamole vedere queste immagini. Postiamole.
Ora che possiamo, mandiamole in giro queste immagini.
Di questa guerra che entra ogni minuto dentro le nostre vite.
La guerra ai tempi dei social. Delle televisioni che arrivano ovunque e mandano tutto in tempo reale. Ai tempi della guerra nei Balcani non c’erano i social, le condivisioni, i like, i tweet, i post su Instagram. La guerra veniva seguita al telegiornale quando la famiglia si riuniva per cena e qualcuno per non vedere e per passare un’ora in pace cambiava canale.
Ma la guerra è l’allarme antiaereo che parte tutto il giorno. I bombardamenti. I rombi tonfi e secchi dei cannoni che sparano a più non posso. Sparano morte. Miseria. Povertà.
La guerra è la città che si riempie di case sventrate, piazze e strade distrutte, strade deserte, macerie, cadaveri. Madri e bambini che non ce l’hanno fatta a scampare al fuoco dei missili e giacciono sul ciglio della strada.
Si vedono abitanti che scappano dalle fogne come topi. Cittadini in gabbia sotto i pontili. Donne che lasciano i mariti. Che proteggono i figli. Che li portano in grembo attaccati appiccicati al seno. Piangono. Disperate. Gridano aiuto. I treni sono stracolmi.
Si odono le sirene dai collegamenti con i colleghi. Si sente il frastuono delle bombe. Il fracasso delle cannonate. Il crepitio degli spari che si placano a terra seminando morte e terrore. Dalle immagini degli ospedali si sentono gli strilli e le grida impotenti dei bambini. Si vedono le infermiere correre per cercare di salvarli. Scappano nei sotterranei dove ormai non hanno manco più medicine. A Mariupol mangiano cibo per cani. Vivono sottoterra senza luce, con le candele.
Si vedono i grattacieli sventrati, ridotti groviera, ponti squarciati, pezzi di cadaveri che giacciono sui carri armati divorati dalle fiamme. Tutto intorno è un inferno. Che a guardarli resti con gli occhi aperti sbarrati incapace di fare niente e impotente. Solo i potenti avrebbero il potere di fare qualcosa. Ma se ne strasbattono mandando i disgraziati a combattere.
Che senso ha tutto questo?
Mettetevi una mano sulla coscienza.
La guerra è tutta questa MERDA.

sbetti

📸 Pavlo Kyrylenko

Il pastore del Senegal e il calabrese che scorrazzano in Veneto

Elay Cerra e Mouhamed – Stigliano (Ve) 10 marzo 2022

Due settimane fa mentre me ne andavo nel mio peregrinare tra una sigaretta e un cappotto di lana indossato di fretta mi sono imbattuta in questa storia. Così da donna curiosa mi sono fermata.
E mai come adesso che soffiano i venti di guerra la trovo azzeccata.
La fatica. Il sudore. Il sacrificio. Il freddo. Il gelo.
Lavori che nessuno ormai vuole fare perché in Italia ci siamo riempiti di dottori laureati su Google.
La gente si beve una quantità indecifrabile di fesserie che trova su internet credendo sia roba seria solo perché l’ha scritta Nostradamus dei me cojoni.
L’arte di imparare un mestiere e di fare fatica poi per guadagnarsi la pagnotta è diventata roba da sfigati in un mondo di strafottenti che campano sulle spalle dei precari e dove vince chi la mette prima nel culo agli altri.
Elay, il ragazzo italiano, origini calabresi, ha 18 anni e viene dal comune di Valdastico in provincia di Vicenza. Si chiama così perché la madre quando era incinta di lui stava leggendo un libro, e il protagonista si chiamava Elay appunto.
Mouhamed invece di anni ne ha 22. E viene dal Senegal. Fa il pastore dal 2019. E dopo un passato in fabbrica a Milano ha deciso di vivere in mezzo ai monti.
Ora sono nelle campagne veneziane a passare l’inverno, nell’attesa che su in montagna si sciolga la neve. Fanno anche le stories su Facebook.
Ogni giorno si mettono in cammino. Vivono su una roulotte senza riscaldamento, “ci si scalda con le coperte”, mi hanno detto e la loro giornata si svolge così. Sveglia alle 6.30. Colazione con latte e biscotti. E poi via subito al lavoro. Devono controllare se qualche pecora ha partorito. Se ci sono agnellini nuovi. Poi li portano al pascolo. E si guadagnano da vivere vendendo agnelli.
A mezzogiorno si mangia. A turno o cucina Elay o Mouhamed. Dipende. Mangiano pasta, carne, pane. “Dipende cosa abbiamo in dispensa”. Poi si riparte. Ci si sposta. Si va al pascolo. Si sta dietro alle pecore. Le si fa correre. Si mette la pecorella, quella che non c’ha l’istinto materno assieme all’agnello così si abitua, ne prende l’odore. La sera si cena e ci si fionda a letto. Niente televisione.
Per Mouhamed le temperature sono basse. Lui viene dal Senegal, non è abituato a questo freddo.
“Bello ma faticoso”.
Il padre di Elay invece fa il poliziotto. E ha provato più volte a far cambiare idea al figlio che ha studiato all’istituto agrario.
Ma il figlio non vuole. “In fabbrica non andrò mai. Amo gli animali. Sogno di avere 1000 pecore mie e amo stare in mezzo alla natura e all’aria aperta. Certo che è faticoso. Infatti molti provano d’estate a fare questo lavoro. Ma è d’inverno che si vede la scorza”.
Elay ha seguito le orme del nonno che aveva un allevamento di mucche. Quando per la prima volta a sei anni Elay ha visto un gregge se n’è innamorato. E da lì è cominciato tutto.
Li saluto. E mi rimetto in auto.

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📸 sbetti

Zelensky continua a chiedere la no-fly-zone. Tutto questo si poteva evitare?

Zelensky continua a chiedere la no fly zone in Ucraina, forse non capendo che la no fly zone arriverebbe a scatenare la terza Guerra Mondiale. Io non arrivo totalmente a comprendere perché un capo di Stato possa arrivare a voler rischiare un conflitto mondiale pur di chiudere i cieli sulla sua nazione.
Anche perché la no fly zone non servirà comunque a fermare un pazzo criminale.
Anzi più probabile che si scateni l’inferno.
Oltre a quello a cui stiamo già assistendo.
Portando al rischio di una guerra a pieno titolo in Europa.
Secondo Zelensky poi non mandiamo abbastanza armi all’Ucraina e abbiamo perso l’umanità.
Ma di armi ne abbiamo mandate. E anche tante.
All’Ucraina abbiamo mandato droni “kamikaze” Switchable, sistemi di difesa anti-missili a lungo raggio S-300, Stinger antiaerei, Javelin ossia un’arma anticarro con un sistema di guida automatica a infrarossi che permette ai missili di individuare il bersaglio e centrarlo seguendo il calore dei motori, pistole, munizioni, giubbotti antiproiettile.
Ora se io fossi un ucraino a me interesserebbe vivere. Poco me ne fregherebbe che la gente venisse a piangere sulla mia tomba per l’onore. Perché la guerra poi la combattono i disgraziati. E la conta la si fa con i morti.
Questa guerra ne sta facendo tanti.
Ai tavoli dei negoziati siedono persone che la guerra la vedono attraverso gli schermi dei computer e la decidono a tavolino sopra le mappe dei bersagli da eliminare. Questa è la guerra artificiale. Quella strategica.
Poi invece c’è la guerra umana. Quella vera.
Quella dove muoiono donne e bambini. Quella combattuta dai soldati. Quella dove sparano sui civili.
L’altro ieri a Mariupol un aereo ha sganciato una bomba sul teatro dove si nascondevano centinaia di residenti pacifici. C’erano anche le scritte visibili dal cielo con la parola “Bambini”. Ma il Teatro Drammatico è stato piegato su se stesso. Sventrato dalle bombe. Con i civili dentro. Questa è la guerra vera. Quella dove la gente tira le cuoia.
Perché sia ben chiaro che quando mandi il tuo popolo a combattere, invasore o invaso, lo mandi automaticamente a morire.
È un dato di fatto. Lo dice la lunga scia di morti e sangue a cui assistiamo in questi giorni. A Mariupol dicono ci siano 300 mila cittadini intrappolati in questa città assediata dai russi. Con bombardamenti costanti dove mancano acqua luce gas riscaldamento viveri e medicine. La gente scioglie la neve per bere. E mangia cibo per animali. E tutto per non riuscire a ridurre le pretese.
Forse tutto questo, chiedo, si poteva evitare?

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Putin in un delirio mistico. Dalla Storia non impariamo niente

Io davvero non so come sia potuto accadere.
Ma credevo che certe scene rimanessero impresse nei libri di storia. La propaganda. L’esaltazione del mito. La bandiera di sangue. Il soggiogamento delle masse.
Ieri Vladimir Putin è apparso dinanzi a una folla di 100 mila persone allo stadio Luzhniki di Mosca.
Qui, mentre sopra le teste dei disgraziati cadevano le bombe, e mentre Joe Biden e Xi Jimping conducevano al telefono una partita a tennis per fermare la guerra, in un tripudio di bandiere e festoni e canti patriottici, il leader del Cremlino ha tenuto il folle discorso alla sua nazione.
Eccolo Putin con le sue braccia al cielo. Con gli occhi fieri. Freddi. Di ghiaccio. Con la bocca impastata di prediche folli. E con le mani incicciottate e le dita ingrassate.
Il giubbotto che indossava, così ampio, spesso, grosso, per nascondere il giubbotto antiproiettile, costa la bellezza di 12 mila euro.
Roba che i russi stalinizzati manco vedono col binocolo. Il dolcevita poi, Made in Italy, firmato Loro Piana, come a imbonire quell’immagine di chi sta causando ora distruzione e morte.
Roba da far venire i brividi. Roba da finire nei libri di storia. Roba che davvero credevo non potesse più ripetersi in un popolo soggiogato dal delirio di onnipotenza.
“Andremo fino in fondo”, ha detto Putin.
“Com’è bello morire”, ha cianciato.
“Non c’è amore più grande che dare la vita per i propri amici”, ha azzardato. Che tradotto vuol dire: “Andare a morire per loro”.
“Gli abitanti della Crimea vogliono vivere nella loro Terra e con la propria patria storica. La Russia”.
“Sappiamo cosa deve essere fatto e attueremo tutti i piani”.
Il tutto mentre tutto attorno a lui sventolavano bandiere rosse bianche e blu in una gazzarra fastidiosa. Una folle dimostrazione di giubilo.
Putin ha preso alla lettera le folli e aberranti teorie del suo ideologo Alexander Dugin che non riconosce la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo, che vuole un nuovo ordine mondiale, che vuole combattere l’Occidente e i suoi valori e i suoi principi, che questa non è una guerra contro l’Ucraina ma un’operazione militare, caso mai una guerra contro l’Occidente.
L’importante è affermare la superiorità russa in ogni luogo possibile. Convinto che solo quella della sua nazione sia la sola cultura moralmente superiore.
Un delirio di onnipotenza. Un delirio mistico. Invocando i santi, il Vangelo e le Sacre Scritture.
Tutti messaggi già sentiti. Le cui derive sono estremamente pericolose.
Quando fate studiare la storia ai vostri figli, dite loro che tutto ancora può sempre accadere.
Che non è vero che impariamo dalla Storia.
Dalla Storia non impariamo niente.

#sbetti

Kiev. Uccidono i civili in coda per il pane. Non arriva più cibo

Bobrovytsia (la città piccola nel regione di Chernihiv)

Secondo fonti dell’intelligence russa, per i comandi del Cremlino la terza Guerra Mondiale sarebbe già iniziata in quanto il Cremlino, se l’Occidente non dovesse togliere le sanzioni contro la Russia, è pronto a sganciare i propri missili contro la Polonia e le repubbliche baltiche.
L’est dell’Ucraina continua a bruciare e Kiev è stretta sempre più in una morsa.
Hanno già iniziato ad attaccarla. Putin però che sperava in una guerra lampo, procede lento.
L’altro ieri un missile ha sventrato un palazzo di 9 piani nel quartiere di Oblon. E altri missili sono caduti sopra la fabbrica aeronautica Antonov. Mariupol che rimarrà il simbolo di questa tragedia umanitaria e disgraziata, è ridotta un cumulo di macerie. Addirittura i russi avrebbero preso come ostaggi nell’ospedale medici e infermieri.
La gente non riesce a scappare. E i residenti sono rimasti senza acqua. Elettricità. E cibo.
La capitale è accerchiata ormai da molti giorni. Nei pochi negozi aperti non arriva più il cibo.
Oggi 10 civili sono stati uccisi mentre erano in coda per il pane.
Il cibo viene consegnato ai cittadini che come topi sgattaiolano fuori dai rifugi. Giusto il tempo di prendere da mangiare in fila e poi si torna a sopravvivere sottoterra. “Non c’è il cibo nei negozi – mi scrive una ragazza – Comprare qualcosa è un problema grande. Per adesso la città è libera però nelle città vicine ci sono i carri armati russi e quindi non è possibile portare il cibo dalla città più grande.
Non c’è internet, ed è tutto molto difficile senza informazioni. Ogni giorno portano 1-3 prodotti e li vendono vicino ai negozi (ad esempio farina, uove, pane), noi facciamo la fila e li riceviamo.
La situazione a Mariupol, Sumy, Chernihiv, Kharkiv e alla periferia di Kyiv è critica. Nonostante gli accordi sui corridoi umanitari, le truppe russe stanno bombardando i civili”. Già i civili.
Ci sono anche neonati abbandonati nell’ospedale di Mariupol.
Ogni giorno e ogni notte si bombarda. E non c’è molta differenza tra il bombardare una palazzina, una famiglia, una scuola o un posto di blocco.
Ieri in un servizio ho visto una casa squarciata da un razzo.
Sopra il tavolo c’era anche la tazza di tè.
E un libro…
Forse ancora aperto…

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L’orologio non ha mai smesso di correre. Solo che noi eravamo distratti

C’era sempre andata bene. Avevamo tutto.
Solo che poi qualcosa si è messo di traverso. Come quel fulmine che arriva a ciel sereno.
E da lì è stato il collasso. Il covid. La pandemia. La crisi. La disperazione. Le storie delle persone. La cronaca della gente. Dei poveracci. Degli assetati. Di chi non c’ha i soldi. Di chi ha perso il lavoro. Di chi apre. Di chi chiude.
La cronaca dei medici che salvano le vite degli altri. Dei giornalisti che le raccontano. Dei padri che soffrono. Degli imprenditori che si ammazzano. Delle madri che piangono. La paura della malattia. Lo scontro con la morte. Il nostro non essere invincibili. Ma vulnerabili. Soffi.
E ora. Questo. La guerra in Europa. Non che le altre guerre non siano importanti. Anzi. Ma è che è normale. È così. La sentiamo accanto a noi. Ce la sentiamo addosso. La percepiamo nell’aria. Negli sguardi. Tutti si chiedono in fondo in fondo: “E se arrivasse anche qui?”. Di fatto c’è già arrivata. Non abbiamo le bombe. Non abbiamo i morti e i feriti per strada ma questa guerra è arrivata anche qui e lascerà strascichi per tantissimo tempo.
Eravamo distratti noi. Presi da tutto. E niente. Abbarbicati su cose a cui dovevamo per forza trovare un senso. Ci gongolavamo sulle gonne a scuola. I trans. I gay. Il Green Pass. Baloccavamo su ora solare e legale, su cessi inclusivi, e insetti fritti. E adesso i venti di guerra soffiano da ogni dove. Questa cosa dell’esodo poi è micidiale. Infernale. Devastante. I popoli che tracciano le strade. Che varcano confini. Che solcano le onde.
Secondo quanto riferisce l’Onu, i primi 10 giorni di guerra, erano già più di 1 milione e mezzo i rifugiati fuggiti dall’Ucraina. Oggi sono oltre due milioni.
È “la crisi di profughi più veloce in Europa dalla Seconda Guerra Mondiale”, ha detto l’Alto Commissario dell’Onu per i rifugiati, Filippo Grandi.
Questa orda ciclopica che trascina e porta con sé morti corpi cadaveri mutilati, che travolge anziani donne bambini, che arruola uomini mandandoli al fronte, che spezza famiglie, le taglia come la lama che affonda nel dolce, tu da una parte. Tu dall’altra. Li separa. Come era una volta. I cancelli dei campi dei rifugiati si aprono a ciclo continuo. Quattordici ore al giorno. È un continuo arrivare di profughi di disperati di gente che ha perso tutto e non sa dove andare. Come in un nastro trasportatore passano come bagagli e via uno e avanti un altro. E via un altro. E avanti un altro ancora. I treni vengono presi d’assalto ai binari dove i dannati stanno in fila aspettando il loro turno.
È la storia che si riprende il suo tempo. L’orologio che non ha mai smesso di correre. È la Storia che si riscrive. Che rimescola le carte, che torna terribilmente indietro, andando avanti.

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Press. Morto facendo quello che amava fare

Quella scritta impressa nel petto che a volte ti pare di avere un giubbotto anti proiettile ma non lo è. Quella scritta che una volta mia madre mi disse: “Che vol di’ Serenè Press?”.
Quella scritta che tanto pensi sempre di tornare. Perché non puoi andartene. Non puoi andartene adesso sul più bello quando cominci a raccontare. Quando sai che il mondo vuole vedere.
Quella scritta che ti fa sentire un po’ più al sicuro quando sicuro non è un cazzo.
Ne ho vista di gente deridere i giornalisti. Prenderli in giro. Non avere rispetto. Ne ho vista tanta. Da due anni a questa parte i giornalisti sono la categoria più mitragliata e bistrattata e bersagliata di tutte. Scoppia il covid è colpa dei giornalisti.
Ci sono i vaccini è colpa dei giornalisti.
C’è il Green Pass è colpa dei giornalisti. C’è la guerra in Ucraina è colpa dei giornalisti.
“Ci stanno raccontando un sacco di balle i giornalisti”, ti dicono. “Non è così come ce la raccontano”, ti dicono quelli col culo al caldo davanti al computer che si masturbano con i numeri delle visualizzazioni.
I giornalisti diventano buoni solo quando hai bisogno di loro. “Vuoi una mia dichiarazione?”. “Potresti farmi un’intervista”. “Guarda che domani presentiamo il progetto, sarebbe importante una presenza massiccia della stampa”.
Ma quando i giornalisti ti raccontano cose scomode, cose vere, allora diventano dei bersagli da togliere. Da togliere di mezzo. Non solo a parole. Anche premendo il grilletto. Anche facendoli finire sotto le macerie. Anche mettendoli a tacere.
Anche denigrandoli.
Quanti giornalisti morti ammazzati . Quanti. Troppi. Alcuni che se non fosse per i loro colleghi che li tengono in vita continuando il mestiere il mondo avrebbe dimenticato. Almerigo Grilz. David Beriáin. Ilaria Alpi, Enzo Baldoni, Raffaele Ciriello, Maria Grazia Cutuli, Dario D’Angelo, Miran Hrovatin, Marco Luchetta, Alessandro Ota, Marcello Palmisano, Guido Puletti. Andrea Rocchelli. Questi quelli italiani.
E ora Brent Renaud. 51 anni. Morto mentre faceva quello che più amava fare. Il suo lavoro. Perché non è retorica. Non è banalità. Non è scontato. È vero. Un giornalista che muore facendo il suo mestiere è veramente un giornalista che muore facendo quello che più amava fare. Perché non si vedrebbe a fare nient’altro. Perché questo mestiere non lo puoi comandare. Non lo puoi mettere a tacere. Non lo puoi sotterrare. Non lo puoi spegnere. Diventa uno stile di vita. Il prolungamento del braccio. Delle gambe. Diventa la tua acqua da bere. Il tuo pane da mangiare. La tua aria da respirare. Non è un mestiere che alle sei di sera hai finito. È un mestiere che ti porti appresso, che te lo senti addosso, che viene a letto con te. Mangia con te. Fa l’amore con te. È un mestiere che anche se sei in giro e pensi ad altro rimane sempre lì con te attaccato.
Renaud è stato ucciso a Kiev perché gli hanno sparato contro. Colpito al collo. È morto sul colpo.
Il collega che era con lui, Juan Arredondo, in un video diffuso sui social racconta: “Stavamo attraversando il primo ponte a Irpin con altri colleghi, per filmare i rifugiati in fuga. Si è avvicinata un’auto che ci ha chiesto se volevamo andare con loro per passare il secondo ponte, abbiamo superato il checkpoint e ci hanno sparato contro”. Renaud è crollato a terra.
Sul petto quella scritta. Press.
Morto facendo quello che amava fare.

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La mail che ti cambia la vita. “The show must go on”

Vasilisa – 13 anni – Kiev

Le prime cose che ha messo in borsa per fuggire da Kiev sono state le sue scarpette di danza.
Vasilisa ha 13 anni. Gli occhi verdi.
Il sorriso di una bambina con ancora tanti sogni. Cresciuta troppo in fretta per un’esistenza segnata dalla guerra, questa sera è arrivata alla Scuola di Ballo del Veneto, diretta da l’etoile Letizia Giuliani, di Spinea (Venezia).
Un viaggio durato cinque lunghi lunghissimi giorni.
La mail di richiesta di aiuto da parte della madre alla Scuola veneziana è arrivata lunedì scorso e faceva così: “Mi chiamo Giulia.
Mia figlia Vasilisa studia all’accademia di danza di Kiev di Serge Lifar nel dipartimento di musica classica.
Oggi siamo costretti a lasciare la nostra Ucraina. Possiamo continuare gli studi nella vostra Accademia?”.
Una mail secca. Dura. Senza tanti ripensamenti. Senza tempo. Mandata così. Di getto.
Che in pochi attimi ti cambia la vita.
Ve la racconto da ex danzatrice. Innamorata della vita. Che quando salivo su un palco tremavo.
La scuola dove studia la figlia è la più importante scuola di ballo in Ucraina.
Lifar oltre a essere un ballerino è stato uno dei coreografi più importanti del mondo.
La Scuola di Ballo del Veneto si attiva. La risposta è sì ovviamente. Anzi, hanno aperto la scuola di ballo anche a tutti i bambini ucraini.
Madre e figlia con il cagnolino scappano da Kiev. La sorella e il padre invece devono rimanere in Ucraina perché sono medici e c’è bisogno di aiuto.
Il marito dell’etoile Letizia Giuliani, Francesco Marzola, ballerino, ora in aspettativa all’Opera di Roma, organizza il tutto e ne segue tutto il percorso.
Minuto dopo minuto. Ora dopo ora. Autobus dopo autobus. “Sono a Ternopil – città dell’Ucraina occidentale – Hanno attraversato il confine in sicurezza stanotte”. “Ora vanno in Ungheria. L’autobus si fermerà a Trieste, la polizia registra chi arriva senza passaporto e visto”.
Ore 23.06: “Sono arrivate!”.
Francesco le va a prendere. Appena le vede gli sale un nodo in gola. Impossibile trattenere le lacrime.
Madre e figlia hanno due valigie, due borse e un cagnolino.
Per andarle a prendere e farsi aiutare con la lingua, si fa accompagnare da una allieva della scuola, di origini ucraine, che ha 12 anni.
Bastano pochi attimi. E il sangue del tuo stesso sangue lo riconosci dalla luce negli occhi. Quando i tuoi occhi incontrano i tuoi simili. Quando ti affidi e ti fidi di chi incontri.
Le due ragazzine entrano subito in sintonia. I racconti di guerra. La danza. La stessa passione. L’arte che le unisce in un connubio che altrimenti sarebbe solo una tragedia.
Per comunicare usano Google Translate.
Ora sono ospiti in una casa. Vasilisa vuole diventare qui ballerina professionista.
“The show must go on”, diceva un grande artista.

#sbetti

I negazionisti hanno tutto il mio disprezzo

C’è una categoria per la quale provo il più profondo disprezzo. Ed è quella dei negazionisti. Ne leggo alcuni nei social davvero imbarazzanti. Che mi chiedo come facciano ad aver il coraggio di scrivere e pensare certe corbellerie.
La maggior parte delle volte, se non tutte, i negazionisti sono persone col culo al caldo, che avendo una vita talmente asociale e da disattati, passano il loro tempo a cercare il video bomba su Facebook che proverebbe che il covid è una burla, i vaccini sono pozioni velenose dove dentro ti mettono i microchip per connetterti con gli alieni e la guerra è un’invenzione.
Ne vedo alcuni che postano video imbarazzanti di cui dovrebbero solo vergognarsi o attaccano i giornalisti che in questo momento stanno rischiando la vita.
Gente che pretende di insegnarti il mestiere, con lezioni di giornalismo non richieste, con la solita arroganza di chi pur essendo studiato, come dicono al sud, passa la sua giornata a condividere pippe mentali sui social e raggiunge l’orgasmo se anziché avere cinquanta like ne ha 400. Gente disagiata, da cui me ne guardo bene di avere qualsiasi tipo di rapporto.
Ma tanto questa gente non li legge i giornali con la cronaca puntuale di quello che accade, con le interviste agli esperti, con i reportage di chi in questo momento si sta assumendo il più grosso dei rischi. Quello di morire per raccontare.
Se va bene i negazionisti leggono solo i titoli, che manco capiscono, e poi si siedono davanti il computer a condividere cose senza senso, puttanate e puttanate più assurde, scemenze demenziali, cose al di fuori della logica e della realtà che mi chiedo anche come alcuni abbiano incarichi all’interno della società.
L’altro giorno un demente mi ha mandato la foto di un ospedale abbattuto che sarebbe lo stesso di quello in Siria, in commento: “Ci raccontate un sacco di frottole”.
Qualche altro mi manda il video della giornalista che ha l’elmetto e si chiede perché quelli dietro a lei non ce l’hanno. Deficienti. Noi ce lo abbiamo di protocollo indossare elmetto e giubbotto in zone di crisi. Quando fai il corso, cosa che ha fatto, te lo spiegano bene. Qualche altro attacca i giornalisti perché non racconterebbero il vero.
Poi però sono i primi che ti cercano perché vogliono apparire in televisione, perché vogliono andare a dire la loro nelle Tv, perché vogliono comparire davanti a milioni di italiani. Potrei fare i nomi ma mi contengo. Avete tutto il mio disprezzo.
L’euro che non spendete per comprare un giornale, per voi sarebbe sprecato anche nel culo.

#sbetti

La blogger Ucraina: “Credo che sopravviverò, poi non avrò più paura di nulla”.

L’altro giorno scorrevo la pagina Instagram di una blogger ucraina. La contatto. Recupero il suo numero e le scrivo. Mi colpisce perché nella sua pagina le ultime due foto riguardano la guerra. Prima invece era un tripudio di libri, calici, ciliegie, pic nic all’aria aperta, dolci, lenti di ingrandimento, clessidre, matite penne quaderni. Poi basta. Poi più niente. Poi la guerra.
Buio. Grigio fitto. Cenere. Orrore. “… Ucraino e russo – scrive – non è sbagliato. Da oggi scriverò Ucraino con la lettera maiuscola e russo con la lettera minuscola. E nessuno dirà che è un errore. Quanto sono orgogliosa del nostro popolo. Quanto. Il popolo Ucraino non può essere spezzato. Io ti odierò – rivolto al popolo russo – ti odierò con tutta la mia anima. Per ogni Ucraino ucciso, per ogni combattimento, per ogni ospedale e asilo distrutti io ti odierò. Non ci sarà più un libro di una casa editrice russa su questa pagina. Non voglio. Gloria all’Ucraina!”.
Lei, che ora è sotto il fuoco incrociato dei “bombardamenti che – mi scrive – arrivano a ogni ora”, ha 22 anni. E ha studiato anche all’Università di Foggia. Fa la traduttrice e l’interprete. E soprattutto legge. Libri.
I suoi consigli sul suo blog prima della guerra erano slanci di vita, picchi di benessere, gridi di gioia. Erano condivisione di piccoli traguardi raggiunti. Quelli che a fine giornata fanno stare bene tutti. “Quando è arrivata la guerra – mi racconta – non sapevamo dove fuggire. Volevamo andare da mia madre, ma non ci siamo riusciti. La stazione era affollata. I treni sono arrivati ​​in ritardo e i biglietti erano esauriti. Poi siamo riusciti a prendere un biglietto. Ho pregato per due ore in treno, non sapevo che ne saremmo arrivati ​​vivi. Avevamo solo un cambio di vestiti, cibo per 2 giorni e medicine. Niente più. Ma nei giorni che seguirono, nei giorni che seguirono la paura passò, ma sorse l’odio. Mi preoccupo per mia madre, per i miei amici. Guardo le notizie su Kyiv ogni giorno e riconosco ogni strada. Guardo le case distrutte e cerco di capire se la casa in cui vivo io è stata distrutta. Kyiv non è la mia città natale, ma è la città in cui lavoro, dove ho studiato all’università, dove ho trovato l’ amore. Credimi non avrei mai pensato di poter odiare le persone. Ma quando vedo come soffrono gli ucraini, inizio a odiare i russi”.
“Sto scrivendo tutto questo – continua – seduta con una borsa accanto a me. In questi giorni, ho capito che avevo davvero bisogno di apprezzare le cose. Mi rendo conto che ora ho da mangiare, che ci sono luce e acqua. Apprezzo ogni mattina che mi sveglio viva. Ora vedo la vita in modo diverso”. Mi avvisa dei carri armati che stanno bombardando. Il cibo arriva loro quasi ogni giorno ma ci sono due ore di coda per prenderlo. “Credo che sopravviveremo. Dopo di che, non avrò più paura di nulla”.

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