Il sangue sull’asfalto. Lui ha agito con una ferocia inaudita

Il sangue sull’asfalto farebbe trasalire chiunque.
Quello è l’unico segno tangibile che abbiamo, visibile di lei, in questi giorni. Delle macchie lì. Che trasudano disperazione. Che paiono vive. Schiantate a terra. Rosse come la morte.
Il resto.
Il resto sono mazzi di fiori che spuntano ovunque davanti casa. Candele. Cuori. Lettere. Nastri colorati. Pupazzi. Peluche. Fotografie. Orsacchiotti.
I fiori spuntano come funghi. Li vedi a ogni ora proliferare. Aumentare. Nel giro di mezza giornata invadono tutto il marciapiede. È una processione senza fine. I fiori brulicano come tanti piccoli animaletti colorati. Fucsia. Rossi. Gialli. Arancio. Arancioni.
Li portano i bambini. Le donne. Le mamme. Gli anziani. I vecchi di paese. I giovani. I padri. I genitori. Vengono tutti qui a rendere l’ultimo omaggio a Giulia.
Il resto lo vedi nei ricordi. Nelle foto. Di lei, così bella e spiritosa sempre in movimento che non stava mai ferma. Il resto di lei lo vedi negli occhi della sorella. Del padre. Della famiglia.
Lo vedi nei volti rigati di pianto. In quegli occhi gonfi di lacrime e disperazione. Filippo Turetta era “ben consapevole della gravità delle sue azioni”, scrive il gip di Venezia, dal momento che, dopo aver scaraventato Giulia a terra, causandole una lesione alla testa con perdita di sangue, è fuggito.
Giulia infatti ha lottato. Ha lottato con tutti gli ultimi brandelli di vita che le erano rimasti attaccati addosso per quasi 25 minuti prima di arrendersi al suo carnefice. Ma Giulia non si è arresa. È stata ammazzata.
Scrive sempre il gip di Venezia, Filippo “appare un soggetto totalmente imprevedibile poiché, dopo avere condotto una vita all’insegna di un apparente normalità, ha improvvisamente posto in essere questo gesto folle e sconsiderato”, si legge nell’ordinanza.
E sussiste il pericolo che reiteri condotte violente nei confronti di altre donne”.
Era l’11 novembre scorso. Giulia e Filippo si trovano. Dopo una serata passata a scegliere il vestito per la laurea – lei mai avrebbe potuto immaginare cosa le sarebbe successo – Giulia e Filippo litigano nel parcheggio a 150 metri di distanza da casa di Giulia.
Litigano proprio qui. Qui dove ci sono le macchie di sangue. Alle 23.18 un testimone sente delle grida. Grida di donna. E così per farla tacere lui forse le mette del nastro adesivo in bocca.
Nel parcheggio di via Aldo Moro la ragazza “viene aggredita con ripetuti calci mentre si trovava a terra, tanto da farle gridare “mi fai male” invocando contestualmente aiuto” probabilmente accoltellata, quindi costretta a risalire in auto e a continuare quel viaggio fino alla zona industriale. Sono circa quattro chilometri che si percorrono in auto in sei minuti.
Alle 23.29 la Fiat Punto attraversa la zona industriale di Fossò, due minuti dopo viene catturata da una telecamera di video sorveglianza.
Le immagini del sistema di due ditte vengono sequestrate. Saranno le telecamere dello stabilimento Dior che permetteranno di ricostruire quanto accaduto.
Sono le 23.40.
Una persona fugge lungo la strada della zona industriale e viene inseguita da un’altra “più veloce, che la raggiunge e la scaraventa a terra”.
Dalle immagini si vede “che il soggetto che insegue è vistosamente più alto del soggetto inseguito”. Giulia era alta circa un metro e sessanta. Filippo un metro e ottantotto.
Poi la figura più piccola, Giulia, viene spinta. “Cade violentemente a terra, all’altezza del marciapiede, e dopo pochi istanti non dà segno di muoversi”.
Giulia morirà per “shock emorragico”.
Alle 23.50 l’auto di Filippo transita, con il corpo di Giulia nel bagagliaio, verso Varco Nord Uscita via provinciale Nord. L’auto si dirige verso Noale (Ve), quindi 43 minuti dopo la mezzanotte è già a Zero Branco, in provincia di Treviso.
Lui percorre più di cento chilometri. Poi si disfa del corpo di Giulia e scappa in Germania.
Non veniteci a dire che è solo cronaca.

sbetti

Parcheggio di via Aldo Moro, Vigonovo (Ve)

Non è stata una fatalità! Cazzo

E no. Non è stata una tragica fatalità. No. Non è un’attenzione morbosa per i fatti di cronaca. Questo non è “solo” un fatto di cronaca. Non è stato un incidente. Una lite finita male. Un litigio finito come nessuno poteva immaginare.

Smettetela di prendervi per il culo.

Smettetela di prenderci per il culo.

E abbiate rispetto delle parole.

Giulia è stata uccisa. È stata ammazzata da chi diceva di amarla. Amarla.

Ma che ne sai di cosa sia l’amore se ammazzi una persona. Se la consideri tua. Se la controlli. Se la ricatti. Se la opprimi.

Che ne sai.

Giulia è stata uccisa da chi diceva che le preparava i biscotti. I biscotti. Sai cosa ce ne frega dei biscotti. Sai cosa ce ne frega che qualcuno ti prepari i biscotti.

Giulia è stata uccisa.

La macchia di sangue sul bordo della strada. Accoltellata diverse volte alla testa. E al collo. E poi gettata in un dirupo per un volo di 50 metri.

Giulia è stata uccisa da quelli che diranno: “Era un bravo ragazzo. Non aveva mai dato segni di squilibrio”.

Come se l’equilibrio fosse una cosa visibile. Tangibile. Evidente. Manifesto. Palese. Che ne sai di cosa sia l’equilibrio quando c’hai i mostri dentro.

Giulia è stata uccisa e non è una tragica fatalità. Non è un delitto passionale. Passionale di cosa poi. Passionale di che. Non è un gesto disperato. Un raptus. Una follia. Un innamoramento folle. L’amore non è questa roba qua.

L’amore non è questa mer… qua.

E smettetela. Smettetela di dirvi e di dirci che lui non accettava la fine della storia. Che lui si sentiva tradito. Che lui era geloso. Che lui poverino andava capito.

La fine di una storia non richiede accettazione. È un fatto che si verifica perché nessuno è di tua proprietà. Nessuno è in tuo possesso. Smettetela con questa infermità mentale. Con questa incapacità di intendere e di volere. Con queste attenuanti. Con queste sospensioni delle pene. Con queste buone condotte.

Date un senso a queste morti, se volete far qualcosa di utile.

Giulia è stata ammazzata. Lui aveva cercato anche un kit di sopravvivenza. Girava con un coltello. Tanto che oggi il procuratore di Venezia ha cambiato il capo di imputazione: OMICIDIO VOLONTARIO AGGRAVATO e SEQUESTRO DI PERSONA.

Giovedì mattina tutti attendevano Giulia in aula per la proclamazione della sua laurea. Ma Giulia. Giulia non c’era. Il suo cuore aveva già smesso di battere. La sua bocca aveva già mangiato la polvere. La terra. Il suo corpo era lì, in un canalone vicino al lago di Barcis in quella macchia intricata di pruni, sterpi, lungo quel terreno scosceso e impervio.

Impervia come è stata la sua fine.

Prima viene colpita a mani nude. Poi lei prova a scappare. Poi viene colpita ancora. E ancora. Lui la accoltella. La carica in auto. E la abbandona. Il suo corpo aveva già iniziato a gelare. A tremare. A

ingrigire. La sua bocca era già stata messa a tacere. “Smettila che mi fai male”, le ultime parole.

I piedi con i quali poteva correre volare saltare, proseguire le sue strade, si erano già fermati.

Giovedì tutti avrebbero voluto vedere Giulia in quell’aula, allegra e sorridente. Festeggiarla con un aperitivo come lei aveva pensato di fare.

Ma a quella festa di laurea Giulia non è mai arrivata.

Lui l’ha fatta fuori prima. E non è una fatalità.

No.

Non è una fatalità.

Non è mai una tragica fatalità.

#sbetti

Il problema non è quello che non ha fatto lei. IL PROBLEMA È QUELLO CHE HA FATTO LUI

Non chiamatelo ennesimo femminicidio. Non è morta una femmina. È morta una donna. Una ragazza. Una giovane ventiduenne che avrebbe solo voluto vivere la sua vita. Avrebbe voluto viverla la vita. Bersela. Godersela a morsi. Strapparla con i denti. Difenderla con i pugni. Così. Come si fa quando hai 20 anni. E riempi i cassetti di sogni. Come si fa quando hai 20 anni. E non ti fai incatramare dalle abitudini. Dai pregiudizi. Dalla routine come fanno gli adulti ingessati nelle loro stupide convinzioni. Li lasci aperti quei cassetti. Li fai respirare. Dai loro aria. Li lucidi. Li riempi. Li svuoti. Li sfasci. Ogni giorno è un giorno nuovo per riempirlo e stravolgerlo quel cassetto. Sparpagliarne i sogni. I desideri. Dare forma a quello che vuoi fare. Quello che vuoi essere. Chi vuoi amare. Viaggiando. Navigando. Studiando. A quell’età pensi di poter cambiare il mondo. E magari ci riesci anche un po’ a cambiarlo. Ma stavolta l’epilogo è stato diverso.

Non chiamatelo ennesimo femminicidio. Non parlate ancora di ragazzi scomparsi. Non sono più scomparsi. Lei non è morta. Lei è stata uccisa. Non riempite le strade di drappi rossi. Di stendardi appesi ai palazzi comunali. Non riempite le piazze di scarpette e panchine rosse se poi ogni volta, ogni cazz di volta è sempre la stessa storia. La stessa ennesima tragica fatale storia. Lui che non accetta la separazione. Lui che non vuole che lei sia più brava. Lui che non vuole che lei esca con le amiche. Che lei si vesta in un certo modo. Che lei tenga sciolti i capelli. Nessuno può dirvi dove dovete andare. Cosa dovete fare. Come vi dovete vestire. Chi dovete essere.

Ed era bella Giulia. Bellissima. Era bella che nell’ incarnato del volto le ci vedevi il sole. La luna. Le stelle. In quegli occhi piccoli ma giganti che irradiavano bellezza e spontaneità e che parlavano da soli si disegnavano sorrisi, si nascondevano progetti passioni.

E non dite a Giulia come si sarebbe dovuta comportare. Non insegnate a Giulia a non andare all’ultimo appuntamento. Non ditele cosa avrebbe dovuto fare. Abbandonate quei culi dalle sedie. Il problema non è quello che avrebbe dovuto o non dovuto fare lei. Il problema è QUELLO CHE HA FATTO LUI. Quando l’altro giorno mi sono trovata a “seguire” questa storia, c’è stata una persona a me molto cara che mi ha detto: “Sere… però se fosse ancora viva, sarebbe andata a laurearsi non credi?”. In quel momento mi si è spalancato il vuoto sotto i piedi. Me lo sono vista quel vuoto spalancarsi di sotto come fosse un tunnel buio senza via d’uscita. Sì. Stupida io che non ci avevo pensato. Stupida me che penso sempre che in fondo dai, potrebbe essere ancora in vita. Stupidi noi ancora a fidarci delle bestialità dell’essere umano.

Giulia è stata uccisa. E non è un finale a sorpresa. Non è qualcosa che giunge inaspettato. Non è qualcosa che non si sapeva. Lo sapevamo. Lo sapevano tutti. Ogni volta piangiamo. Ci interroghiamo. Riflettiamo puntando i riflettori giusto un attimo, poi, poi quando passa l’onda tutto torna come prima. E se una donna viene ammazzata, è perché doveva prendere provvedimenti. Se una donna viene stuprata è perché se l’è cercata. Se una donna viene maltrattata è perché lei sicuramente avrà fatto qualcosa. Se una donna scopa è perché è troia. Se una donna viene molestata è perché era ubriaca. Prendi nota. C’è sempre una scusante per lui. C’è sempre un’aggravante per lei. Lui povero che era depresso e non accettava la rottura. Lei carnefice che doveva amore anche se amore non ne aveva. Ogni volta ci indigniamo. Scriviamo post mielosi su Facebook. Filippiche cattedratiche e poi. Poi torna tutto uguale. Perché sostanzialmente ce ne freghiamo dei problemi delle persone. Se una persona è violenta o gelosa. Il problema non è chi subisce. Il problema è chi è violento. Chi è geloso. Ora la Schlein – e scusate se metto insieme la politica – vuole introdurre la legge per la prevenzione nelle scuole. Non servirà a nulla. Dovete intervenire nelle famiglie sempre più slabbrate. Sempre più deboli. Sempre più incapaci di accettare che una donna possa studiare lavorare e fare figli. Dovete intervenire sulle pene che non sono mai abbastanza. Su quelle dovete intervenire. Sul carcere a vita. Ma a noi. A noi non insegnate a vivere in questo mondo di merda. Non ne abbiamo bisogno.

Ciao Giulia

#sbetti

Al primo segnale andatevene, sempre.

Post scritto prima del ritrovamento di Giulia.

Quando ieri ho saputo che dietro casa si cercava un corpo, sono trasalita. E non è provincialismo. È che sapere che dietro casa tua cercano qualche cadavere o qualche vestito, indumento, qualcosa che possa tentare di ricostruire il tragico puzzle della vicenda di Giulia e Filippo è qualcosa che ti lascia perplesso. Per cui ti prende lo sconforto. In quei canali, quando di sera scende la nebbia e al mattino si alza il sereno, ci sei cresciuta. C’hai visto sorgere il sole. Brillare le stelle. Salire la luna. C’hai visto le montagne far l’amore con la pianura, quando è nitido e ti pare che se ti sporgi di un metro le tocchi con un dito. Ed è qualcosa che ti lascia un non so che di amaro in bocca. E sì che di casi di cronaca ne ho visti tanti, tantissimi. Ma ogni volta è come fosse la prima. E ogni volta questo è il metro per misurare quanto sei viva. Vera. Sincera. Il non abituarsi mai. Questo rende l’uomo umano. Non ci si abitua mai alla morte. Al dolore, alla sofferenza. Alla pazzia, ai raptus di follia. Non ci si abitua mai a vedere i teli stesi a terra, o un indizio, un reperto, una casa, una stanza, una borsa, un’ auto, un qualcosa che possa far pensare che quella persona non ci sia più. Ricordo ancora quando entrai dentro la casa di Isabella Noventa. Le pareti sanguinavano da sole. Parlavano da sé. I muri piangevano di dolore. Giulia Cecchettin e Filippo Turetta sono scomparsi da un paesino in provincia di Venezia sei giorni fa. Non sappiamo se sia l’ennesimo omicidio. Non sappiamo se lui l’abbia uccisa o se abbia tentato. Il video ora recuperato – nei casi di cronaca c’è sempre qualcosa che salva la giustizia – avrebbe determinato la svolta nelle indagini. Non sappiamo se lui non voleva che si laureasse. Se è così veramente. Se lui non sopportasse che la donna fosse superiore. Se lui fosse geloso. Se lui la tormentasse. Se lei avesse paura. Possiamo solo ricostruire. Ma commentare i fatti, prima ancora che accadano o prima di sapere come siano andate le cose veramente – veramente poi, mai niente è così veramente vero – come insegna Vittorio Feltri non ha molto senso. Di quella notte è apparso un video dello stabilimento Dior lì vicino, dove si vede Filippo aggredire Giulia e poi caricarla, sanguinante, sulla sua auto. Il filmato mostrerebbe Giulia ferita che cerca di fuggire, lui che la rincorre e la colpisce di nuovo con violenza facendola cadere, e poi la lascia lì, apparentemente esanime a terra, prima di caricarla in auto e fuggire. Lui ora ha un mandato di arresto europeo. Così. Quando ieri ho visto l’alveo del fiume setacciato dai carabinieri. Quando ho commentato con i colleghi la notizia. Mi sono detta che può capitare a chiunque. Può capitare a chiunque di infilarsi in una storia sbagliata. Restarci invischiati perché non si vede via d’uscita. Al primo segnale andatevene. Sempre.

#sbetti

L’arroganza dei ladri di case. La casa come fosse la loro

Da Fuori dal Coro di mercoledì 15 novembre 2023

Noto che c’è una certa arroganza – barra – prepotenza – barra – tracotanza – barra – spocchia – da parte degli occupanti abusivi di case, nel considerare la casa che occupano come casa e cosa loro. Impressionante.
E noto che c’è anche una certa disinvoltura – barra – sfrontatezza – barra – sfacciataggine – a chiamare le forze dell’ordine non appena arrivano i giornalisti che vogliono fare delle domande. Come fossimo noi dalla parte del torto. Come se in Italia la stampa fosse considerata al pari di un ladro, che appena lo vedi lì fuori incappucciato componi il numero di emergenza della caserma più vicina. Cosicché passa il messaggio che l’occupante abusivo ha diritto a occupare la casa, e invece il giornalista che giunge sul posto è un pezzo di m.
Il diritto di occupare del resto ancora non l’avevo mai sentito. Non credo manco sia scritto.
E non credo sia nemmeno riconosciuto a livello costituzionale, ma siccome i cambiamenti sono dietro l’angolo e avvengono nel giro di un batter di ciglia, non mi stupirei se qualcuno possa averlo previsto. Che ne so. Qualche talebano col cervello innaffiato dal politicamente corretto potrebbe aver proposto, in un momento di buio neuronale, un emendamento dove si prevede per l’occupante il diritto a occupare.
Orbene.
L’altro giorno, girando un servizio sulla casa occupata a Castellarano in Emilia Romagna, ho sostenuto una conversazione assurda ma così talmente assurda con l’occupante abusivo Doku (ve lo ricordate l’indemoniato) che a un certo punto mi sono chiesta se fosse tutto vero o no. Credevo di essere finita su Scherzi a Parte.
L’occupante sosteneva che quella fosse casa sua. E che stabiliva lui quando dare le chiavi.
“Cosa fai tu davanti casa mia anche oggi”, mi ha chiesto l’occupante che nella maggior parte dei casi è straniero.
“Ma questa non è casa tua”, ripetevamo in coro io e la proprietaria. Non è casa tua.
E lui niente. Silenzio. Zitto.
“Ti ho detto tu vieni il 25”, mi ha detto.
“Il 25?”, ho chiesto.
“Ma perché il 25?”. Niente. Zero risposte.
“Io ho detto il 25”.
Sì perdio figlio mio ma perché. Perché il 25 ho chiesto io. Niente.
Il 25 quindi, probabilmente, perché queste situazioni così talmente assurde e paradossali – che viene da chiederci perché diamine le persone normali lavorano una vita e pagano l’affitto e si comprano casa – saranno risolte dalle istituzioni nel migliore dei modi.
Dove il migliore dei modi non è dare alla proprietaria i soldi degli affitti non pagati e degli arretrati, ma è trovare una casa magari a nostre spese all’occupante e alla sua famiglia. Cosicché la proprietaria dopo un po’ è andata dai carabinieri. E si è sentita dire che se l’occupante ha detto che consegna le chiavi il 25, dobbiamo attendere il 25. In Italia quindi il fuorilegge detta la legge.
Decide lui quando dare le chiavi, in che modo e dove.
È l’illegalità.
Bellezza.

sbetti

Indi. Lo Stato che si crede Dio onnipotente

Il solo pensiero che Indi, se, anziché nascere in Inghilterra, fosse nata in Italia, a quest’ora possa essere viva, fa rabbrividire. E il solo pensiero che ad aver celebrato osannatamente la morte, nell’ “interesse” della bimba, siano proprio quelli che predicano inclusione uguaglianza e riconoscimento dei diritti di tutti, fa ancora più rabbrividire. Anzi no. Che dico. Mi fa immensamente schifo. In tutta la vicenda della povera Indi Gregory, non c’è solo l’Inghilterra ad aver dato prova dei suoi immensi disvalore e squallore. Ma ci sono anche alcuni politicanti da salotto Made in Italy, che non hanno perso tempo a staccare la testa alla povera creatura e usarla come trofeo per le loro battaglie ideologiche.

Indi Gregory è morta.

Se n’è andata la notte del 13 novembre all’ 1.45. Se n’è andata nella fredda stanza di un ospizio, nonostante i genitori avessero, per favore chiesto – per favore vi scongiuro Dio mio – di farla morire a casa. Come a dire: se dovete decidere della vita o della morte di nostra figlia. Se vi sentite così talmente onnipotenti da sostituirvi a Cristo, almeno nostra figlia fatela morire a casa. A casa nostra. Con le sue cose. Con noi. Con le nostre angosce. Con le nostre paure. Con i nostri ricordi di 8 mesi, pensando a una vita che non sarà più la stessa. Ma non c’è stato verso. Al mondo c’è un’autorità cosi talmente potente, che si chiama magistratura, che si chiama Stato, che si arroga il diritto di decidere se puoi vivere o morire. Lo Stato che si fa Dio, lo Stato che si impersona in Gesù Cristo, lo Stato che si crede Dio onnipotente. Al mondo c’è un’autorità così talmente potente che si sente investita del potere di decidere se una piccola creatura di nemmeno un anno debba lasciare questo mondo. E c’è qualcosa di immensamente e inconcepibilmente diabolico nel pensare che ci sia un imperio che decida chi debba vivere o morire. Che decida chi debba respirare o farne a meno. Che decida quando staccare la spina per mandarti dall’altra parte. Che decida di trattare la vita come fosse un orologio a cucù regolando il meccanismo e togliendo le batterie, quando, secondo loro, non “serve” più. E fa rabbrividire questa magistratura che si crede di poter comandare e regolare il mondo e si erge a finta paladina del bellissimo mistero della vita e arriva dove non dovrebbe arrivare. Sputa sentenze. Semina morti. La vita di una creatura rimane appesa a battaglie ideologiche, a scontri giuridici, mediatici, ripugnanti, vere e proprie mannaie che sgozzano creature innocenti in virtù del dio scienza. Del dio magistrato. Di chi si sente onnipotente e non è niente. Il padre di Indi, povero, ha lottato. Ha lottato come un cane randagio che non mangia da giorni e fino alla fine insieme alla moglie. Ha lottato come un leone, senza saper che fare, nella Siberia dei valori, ha visto il suo angelo spegnersi tra le braccia della donna che ama e che l’aveva messo al mondo, ma non è stato in grado di lottare contro un mostro che voleva che Indi se ne andasse e al più presto. Il governo italiano ha detto: “Tranquilli, lo prendiamo noi il vostro angelo. Non vi promettiamo guarigione. Ma vi garantiamo cure. Ce ne prenderemo cura”. La cura. La cura che c’è anche quando ti arriva un pacco e ci sta scritto “maneggiare con cura”. Ma Indi per lo stato inglese era peggio di un pacco. È stata trattata come qualcosa di cui sbarazzarsi senza sensi di colpa. E in tutta questa presuntuosa lotta di poter decidere la vita e la morte, il bene e il male, di poter trattare la vita come fosse accendere o spegnere la luce, c’è chi non ha perso tempo, aggiungendo schifo allo schifo. Dinanzi alla concessione della cittadinanza alla piccola creatura a cui i giudici hanno inflitto la pena di morte, qualche talebano dell’accoglienza ha gridato: “Allora diamo la cittadinanza a tutti i figli di immigrati”. Così. Per cavalcare squallidamente la propria battaglia, si è pronti anche a prendere la testa di una neonata e sventolarla in piazza. Così Indi è morta. E loro l’hanno ammazzata due volte.

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La vita di Almerigo Grilz diventa un film

“Why not”.

Lo ripeteva spesso Almerigo Grilz. Tanto da farlo diventare un motto.

“Lo ripeteva”, racconta l’inviato di guerra, nonché il suo amico fraterno Fausto Biloslavo “nelle situazioni più impensabili, quando si trattava di mangiare una brodaglia ammuffita fra i ruderi di Beirut, non essendoci altro da mettere in pancia, o davanti all’obbligato travestimento musulmano, con tanto di turbante e lunghe tuniche, per entrare clandestinamente nell’Afghanistan occupato dall’Armata rossa”. E ora la vita di Almerigo Grilz diventa un film. “Albatross”, il titolo, le cui riprese sono iniziate a Trieste mercoledì scorso. Primo giornalista italiano caduto in guerra dopo la fine del secondo conflitto mondiale, quel giorno Almerigo, il 19 maggio 1987, era a Caia in Mozambico, e stava riprendendo uno scontro a fuoco tra i soldati governativi e i ribelli della Renamo, la resistenza nazionale Mozambicana. Gli ultimi appunti di Almerigo, custoditi in agende che lui usava come diari di guerra recitano: “La sveglia è chiamata poco dopo le 5. (…) Fa freddo, l’erba è umida e c’è una nebbiolina brinosa tutto attorno. Riteniamo opportuno iniziare la giornata con un sorso di whisky, che fa l’effetto di una fiammata in gola”. Nelle sue agendine lui annotava scrupolosamente tutto, ogni momento, ogni testimonianza, ogni racconto, il tutto accompagnato da disegni e mappe. “In pochi minuti la colonna è in piedi. I soldati, intirizziti nei loro stracci sbrindellati raccolgono in fretta armi e fardelli. (…) Il vocione del generale Elias (…) li incita a muoversi: Avanza primera compagnia! Vamos in bora!”. Da qui più niente. È il 18 maggio 1987. Il giorno dopo Grilz sarà ucciso. Aveva 34 anni. Il proiettile di un cecchino gli trapasserà la nuca. Nel documentario video inserito all’interno di una mostra che gli inviati Fausto Biloslavo e Gian Micalessin hanno ideato e curato, si vede perfettamente il momento della morte di Almerigo. È lì che corre, mentre filma i guerriglieri. Il fiato che avanza. Le riprese a tutto campo e poi all’improvviso un colpo secco. Almerigo cade a terra. La cinepresa continua a riprendere, inquadra il piede di lui e poi si ferma. Fissa. Immobile. Il piede già quasi inerme. La camera continua a riprendere. È lì fissa su quel campo giallo e verde, su quel cielo azzurro che sa di grigio, come a dire: “Mi avete ammazzato ma qualcuno continuerà per me”. E Biloslavo e Micalessin hanno continuato.

(…)

“Why not – racconta Biloslavo – divenne un motto, che assieme a Gian Micalessin ci portò a viaggiare in mezzo mondo raccontando la cosiddetta “pace” degli anni Ottanta, ovvero guerre terribili e spesso dimenticate, ultimi bagliori dello scontro senza quartiere fra le superpotenze”. Chi lo sa. Magari oggi se gli avessero chiesto: “Almerigo facciamo un film?”, lui avrebbe risposto: “Why not”.

Serenella Bettin

Continua qui per leggere il pezzo 👉 https://www.laverita.info/almerigo-grilz-film-libro-2666233403.html

Biloslavo, Grilz e Micalessin

Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire dolore

Al sopracciglio destro porta due orecchini che gli traforano la pelle. Uno parte da sotto il sopracciglio e sbuca dall’altra parte. L’altro parte da sopra e sbuca da sotto. Sono due gemme d’acciaio inchiodate lì sull’epidermide.
Quando lo vedo mi chiedo come faccia a non sentire male. A non sentire dolore. A far finta che non ci sia niente. Forse è questo uno dei sensi della vita mi chiedo. Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire male. Andare avanti.
Arrivo in questo posto dalle pareti gialle e giallognole che sono le undici del mattino. Sono in mezzo alle colline bolognesi che per arrivarci fai delle strade che manco le Dolomiti. Sono tutte curvilinee sbilenche storte, come tanti piccoli vermi risalgono o scendono il monte a seconda se decidi di andare da una parte o dall’altra. Il paese è praticamente una strada. Quando ci fermiamo da una donna per chiedere informazioni, lei sgrana gli occhi e ci risponde: “Paese? Quale paese?”. Qui la gente non si sente in un paese. Ci saranno dieci case senza manco un sali e tabacchi, sali e scendi invece ce ne sono tanti, quindi se finisci le sigarette devi rimanere senza fumare per trenta chilometri e raggiungere il paese vicino che pare più civilizzato.
Qui ci sono dieci bugigattoli con i balconi e le pareti dipinte. Con un campanile alto come un pioppo. E una chiesetta simile a quella dei cartoni animati. Entro nel primo bar perché devo andare in bagno. Ma il bar è all’interno di un albergo. Dove a sua volta ci sta un ristorante. Come a voler penetrare una piccola matriosca raggiungo il bar che sta all’interno della sala colanzione, la quale a sua volta sta all’interno del ristorante, il quale a sua volta sta all’interno dell’albergo. Apro le piccole porte, prima una poi l’altra poi un’altra ancora. Le vedo richiudersi.
Quando mi perdo, scodinzolo via di qua e di là, e a un certo punto un cameriere viene a salvarmi.
“Salve volevamo prendere un caffe. E avevamo bisogno di alcune informazioni”.
Al bancone del bar ci sono due uomini dal volto violaceo, hai presente quelli che bevono il vino alle nove del mattino. Quelli che hanno le vene consumate dall’alcol. Quelli che se ti avvicini senti quell’odore nauseabondo che ti entra in gola e ti si incatrama su dentro il naso. Qui sono così. Qualcuno ha anche la barba lunga, avvoltolata su se stessa, ingiallita dagli anni consumati a consumare tabacco. Gli anelli alle mani che tengono quella sigaretta che si consuma tra le dita.
E gli anfibi ai piedi. Fuori un tavolo di anziani che giocano a carte. Poi ci sta un vecchietto col cappello che a vedere una donna si erge tutto. Mi vede. Mi segue. Mi fa una domanda. Gli rispondo a mezza bocca. Qui la vita deve essere dura. In mezzo al nulla. Senza niente attorno. O uno beve o esce matto. Poi mi volto. E vedo un uomo. Al sopracciglio destro porta due orecchini che gli traforano la pelle.
Quando lo vedo mi chiedo come faccia a non sentire male. Forse è questo il senso della vita mi chiedo. Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire dolore.

sbetti

Gli abusivi possono pure menarti. Sotto gli occhi di tutti

Questo è il livido di un pugno che sarebbe arrivato a me in faccia, se l’uomo della vigilanza non mi avesse difeso.
Questo è quello che fanno gli occupanti abusivi di case. Provateci voi a difendervi in casa vostra e rischiate di finire in galera o indagati per lesioni tentati omicidi e altre figure applicate in maniera folle.
Tanto gli abusivi sono consapevoli e forti che nessuno farà mai loro niente, protetti e tutelati dai giudici, dallo Stato, dalle leggi, quasi perfino dalle forze dell’ordine. Arrivo in questa casa occupata che è quasi ora di pranzo.
L’occupante mi fa il favore di uscire inconsapevolmente, ignaro che ci avrebbe trovato. Rimaniamo tutti in auto. Non scendiamo. Lo osserviamo venire avanti. Il cameraman prepara la camera. Io il gelato. Mette in rec. Io schiaccio on. La lucetta verde si accende e in una frazione di un secondo, quando ormai è in bocca a noi, scendiamo dall’auto. In quei momenti ti giochi tutto. Tutto in una manciata di secondi che svapora via se non ti muovi. Avviene tutto in un attimo. In un attimo devi bloccarlo, fargli domande, chiedergli o chiederle conto del perché diamine sia ancora in quella casa magari con un’ordinanza di sfratto. In un attimo gli vuoi chiedere se non si vergogna a stare in una casa senza pagare l’affitto, manco il condominio, le bollette e tutto quello che ci sta dietro e se sa che in Italia la gente per bene e che lavora l’affitto se lo paga o la casa se la compra. In quel momento un vortice di emozioni ti si riversa addosso. Piomba come piomba la lava sul vulcano accesso. Non senti caldo. Non senti freddo. Non ti accorgi se piove. Se c’è il sole. Se è giorno. Se è notte. È un misto di adrenalina, energia, paura, impeto. Puoi sentire il cuore in gola. Come le gambe tremare. Puoi sentire le mani fredde. Come i piedi partire. Anche perché non sai come l’occupante possa reagire. E qui ha reagito male. Inizio a fargli domande. Non mi risponde per mezz’ora. Ma a un certo punto. A un certo punto quando capisco qual è il tasto dolente, sbrocca. Fa per tirarmi un pugno e la scorta si mette in mezzo. In un baleno lo para quel pugno. Lo ferma. Lo blocca. E se lo prende giusto qui sul collo.
Ora queste sono le reazioni sempre più violente degli occupanti abusivi. L’arroganza. La supponenza. La delinquenza. La convinzione di fottere lo Stato e nonostante questo essere nel giusto. Tanto sanno che a loro nessuno farà mai niente. Carabinieri che arrivano per far domande ai giornalisti. E non agli occupanti. Ordinanze di sfratto mai eseguite. Giudici irraggiungibili. E ufficiali giudiziari introvabili. Signori questa è l’Italia.
Invece se ti entrano in casa o in gioielleria o in tabaccheria per rapinarti mentre stai dormendo o stai lavorando logorandoti di un lavoro che ti porta ogni giorno a farti il culo, e questi ti minacciano o ti legano la moglie e i figli, non puoi fare niente, perché se per caso ti azzardi ad alzare un dito, poi se non ti ammazza il ladro ti ammazza lo Stato.
E quindi i proprietari in casa loro non possono difenderti. Invece gli occupanti abusivi – una ha minacciato perfino una mia collega davanti al carabiniere che è rimasto muto – ecco dicevo gli occupanti abusivi possono fare tutto. Possono tirarti pietre. Sassi. Coltelli. Bottiglie rotte. Possono sputarti addosso.
Menarti. Darti calci. E minacciarti.
E questo sì. Questo è sotto gli occhi di tutti.

sbetti

La mosca sopra la tavoletta del cesso

Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio. Arrivo a Bologna che è mattino. Devo girare una casa occupata ma nel frattempo mi scappa. E devo andare in bagno. Entro in un locale. E per accedere al bagno c’è bisogno della chiave. Sulla porta noto che c’è una storiella sul Tiro di Bologna. Il tiro è quella cosa per cui noi diciamo suona, invece a Bologna ancora dicono “Tira”, e sul campanello ci sta scritto proprio questo. Il modo di dire deriva dal fatto che una volta per suonare si usava una cordicella. Mi accorgo che sulla tavoletta del water c’è una mosca. E mi fa parecchio schifo. Esco. Bevo il caffè e ci mettiamo in cammino. Vado su per le montagne. Su per i monti. Su per le colline. Ci sono i tornanti. Cerco di concentrarmi sulla strada. Dicono che se guardi un punto. Sempre quello. Sempre fisso. Non ti fa male la macchina. Mi guardo attorno perché fissa e immobile non riesco a stare e attorno a me si apre un ventaglio di colori, una tavolozza di acquerelli dai colori pastello che pare che ci abbia messo le mani un pittore ingenuo. Ci sono alberi abeti pioppi cipressi verdi rossi gialli alcuni mi sembrano anche violacei. Anche l’accendino che ho comprato è violaceo. E forse non avrei dovuto comprarlo.
Arriviamo su in cima e ci fermiamo con l’auto perché ci stanno aspettando gli uomini della scorta. Siamo lungo i colli bolognesi. Andiamo su e ci appostiamo. Ma non appena arriviamo ecco che la donna esce. Ha il volto del colore del marmo. Vestita con una maglia aderente che le fa intravedere i seni, indossa dei fuseaux che paiono tinti dei colori pastello da un pittore schizofrenico, in testa indossa una cuffia.
Gli occhi marroni incavati non lasciano trasparire niente di buono. Sembrano quelli di una cavalletta che si apposta sul muro di casa in attesa della propria preda. Attorno a lei ci sono i cani. Scendo dall’auto facendomi violenza. I cani sono decisamente troppi per me. Lei ne ha cinque liberi e in più ci sono tre cani grandi brutti e grossi nel giardino accanto che continuano ad abbaiare forsennatamente. Non penso ai cani. In una frazione di secondo cerco di scindere la mente in due parti. La prima deve rimanere concentrata su quello che voglio dire e chiedere alla donna. La seconda parte cerco di distrarla dal pensiero che i cani ci possano far del male. In un’altra frazione di secondo cerco di staccare la mente dal corpo. Non voglio permettere alla paura dei cani di paralizzarmi. Le gambe vanno da sole. Avanti come un caterpillar la affronto. Le chiedo perché diamine continui a stare in quella casa. E lei non risponde. Torna indietro per la stradina e io la seguo. Ma in un baleno. Ecco che mi volto e vedo i cani ringhiare. Azzannare la rete. Azzuffarsi. Scagliarsi contro. Lei fa per andare ad aprirli come a metterci paura e in un attimo mi passa davanti la vita. Mi vedo azzannata. Acciuffata. Aggredita. Cerco di non pensarci e mi scatta qualcosa che la fa sclerare. Lei sclera. Inizia a inveirci contro. Alza le mani. Mi minaccia. Ci minaccia. Ci dà dei figli di put. Figli di troi. Teste di cazz. Chi cazz siete. Mi avete rotto i cogl*. Le dico che si dovrebbe vergognare a stare in una casa che non è la sua. E in quel momento, come a voler sfogare tutta la sua rabbia, alza il pugno per sferrarmi un gancio giusto in faccia. L’uomo della scorta si mette in mezzo, tra me e lei, e il pugno colpisce il collo di lui. Dopo il parapiglia, ce ne andiamo. A me tremano ancora le gambe. Più che altro per i cani. Di lei sostanzialmente me ne fotto. Ci è venuta fame. Entriamo in un ristorante. Io spizzico qualcosa. Ancora lo stomaco si deve aprire. Ordino il caffè americano, ma l’oste di quella osteria incallita non riesce a trasportare il vassoio e il caffè finisce tutto sparso. Lo guardo. Lui mi guarda. Gli faccio una faccia schifata. Lui mi dice: “È un po’ gocciolato”.
Sì decisamente. Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio.

sbetti

ladridicase

La guerra combattuta a suon di hashtag

Noto che dalla guerra in Ucraina è partita questa tendenza a combattere la guerra a suon di hashtag.
Una tendenza raccapricciante e per certi versi vomitevole che porta i Pinco Pallo di turno a partire per il fronte (se poi stanno la maggior parte del tempo in albergo non lo saprete mai) e farsi ritrarre e fotografare in pose talmente assurde che agli inviati veri, quelli con la I maiuscola, che la guerra non solo la raccontano ma la vivono veramente, viene loro da ridere.
Lezioni di giornalismo non richieste a metà tra l’analisi geopolitica e la storia raccontata a suon di Bignami da prima media.
Dalla guerra in Ucraina qualsiasi pinco pallo qualunque, mosso dalla sua boriosa cacone e gonfia vanità incandescente, ha provato a raggiungere il fronte – non riuscendoci quasi mai – al solo scopo di cercare la fotografia più idonea ad attrarre e attirare like su Facebook, raccontando la guerra non per quello che è, ossia una grande merda, ma mettendo se stesso al primo posto.
Il fine infatti degli inviati improvvisati non è raccontare storie e dare voce agli altri. Ma è raccontare se stessi per fare vedere quanto sono bravi. Gente improvvisata partita con una camera in mano senza sapere manco come vestirsi. Ce ne sono di casi di fotografi o presunti tali partiti e poi fermatisi in Polonia.
E la stessa cosa si ripete con Israele. Guerre raccontate a suon di stories su Instagram. Di like su Facebook. Di post che mi scompiscio dalle risate la mattina quando li leggo.
Io quando sono stata in Kosovo e la guerra era già finita non avevo manco tempo di andare al gabinetto perché si lavorava da mattina a sera per cercare di raccogliere quante più storie possibili. E si cercava di estraniarsi dal mondo per entrare dentro quello di qualche altro. Provate a chiedere ai grandi inviati di guerra se hanno tanto tempo di aggiornare i loro profili.
Gli inviati seri non hanno tempo di aggiornare la loro pagina Instagram. La loro pagina Facebook. I loro tweet. O X come lo chiamate.
Lo fanno a sprazzi, quando ormai, stremati dalla giornata e dalla nottata, si accorgono che il resto del mondo reclama il loro contributo per quella parte di terra vista con i loro occhi. La guerra non è un reality. Non è uno show. Non è palcoscenico. Non è cinema. Teatro. Chi scherza con la guerra, forse ha dimenticato una cosa importante. Che in guerra si muore.

sbetti

L’occupante abusivo non dà la casa ma un panino 🥪 (e sentite cosa risponde la presidenza della Repubblica)

Robe folli. La presidenza della Repubblica invita la proprietaria di casa a prendersi cura della sua salute.
E i carabinieri chiamano la polizia locale per segnalarci come sospetti.
Di come si possano accettare certe situazioni è un mistero.
Sono tornata da Doku, l’occupante abusivo ghanese che la scorsa settimana mi urlava dietro mentre gli chiedevo conto sul fatto del perché non lasciasse la casa di Monica Ternelli dato che ha un’ordinanza di sfratto e dato che deve a Monica oltre 16 mila euro.
E si vede che gli abbiamo rotto così tanto che pare abbia deciso di andarsene.
Ma la cosa folle che abbiamo scoperto è questa.
La proprietaria Monica aveva avviato uno sciopero della fame per riavere indietro la propria abitazione.
Un giorno due crackers. Un giorno due biscotti. E passava la giornata. “Vi assicuro che si sta malissimo”, ci aveva detto. L’occupante per sfotterla le aveva detto che qualora lei avesse avuto fame, lui le avrebbe dato un pezzo di pane.
Monica così ha scritto alla presidenza della Repubblica, la quale per il tramite dei suoi preposti le ha così risposto: “La invito inoltre a voler desistere da iniziative che potrebbero compromettere il suo stato di salute. Con i migliori saluti”.
Sti cazzi.
Uno ti scrive che mangia due cracker, perché diamine quella è la sua pensione.
Perché ha bisogno di quei soldi. Perché non vive altrimenti.
Non sa di che campare. Perché il figlio è costretto a mantenerla e non può farsi una famiglia e questi le porgono i migliori saluti.
Del resto funziona così in Italia.
In Italia accade che se vai a indagare in qualche casa occupata, l’occupante abusivo chiama i carabinieri.
Robe da matti. E se i carabinieri arrivano poco possono fare. Anzi magari in torto ci finisci tu.
Questa volta è accaduto – e Dio mio vi prego giuro sembra una barzelletta – che l’occupante abbia chiamato i carabinieri. I carabinieri sono passati ma non trovandoci più, ci hanno segnalato come auto sospetta.
Quando siamo tornati nel frattempo è passata la polizia locale che ci ha fermato.
Alla mia domanda: ma chi vi ha segnalato la nostra auto. La loro risposta è stata: “i carabinieri”.
Nel frattempo l’occupante continua a rimanere lì.
Ancora per poco…
(Vi consiglio se avete perso il servizio su Rete 4, di guardarvelo su Mediaset Infinity).

Ecco il link 👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro/ladri-di-case-labusivo-non-paga-alla-proprietaria-offro-un-panino_F312803501009C17

sbetti

ladridicase

Non paga da 15 mesi. Alla proprietaria deve oltre 16 mila euro

Guardate come mi aggredisce quest’uomo. Indemoniato. Questa gente pretende di aver ragione. Protetti dallo Stato e coccolati dai talebani dell’accoglienza.
Il mio servizio a #fuoridalcoro

sbetti

Per vedere il servizio completo 👉 https://mediasetinfinity.mediaset.it/video/fuoridalcoro/ladri-di-case-abusivi-senza-vergogna-non-pagano-da-un-anno-e-mezzo_F312803501008C16

Grazie a Simon Barletti per riprese 🎬 e montaggio.