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Eurabia

Eccola l’ Eurabia. Eccola. Piazza Duomo, Milano. Capodanno 2024. Eccola l’Eurabia che si prende le nostre piazze. Che prende forma, che si impossessa delle nostre tradizioni e ci impone i suoi costumi. L’ultimo dell’anno, saranno felici i talebani dell’accoglienza indiscriminata, in piazza a Milano – io ero presente – c’erano solo loro. Gli immigrati. Gli stranieri.
Non c’era un italiano nemmeno a pagarlo oro. La lingua prevalente era l’arabo. Ovunque ti voltavi, non vedevi altro che musulmani, islamici, bandiere rosse con la stella a punte, ragazzini di seconda generazione, bande di nordafricani, baby gang. Sono loro che si sono prese le nostre piazze. Issati come si issano i pennoni al centro della piazza, popolavano i gradini gridando in coro e sventolando le bandiere del Marocco.
Sono scesa a Milano domenica pomeriggio dopo un viaggio sospeso tra la nebbia e i pensieri umidi che mi affollavano la testa.
Guardavo fuori da quel finestrino e vedevo nient’altro che foschia, veli di caligine, coltre; i campi coltivati coperti di brina si susseguivano uno dopo l’altro che parevano formare un tutt’uno. Sembravano dipinti con l’acquerello, usando l’acqua sporca intinta di nero che si fa grigio. Ogni tanto tra le teste assonnate di un Frecciarossa semivuoto spuntava qualche albero denutrito, spoglio, scarnificato, magro. Fino a che non sono scesa in Centrale. Il clima era spettrale. Cupo. Angosciante. E angoscioso.
Scendo e mi pareva di essere su un’altra dimensione, non c’era il solito tran tran dei giorni feriali, o di quelli festivi; l’ultimo dell’anno è sempre un giorno di trapasso, un giorno che si porta il peso del tracollo dei 364 andati e la foga di quelli che verranno, i buoni propositi, la lunga lista di cose da fare, l’agenda, i sorrisi dimenticati. Prendo un taxi e appena giungo sul posto, a indicarmi la via ci sta un bengalese. La stazione infatti era vuota, non c’erano le solite panchine piene di immigrati o gli ammassi di gente che dorme per terra, noncurante di tutto e di tutti. Gli immigrati, i ragazzini, avevano già iniziato la lunga processione verso Piazza Duomo. Le bottiglie rotte per terra. La città spenta e frastornata dal fragore dei primi petardi. Le loro grida. Le loro forsennate urla. E le bandiere. “Milano oggi – per loro – è come Baghdad”. E infatti arrivata in Galleria Vittorio Emanuele II eccoli gli stranieri che arrivano uno dopo l’altro.Arrivano a frotte. Non li ferma nessuno. Sono dieci, venti, cento, mille. Sono tantissimi e come in un formicaio invadono lo slargo. Acquartierate attorno alla piazza, ci sono le baby gang e le bande dei ragazzini di seconda generazione. Fumano. Bevono. Girano canne. Urlano. Gridano. La droga qui scorre a fiumi. Il Capodanno è il loro. La piazza anche. “Io italiano! Io italiano! Questa casa mia”, mi grida in faccia un ragazzo marocchino. C’avrà all’incirca 16 anni. Attorno a lui i suoi amici con bottiglie di birra, pezzi di vetro e petardi in mano. Il boato dei botti si propaga in galleria. E il frastuono spacca i timpani.
Ma manca veramente poco, e la polizia di Stato è costretta a intervenire. Caschi, scudi, manganelli. La polizia avanza tra la folla. E procede verso la piazza. Come al solito è lo scontro di civiltà che esplode. Nel quartiere San Siro, scoppia la guerriglia. Lo scontro, ancora una volta, è tra la polizia e gli immigrati. I giovani cercano di aggredire gli agenti. Gridano loro: “Figli di p****ttana”, “pezzi di m….”, “sbirri”. Lanciano sassi. E sparano colpi con le pistole. Tutt’attorno è il caos.
Oriana Fallaci lo aveva predetto. E la sua non era un’invenzione. Ma non è stata compresa. La vedevano come una delirante.
Oggi le sue parole hanno il suono della profezia. Scrive la Fallaci ne La Rabbia e l’Orgoglio: “Sveglia, gente, sveglia! Intimiditi come siete dalla paura d’andar contro corrente – oppure d’apparire razzisti, (parola oltretutto impropria perché il discorso non è su una razza, è su una religione) – non capite o non volete capire che qui è in atto una Crociata all’Inverso. Abituati come siete al doppio gioco, accecati come siete dalla miopia e dalla cretineria dei Politically Correct, non capite o non volete capire che qui è in atto una guerra di religione. (…) Una guerra che essi chiamano Jihad, Guerra Santa.
Una guerra che mira alla conquista del nostro territorio(…) Alla scomparsa della nostra libertà e della nostra civiltà. All’annientamento del nostro modo di vivere e di morire, del nostro modo di pregare o non pregare, del nostro modo di mangiare e bere e vestirci e divertirci e informarci. Non capite o non volete capire che se non ci si oppone, se non ci si difende, se non si combatte, la Jihad vincerà. E distruggerà il mondo che bene o male siamo riusciti a costruire, a cambiare, a migliorare (…) E con quello distruggerà la nostra cultura, la nostra arte, la nostra storia…”.
Sveglia gente! Sveglia!
SVEGLIATEVI

sbetti

Milano, piazza Duomo, Capodanno 2024
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La mia giornata è partita su una Tesla

Non so nemmeno che giro abbia fatto. Ho fatto in tempo ad andare a Como. Migrare a Bologna. Rientrare a Venezia. Salire su un’auto proseguendo per le Marche. Passare lì alcuni giorni. Starmene lì, all’aria aperta. Il mare. Il sole. La temperatura mite. Io abituata al freddo del nord. Le cene. E poi ho ripreso una vettura per tornarmene a Venezia.
Ma la mia giornata la mattina prima dell’ultimo dell’anno è partita presto. Su una Tesla. È passato a prendermi il transfer alle sette in punto del mattino. Che dico in punto. Diamine era pure in anticipo. Cinque minuti prima dell’orario stabilito era già sotto casa mia che mi attendeva. “Buongiorno, io sono qui, quando vuole”. Ero balzata giù dal letto facendo una doccia fredda e calda in estrema velocità, avevo messo su il caffè, quello che puoi sciogliere la polvere per fare prima, ed era una di quelle mattine dove in cucina vedevi solo il blu della fiammella del gas.
Mi trucco alla svelta, un filo di rimmel, ombretto nero, una botta di phon ai capelli, pantaloni, maglia, borsa e cappotto che mi copre la testa. Salgo sull’auto nera fiammante e dentro ci sta uno schermo che è grande quanto la mia televisione. Indica il percorso da seguire, la mappa, la carta, la piantina, più in basso in fondo a sinistra ti compare la faccia del cantante di cui sta andando la musica. Non so manco chi abbia cantato. Nel giro di un baleno mi pare di aver intravisto l’immagine di Natalie Imbruglia e quella di qualche altro che ora non ricordo.
L’auto, calda. Nera. Silenziosa.
Arrivo alla stazione con le occhiaie che mi toccan terra. E il barista della carrozza numero 3, quella dove ci sta il bar, è pugliese. Guarda fuori dal finestrino che lentamente come in un film muto percorre velocemente il paesaggio che si sussegue fuori. E sbotta: “Vedi il tempo che ci sta qua”. “Come fai a non svegliarti con le palle girate”, gli dico io. “Tu bravo uomo del Sud, stattene giù no?”. Il lavoro, il lavoro ci chiama. Come chiama me in questa vigilia dell’ultimo dell’Anno. Ma questo è il lavoro che amiamo. Arrivo a Milano centrale, destinazione Monza Brianza, devo fare una casa occupata. Ci fermiamo al bar all’Angolo. Non toglietemi caffè e sigaretta prima di iniziare a girare. L’adrenalina sale. Gli occupanti sono ecquadoregni. E come in un susseguirsi di immagini mi trovo catapulta ovunque. Passo dal taxi nero fiammante. Al treno. Alla stazione Centrale dove ci stanno i disperati che dormono fuori. A un posto carino dove ci fermiamo a mangiare ma alla tipa napoletana non sto tanto simpatica. Mi rimetto in viaggio. Rientro. Il giorno dopo riparto per passare il Capodanno in piazza a Milano…
E questo ve l’ho raccontato…

sbetti

Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire dolore

Al sopracciglio destro porta due orecchini che gli traforano la pelle. Uno parte da sotto il sopracciglio e sbuca dall’altra parte. L’altro parte da sopra e sbuca da sotto. Sono due gemme d’acciaio inchiodate lì sull’epidermide.
Quando lo vedo mi chiedo come faccia a non sentire male. A non sentire dolore. A far finta che non ci sia niente. Forse è questo uno dei sensi della vita mi chiedo. Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire male. Andare avanti.
Arrivo in questo posto dalle pareti gialle e giallognole che sono le undici del mattino. Sono in mezzo alle colline bolognesi che per arrivarci fai delle strade che manco le Dolomiti. Sono tutte curvilinee sbilenche storte, come tanti piccoli vermi risalgono o scendono il monte a seconda se decidi di andare da una parte o dall’altra. Il paese è praticamente una strada. Quando ci fermiamo da una donna per chiedere informazioni, lei sgrana gli occhi e ci risponde: “Paese? Quale paese?”. Qui la gente non si sente in un paese. Ci saranno dieci case senza manco un sali e tabacchi, sali e scendi invece ce ne sono tanti, quindi se finisci le sigarette devi rimanere senza fumare per trenta chilometri e raggiungere il paese vicino che pare più civilizzato.
Qui ci sono dieci bugigattoli con i balconi e le pareti dipinte. Con un campanile alto come un pioppo. E una chiesetta simile a quella dei cartoni animati. Entro nel primo bar perché devo andare in bagno. Ma il bar è all’interno di un albergo. Dove a sua volta ci sta un ristorante. Come a voler penetrare una piccola matriosca raggiungo il bar che sta all’interno della sala colanzione, la quale a sua volta sta all’interno del ristorante, il quale a sua volta sta all’interno dell’albergo. Apro le piccole porte, prima una poi l’altra poi un’altra ancora. Le vedo richiudersi.
Quando mi perdo, scodinzolo via di qua e di là, e a un certo punto un cameriere viene a salvarmi.
“Salve volevamo prendere un caffe. E avevamo bisogno di alcune informazioni”.
Al bancone del bar ci sono due uomini dal volto violaceo, hai presente quelli che bevono il vino alle nove del mattino. Quelli che hanno le vene consumate dall’alcol. Quelli che se ti avvicini senti quell’odore nauseabondo che ti entra in gola e ti si incatrama su dentro il naso. Qui sono così. Qualcuno ha anche la barba lunga, avvoltolata su se stessa, ingiallita dagli anni consumati a consumare tabacco. Gli anelli alle mani che tengono quella sigaretta che si consuma tra le dita.
E gli anfibi ai piedi. Fuori un tavolo di anziani che giocano a carte. Poi ci sta un vecchietto col cappello che a vedere una donna si erge tutto. Mi vede. Mi segue. Mi fa una domanda. Gli rispondo a mezza bocca. Qui la vita deve essere dura. In mezzo al nulla. Senza niente attorno. O uno beve o esce matto. Poi mi volto. E vedo un uomo. Al sopracciglio destro porta due orecchini che gli traforano la pelle.
Quando lo vedo mi chiedo come faccia a non sentire male. Forse è questo il senso della vita mi chiedo. Avere i chiodi affissi sulla pelle e non sentire dolore.

sbetti

La mosca sopra la tavoletta del cesso

Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio. Arrivo a Bologna che è mattino. Devo girare una casa occupata ma nel frattempo mi scappa. E devo andare in bagno. Entro in un locale. E per accedere al bagno c’è bisogno della chiave. Sulla porta noto che c’è una storiella sul Tiro di Bologna. Il tiro è quella cosa per cui noi diciamo suona, invece a Bologna ancora dicono “Tira”, e sul campanello ci sta scritto proprio questo. Il modo di dire deriva dal fatto che una volta per suonare si usava una cordicella. Mi accorgo che sulla tavoletta del water c’è una mosca. E mi fa parecchio schifo. Esco. Bevo il caffè e ci mettiamo in cammino. Vado su per le montagne. Su per i monti. Su per le colline. Ci sono i tornanti. Cerco di concentrarmi sulla strada. Dicono che se guardi un punto. Sempre quello. Sempre fisso. Non ti fa male la macchina. Mi guardo attorno perché fissa e immobile non riesco a stare e attorno a me si apre un ventaglio di colori, una tavolozza di acquerelli dai colori pastello che pare che ci abbia messo le mani un pittore ingenuo. Ci sono alberi abeti pioppi cipressi verdi rossi gialli alcuni mi sembrano anche violacei. Anche l’accendino che ho comprato è violaceo. E forse non avrei dovuto comprarlo.
Arriviamo su in cima e ci fermiamo con l’auto perché ci stanno aspettando gli uomini della scorta. Siamo lungo i colli bolognesi. Andiamo su e ci appostiamo. Ma non appena arriviamo ecco che la donna esce. Ha il volto del colore del marmo. Vestita con una maglia aderente che le fa intravedere i seni, indossa dei fuseaux che paiono tinti dei colori pastello da un pittore schizofrenico, in testa indossa una cuffia.
Gli occhi marroni incavati non lasciano trasparire niente di buono. Sembrano quelli di una cavalletta che si apposta sul muro di casa in attesa della propria preda. Attorno a lei ci sono i cani. Scendo dall’auto facendomi violenza. I cani sono decisamente troppi per me. Lei ne ha cinque liberi e in più ci sono tre cani grandi brutti e grossi nel giardino accanto che continuano ad abbaiare forsennatamente. Non penso ai cani. In una frazione di secondo cerco di scindere la mente in due parti. La prima deve rimanere concentrata su quello che voglio dire e chiedere alla donna. La seconda parte cerco di distrarla dal pensiero che i cani ci possano far del male. In un’altra frazione di secondo cerco di staccare la mente dal corpo. Non voglio permettere alla paura dei cani di paralizzarmi. Le gambe vanno da sole. Avanti come un caterpillar la affronto. Le chiedo perché diamine continui a stare in quella casa. E lei non risponde. Torna indietro per la stradina e io la seguo. Ma in un baleno. Ecco che mi volto e vedo i cani ringhiare. Azzannare la rete. Azzuffarsi. Scagliarsi contro. Lei fa per andare ad aprirli come a metterci paura e in un attimo mi passa davanti la vita. Mi vedo azzannata. Acciuffata. Aggredita. Cerco di non pensarci e mi scatta qualcosa che la fa sclerare. Lei sclera. Inizia a inveirci contro. Alza le mani. Mi minaccia. Ci minaccia. Ci dà dei figli di put. Figli di troi. Teste di cazz. Chi cazz siete. Mi avete rotto i cogl*. Le dico che si dovrebbe vergognare a stare in una casa che non è la sua. E in quel momento, come a voler sfogare tutta la sua rabbia, alza il pugno per sferrarmi un gancio giusto in faccia. L’uomo della scorta si mette in mezzo, tra me e lei, e il pugno colpisce il collo di lui. Dopo il parapiglia, ce ne andiamo. A me tremano ancora le gambe. Più che altro per i cani. Di lei sostanzialmente me ne fotto. Ci è venuta fame. Entriamo in un ristorante. Io spizzico qualcosa. Ancora lo stomaco si deve aprire. Ordino il caffè americano, ma l’oste di quella osteria incallita non riesce a trasportare il vassoio e il caffè finisce tutto sparso. Lo guardo. Lui mi guarda. Gli faccio una faccia schifata. Lui mi dice: “È un po’ gocciolato”.
Sì decisamente. Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio.

sbetti

ladridicase

Ma sei pro o contro?

Mi si avvicina un ragazzo. C’avrà all’incirca trent’anni. Che dico un ragazzo. È un uomo. C’ha gli occhi incavati che fuoriescono dal bulbo oculare. Il suo iride è a metà tra il verde e il marrone. Dipende. Se fa la faccia sorpresa gli occhi si irradiano di verde. Altrimenti si irraggiano di marrone. Spruzzano una tonalità tendente al marroncino. Il suo corpo sembra quello di un’ antilope spelacchiata che non mangia da giorni. Magro. Affossato. Incavato. Indentro. Intarsiato come si intarsia un santo nel legno. Me lo immagino velocissimo nella corsa. Ottimo saltatore. Che vive in branchi, in mezzo ad altre persone. Sorseggia una birra. Alle dita indossa degli anelli. Mi guarda con due occhi verdi spalancati e mi chiede cosa stia facendo. Gli dico che sono una giornalista. E che sto facendo un servizio sull’immigrazione. Mi risponde perché. Come mai. Qual è il senso. Il senso. Quello che ho sempre cercato in tutto quello che facevo. L’andare oltre. Il non fermarsi mai, dinanzi a nulla. Far sì che il nostro Servizio appunto Servisse agli altri.
Mi chiede se sono pro o contro i migranti. Gli rispondo che non c’entra pro o contro. C’entra che non è questo il modo di gestirli i migranti. I poveracci. I disgraziati che sbarcano sulle nostre coste pagando fior di quattrini. Mi dice perché, come mai, in fondo c’è bisogno di queste persone.
Ma perché non si possono ammassare duecento trecento persone e stiparle come polli in batteria dentro un centro perché questa non è accoglienza, è chiudere dentro un ghetto persone semplicemente per il fatto che sono straniere. Gli dico che chi non ha diritto deve tornarsene da dove è venuto e che le cooperative hanno sempre lucrato sulle spalle di questi poveracci giunti da noi credendo di trovare l’Eldorado.
Mi dice: sì ma il tuo servizio deve essere pro o contro.
Ma no ancora. Non capisci. Inutile parlare allora. Non c’è un pro o contro, serve raccontare la realtà delle cose, dar voce alle persone, è per quello sto in mezzo alla gente.
Gli dico anche che lui in un centro del genere non ci starebbe mezzo secondo dato che consuma liberamente al bar la sua birra. Mi dice che non è vero, che lui in centri come quello c’è stato. Ah sì? “Sì. Io sono di Trieste. Ho vissuto un periodo per strada. Nei dormitori, in quei posti che tu denunci”.
Lo guardo. Allora sai di cosa sto parlando. Poi d’improvviso due urla. Sta scoppiando una rissa.
Un ragazzo che sfida un vecchietto…

sbetti

L’estate è la stagione dell’ineleganza assoluta

L’altro giorno osservano la spiaggia e notavo che il mare sta diventando sempre più un carnaio e un puttanaio. L’estate del resto è la stagione dei rozzi. Una stagione di una ineleganza assoluta dove regna la mancanza di pudore, abbonda invece il sudore; dove è ammesso tutto, anche vedere pance e culi scoperti, e dove nessuno più si pone il problema se rutta o scoreggia o espleta i propri bisogni in mezzo all’acqua.
In più ci sono rotondità ed ossa esposte in prima fila come al mercato delle manze o dei tori. Ribadisco per chi non abbia ben compreso che il problema non sono i 40 chili o i 90, in quanto la cafonaggine non è determinata dal peso o dall’eccessivo scarno.
Davvero non mi capacito di come alcune persone possano essere così rozze e trozzalone. Ogni volta che incontro una persona uscita dalle caverne lungo il mio percorso, e la vedo lì che si misura le natiche prima di entrare in acqua, mi chiedo che lavoro faccia.
Se abbia un percorso. Se abbia studiato. Se sia lo stesso che magari a settembre siede su qualche bell’ufficio laccato e se mentre sta tenendo una riunione importante non gli venga in mente che correva come un pinguino in mezzo alla spiaggia calpestando cafonamente agli asciugamani di tutti.
Una roba che col buongusto credetemi non ha niente a che vedere.
Si sono persi l’eleganza, il buon costume.
Una volta, dacché mi ricordo, c’era ancora qualche barlume di signorilità in spiaggia, ora domina un esercito di cafoni e cafone, di trozzaloni e trozzalone, di beceri e di becere, che vi giuro non ci uscirei manco se dovessi andare a scaricare pomodori.
Alcuni figli poi vengono su peggio dei genitori.
Poi che dire di tutta quella gente che urla. Che grida. Che sbraita in spiaggia. Gente incivile che in bagno non tira l’acqua. Pare che tutto sia permesso. Tipo mettersi le mani nel naso, in bocca, in mezzo alle orecchie e poi dopo averle messe, andare al bar e con la stessa mano con cui si infilato il dito dentro nel sedere prendere in mano il cucchiaino e mescolarci il caffè. Per non parlare delle donne. Le donne sono una mostra di arte sacra ma faticano a ricordarsene. Dovrebbero essere venerate e invece le vedi che fanno a gara con costumi orribili fatti di paillettes cuciti dai bambini del Vietnam e che sfoggiano sotto il sole.
Quelle poi in fila al bar e che vogliono fregarti il posto perché loro c’hanno il foulard in testa di Hermes da 39 mila euro e tu sei una pezzente che in testa c’hai un elastico sfilacciato e come borsa una pochette svenduta, cucita da italiani artigiani ridotti con le pezze al culo a cui lo Stato non garantisce manco più la pensione. E poi ci sono quelle che come gira la terra devono seguire il sole. Prima si mettono a destra poi a sinistra poi davanti poi didietro poi in mezzo e tutta la spiaggia gira e si crea quell’onda di asciugamani tutti perfettamente allineati che mi viene l’angoscia a vederli. Per non parlare poi di quelli che urinano in acqua e la gente ci fa pure il bagno. O ieri, quello davanti a me, sulla doccia si è quasi tolto il costume, si è guardato giusto in mezzo alle gambe, ha controllato che lì sotto fosse tutto a posto, poi ci ha messo la mano dentro, si è lavato per bene, c’ ha fatto passare l’acqua e con quella stessa mano ha chiuso la manopola.
Mi sono lavata a casa.

sbetti

L’esercito dei buzzurri in autogrill

Ieri pomeriggio dopo sette ore di coda in autostrada scendendo verso sud e poi risalendo un attimo verso il centro, mi sono dovuta fermare in un autogrill perché dovevo scrivere un pezzo, mangiare e andare in bagno. Le ultime due cose appartengono alla categoria delle attività che gli esseri umani compiono quotidianamente. Ossia nutrirsi ed espellere ciò di cui ci si è nutriti.
Ma non è questo il punto.
Appena giunta in autogrill ho notato davanti a me una serie di morti stesi a terra che erano tanti pupazzi caduti da quegli scaffali che propongono peluche in offerta esclusiva a 29 euro e 999 centesimi, quando in un negozio normale li paghi 12. Siccome i pupazzi erano precipitati dallo scaffale, e avevano deciso di suicidarsi, ci fosse stato un signore cristo viaggiatore che si fosse fermato a raccoglierli. Nessuno. Tutti ci passavano sopra come se i pupazzi di pezza non esistessero. Alla fine siccome mi facevano pena ci siamo messe in due a raccogliere i peluche di pezza traditi dalla vita.
Giunta al cesso ho subito notato che c’era la coda. E puntualmente arriva il gruppo di cafone che passa davanti fingendo di non sapere quale e dove sia la fila. A un certo punto, giuro non sto scherzando, è giunta una donna che doveva far fare pipì al cane, e siccome il cane era femmina pretendeva di fargliela fare dentro al cesso delle femmine ovviamente. Robe imbarazzanti accadono su questo pianeta. Giunta al piano superiore per finalmente poter scrivere il mio pezzo e mangiare qualcosa dato che stavo scomparendo, ho visto l’esercito dei buzzurri in coda alla riscossa. Praticamente non si attende più che la banconiera ti dia il trancio di pizza in mano, lo si cerca di azzannare ancora prima che questa te lo stenda. Gente con le bocche dilatate senza scrupoli né pudori che mangiava in piedi scomposta manovrando la lingua come fosse una betoniera piena di malta e calcinacci. Gente con le dita infilate dentro la bocca perché lo stuzzicadenti che per giunta detesto non va più di moda. Forse per qualcuno non va di moda manco lavarsi i denti. Persone sudate sudaticce con le mani unguenti pingui puzzolenti che si passano le dita tra i capelli e poi se le infilano nel naso e poi se per caso ti capita di passarci accanto ti mettono, giusto quel dito finito nel buco dell’ano, sulla spalla per chiederti se per favore puoi spostarti. E gente che dopo essersi spalmata le mani dentro le fauci con la betoniera piena di malta si strofina le mani sui pantaloni. Gente che non rispetta la fila, che corre, che annaspa, che prevarica. Persone che pare che non si siano mai mosse da casa. Cavernicoli alla riscossa. Tutta gente che durante l’anno non arriva a fine mese. Tutti presi da questa mancanza d’aria, come a vivere in una bolla, di questa grande enorme fretta, ma poi di fare cosa.
Tutta gente che va in ferie e che se gli dicessero un giorno di lavorare in quelle condizioni mangiando in piedi col piscio dei cani al cesso e la mano unguente e pingue che ti si spalma sulla spalla dopo essere stato al gabinetto, direbbero di no, perché ah la dignità. Una dignità che a quanto pare non vale per l’esercito dei buzzurri che si incontra in autogrill.
Con garbo.
E stima.

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Piazza della Repubblica a Roma: quando cercavo un posto dove dormire

RIcordo ancora la prima volta che il mio viso fece capolino a piazza della Repubblica. Ero appena maggiorenne. Ero appena arrivata in città e cercavo un posto dove dormire. Mi dissero che c’era un appartamento libero accanto al ministero della Difesa. Hai presente? Hai presente quello dove decidono le missioni di pace. Se gli uomini debbono o meno farsi la guerra.
Ecco. Più o meno. Trovai l’appartamento lungo un vicolo. Zaino in spalla. Mocassini ai piedi. Mi pareva di essere arrivata in una città che poteva darmi tutto. Ricordo ancora la me dell’epoca. Percorrevo queste vie di Roma, con questi monumenti stratosferici e questi immensi palazzi che mi pareva di essere in un film. Mi sentivo così piccola. E così grande allo stesso tempo. Vedi, mi dicevo, io viaggio da sola.
L’appartamento stava in una laterale. E per salirci c’erano da fare un po’ di scale. Dissestate. Ora non ricordo bene come fosse. So che si accedeva attraverso una porticina piccina. Piccina. Quando ti andava bene e facevi la doccia, ti si allagava il cesso. Quando ti andava male, ti si allagava anche tutto il resto. Quando entrai non capii subito dove fosse il letto. So che era un divano che faticammo in 4 ad aprire. Non ricordo quanto mi chiesero per quell’appartamento ma so che riuscimmo a spartirci i soldi. Per farsi da mangiare poi apriti cielo. Facevi prima ad andartelo a comprare già fatto e mangiarlo seduto sulle scale. La sera poi si riempiva di gente. Dentro la credenza il proprietario aveva lasciato vari cocktail. Non ho mai capito se anche quelli fossero compresi nel prezzo…

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Il tempio dei teschi

Non lontana da piazza Barberini in via Veneto ci sta la chiesa dei Cappuccini. Ci sono stata un giorno e sono rimasta sbalordita. Dentro ci sono le ossa di 4000 frati morti tra il 1528 e il 1870.
Nella cripta, composta da diverse cappelle unite da un corridoio, si trovano alcuni corpi di frati mummificati con addosso il saio, il tipico vestito del loro ordine.
Un percorso macabro ma suggestivo. Oltre alle ragnatele che spuntano dal soffitto, ci sono i baldacchini di bacini, i lampadari fatti di ossa. Le ossa dei frati sono incastonate con la precisione sacro santa di un compositore, di uno che lavora con gli arnesi, di un chirurgo che salva le vite e non può sbagliare. Stupefacente. Qualche pazzo le ha prese e ne ha formato un mosaico. Un museo di 3700 – 4000 corpi, con migliaia di ossa, tibie, crani. Addirittura li ha disposti in un modo così regolare ma talmente regolare che se ne togli uno crolla tutto. Hai presente. Hai presente i letti a castello. O il gioco del domino. O quello dove metti una sopra l’altro i bastoncini di legno. Alcuni corpi li ha presi, scomposti, e ne ha fatto il mantello di altri corpi. Alcuni poi li ha stesi e li ha vestiti. Non ho mai visto nulla di simile. La gente non se ne rende conto perché è diventato un museo. Ma non appena entri ci sta scritto: “è strano notare come la forma artistica e la legge estetica abbiano quasi vinto ciò che di per se stesso è raccapricciante”.
Si è fatto tardi. Mi chiamano. Mi incammino lungo il Tevere e mi accendo una sigaretta.

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Roma

Se cercate una trattoria a due passi dai Fori Imperiali

Affisse sul muro di una strada in salita, due parole mi balzano agli occhi. “Why not”. Perché no.
Osservo la scritta e continuo a farmi mille domande. Mi serve un posto dove mangiare.
“Se cercate una vecchia trattoria, a due passi dai Fori Imperiali, nel quartiere Monti e non siete super super sofisticati, questo è il posto giusto”, dice la recensione su TripAdvisor.
Dopo vari scarpinamenti, senza rendermene conto, ci sono arrivata. La vecchia trattoria si chiama Vecchia Roma.
Il tipo che mi accoglie ha l’accento romano. Hai presente quello romanesco romanaccio o solo semplicemente romano?
Nel locale, sopra appeso al muro, quello che fa da arco per accedere all’altra sala, c’è una sciarpa che ha i colori della Roma.
C’è scritto “Che Dio ve furmini”. Non proprio un bell’augurio quando entri dentro in un posto, ma rende bene l’idea dell’aria che si respira.
A Roma non si fanno tanti problemi, una volta ho visto un cameriere uscire fuori da una piadineria che al tipo che gli stava davanti gli diceva: “Aooo te la magni ssa piadina”.
Non mi piacciono le trattorie quelle super sofisticate dove la gente sta impettita e ti guarda mentre mangi e se per caso prendi i grissini con le mani ti fulmina con gli occhi. O quelle trattorie dove ti portano le pietanze su grandi piatti ma le portate sono talmente minuscole che fatichi a trovarle e infilzarle con i rebbi della forchetta.
Questa trattoria di Roma invece era il posto giusto. Ci sono stata una sera. Il personale era tutto cortese, il menù te lo dicono a voce e se non capisci devi fartelo ripetere, se loro arrivano a fine lista e tu hai dimenticato i piatti in cima, loro te li elencano di nuovo e ci mettono in mezzo qualche battuta. “Che sci magnato oggi? Pane e dimenticanza?” “Madò quanti anni c’hai? Pppe dimenticà cussì in fretta le cose”…
Poi esci. Fai quattro passi. Pensi.
Ripassi davanti a quelle due parole: “Why not”.
Sulla lavagna di un locale invece ci sta scritto: “La vita è come un libro. Quando qualcosa va storto non chiuderlo, semplicemente volta pagina”.

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Il cielo di Roma è più bello

Il cielo di Roma ha un che di diverso.
Me l’aveva detto un giorno una persona a me molto cara. Eravamo in treno. Eravamo appena arrivati e scrutando fuori dal finestrino mi disse: “Lo vedi questo cielo che è diverso. È azzurro. Di un azzurro intenso”.
Quando sono scesa alla stazione ho subito cercato la conferma. Sono uscita dal lato dove non si prendono i taxi e ho alzato lo sguardo. Il cielo qui è veramente diverso. Ha il sapore dello zucchero a velo. Dello zucchero filato. Di quel gusto gelato che d’estate piace tanto ai bambini. Ha i colori del mare. Delle sottane che piacciono tanto alle donne. È vero, sincero, non ha quel grigiore tipico della pianura padana dove è tutto offuscato, grigio, pigio.
Dove d’estate è soffocato e assetato dall’afa e d’inverno è gonfio e gravido di pioggia e di nebbia.
Qui è un azzurro dove ti ci perdi. Ti ci rifletti. Ovunque ti guardi ti si apre uno squarcio, un varco, un raggio di luce.
Di notte ci scorgi perfino la luna tra le cupole.
Una città fatta di santi e di lampioni, di ponti e di cupoloni. Di torri. Statue. Obelischi.
Quelle statue che sembrano spostarsi quando ci passi. Le puoi osservare. Stare a sentire. Se non sei troppo sana ci puoi anche parlare…

sbetti

In Kosovo la guerra non è mai finita

Sono atterrata a Pristina una sera di fine settembre di qualche anno fa. Era prima. Prima del covid.
Quando atterrai all’aeroporto e sentii due persone parlare in napoletano subito mi ci aggrappai. Scoprii dopo che erano due militari nella stessa base dove alloggiavo.
Un sogno il Kosovo che avevo fin da piccola. Quando guardavo Carmen Lasorella in televisione e quando scoppiò la guerra continuavo a ripetere: “Pristina, Pristina, Pristina”.
Soffrivo tremandamente per via della guerra, mi chiedevo se i bambini come me, quelli al di là del fronte, avessero da mangiare e da bere.
Un fazzoletto, il Kosovo, grande quanto l’Abruzzo. Dove ci convivono sei etnie differenti: albanesi, serbi, turchi, rom, bosniaci e gorani, un gruppo etnico di ceppo slavo meridionale e di religione musulmana originario di Gora, a sud di Prizren. La bandiera del Kosovo, quel lenzuolo blu, infatti ha sei stelle: ognuna delle quali corrisponde alle sei etnie.
Quando sono arrivata avevo subito capito che fosse una terra particolare. Una tela piena di buchi, di ombre, di simboli e segnali, che rendono difficile e quasi utopica la parola “pace”.
La guerra civile qui non è mai finita. E il fermo immagine che ho nella testa sono quei cimiteri pieni di tombe che spuntano lungo le strade quando ti sposti da una città all’altra.
Qui non ci sono sfumature di grigio. Ogni etnia ha la sua truce e distinta tonalità. In alcune zone la guerra pare sia finita ieri e invece è finita vent’anni fa. Ancora ci sono le case completamente sventrate, bruciate; ci sono zone dove i bambini cucinano i peperoni per strada, o enormi distese di verde cenere dove la furia dell’uomo e delle bombe ha lasciato la terra incolta e arida. Non ci cresce più niente. Nemmeno la gramigna.
Una popolazione che è un caleidoscopio di fiammelle colorate che esplodono tutte. La tensione nell’aria la senti benissimo. La percepisci. La agganci. La fai tua. Ci convivi giorno e notte.
La apprendi quando capisci che per pronunciare Pejë, città del Kosovo occidentale, devi cambiare accento a seconda se hai a che fare con un albanese o con un serbo.
Una regione martoriata, squarciata, fatta a brandelli.
Sono figli della stessa terra e ancora si fanno la guerra. Quando a Sarajevo intervistai un ragazzo bosniaco gli chiesi: Perché tutto questo odio ancora? “Troppo male è stato fatto”, mi rispose.

sbetti

📸 Pristina settembre 2017

Roma. Grande amore

La prima volta che vidi Roma erano anni fa. Qualcosa come il 1900 di cui ora non ricordo le ultime cifre.
Ricordo che quel giorno pioveva. Pioveva che Iddio la mandava.
Quando scesi dall’autobus, che mi accompagnava, rimasi subito impressionata dalla magnificenza della città. Splendida. Particolare. Suscitava una tale ammirazione che era impossibile resisterle.
La sua bellezza ti accecava. Il suo incanto ti stravolgeva.
Il primo giorno non vidi molto. Diluviava troppo. Il secondo nemmeno. Il terzo, la mattina, riuscì a fare un giro veloce prima di ripartire.
Passai davanti l’Altare della Patria e rimasi estasiata di così tanta e tracotante meraviglia.
Uno splendore incastonato nel bianco, disarmante, immane, immenso, che non ti dà la capacità di esprimerti a pieno.
Ti senti così piccolo. Lì decisi che quello sarebbe stato il mio monumento, il mio monumento in assoluto. Ero così incantata nel vedere quel tricolore sventolare, quelle guardie in piede immobili, che parevano mummie e quelle fiammelle che lentamente bruciavano e facevano sventolare l’aria. Rimasi sbalordita dal fatto che il fuoco si muovesse e le guardie no.
Ero piccola, ma nemmeno tanto, ero già in grado di scegliere cosa avrei voluto e cosa no. Avrò avuto all’incirca 13 anni, forse 12, 11, ora non lo ricordo esattamente. Era uno di quei viaggi organizzati, dove capisci che se vuoi vedere il mondo ti ci devi in qualche modo infilare e infatti mi ci sono infilata. Lì scoprì anche cosa fosse il palazzo di giustizia, il palazzaccio come lo chiamò la guida che ci accompagnava. Una professoressa di storia dell’arte molto scrupolosa e molto severa. Era di una tale magrezza che mi chiedevo come facessero a starci tutte le informazioni che possedeva.
Mi piaceva Roma, Dio se mi piaceva, da quel giorno decisi che sarebbe diventata la mia città più bella del mondo, e lo è, lo è per davvero…

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