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Ferragni: il nostro fottuto mondo finto di uno specchio rotto

Quello che è accaduto a Chiara Ferragni denota tutto lo splendore del nostro fottutissimo mondo finto di uno specchio ormai rotto.

Sgretolato in un niente, come si sgretola una torta ormai vecchia rimasta troppo all’aria aperta. Il mondo basato sul nulla, sull’apparenza, sull’immagine, sulla pubblicità per un post da 90 mila euro.

Chiara Ferragni non ha semplicemente commesso un errore di comunicazione.

Chiara Ferragni ha semplicemente fatto soldi.

Quando la tegola le è piombata in testa nessuno poteva prevedere che da lì se ne sarebbe staccata un’altra e un’altra ancora. Prima Balocco. Poi la Safilo. Poi Trudi. E da lì sarebbe caduto tutto il tetto. E resistete alla tentazione da rosiconi di provare soddisfazione se uno più bello e “bravo” all’apice dei lavori, si ritrova catapultato giù.

Perché questa è l’iconica immagine del mondo che sta venendo avanti.

Basato sull’effimero. Sull’estemporaneo. Sull’orgasmo di un like, di un follower. Vivere di social. Lo sgretolamento dei rapporti umani. Lo slabbramento delle relazioni. Fottersene e fottere. Fare soldi nel totale disinteresse dei valori. Vivere di storie che durano 24 ore. Vivere nei social e dimenticarsi di esistere nella vita. Questa continua insicurezza acquietata dalla continua fottuta ricerca di una gratificazione istantanea.

Ormai è diventato tutto uno spettacolo. Noi che abbiamo le tende in casa, trattiamo le nostre vite come finestre a cui il mondo si affaccia.

Condividiamo tutto: affondare la forchetta nella pasta, andare al cesso, cagare, farsi la barba.

Viviamo per postare, taggare, hashtaggare, fare stories, condividere con un semplice tasto mosso da uno stupido molliccio ditino anziché dal vero.

Con l’erronea convinzione che per parlare con una persona ti serva una macchina. Un tablet. Uno smartphone. Un social. Una telecamera. Un filo. Un’informazione che arriva sempre più frammentata, fatta non più di libri e giornali da leggere, ma di titoli non capiti, di lezioni di giornalismo non richieste – Lucarelli docet – di frasi a effetto, di effetti speciali, di video che si sormontano, di foto spaziali nella lussuosa camera da letto, se poi il cesso è un cesso chissenefrega. Una platea di imbecilli dove ciascuno può dire la sua, ed è un bene sì, ma ora tutti parlano di tutto, non si approfondisce niente, leggere costa fatica, studiare figuriamoci, manco parlarne. Il solo ascoltare richiede uno sforzo intellettivo superiore a quello richiesto per mettere un like alla Pensati Libera di turno. La gente clicca, discute animatamente nei social si fa prendere dall’onda emotiva del momento, per poi rintanarsi nella sua vita e mostrare solo quella che non gli appartiene. Non è masochismo. È bulimia. Bulimia di sè. Egocentrismo.

È dare un potere a qualcuno e farlo credere onnipotente solo perché ha due milioni di followers. Un mondo dove non comandano i valori, l’etica, le persone con la P. Ma comandano le regole del mercato, del marketing, dei like comprati, dei risultati, delle visualizzazioni e sponsorizzazioni.

Occhio però che questo mondo vi catapulta fuori dalla Terra, poi quando ci rimettete piede sono cazzi amari. Ferragni insegna. E scusate se in questo post c’ho messo dentro tutto.

Ma per il pattume sociale si addice bene.

#sbetti

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Con le quintalate di merda, il problema è una recensione falsa ?

Giovanna Pedretti

Io davvero non ho capito quale sia il problema di una recensione falsa. Con il rispetto del diritto di cronaca si intende. E lungi da me voler sdoganare le fake news. Ma mio Dio una recensione falsa. Aiuto. Aiuto. Al lupo. Al lupo.

Ma davvero con tutte quelle caterve di stronzate e vaccate e idiozie che vi bevete ogni giorno nel pattume algoritmato e illimitato dei social, il problema per una donna, leggi Selvaggia Lucarelli, che ci informa anche se ha affondato il cucchiaio nella minestra, è che un’altra donna abbia creato una falsa recensione o risposto addirittura a una recensione vecchia?

Davvero con tutte quelle diavolerie che appaiono nei pattumi virtuali ogni giorno, l’inchiesta del secolo, secondo la premiata ditta, leggi Lucarelli Biagiarelli – lui che voleva fare la rock star ma è finito a fare il food blogger – è dimostrare che una titolare di una pizzeria in provincia di Lodi ha risposto a una recensione artefatta? Feticcio della sua mano che digita i tasti per comporre un commento? Cioè fate sul serio?

E provate a immaginare se dietro l’inchiesta del secolo ci fosse stata una persona di destra? Probabilmente sarebbero scesi i caschi blu, l’FBI, la CIA, l’esercito.

Lo avrebbero condotto in caserma. Lapidato in piazza e virtualmente perché dietro a questo strumento infernale che consente alle persone di dire la loro senza alzare le terga dalla sedia, la gente si sente Dio onnipotente.

Del resto si sa che quando dai un potere a qualcuno, il potere lo acceca, lo fa diventare inumano; un giustiziere social socialmente sociale alla ricerca costantemente di un bruto da sconfiggere, di un pezzente da ridicolizzare, di un povero disgraziato da immortalare e sbattere al muro. Un potere che non ha niente a che vedere con la ricerca e l’amore della verità, ma che risponde ai comandi dei like, delle visualizzazioni, della notorietà. Quando dai un potere a qualcuno si sente nel diritto di poter mettere alla gogna chiunque facendola finire nella tempesta perfetta, nel mattatoio di merda che aumenta, perché più rinvanghi il letame più puzza.

Fate finta di finire davanti a un ventilatore e questo improvvisamente comincia a caricare, le pale si muovono e attaccate alle pale ci stanno quantitativi di quella roba che esce dalle feci e tu sei lì impotente e non ti puoi difendere. Questo inizia a mulinare. E via via, giù spalate e sventagliate di cacca gratuita che più la mulini e più puzza.

Un po’ come quando accadde l’omicidio di Giulia e tutti gli uomini finirono alla gogna perché, secondo il supremo tribunale dei social che si piega ai dettami del politicamente corretto, del perbenismo, si sarebbero dovuti considerare responsabili.

In tutto questo caravanserraglio di opinioni e di recensioni e di false inchieste e di gente che non c’ha capito un tubo, io ci vedo solo una cosa.

Da una parte una povera donna colpita dall’esito più infausto che ora non può più parlare. E che probabilmente aveva già delle criticità e fragilità e alla cui pressione non ha retto. Ma lungi da me voler dire che è un’istigazione al suicidio. Ognuno di noi è soggetto alle opinioni degli altri. Sta a noi viverle. E scrollarcele di dosso.

E dall’altra ci vedo sempre più gente che vive di screen di social di foto; che pretende di fare giornalismo seduta a un computer senza raccontare storie, ma alzando palette, senza sporcarsi le mani, senza macinare chilometri e soprattutto senza calpestare le strade degli altri.

Così come ci vedo lo squallido mondo dei social, prendere parte alle tifoserie da stadio, come se vivessimo in un mondo parallelo. Come se si aspettasse solo quel momento di condividere di apparire di esistere. Perché una volta funzionava così. Se non ti piaceva il locale non ci tornavi più. Invece adesso si sentono tutti Dio onnipotenti, si gusta il piatto solo per postarlo, si va in ferie solo per far la foto, si pranza in un luogo solo per sedersi panciuti e satolli con il bottone che esplode e le mutande pure per fare la recensione a cinque stelle. Invece se la recensione è una cacca, poi inizieranno a turbinare sventagliate di merda e queste finiranno chissà dove.

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Scoppierà la rivolta

C’è una cosa che ultimamente mi fa paura. Ed è l’esplosione di violenza. L’abbandono all’odio cieco.
La violenza. Quella fisica. Crudele. Bruta. Irrazionale. Quella che porta le persone a comportarsi come bestie. Furie. Animali. Forsennati. Scalmanati.
Vivono di soprusi sugli altri. Sicuri di vivere la vita come fosse un videogioco. Come fosse una storia. Una storia che condividi 24 ore e poi chi caz se ne frega.
Sparisce. Se ne va. L’importante è avere visualizzazioni. Del resto questo è quello che stiamo creando.
A Oderzo, in provincia di Treviso, un uomo, di 56 anni, Mauro Zanuto, con cui ho parlato, è stato accerchiato e massacrato di botte per aver detto una parola di troppo. O meglio una parola giusta. Li ha rimproverati quei ragazzini. Ed è stato picchiato. Nessuno gli è andato in soccorso. L’uomo stava andando a casa quando all’improvviso un ragazzo gli ha tagliato la strada. Lui ha frenato di colpo. Ha cercato di non investirlo quel fanciullo che gli è piombato davanti come un proiettile. E Mauro è finito a terra. Quando si è rialzato, complice lo spavento, ha rimproverato il ragazzo, e questo anziché scusarsi come si usava una volta, l’ha preso e l’ha menato. L’ha riempito di pugni. Massacrato. Pestato a sangue. Quando è finito al pronto soccorso Mauro è stato medicato con 7 punti di sutura sopra l’occhio e con 4 punti all’orecchio. La prognosi è di 7 giorni, e la “baby gang” ha fatto perdere le sue tracce. Ma non chiamatele baby gang come ha detto Vittorio Feltri. Non chiamatele baby gang. Queste non hanno niente di baby.
Il gruppo era formato da adolescenti, c’avranno avuto all’incirca 16, 17 anni. Stranieri. Immigrati di seconda generazione. Che continuavano a ripetere, racconta Mauro, “non mi toccare bro, non mi toccare bro”. Bro sta per fratello.
Ma non chiamatele baby gang. Non chiamatele baby gang. Chiamate le cose con il loro nome. Si chiamano delinquenti. Teppisti. Malviventi.
Sono lo specchio della nostra civiltà. Del nostro futuro. Lo vedi riflesso il futuro, lo vedi nei loro occhi, nei loro modi, nei loro valori. E ce ne sono di tutti i tipi. Figli di papà. Giovani baldanzosi annoiati benestanti che hanno tutto. Anche troppo. Comprano iPhone di ultima generazione. Indossano vestiti di marca assai costosi. Cambiano paia di scarpe come a cambiare le mutande. O sono scarsi di mezzi economici.
Poveri disgraziati. Stranieri. Italiani. Ragazzini di seconda generazione che giocano a bande. Si menano tra di loro. Basta andare nelle piazze dove la droga è l’unico sollazzo a una vita basata sul nulla e scorre a fiumi. Albanesi contro romeni. Romeni contro marocchini. Marocchini contro Tunisi.
Neri contro bianchi, bianchi contro neri. Immigrati contro poliziotti. Contro gli italiani.
Sono ragazzini violenti, scontenti, inquieti, su di giri, avviliti, depressi, gonfi di rabbia e di noia che odiano la società in cui vivono.
Scoppierà la rivolta.

sbetti

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Anziana in casa di riposo: costretta a pagare l’Imu

Da quando faccio questo lavoro non mi stupisco più di nulla, però sono sempre più convinta che l’umanità faccia schifo.
Non ho la benché minima fiducia nel genere umano e i fatti me lo confermano.
Siamo Livorno Ferraris, un tempo Livorno Piemonte, comune di appena quattromila anime dell’hinterland vercellese. E la storia è questa.
Luigi Guelpa, la persona che vedete in foto è un giornalista. E domenica scrive un post su Facebook. “Per il Comune di Livorno Ferraris mia madre, ricoverata in una struttura da ormai 4 anni, e in una condizione praticamente vegetativa, deve pagare una multa di 1.300 euro – relativo al solo 2020, poi arriveranno le altre cartelle – di Imu. Gli zelanti funzionari comunali, senza verifica alcuna, hanno stabilito che la casa di proprietà di mia madre (prima casa e UNICA casa), non è più prima casa perché risiede altrove. Il nuovo indirizzo a cui hanno fatto pervenire la cartella, è una casa di riposo”.
Sbalordita leggo e rileggo questo post e commento con un semplice: “Fuori con tutto”.
Praticamente la madre – lunedì scorso la notizia in esclusiva su Libero a firma di Claudia Osmetti – dal 2019 è ricoverata in una casa di riposo.
In stato semi vegetativo dal 2021, la donna, Filomena Sasso, vedova, di anni ne ha 78. Cieca da 14 anni – giusto per farvi capire – con il tempo le è anche venuto l’Alzheimer, e dice Guelpa: “Abbiamo deciso di ricoverarla perché era molto difficile trovare badanti che potessero seguirla. Era una situazione complessa da seguire”, dice Guelpa quasi come volesse giustificarsi. E appoggiate per favore sul comodino commenti moralisti e paternali, come “Un padre campa 100 figli, 100 figli non campano un padre”. I figli vanno crescendo, maturando, un padre no. Un padre va accudito, accompagnato fino alla fine, le scelte molte volte sono obbligate, perché vivaddio non si hanno gli strumenti per gestire in casa delle situazioni complesse soprattutto se una persona lavora e non può dedicare il giusto tempo. Al di là di questo, insomma, la madre viene ricoverata nel 2019 e la sua prima casa rimane vuota. Il figlio continua però a pagarci le spese: condominiali, riscaldamento, luce, acqua, gas, “circa 2000 euro l’anno”, ci sono costi fissi, fino a che. Fino a che non decide, coadiuvato da un legale, di vendere. E adesso ci arriviamo.
Come regalo di Natale, proprio giusto sotto le feste, ammesso che ci sia qualcosa da festeggiare, il comune di Livorno Ferraris fa recapitare alla donna – all’indirizzo della casa di riposo e già mi pare una roba folle – la famosa busta verde dove la intima di pagare ben 1.279 euro, quindi quasi 1300 euro, perché nel 2020 non ha versato l’Imu sulla casa. La sua unica casa.
E vivaddio, no che non l’ha versata!
Perdio. Cieca, invalida, in stato semi vegetativo, collegata a una macchina peg per alimentarsi.
Quella era, è, la sua unica vecchia casa, ha solo quella, come poteva versarla, se da quattro anni vive in una casa di riposo?
E per giunta, perché avrebbe dovuto pagare dato che la sua casa era la sua prima casa? E qui casca il palco.
Perché lo prescrive la legge, che da la possibilità ai comuni di far pagare l’Imu a una persona se vive in casa di riposo.
Questo accade in Italia con gli occupanti che occupano le case e che vivono a sbafo dei proprietari e in questo caso assai più protetti degli invalidi.
Dall’Italia, 2024, è tutto.
A voi studio.

Luigi Guelpa

sbetti

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La mia auto rimossa dal carro attrezzi senza motivo. Spero vi possa servire tanta carta da culo

Volevo chiedere al sindaco di Bologna Matteo Lepore se sa che nella sua città, oltre agli occupanti abusivi di case, ci sono anche i parcheggi con i divieti di sosta abusivi.

Io non riesco a capire perché in Italia dobbiamo sempre far la parte di quelli presi con le pezze al culo.

Dunque oggi per lavoro mi reco a Bologna e parcheggio l’auto in zona Corticella in un parcheggio.

Verso metà giornata mi devo spostare, torno alla mia auto e nel frattempo siccome a casa ho finito la carta igienica, mi reco al centro commerciale che so essere sempre aperto. Esco dal centro. Carico la carta igienica in auto e la lascio lì per un attimo. Tornata indietro mi accorgo che l’auto non c’è più.

Lì per lì non so come ho fatto, sono rimasta muta. Fredda. Impassibile.

Sembravo di ghiaccio. Visto che – se immediatamente non attivi queste difese – rischi che ti venga un colpo.

Così mi guardo attorno, mi giro e mi rigiro e vedo un carro attrezzi in lontananza nel mentre porta via una vettura. Così penso. “Oddio possibile che mi abbiano portato via la macchina?”.

Insomma guardo i cartelli, e nel parcheggio di un centro commerciale c’è la scritta: “Parcheggio riservato ai clienti del centro. Zona rimozione forzata, deposito tal dei tali”.

Per terra nessuna insegna.

Bene mi attivo e la troupe che gentilmente era con me, mi accompagna al deposito. Durante il tragitto non vi dico le cose che mi sono passate in mente. Ovviamente confidavo che l’auto mi fosse stata prelevata dal carro attrezzi e non rubata. L’idea del furto mi era balenata nell’anticamera del cervello per un secondo che poi ho prontamente provveduto a scacciare. Arrivo al deposito e vedo che fuori c’è una accozzaglia di auto messe lì alla rinfusa con quattro bengalesi che ridono dinanzi a quel cumulo di lamiere. Entro. E chiedo a brutto muso dove fosse la mia auto. “Perdio razza di idioti imbecilli gente da quattro soldi, sto lavorando, non ho tempo da perdere, ridatemi la mia vettura”.

Alla mia domanda sul perché me la avessero portata via mi hanno risposto che: “Loro hanno eseguito un ordine”, arrivato da non so chi, che ha detto loro che tutte le auto della gente che non era al centro commerciale andavano tolte”. Io ho chiesto loro: “Dimostratemi che non ero al centro”. “Signora non lo so, non è colpa nostra. Noi facciamo quello che ci dicono di fare”.

Certo. Funziona così ora. Funziona che gli imprenditori assumono i bengalesi pagandoli due lire e dicendo loro che devono esattamente eseguire gli ordini. Intimo loro di non pagare e che intendo andare a fondo. E loro mi dicono con fare beffardo e con quel sorriso che gli usciva sotto i denti: “Bene la tua auto allora rimane qui”. “Bene rispondo io, e incappate male perché io sono una giornalista e ora vi faccio il culo tanto”.

“Suvvia dimostratemi che non ero al centro”.

“L’auto non aveva il disco orario”.

“Come no?”

“Sì che lo aveva, datemi le prove”.

Nessuna prova pervenuta. Chiedo come fare per riaver l’auto e loro mi intimano di pagare 150 euro. Centocinquanta euro prego? A chi? Al comune? Alla provincia? Alla regione? Siete della forza pubblica? Un parcheggio privato aperto al pubblico può irrogare una sanzione? Sulla base di cosa? Siete forse dei pubblici ufficiali?

Lo sapete per diamine razza di strafottenti vigliacchi e inetti che prassi vuole che “parcheggiare in un posteggio presente in un’area privata è consentito e non porta nemmeno a una multa per divieto di sosta in proprietà privata, in quanto si tratta di uno spazio che non appartiene alla pubblica amministrazione e non ammette quindi l’intervento di un vigile”.

Facce da pirla.

Insomma questi non rispondono. Ma io sulla questione vado a fondo.

Questo è il trattamento riservato ai cittadini e alla gente per bene che ogni giorno si fa il mazzo tanto, invece i delinquenti in stazione a Bologna ecco quelli lasciateli lì mi raccomando.

E dire che io mi ero fermata al centro commerciale per comprare la carta da culo, che spero che a qualche altro possa servire davvero tanto.

#sbetti

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La mia giornata è partita su una Tesla

Non so nemmeno che giro abbia fatto. Ho fatto in tempo ad andare a Como. Migrare a Bologna. Rientrare a Venezia. Salire su un’auto proseguendo per le Marche. Passare lì alcuni giorni. Starmene lì, all’aria aperta. Il mare. Il sole. La temperatura mite. Io abituata al freddo del nord. Le cene. E poi ho ripreso una vettura per tornarmene a Venezia.
Ma la mia giornata la mattina prima dell’ultimo dell’anno è partita presto. Su una Tesla. È passato a prendermi il transfer alle sette in punto del mattino. Che dico in punto. Diamine era pure in anticipo. Cinque minuti prima dell’orario stabilito era già sotto casa mia che mi attendeva. “Buongiorno, io sono qui, quando vuole”. Ero balzata giù dal letto facendo una doccia fredda e calda in estrema velocità, avevo messo su il caffè, quello che puoi sciogliere la polvere per fare prima, ed era una di quelle mattine dove in cucina vedevi solo il blu della fiammella del gas.
Mi trucco alla svelta, un filo di rimmel, ombretto nero, una botta di phon ai capelli, pantaloni, maglia, borsa e cappotto che mi copre la testa. Salgo sull’auto nera fiammante e dentro ci sta uno schermo che è grande quanto la mia televisione. Indica il percorso da seguire, la mappa, la carta, la piantina, più in basso in fondo a sinistra ti compare la faccia del cantante di cui sta andando la musica. Non so manco chi abbia cantato. Nel giro di un baleno mi pare di aver intravisto l’immagine di Natalie Imbruglia e quella di qualche altro che ora non ricordo.
L’auto, calda. Nera. Silenziosa.
Arrivo alla stazione con le occhiaie che mi toccan terra. E il barista della carrozza numero 3, quella dove ci sta il bar, è pugliese. Guarda fuori dal finestrino che lentamente come in un film muto percorre velocemente il paesaggio che si sussegue fuori. E sbotta: “Vedi il tempo che ci sta qua”. “Come fai a non svegliarti con le palle girate”, gli dico io. “Tu bravo uomo del Sud, stattene giù no?”. Il lavoro, il lavoro ci chiama. Come chiama me in questa vigilia dell’ultimo dell’Anno. Ma questo è il lavoro che amiamo. Arrivo a Milano centrale, destinazione Monza Brianza, devo fare una casa occupata. Ci fermiamo al bar all’Angolo. Non toglietemi caffè e sigaretta prima di iniziare a girare. L’adrenalina sale. Gli occupanti sono ecquadoregni. E come in un susseguirsi di immagini mi trovo catapulta ovunque. Passo dal taxi nero fiammante. Al treno. Alla stazione Centrale dove ci stanno i disperati che dormono fuori. A un posto carino dove ci fermiamo a mangiare ma alla tipa napoletana non sto tanto simpatica. Mi rimetto in viaggio. Rientro. Il giorno dopo riparto per passare il Capodanno in piazza a Milano…
E questo ve l’ho raccontato…

sbetti

Eccola qui l’Eurabia: piazza Duomo, Milano. Capodanno 2024

Pezzo uscito su Libero, 2 gennaio 2023

Oriana Fallaci lo aveva predetto. E la sua non era un’invenzione. Eccola qui l’Eurabia. Piazza Duomo. Milano. Capodanno 2024. Allo scoccare della mezzanotte – noi di Libero eravamo presenti – non c’era nemmeno un italiano a pagarlo oro. Eccola qui l’Eurabia che prende forma, che riempie le nostre piazze, che si impossessa delle nostre tradizioni e ci impone i suoi costumi. Eccola. Una piazza italiana, come quella meneghina, dove a festeggiare sono solo gli stranieri. Sono loro che si sono presi le nostre piazze. La lunga processione verso il cuore di una delle città più belle d’Italia comincia già alle cinque del pomeriggio. Scendiamo in stazione Centrale e miracolosamente non è come tutti gli altri giorni, quando appena metti il naso fuori, devi fare lo slalom tra gli immigrati che dormono per terra e bivaccano sui marciapiedi. Qui, oggi, si sono già messi tutti in cammino per raggiungere la piazza dove sorveglia la Madonnina. Le bottiglie rotte per terra. La città spenta e frastornata dal fragore dei primi petardi. Le loro grida. Le loro forsennate urla. E le bandiere. “Milano oggi – per loro – è come Baghdad”, scrivono nei video che circolano in rete.

A mezz’ora dalla mezzanotte li vedi gli immigrati entrare in Galleria Vittorio Emanuele II per andare ad ammassarsi in piazza Duomo. Arrivano a frotte. Non li ferma nessuno. Sono dieci, venti, cento, mille. Sono tantissimi e come in un pullulio costante e intenso invadono lo slargo. Acquartierate attorno alla piazza, ci sono le baby gang e le bande dei ragazzini di seconda generazione. Fumano. Bevono. Girano canne. Urlano. Gridano. Il Capodanno è il loro. La piazza anche. “Io italiano! Io italiano! Questa casa mia”, ci grida in faccia un ragazzo marocchino. C’avrà all’incirca 16 anni. Attorno a lui i suoi amici con bottiglie di birra, pezzi di vetro e petardi in mano. Poco distante una famiglia di stranieri, forse inconsapevole di quello che sarebbe stata piazza Duomo, con i figli piccoli accanto, attoniti e frastornati dal rombo dei botti. Il boato si propaga in galleria. E il frastuono spacca i timpani. Ma manca veramente poco, la polizia di Stato è schierata in tenuta antisommossa. Caschi, scudi, manganelli. In Galleria ora non fanno entrare più nessuno. Chi fa il furbo viene ripreso. I ragazzini stranieri, prevalentemente arabi, sono tantissimi. La polizia avanza tra la folla. E procede verso la piazza. Noi dietro di loro. Formano un cordone tutto attorno per cercare di sedare gli animi e di scongiurare il peggio. Come quello che era accaduto due anni fa. Capodanno 2022. Ce lo ricordiamo tutti. Lo stupro di gruppo. Il taharrush jamai, una pratica conosciuta nei paesi arabi che significa molestia collettiva. Passata la mezzanotte, i ragazzini espletano i loro bisogni accanto alle colonne della piazza. Lo spettacolo è indecente. E come al solito è lo scontro di civiltà che esplode. Nel quartiere San Siro, scoppia la guerriglia. Lo scontro, ancora una volta, è tra la polizia e gli immigrati. I giovani cercano di aggredire gli agenti. E i fatti più gravi avvengono nella zona di via Zamagna, una delle strade più pericolose del quartiere. Alcuni qui avevano accatastato mobili e rifiuti al centro della strada per fare un falò allo scoccare dell’anno, ma gli uomini della polizia di Stato sono intervenuti nel giro di breve. Pochi minuti dopo, i poliziotti vengono presi a sassate e il furgone che li trasportava viene danneggiato: uno dei vetri va in frantumi, fortunatamente senza danno per i passeggeri. Molti di questi episodi di violenza sono stati ripresi nei video divenuti virali sul web. In uno addirittura si vede un ragazzo che spara dei colpi in aria con una pistola. “In alcuni quartieri di Milano le tensioni e l’odio verso la polizia crescono – scrive Silvia Sardone, consigliere comunale d’opposizione di Milano che ha postato il video – nel disinteresse della giunta di sinistra in città”. E ancora: “San Siro da tempo sembra fuori controllo, con sempre più stranieri e giovani di seconda generazione ostili alle forze dell’ordine e che fanno della delinquenza il proprio mestiere”. Nei video spuntano anche le scritte “Baghdad”, come a dire che Milano, questa notte, è come la capitale irachena. Il bilancio della nottata ha visto oltre 1500 persone controllate e 3 denunciate per il porto di oggetti atti a offendere. Più una persona denunciata per accensione ed esplosioni pericolose. Altri sei giovani sono stati accompagnati in Questura perché sprovvisti di documenti. Sì era vero quello che diceva Oriana. Un nemico “che scorrazza a suo piacimento”, senza esibire alcun documento.

Serenella Bettin

Libero, 2 gennaio 2023