Vai avanti per la tua strada

Il mio più caro amico viene dal Ghana. È ghanese. La mia migliore amica è di Conegliano ma vive a Roma. Una delle mie amiche più care che un giorno mi ha salvata dal torpore in cui ero caduta è albanese.
Io sono nata nelle Marche il giorno della Libertà di Stampa. Ci sono rimasta lì poco, poi sono venuta in Veneto. Ma nelle Marche ci vado sempre. Ho amici. Parenti. Ricordi. Sogni. Progetti.
Sono una parte dei mi corpo e un puzzle della mia anima.
Mia madre è marchigiana. Mio padre è veneto. Il mio cognome infatti finisce per N. Enne. Il liceo l’ho fatto a Treviso. L’Università a Padova. Ho studiato, ho frequentato, ho conosciuto, ho vissuto, mi sono insaponata, infarinata, contaminata con qualunque parte del mondo.
Non c’è regione d’Italia dove non abbia un amico. Non c’è Stato dove vado che non trovi qualcosa che sappia di familiare. Riesco sempre a ricavarmi un mio posto nel mondo.
Io sono nata al mare. Impossibile mettermi le briglie. Sono zingara. Inquieta irrequieta e calma nello stesso momento. Mi increspo con niente. Mi calmo con poco.
E come ogni essere vagabondo. Ho un profondo attaccamento per la mia terra. Quella dove sono nata. E quella dove ora vivo. Non esiste l’una senza l’altra. Non esiste l’altra senza l’una. In qualche modo ci devo sempre tornare. Sia qui che lì.
Devo tornare un attimo a respirare la nebbia, l’afa, l’umidità, il freddo, il vento della laguna; la brezza del mare, l’Adriatico immenso, da dove ci vedi il confine, la Jugoslavia, quella che da piccola sognavo e tenendomi per mano lungo la riva in segno di rispetto, quando c’era la guerra del Golfo, sognavo di andare dall’altra parte.
Dall’altra parte ci sono andata. Un giorno di settembre di pochi anni fa, ho preso l’aereo, da sola, a Verona. Destinazione Kosovo. Pristina. All’aeroporto mi ci hanno accompagnato i miei genitori. Mi ci hanno portato dentro. Mio padre quando ha visto che a salire sul mio aereo erano tutti kossovari, mi ha messo una mano sulla spalla e non ha detto niente. Come a dire “abbi cura di te”. In Kosovo ho conosciuto persone fantastiche. Squisite. Sono stata da Dio. Non ero in ferie. E lo sapevo. Sveglia alle cinque e mezza e la sera alle undici crollavo sul letto. Si lavorava a ritmi serrati. Ma ho fatto dei bei servizi.
Quando ho cominciato a interessarmi di immigrazione ancora non sapevo a cosa sarei andata incontro. Ho capito che c’era qualcosa che non andava quando mi impedirono di entrare nel campo di Cona. (Nella foto).
Uno degli esempi più brutti che la storia delle immigrazioni abbia mai conosciuto. Mille e seicento esseri umani accatastati come animali dentro a delle tende e container di ferro. I letti di compensato. I materassi che nemmeno esistevano. Quando ho cominciato a scavare sul mondo dell’immigrazione Spa c’ho trovato di tutto. Cooperative che hanno fatto soldi a palate, inchieste, fascicoli finiti sopra i tavoli della magistratura.
Ho sempre cercato di denunciare come stessero questi migranti, le condizioni in cui si trovavano a dover vivere. E sono riusciti a darmi della razzista. Ho sempre raccontato la cronaca toccando con mano le corde di violino di ogni animo che tessevano le file del mondo sopra quel filo spinato. Ho sempre cercato di condurre le storie e di entrarci dentro in punta di tacco, a piedi scalzi, senza niente, denudandomi di tutto, per non fare rumore, per non apparire, per non farmi influenzare.
E infatti non l’ho mai fatto. Tutte le mie inchieste e reportage e il libro servono proprio a denunciare chi con i migranti ci ha fatto i soldi a palate.
E oggi posso dire che ho fatto bene. Mi sono trovata a un incontro per lavoro. Davanti a me c’era un ragazzo tunisino. Ma praticamente italiano. Sa quattro lingue. Parla e scrive benissimo in italiano. Molto intelligente. Ha quasi dimenticato l’arabo. E mi ha detto che viene discriminato perché arabo. Perché il colore della pelle non è quello di tutti.
E a giudicare dai commenti viene discriminato anche da gente per bene che va a battersi il petto in chiesa. Che predica libertà carità accoglienza.
Tutti quei talebani dell’accoglienza come direbbe il mio collega Fausto Biloslavo che pretenderebbero di far arrivare tutti per farci su più soldi.
Poi. Poi alla fine si parlava di amore. Lui non sopporta chi si lascia, si molla, chi non è deciso nella vita.
Così alla fine. Alla fine gli ho detto: “vai avanti per la tua strada, se trovi quella giusta saprai quando ne vale la pena, altrimenti lascia perdere”.
Ci siamo salutati. Lui è uscito dalla porta.
E io, nel chiarore di un sole mattutino troppo presto per essere vero, ho portato alla bocca il mio caffè e mi sono accesa una sigaretta.

#sbetti

La vedete questa ferita?

La vedete questa ferita o è troppo per voi?
La vedete bene? Li vedete come i punti incidono e recidono il volto?
Allora giusto per ristabilire il giusto ordine delle cose. Lo yin e yang. Questo ragazzo si chiama Michele Dal Forno, è uno studente di Verona, c’ha 21 anni e di sera fa il porta pizze per racimolare qualche soldo.
Sabato scorso dopo aver fatto il giro per le sue consegne, ha sentito una ragazza che discuteva con due altri due ragazzi.
Lei piangeva ed era spaventata.
Si è avvicinato per chiedere se avesse bisogno di aiuto e uno dei due, entrambi minori, ha iniziato a insultarlo.
Poco dopo l’altro ha estratto un coltello da una tasca e ha colpito Michele al volto.
La coltellata gli ha provocato una lesione e una cicatrice sotto l’occhio sinistro che probabilmente gli rimarrà per il resto della vita.
E Michele “per” aver difeso una persona si è ritrovato con sessanta punti di sutura.
Ora avrebbe potuto benissimo voltarsi dall’altra parte, fare finta di niente, abbassare il casco e sgommare e invece non l’ha fatto. 
Avrebbe potuto benissimo dire non vedo non sento non parlo e invece è intervenuto pagandola a caro prezzo.
Queste sono le persone che andrebbero difese ma non ho visto tanti Grilli e Toninelli cantare per difendere un ragazzo di poco più di vent’anni che di giorno studia in questo clima di matti e di sera consegna pizze per mantenersi.
Non li ho visti. Non ho visto i Grilli e i Toninelli di turno torcersi i capelli perché un ragazzo che una sera a Verona viene aggredito perché prova a difendere una donna non è ammesso.
Ho visto invece un padre difendere il figlio perché se c’hai il pisello di fuori non fa niente. Soprattutto se lei era consenziente.
Consenziente.
Consenziente.
Consenziente.
Consenziente è la parola preferita nelle aule di tribunale nei processi per violenza. Sono così talmente abili che ti convinceranno di essere stata consenziente.
“Ma lei era consenziente?”, ti chiedono con gli occhi sbarrati piccoli grandi quanto formiche. “Quindi lei sapeva che andando in camera sareste stati soli e che a quel punto è normale che lui possa avanzare delle avances?”, ti chiede l’avvocato difensore che scandisce le parole come nei thriller di Grisham e che c’ha il ciuffetto grigio incollato di gel e che se ne sta davanti al banco degli imputati alzando le mani al cielo con la toga che rimbalza e si inarca e si abbassa a seconda dei movimenti delle spalle.
Sì sapevo.
E no.
Non è normale.
Non è normale che una donna venga aggredita. Non è normale che una donna venga stuprata. Non è normale che un uomo che intervenga per difendere una donna si trovi con una coltellata in viso.
Non sono normali tutti i teatrini. Grillo. Grillini. I video. Toninelli. Ma lei la difende perché. Bla. Bla.
Non è normale quelli che dicono che se l’è cercata. Perché in fondo se c’hai la minigonna puoi anche essere stuprata.
L’aggressore di Michele Dal Forno ha sedici anni. Di origine albanese. Ora si trova nel carcere minorile di Treviso accusato di lesioni gravissime aggravate dai futili motivi.
Ed episodi così sono in continuo aumento. Vedi qualche settimana fa, a Mogliano, Marta Novello aggredita da un quindicenne mentre stava correndo con venti coltellate.
Ora il titolare della pizzeria dove Michele lavora, la Oasi Gourmet Ronni Tarocco ha pensato a una colletta per aiutarlo.
E hanno già raccolto 42 mila euro! 42 mila.
Non ho visto tanti plausi.
Non ho visto tante indignazioni per un fatto che a pensarci mette i brividi. Basta guardare la foto.
Ah certo. Il video dei piselli di Grillo attira più like su Facebook.

#sbetti

Se lo stupro ha colore

Sinceramente non avrei mai voluto che uno stupro si dipingesse di un colore. Giallo, rosso, verde, grigio, marrone, arancione.
Le parole di Toninelli che dice che la Bongiorno difende la ragazza solo per fare i giochi di Salvini, a me sinceramente fanno un po’ schifo.
Mi fanno forse ancora più schifo dello schifo del video di Grillo. Perché se da uno come Grillo non ti puoi aspettare tanto, da Toninelli invece ci si poteva aspettare un briciolo di intelligenza, evidentemente tutta impiegata per stare attento alle sorti geofisiche del pianeta. Con monopattini e altro.
Quello che ha detto Toninelli – cito testuali parole “lei trova normale che a parlare per conto della famiglia della vittima, dell’eventuale vittima, di quella ragazza, sia un politico? Lo stesso politico che difende Salvini nei casi delle Ong, Open Arms, cioè a parlare per la famiglia della presunta vittima è una senatrice della Lega che prende probabilmente gratuitamente per strumentalizzare politicamente una roba del genere” – ecco dicevo quello che ha detto Toninelli la dice lunga sul baratro in cui è sprofondato il nostro Paese. Sul livello di intelligenza delle persone che per anni sono state al parlamento cambiando pelle più e più volte. Trasformandosi. Mutandosi. Andando a braccetto. Chi più. Chi meno. Disposti a scendere a compromessi pur di garantirsi un posto in Parlamento.
Una banda di improvvisati i grillini, scappati di casa, con a capo un leader che è tutto un dire.
Del resto non ci si poteva aspettare niente da uno che – cito testuali parole – “vi mangerei tutti per il gusto di rivomitarvi”, riferendosi ai giornalisti.
Giulia Bongiorno non è solo un senatore della Repubblica iscritta al partito della Lega, è un’avvocato (ci va l’apostrofo! Dato che è donna! che poi mi scrivete nei commenti avvocato senza apostrofo) che a soli 27 anni ha difeso Giulio Andreotti, insieme a Coppi e Sbacchi. È un’avvocato che ha difeso Niccolò Ghedini, Raffaele Sollecito. É un’ avvocato che non aveva tempo di andarsi a comprare da vestire e mandava qualcun altro al posto suo.
Ma soprattutto la Bongiorno è un’avvocato che è sempre stata attiva in prima linea per la lotta contro la violenza sulla donna tanto da istituire con Michelle Hunziker nel 2007 la fondazione Doppia Difesa Onlus per riportare l’attenzione dell’opinione pubblica sulle discriminazioni, gli abusi, le violenze contro le donne, offrendo sostegno, assistenza e tutela alle vittime.
È stata quella che si è adoperata per l’introduzione del reato di stalking, che ha presentato insieme a Mara Carfagna la proposta di legge per l’introduzione dell’aggravante del femminicidio e del delitto di matrimonio mediante coercizione.
È stata quella che ha assistito vittime di violenza sia sul piano psicologico che in procedimenti giudiziari, ed è stata quella che tra maggio e giugno 2018, ha proposto l’introduzione del “codice rosso”, una corsia preferenziale per certe denunce come maltrattamenti e atti persecutori.
Ecco chi è Giulia Bongiorno.
Il tutto mentre Grillo pensa a difendere il figlio con l’uccello in mano e Toninelli pensa a fargli da avvocato difensore.
A questo ci aggiungiamo che mentre pensano al colorino da dare, magari, in questo momento a casa, c’è una ragazza che soffre veramente.

#sbetti

Da Spilimbergo, buongiorno buonasera permesso 🇮🇹

Dal diario di Facebook del 22 aprile 2018

Spilimbergo. Con la valigia sempre ai piedi del letto! È destino che il Friuli e la #Libia tornino sempre in me.
E io me li ricordo quei giorni in caserma a L’Aquila. Rimasi lì dentro per dieci giorni. Stavo facendo il corso per partire per zone di crisi. Sì le zone di crisi. Quelle dove non è comodo rimanersene a casa propria. Quelle che qualcuno dovrà pur raccontare.
Allora mi ricordo di quei giorni in caserma. Al 9*reggimento Alpini, Caserma Julia. E ci si svegliava al mattino presto. Con le sirene dei camion che passavano tra gli alloggi. E poi si faceva l’Alzabandiera. Alle 8 tutti sull’attenti. E poi si faceva colazione. E si salutava. Quando si entrava nel bar della caserma si salutava. Si diceva “Buongiorno”. “Buongiorno”. E durante il giorno quando si incontrava qualcuno si salutava sempre. “Buongiorno”. “Buonasera”. “Permesso”. “Scusi”. “Grazie”. Anche se la sera ci si trovava nei locali a bere una birra durante il giorno, come di sera, si aveva rispetto. Rispetto. Una parola che oggi manca. E poi durante il giorno la giornata era scandita da lezioni, esercitazioni, allenamenti. Allora adesso mentre guardavo il tricolore risalire per l’Alzabandiera, mi sono ricordata di quei giorni in caserma. E mi sono corsi i brividi lungo la schiena. E durante quel suono che ricorda i Caduti, sono rimasta fissa ferma immobile davanti quella bandiera. La nostra bandiera. E ho pensato che per un’Italia migliore farei fare a tutti un periodo di caserma. Forse saremo in grado di avere più rispetto per questa Italia che noi abbiamo reso così disgraziata.

#buonagiornatasbetti

Ora non salgo più sugli alberi

Dal diario di Facebook 22 aprile 2018

Quando ero piccola adoravo starmene sugli alberi. Salivo su in cima a quel glicine che stava davanti casa e dava sulla strada e con le gambe a penzoloni di sotto guardavo la gente passare, la osservavo, la scrutavo, la ascoltavo. Ne usciva sempre qualcosa di interessante. Discorsi scabrosi anche a volte. Ma era bello perché loro non si accorgevano di me. Ricordo che una volta da sopra quell’albero caddi a terra, finii sopra un’aiuola piena feconda di piante e fiori poco prima della partenza delle ferie. Così mi feci male, poco, solo qualche ammaccatura ma i miei mi dovettero cambiare in fretta e furia.

Stare sopra gli alberi mi consentiva di non toccare terra. E io avendo troppo i piedi per terra, volevo respirare aria pulita. Vegeta. Viva. Immersa nel verde e nel profumo dei panni appena stesi tra un glicine di campagna.

La mia vita all’epoca era scandita da un pallone, dalle porte e squadre di calcio, da una corsa in bici con gli amici e dal rotolare per terra fino a sporcarsi di fango ed erba.

Era scandita dai mille tranelli a nascondino, da una paletta e un secchiello. Era scandita da quelle scalmanate corse in bici, per le strade, quando suonavi i campanelli e ti chiedevo “chi è”. E tu. Insieme agli altri. Scappavi. Ma era anche scandita dai libri consumati sugli alberi e sui davanzali, macinati come se non ci fosse un domani.

Poi però la vita cambia e adesso non ci sono più le corse rocambolesche per suonare ai campanelli e sentirti chiedere “chi è”.

Adesso lo fanno a te. Giusto il karma.

Adesso la mia vita non è più scandita da nascondini per gioco. Da porte, palloni e squadre di calcio. Non è più scandita da merendine, palette, secchielli e libri sopra i rami. Adesso è scandita da mele mangiate sugli scomparti di un treno, sui gradini di una vecchia stazione, da arance consumate sui cofani della auto o da un panino al volo prima di arrivare giusto in tempo. Adesso è scandita da taccuini, penne, telefonini, spunte blu di whatapp, video, mail, tablet, computer e registratori. È scandita da pezzi da fare, appunti da riguardare, gente da sentire, messaggi a cui rispondere. Viali da percorrere, auto da guidare, sigarette da accendere, treni e tram da prendere.

È scandita da salite, discese.

Ma soprattutto adesso non salgo più sugli alberi per ascoltare la gente, anche se a vederlo quel glicine l’altra sera mi sarebbe venuta voglia di farlo. Di farlo tremendamente.

#nottesbetti

Grillo rappresenta il baratro in cui siamo finiti

Beppe Grillo è nato il 21 luglio 1948. Ha 72 anni.
Settantadue anni per ridursi un giorno di aprile davanti a uno schermo mimando il figlio col pisello in mano, il suo rampollo, perché in fondo se ti diverti e ti abbassi le mutande e tiri fuori l’uccello non fai niente di male. Sono solo quattro ragazzi che provavano a divertirsi.
Sono solo “quattro coglioni” – cito testuali parole di Grillo – che in assenza di emozioni forti si sono abbassati i pantaloni, se lo sono un po’ menato e poi sotto a chi tocca.
Anche se lei dice no. Anche se lei non ha voglia. Anche se lei non è in grado di capire cosa sta per capitare. Anche se lei il giorno dopo ha i capelli che le restano in mano perché quando l’hanno violentata le tenevano ferma la testa. Anche se lei ha il volto sporco. Pieno di sangue. La mente piena di tempesta. Anche se lei non sente più le gambe. Anche se hai il viso pieno di sperma. Anche se lei non se la sente di denunciare subito.
Nel mondo funziona così. In questo mondo becero e grezzo, atrofico e misero, funziona così. Se sei allegra potevi fare a meno di bere. Se hai la minigonna é colpa tua perché te la sei cercata. Se fai la simpatica é colpa tua perché dovevi startene zitta. Se dici di sì per andare a fare una passeggiata al mare di sera di notte con lo scuro è colpa tua perché non ci dovevi andare. Perché nel momento in cui accetti nella testa di chi difende l’uomo sempre e comunque si fissa il pensiero che se vai, allora “sì ok ci stai, questa me la dà, ragazzi si tromba stasera”.
Ancora ricordo un anno, qualche anno fa, quando mi occupai del caso di uno stupro a Jesolo. Ci fu un poliziotto che si sognò di scrivere su Facebook che in fondo la ragazzina di 15 anni se l’era cercata perché era andata in spiaggia di sera con uno più grande di lui. Fu espulso. Per fortuna.
Nulla di cui stupirsi in questo mondo quando pochi anni fa, esattamente nel 1998, i giudici della corte di Cassazione ritennero che la presunta vittima di una violenza sessuale fosse consenziente, poiché è impossibile sfilare i pantaloni attillati di una persona senza la sua collaborazione.
Una sentenza da far accapponare la pelle. Da far venire i conati di vomito. Come se invece i pantaloni di uomo fosse facile sfilarli invece, data la presunta collaborazione.
Una sentenza che fa innescare quella convinzione e quel meccanismo perverso che se ti vesti provocante è perché vuoi darla via come il pane e che se per caso ci stai per un’uscita significa “sì ok andiamo a letto assieme”.
Del resto in una società senza limiti. In una società così senza freni. Così gretta. Volgare. Così dove non si dosano più le parole. Così di donne che si propongono senza avere rispetto. Così piena di uomini che interpretano, così piena anche di quelle che te la sbattono sotto il naso, così piena di quelli che se la prendono, in una società come questa, il video di Grillo rispecchia molto bene la voragine in cui siamo precipitati. Sulla scia di un non ritorno. Se non cambiamo radicalmente il passo.
Perché a me. A me.
A me non lascia tanto basita il video di Grillo.
Da uno che per anni ha urlato dai palchi e poi ha tentato di prendersi i consensi della gente urlando nelle piazze, non ci si poteva aspettare tanto.
Ma mi lascia basita che uno come Grillo sia e sia stato a capo di un partito che tiene la maggioranza in Parlamento.
A sua immagine e somiglianza.
Perché poi mi raccomando. Mi raccomando. Poi chiamatemi per inaugurare le panchine rosse nella giornata della violenza contro le donne.
Appendete i drappi rossi fuori dalle scuole. Fate indossare ballerine rosse eleganti e fate sfilare le donne come fossero esseri in via di estinzione.
E poi votate. Votate qualcuno che crede che stare lì col pisello di fuori sia consentito. Che sia un atto goliardico.

#sbetti

In Kosovo, tra imam radicali, moschee e foreign fighters

9 novembre 2018

da Pejë (Kosovo)

Siamo lungo la strada che conduce a Pejë, città del Kosovo occidentale. Caricati su un mezzo dell’esercito, ci accompagnano i militari della Kfor, la forza internazionale a comando Nato che dal 1999 presidia l’intera regione. Una terra ancora martoriata e distrutta dalla guerra. Tranne le città principali, oggi ricostruite, in periferia le case sono ancora sventrate e annerite dalle bombe. Case crollate dove non arriva luce, acqua, gas. Dove non ci sono strade. E in mezzo alle case trafitte, stanno le moschee. Belle, rigogliose, imperiali, svettano in mezzo alla campagna kosovara come luoghi intoccabili. E le vedi passando, ovunque, anche in mezzo alle città; si innalzano tra i bar, i ristoranti, in mezzo ai giardini, incastonate tra i palazzi, ma anche sparse qua e là lungo le strade che portano a Pristina, a Mitrovica, a Pejë. Molte moschee sono riconoscibili con la loro forma tipica, le loro pareti dorate e i minareti, ma altre sono strutture spacciate per centri culturali.

Un numero, quello delle moschee, che cresce in maniera esponenziale, anche grazie ai finanziamenti che provengono da Arabia Saudita e Turchia. Il ventunesimo comandante in carica della Kosovo Force, il generale di divisione Giovanni Fungo, che a novembre scorso ha ceduto il testimone al suo pari grado Salvatore Cuoci, ci spiega che «nel 1999 c’erano 200 moschee e ora ce ne sono oltre 700». Una fonte del Giornale assicura che il numero delle moschee sia salito a 900, considerando sia le 607 esistenti prima della guerra, sia quelle costruite dopo. Delle 900, il 10% non è riconoscibile: almeno 90 o 100 sono mimetizzate. «Ci sono anche case private usate come luoghi di preghiera». Un’indagine di Balkan Insight rivela che negli ultimi dieci anni le moschee erette senza permesso sono oltre cento. Un boom di costruzioni illegali di cui le autorità municipali fanno fatica a tenere il conto. Si parla di 113 moschee riedificate dopo la guerra (delle 218 distrutte) dalla comunità islamica del Kosovo. Balkan Insight ha rivelato che quasi tutte sono state erette illegalmente. Soprattutto a Prizren, considerata la città dei minareti abusivi cresciuti dal 1999. Il 70% delle 77 moschee di Prizren non aveva permesso di pianificazione. Pare siano 54 le moschee abusive, c’era anche un piano per abbatterle.

Ma chi le finanzia? Nel 2015 dalla Turchia passarono milioni di euro per il Kosovo, come aveva riportato Zeri, quotidiano in lingua albanese a Pristina: milioni di euro stavano arrivando in Kosovo «ma non come investimenti o per aiutare l’economia o finanziare progetti, ma per ricostruire strutture religiose». Dozzine di nuove moschee inoltre sono state finanziate attraverso l’agenzia di cooperazione e coordinamento turca (Tika), istituita dal governo turco e gestita direttamente dall’ambasciata in Turchia. Ma soprattutto l’Arabia Saudita, il Kuwait e altre nazioni islamiche hanno investito molto nella ricostruzione del Paese e nella costruzione di moschee. Dal 1999 in poi Riad ha cominciato a mandare finanziamenti e uomini per diffondere il wahabismo. Milioni di euro, trasferiti attraverso organizzazioni caritatevoli che servivano a diffondere estremismo e terrorismo. Prima a favore di al Qaida, poi dell’Isis. Secondo l’Osservatorio internazionale per i diritti, si stima che solo i fondi sauditi filtrati nei Balcani attraverso organizzazioni caritatevoli dedite al proselitismo superino i 500 milioni di dollari. E alcune moschee sono indicate come veri centri di reclutamento del terrorismo. Il giornale Koha Ditore (Daily Time) di Pristina ha puntato il dito contro due moschee: una nella capitale e una a Mitrovica. A Pejë quattro moschee sono rette da un imam wahabita. Non solo, almeno ogni anno una decina di persone parte per andare a studiare in Arabia Saudita e torna radicalizzata. A coloro che cercano di reclutare promettono dei premi in cielo, a chi indossa un velo o aderisce a una visione più integralista della religione offrono 300 euro al mese. A girare per le città ancora non si vede la presenza radicata di donne con il velo o uomini con la barba, ma a molti giovani vengono offerte borse di studio per frequentare scuole islamiche in Arabia Saudita. Gli estremisti islamici stanno usando queste organizzazioni come canale ideale per la creazione di cellule terroristiche in varie zone. E il Kosovo, al di là dell’Adriatico, grande quanto l’Abruzzo, sta diventando il più grande covo di radicali islamici nel cuore dei Balcani.

«Negli anni scorsi il Kosovo è stata la regione che ha prodotto il più alto numero di foreign fighter pro capite diceva il generale Fungo -. C’è una situazione a livello socio-economico che porta ad avere condizioni di disagio che possono essere compensate con delle elargizioni in denaro da parte di organizzazioni che hanno interesse a penetrare questa zona dal punto di vista religioso. Qui dobbiamo parlare di radicalismo islamico. Le moschee non sono tutte sono presidiate da un imam, ma hanno determinato una presenza fisica visibile col tentativo di cambiare le tradizioni di questa popolazione. Non parliamo tanto di terrorismo quanto di reclutamento e radicalizzazione che sono la base poi del terrorismo». Questo accade nelle aree particolarmente depresse. E il Kosovo lo è. «C’è un tasso di disoccupazione che rasenta il 60% – spiega Fungo – soprattutto tra i giovani sotto i 26 anni. Questo li porta a volere emigrare verso il centro Europa, sono giovani con un livello di istruzione abbastanza elevato, provenienti da una società in cui l’accesso a internet è garantito al 98% della gente». Il ministero dell’Interno aveva contato 360 fondamentalisti kosovari di cui 300 uomini e 60 donne, unitisi allo Stato islamico. Fonti ufficiali ci dicono che sono 400 i foreign fighter partiti per andare a combattere in Siria o in Irak, su una popolazione totale di un milione e 800mila abitanti. Tutta gente che prima o poi tornerà, in Kosovo, come in Italia. E a giugno scorso sei persone sono state arrestate con l’accusa di avere pianificato attacchi terroristici nel Paese e contro le truppe della Kfor. Il gruppo, cinque uomini e una donna, voleva creare un’organizzazione per mettere in atto azioni di terrorismo, compresi attacchi suicidi, anche in Francia, Belgio, Albania e Macedonia.

👉 https://www.ilgiornale.it/news/nel-kosovo-radicalizzato-cuore-islamico-deuropa-1599237.html

Viaggio nel Kosovo radicalizzato

6 ottobre 2017

da Mitrovica (Kosovo)

U n pezzo di terra grande tanto quanto l’Abruzzo, in cui convivono sei differenti etnie. Il Kosovo si estende per 10.908 chilometri quadrati circondato da Serbia, Montenegro, Albania e Macedonia. Una foglia di terra immersa in una conca, martoriata e distrutta dalla guerra. Ancora si vedono le case di periferia semi distrutte, sventrate, squarciate dalle esplosioni delle bombe e annerite dai colpi di mortaio. L’aria puzza ancora di polvere e di devastazione, se non fosse per quella sigaretta che ci accendiamo. Abitazioni dove non arriva acqua, luce e gas con nemmeno una strada per accedervi e dove i giardini sono diventati cimiteri.

La guerra è finita diciotto anni fa. La bandiera dello stato del Kosovo, la sagoma colorata di giallo su sfondo blu, ha sei stelle: ognuna corrisponde alle sei etnie. Ci sono gli albanesi, i serbi, i turchi, i rom, i bosniaci e ci sono i gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo meridionale e di religione musulmana originario di Gora, a sud di Prizren. Di queste sei comunità etniche, tra la serba e la albanese corre ancora l’odio. Soprattutto a Mitrovica, città del Kosovo settentrionale. Con i suoi 307mila e 500 abitanti è considerata capoluogo del Kosovo del Nord, ma è spaccata in due metà da un ponte, quello di Austerlitz, che dovrebbe unirla e che più volte l’ Unione europea ha tentato di aprire e di inaugurare. Sotto ci passa il fiume Ibar. Nella parte Nord, vivono i serbi; in quella Sud gli albanesi.

Andiamo a Mitrovica la mattina del 22 settembre. Sveglia alle 5.55. Due pattuglie dell’unità specializzata dei carabinieri italiani, la Msu (Multinational Specialized Unit) il cui comando dall’11 settembre scorso è affidato al colonnello Marco Di Stefano, ci vengono a prendere a Pristina, dove alloggiamo nella base militare di Kfor, la Kosovo Force, forza militare internazionale a comando Nato che dal 1999 presidia l’intera regione con l’obiettivo di mantenere un ambiente sicuro e garantire la libertà di movimento a tutti i cittadini a prescindere dall’etnia. Una forza che ora conta 4.500 militari e che molto ha fatto dal 1999. L’attuale comandante è il generale di divisione Giovanni Fungo.

Saliamo sulla jeep dei carabinieri con l’appuntato scelto Vilmer Mandelli e alla guida il carabiniere Alessandro Cocchis. Percorriamo la strada che conduce dritta in Serbia. Attorno distese di boschi, pietre e un grande ammasso di piombo a forma di gianduiotto. Ci fermiamo in una specie di autogrill, nei locali non si può fumare, ma in Kosovo tutti lo fanno. I carabinieri ci dicono che nella città dove stiamo per andare è visibile la spaccatura tra le due parti, al di là e al di qua del ponte. Arrivati a Mitrovica Nord la statua del principe serbo Lazar svetta davanti a noi. Non si avverte subito la divisione della città. Solo le bandiere serbe che sventolano sopra le nostre teste, sul viale Peter King, rimarcano il governo. La gente passeggia, i bar offrono caffè a cinquanta centesimi, i bambini vanno a scuola e i venditori dei banchetti offrono giornali e sigarette. Percorriamo il viale, ma dritto davanti a noi la strada è sbarrata. Un grande pannello di lamiere ci rimbalza davanti impedendo la visuale. Lì dietro sta il ponte di Austerlitz.

Un ponte costato la bellezza di un milione e 200mila euro, i cui lavori di ristrutturazione sono cominciati nel 2015 e dove ora gli unici che possono passeggiare liberamente sono i cani. L’accesso ai veicoli non è consentito. Lo stemma con le 28 stelle gialle su sfondo blu ricorda il marchio europeo. «Riaprirà al traffico tra meno di sei mesi il luogo emblematico delle tensioni tra Serbia e Kosovo» si leggeva sulla stampa locale ad agosto 2016 dopo che ad annunciare l’apertura del ponte era stato il Servizio europeo per l’azione esterna (Seae). Ma siamo a fine 2017 e quel ponte restaurato e nuovo di zecca, che brilla, luccica e sa di nuovo, resta una lingua di asfalto vuota con alle estremità ogni tipo di ostacolo. Tutto quello che serbi e albanesi hanno potuto mettere per bloccare il transito l’hanno messo: lamiere di ferro, sacchi sopra la strada, tubi in cemento, transenne. L’assetto Msu di Kfor presidia il ponte 24 ore su 24.

I carabinieri spiegano che se dovesse andarsene la forza militare a comando Nato, il Kosovo sarebbe un vulcano pronto a esplodere. I rapporti tra serbi e albanesi non sono facili, la gente teme ritorsioni e viaggia senza targa, in modo da non essere riconosciuta. Appena valichiamo il ponte ed entriamo nella parte Sud della città, lasciandoci alle spalle le bandiere serbe, si trova una moschea, giusto davanti alla parte Nord a maggioranza ortodossa. Ma le divisioni non sono solo nell’aria. La città di Mitrovica ha due sindaci, due amministrazioni. La parte Nord è sede delle istituzioni serbe riconosciute da Belgrado ma non dal governo secessionista kosovaro. «I conflitti interetnici ci sono soprattutto qui spiega a Il Giornale il colonnello Di Stefano Basta una piccola scintilla per creare situazioni di tensione che potrebbero portare a episodi di violenza».

L’ultimo due settimane fa. Alcuni agenti della Kosovo Police venuti da Pristina sono stati picchiati da un gruppo di persone con il volto coperto. I serbi non hanno accettato che la Kp facesse perquisizioni nella Croce Rossa serba. «La nostra presenza è utile continua Di Stefano funge da deterrente con un posto fisso sul ponte e pattuglie mobili, ma la situazione non è stabile». Infatti «Albania: fuck Serbia» si legge a caratteri cubitali su una casa uscendo dalla parte Sud. Per adesso, è ora di rientrare.

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Sì vaffanculo. È tutta farina del mio sacco

Io ricordo ancora quella prof della seconda liceo che al primo tema di italiano mi scrisse: “è tutta farina del tuo sacco?”.
La mandai a fareinculo. Glielo sussurrai proprio mentre tornavo al posto con le buffalo ai piedi e gli occhi tinti di nero. Lei mi sentì. E così chiamò i miei genitori. Era la prof Massironi. Mio padre non si risparmiò. Credo l’abbia mandata a fareinculo pure lui.
La prof era appena arrivata, in prima ne avevamo un’altra, ed era rimasta sorpresa perché avevo fatto un tema in un’ora e mezza, senza errori, e con un contenuto che a detta sua era copiato e non era farina del mio sacco. Discuteva anche la forma. Perché diceva che era impossibile.
Allora la detestai quella prof. La vedevo come una mancanza di rispetto. Di fiducia. Di fiducia nei nostri confronti. Nelle nostre aspirazioni e nelle nostre ambizioni. E sensazioni.
Che ne sa Lei mi dicevo di una ragazza di quindici anni che la sera gioca a fare la donna con la minigonna davanti lo specchio. Che ne sa. Che ne sa lei di “quel rossetto che a tuo padre non è andato giù”.
Allora ricordo anche che mi impegnavo per fare i temi male. Ma i temi mi riuscivano sempre bene. Non si scusò mai quella professoressa. Né io feci di tutto per farmi amare. Anzi.
Allora ieri ho scritto di questa ragazza – oggi trovate il pezzo sul Giornale – che ha dovuto sostenere l’interrogazione bendata perché la prof di tedesco non si fidava della sua preparazione e temeva stesse leggendo. E mi sono detta: “che mondo stiamo vivendo. Che brutti siamo diventanti. Ecco a cosa andiamo incontro”.
Ricordo anche che mentre scrivevo il pezzo mi si è accapponata la pelle nello scrivere che nel 2021 in piena pandemia da coronavirus una ragazza di 15 anni fosse stata costretta a bendarsi con una sciarpa per poter essere esaminata. Robe da guerra. Robe dalla Germania dell’ Est. Demenziali. Angoscianti. Folli. Abbiamo perso il lume della ragione.
Non sappiamo più distinguere se chi ci sta davanti è una macchina o una persona. Perché allora un giorno parlavo con Marco Gervasoni, ordinario di Storia Contemporanea nell’Università degli Studi del Molise. E mi ha detto alcune cose che mi hanno fatto riflettere. Intanto che cresci con la convinzione che per parlare con qualcuno hai bisogno di una macchina. Poi che questa cosa della didattica a distanza è “totalmente asettica. Si rischia di creare una generazione emotivamente un po’ arretrata, un esame in presenza è una prova di crescita. E poi si crea una generazione di persone sole”.
“Il corso a distanza – mi ha detto Gervasoni- è stata una delle esperienze più orrende della mia vita: non vedi i volti, parlavo davanti a una lista di nomi”.
Allora oggi scrivendo questo pezzo, mi sono chiesta cosa possa ricordare e cosa possa vivere dentro di sé un’alunna di 15 anni che in seconda liceo deve bendarsi per essere interrogata. E mi è tornata in mente quella frase scritta su quel tema della mia seconda liceo. “È tutta farina del tuo sacco?”.
Vaffanculo sì. Sì.
È tutta farina del mio sacco.

#sbetti