
Il mio più caro amico viene dal Ghana. È ghanese. La mia migliore amica è di Conegliano ma vive a Roma. Una delle mie amiche più care che un giorno mi ha salvata dal torpore in cui ero caduta è albanese.
Io sono nata nelle Marche il giorno della Libertà di Stampa. Ci sono rimasta lì poco, poi sono venuta in Veneto. Ma nelle Marche ci vado sempre. Ho amici. Parenti. Ricordi. Sogni. Progetti.
Sono una parte dei mi corpo e un puzzle della mia anima.
Mia madre è marchigiana. Mio padre è veneto. Il mio cognome infatti finisce per N. Enne. Il liceo l’ho fatto a Treviso. L’Università a Padova. Ho studiato, ho frequentato, ho conosciuto, ho vissuto, mi sono insaponata, infarinata, contaminata con qualunque parte del mondo.
Non c’è regione d’Italia dove non abbia un amico. Non c’è Stato dove vado che non trovi qualcosa che sappia di familiare. Riesco sempre a ricavarmi un mio posto nel mondo.
Io sono nata al mare. Impossibile mettermi le briglie. Sono zingara. Inquieta irrequieta e calma nello stesso momento. Mi increspo con niente. Mi calmo con poco.
E come ogni essere vagabondo. Ho un profondo attaccamento per la mia terra. Quella dove sono nata. E quella dove ora vivo. Non esiste l’una senza l’altra. Non esiste l’altra senza l’una. In qualche modo ci devo sempre tornare. Sia qui che lì.
Devo tornare un attimo a respirare la nebbia, l’afa, l’umidità, il freddo, il vento della laguna; la brezza del mare, l’Adriatico immenso, da dove ci vedi il confine, la Jugoslavia, quella che da piccola sognavo e tenendomi per mano lungo la riva in segno di rispetto, quando c’era la guerra del Golfo, sognavo di andare dall’altra parte.
Dall’altra parte ci sono andata. Un giorno di settembre di pochi anni fa, ho preso l’aereo, da sola, a Verona. Destinazione Kosovo. Pristina. All’aeroporto mi ci hanno accompagnato i miei genitori. Mi ci hanno portato dentro. Mio padre quando ha visto che a salire sul mio aereo erano tutti kossovari, mi ha messo una mano sulla spalla e non ha detto niente. Come a dire “abbi cura di te”. In Kosovo ho conosciuto persone fantastiche. Squisite. Sono stata da Dio. Non ero in ferie. E lo sapevo. Sveglia alle cinque e mezza e la sera alle undici crollavo sul letto. Si lavorava a ritmi serrati. Ma ho fatto dei bei servizi.
Quando ho cominciato a interessarmi di immigrazione ancora non sapevo a cosa sarei andata incontro. Ho capito che c’era qualcosa che non andava quando mi impedirono di entrare nel campo di Cona. (Nella foto).
Uno degli esempi più brutti che la storia delle immigrazioni abbia mai conosciuto. Mille e seicento esseri umani accatastati come animali dentro a delle tende e container di ferro. I letti di compensato. I materassi che nemmeno esistevano. Quando ho cominciato a scavare sul mondo dell’immigrazione Spa c’ho trovato di tutto. Cooperative che hanno fatto soldi a palate, inchieste, fascicoli finiti sopra i tavoli della magistratura.
Ho sempre cercato di denunciare come stessero questi migranti, le condizioni in cui si trovavano a dover vivere. E sono riusciti a darmi della razzista. Ho sempre raccontato la cronaca toccando con mano le corde di violino di ogni animo che tessevano le file del mondo sopra quel filo spinato. Ho sempre cercato di condurre le storie e di entrarci dentro in punta di tacco, a piedi scalzi, senza niente, denudandomi di tutto, per non fare rumore, per non apparire, per non farmi influenzare.
E infatti non l’ho mai fatto. Tutte le mie inchieste e reportage e il libro servono proprio a denunciare chi con i migranti ci ha fatto i soldi a palate.
E oggi posso dire che ho fatto bene. Mi sono trovata a un incontro per lavoro. Davanti a me c’era un ragazzo tunisino. Ma praticamente italiano. Sa quattro lingue. Parla e scrive benissimo in italiano. Molto intelligente. Ha quasi dimenticato l’arabo. E mi ha detto che viene discriminato perché arabo. Perché il colore della pelle non è quello di tutti.
E a giudicare dai commenti viene discriminato anche da gente per bene che va a battersi il petto in chiesa. Che predica libertà carità accoglienza.
Tutti quei talebani dell’accoglienza come direbbe il mio collega Fausto Biloslavo che pretenderebbero di far arrivare tutti per farci su più soldi.
Poi. Poi alla fine si parlava di amore. Lui non sopporta chi si lascia, si molla, chi non è deciso nella vita.
Così alla fine. Alla fine gli ho detto: “vai avanti per la tua strada, se trovi quella giusta saprai quando ne vale la pena, altrimenti lascia perdere”.
Ci siamo salutati. Lui è uscito dalla porta.
E io, nel chiarore di un sole mattutino troppo presto per essere vero, ho portato alla bocca il mio caffè e mi sono accesa una sigaretta.