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“Quando feci sparire mia sorella Udilla”. Mago Silvan si racconta a Libero

Qui la mia intervista 👇

“Sto scaricando il taxi. Sono appena arrivato da Milano. Un attimo e le rispondo”.

Non ha di certo bisogno delle nostre presentazioni Mago Silvan. Mago. Prestigiatore. Chiamatelo come volete. Appartiene a quella schiera degli artisti di fama internazionale, secolari, vecchia maniera, che ancora scaricano i taxi da soli. Perché Silvan c’è da sempre. C’è sempre stato. 

Quando lo incrociamo ha appena finito uno spettacolo da standing ovation a Treviso, al teatro Del Monaco. 

Mago Silvan, appena arrivato da Milano. Ma dove la trova la forza?

“Genetica. Sono felice, amo la vita i miei figli, nipoti e le persone che mi stanno accanto. Sono un uomo fortunato. Ho sempre cercato di raggiungere i miei traguardi artistici con onestà”. 

A proposito, ha appena girato per “Splendida cornice”, per la Rai. Sempre in movimento.

“Sì, mi sono trovato benissimo. Mi piace Geppi Cucciari. È spontanea, sagace, impertinente, colta e intelligente”. 

Ci racconti il suo primo spettacolo.

”Troppo lungo! Annoierei il lettore. Le dico soltanto che a undici anni, sotto la tettoia dell’Oratorio don Bosco a Venezia, città nella quale sono nato e che amo visceralmente, presentavo uno spettacolo di quattro ore e mezza… Presenti preti, laici e le famiglie dei miei coetanei. La magia intesa come prestidigitazione è parte integrante della mia natura”. 

Anche se suo padre per lei sognava una carriera da avvocato. 

“Era amico di un avvocato di grande notorietà, principe del foro Carnelutti”. 

E come l’ha presa quando ha saputo che voleva fare il mago?

“Convinto si trattasse di una professione alquanto bizzarra configurandomi come Sik Sik l’artefice magico di Eduardo, era contrario. Successivamente diventò il mio più grande estimatore. È diventata la mia professione e la mia passione. O viceversa”. 

Direi. Lei è celebre a livello nazionale e internazionale. Che effetto le fa? 

“Sono compiaciuto e gratificato anche se ritengo ci sia ancora da apprendere e studiare. Non ci crederà ma nonostante abbia scritto una dozzina di libri sull’insegnamento e la storia della prestidigitazione con la riedizione de “La Nuova Arte Magica”, 600 pagine per la Nave di Teseo, mi ritengo solo a metà strada. Si ricorda il detto socratico no? “Chi più’ sa sa…”. 

Sa di non sapere insomma. 

“Da quest’arte antica e immensa, che insegna come alterare la realtà oggettiva nel dire ciò che non si fa e fare ciò che non si dice…”. 

E allora glielo chiedo, la differenza tra un prestigiatore e un avvocato? 

“Sotto certi aspetti la teatralità. Una dialettica convincente, persuasiva e astuzia psicologica. Dimostrare con convinzione che il bianco è nero o viceversa”. 

E come preferisce essere chiamato? Mago, illusionista, prestigiatore…

“Sono sinonimi. Mago è il termine che viene usato abitualmente per una dizione comprensibile Prestigiatore è termine esatto, dal latino praesto e digitus, in sintesi svelto con le mani”. 

Ecco appunto. Le mani. Come le mantiene? Come le allena queste mani?

“Ho creato degli esercizi speciali per irrobustire le falangi e l’eminenza tenar cosi si chiama il muscolo del palmo della mano  sotto la radice del pollice”. 

È vero che le assicurò per mezzo miliardo?

“Esatto”. 

Ma le scalda prima di uno spettacolo?

“Articolandole come le spiegavo con degli esercizi appropriati tra i quali dei piccoli pesi legati alle dita”. 

Si allena ancora?

“Certo da una vita”. 

Quante ore?

“Due tre ore al giorno”. 

Ma qual è il suo segreto. Come fa? 

“Passione tenacia esercizio costante. La stessa domanda può essere rivolta a un ciclista, tennista, corridore, danzatore, pugile”. 

E lei quando ha capito che sarebbe stata la sua strada? 

“Da sempre. È un legame mentale dei ricordi che assorbiamo nei primi anni della nostra infanzia. Tutto ciò che ai miei occhi rappresentava l’irrazionale, il magico è rimasto impresso nel mio subconscio. Un tributo se vogliamo definirlo a tutto ciò che rappresenta l’inconoscibile, il mistero. Sono convinto che la vita perderebbe parte del suo senso se non avessimo a ogni età la capacità di stupirci!”. 

E il suo gioco di prestigio preferito.

“Indipendentemente dal tagliare donne a fettine, farle levitare a mezz’aria, trasformarle in tigri o pantere. Nei miei spettacoli, la pura destrezza. Fare apparire o sparire 140 carte da gioco con l’ausilio delle sole mani”. 

Ah una cosa ho sempre voluto chiederle a proposito delle donne a fettine. Le lame sono vere?

“Certo”. 

È mai accaduto che qualcosa andasse storto?

“Sì, molte volte ma il pubblico non si accorge mai, poiché il mago con la sua abilità cambia immediatamente l’effetto magico che intende presentare con un altro”. 

Allora ora glielo chiedo. Ha mai conquistato una donna con il potere della magia?

“Mentirei se dicessi il contrario”. 

E di questi giovani prestigiatori che pensa?

“Tutto il bene possibile. Sono veramente  bravissimi. Possiedono molto talento. In tutte le Regioni esistono dei Club magici, vivai di ottimi talenti per coloro che desiderano imparare l’arte prestidigitatoria. A Milano con la guida di Mario Pavesi una mostra attuale “A me gli occhi”, prodotta dalla Cineteca, sta ottenendo un successo strepitoso. Proiezioni cinematografiche interattive posters storici eventi dal vivo di  maghi, illusionisti passati alla storia, fino al 28 aprile”. 

E il mago più scarso secondo lei? Si può dire vero?

“Scherzando si può dire tutto: anche la verità. Ma nessun mago deve essere considerato scarso. Sono tutti eccellenti da incoraggiare aiutandoli con discrezione a migliorare, o invogliandoli alla lettura di testi che trattano la nostra arte senza atteggiamenti di presunzione o superiorità. Questo per continuare a coltivare la passione e diventare ciò che hanno sognato”. 

Se dovesse spiegarla a un ragazzo che vuole intraprendere la sua strada. È una vocazione? È talento? È arte, studio ?

“Esattamente ciò che ha detto. La mia, anche se è inelegante parlare di sé è stata una vocazione. Sono sempre stato attratto da tutto ciò che rappresenta il magico, l’irrazionale, il paradosso”. 

Cosa pensa dei prestigiatori americani e dei loro mega show?

“Bravissimi straordinari in teatro. Televisivamente sconcertanti e miracolisti”. 

La differenza tra ieri e oggi…

“Non esiste una magia tradizionale classica o di avanguardia. Esiste soltanto una bella magia che stupisce e incanta con onestà”.

Che poi la magia è un potere? Cos’è?

“L’arte magica affonda le sue radici in epoche molto lontane. In Egitto in Grecia a Roma la destrezza del mago era camuffata da magia per asservire il potere politico sociale e religioso. Potrei discettare per ore della sua storia che da sempre affascina l’uomo”. 

Ma qual è stato il suo primo gioco di prestigio?

“Quello di far sparire mia sorella Udilla allestendo i drappeggi necessari nel salotto di casa”. Ah scusi, dimenticavo, e il magico “Sim Sala Bim” come nacque? “È una frase che ha sostituito le mie primissime parole magiche: Tac tac se rumba yama cler come tributo e omaggio a un grande prestigiatore danese del secolo scorso Dante”.

Quindi Sim Sala Bim? Mago Silvan??!

Serenella Bettin

Intervista uscita su Libero il 27 marzo 2024
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Il Papa a Venezia

Piazza San Marco

Io me lo ricordo quell’anno in cui vidi per la prima volta il Papa. Era il 30 dicembre 1988. Avevo 4 anni. E il Papa era Giovanni Paolo II e andò a Fermo e a Porto San Giorgio. Nelle Marche. Fece una visita al duomo. E poi andò a far visita ai figli di Jahvè.
I miei mi ci portarono a vedere il Papa e io ricordo questa enorme grande folla che si muoveva come una grossa nuvola e questo Papa che scese con l’elicottero bianco dal cielo sopra una montagnola. E ricordo questo grande uomo vestito di bianco che sorrideva e salutava tutti. Aveva il volto incantato. Dall’incarnato solenne e austero. E questi occhietti limpidi e tersi. E queste guance così bianche che a guardarci il sole riflesso ti pareva di specchiarti. Poi ricordo che mio padre mi prese in braccio e mi disse: andiamo più vicino. Vidi quel Papa dal basso verso l’alto. E vedevo questa gente che si allungava col corpo. Che si genufletteva. Che lo salutava. Lo toccava. Sbracciava. Non c’era tutta quella sicurezza che c’è oggi. Quando anche per varcare una soglia, ti chiedono le impronte digitali. Eravamo più umani. E più felici.
Avevo 4 anni ma capii fin da subito che era una personalità importante. Quel giorno era accaduto qualcosa di particolare e io pensavo a come raccontarlo. A come dirlo. Al fatto che avevo vissuto qualcosa che nemmeno io sapevo bene cosa. Ma era come se dentro di me avvertissi la sensazione di voler un giorno raccontare quel fatto.
E arriviamo al 28 aprile 2024. Trentasei anni dopo vedo un altro Papa. Stavolta a Venezia. Stavolta in piazza San Marco. Stavolta è primavera. Seppure fresco, non faceva freddo come allora.
Il Papa è Francesco ed è arrivato stamattina alle 7.55 con un elicottero fatto atterrare sul cortile esterno del carcere femminile della Giudecca. Di lì a poche ore la messa delle 11 in piazza. In piazza la gente è già sistemata e io vi giuro non ho mai visto un’organizzazione del genere. Piazza San Marco dall’alto sembra una scacchiera, con ogni persona perfettamente al suo posto.
Rispetto a quando ero piccola non c’era la gente che si tuffava, scomposta e che si muoveva come in una grossa enorme nuvola. La piazza è un tripudio di festa. I cori liturgici invadono solennemente il campo. I loro cori riecheggiano nell’aria. I gabbiani si librano in volo al suon dei canti di chiesa. La gente è tutta lì ad attendere il Santo Padre. Quelle due donne sono posizionate qui dalle sette di mattina.
Anche perché qui, in Piazza, senza pass è praticamente impossibile entrare. Tutti gli ingressi sono presidiati. E il dispiegamento di forze di polizia è veramente alto.
Alle 10 e qualcosa arriva il Santo Padre. E la gente si alza in piedi. Sbraccia. Fa festa. La festa è composta. Lui attraversa l’area con la sua papamobile. Sorride. Saluta tutti. Ha il volto fiero. Sorridente. Calmo. Tranquillo. Sembra quasi un bambino in gita a Venezia. Poi la messa. I canti. I cori. Una donna si sente male. Un bambino viene sorretto dai genitori. Mi serve un caffè. E mi dicono che c’è una sala stampa fantastica rigorosamente attrezzata. I parroci ci hanno preparato quel caffè caldo dentro ai termos, che vi giuro è il più buono del mondo. Il più buono che io abbia mai bevuto. Poi arriva l’ora del saluto. Il Papa torna indietro. Attraversano la piazza il ministro Carlo Nordio. Il presidente Luca Zaia. Il sindaco Luigi Brugnaro. Tutti vestiti impettiti. Fieri, sorridenti. Il Papa entra dentro la Basilica. Ce l’ho qui davanti a me.
Poi prende la via del ritorno. Sale sull’elicottero. L’elicottero sorvola sopra Piazza San Marco, un giro. I fedeli salutano. Prende e se va. Tra 90 minuti sarà in Vaticano.
Questa volta non sono la bimba piccola che lo guardava dal basso verso l’alto. Questa volta sì. Ho trovato il modo di raccontarlo.
Sgattaiolo fuori. E mi passa un uomo davanti, ha una tunica nera che gli tocca terra. E un crocefisso gigante appeso al collo.

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Pezzo uscito su Libero
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Cercasi camerieri: ma gli annunci sono da fame

Qualche settimana fa passavo lungo la via Bafile di Jesolo, una delle vie piu lunghe d’Europa con alberghi locali negozi ristoranti, e non ho potuto fare a meno di notare come ogni due metri ci fosse un cartello con scritto “Cercasi personale”. Ve ne posto qui solo alcuni, perché in realtà ce ne sarebbero molti altri.
Così dopo qualche giorno ho provato a chiamare rispondendo ad alcuni annunci e vi giuro, dinanzi alle offerte, mi sarei levata le palle, che non ho.
Uno mi ha proposto una prova con un contributo, un piccolo rimborso spese, senza vitto manco alloggio, e un “se sei brava, magari investiamo su di te”.
Un altro mi ha detto che avrei dovuto lasciare il mio curriculum, e che l’orario di lavoro andava dalle otto del mattino, a oltranza – qui sai – questo lavoro è così – non puoi tenere famiglia -. La paga? 1500 euro al mese. Il costo dell’affitto? A mio carico ovviamente.
Un altro ancora mi ha detto che intanto cominciavamo, in nero si intende, e che per il prezzo eravamo “intorno” – dico intorno – intorno a cosa? Imbecille. Ecco intorno ai 6 – 7 euro, ma che “ci possiamo venire incontro”. Solo una, di quelli chiamati, mi ha risposto che era tutto regolare tramite contratto.
Così sono andata a parlare con dei titolari che conosco e mi hanno detto che sì, effettivamente loro non trovano personale nemmeno quest’anno. Uno che prende la tizia e la tizia non si presenta. Un altro che dice che si presentano tutti svampite. Un altro ancora che ha problemi perché qualsiasi giovane a cui fa il colloquio, dopo un po’ gli chiede: “Scusi ma il fine settimana sono libero?”. La verità è che, non me ne vogliano gli onesti (perché ce ne sono!), in questo mondo della ristorazione, c’è ancora tanta merda in giro. Di gente non ancora strutturatache tira a campare pretendendo di fottere gli altri. Perché va bene la gavetta, quella l’ho fatta pure io, ma i giovani fortunatamente si sono svegliati e non rinunciano ai propri sogni per soddisfare quelli degli altri.
Non si può far lavorare un ragazzo sette giorni su sette, 15 ore al giorno, e pagarlo 1200 euro al mese. Così come non si possono pagare i camerieri 5 euro l’ora. Così come non si possono prendere per il culo bengalesi e indiani (perché tanto non parlano l’italiano e poverini hanno bisogno) e metterli a spazzare le scale o a pulire i cessi in notturna dandogli sempre 6 euro l’ora. Perché basta. Insomma. È ora di finirla. Anche perché voglio dire, mi pare che bar e ristoranti si facciano pagare. L’altro giorno a Venezia sono entrata in un bar, perché dovevo fare la mia classica pipì, e un caffè, manco in centro, l’ho pagato 4 euro. Quando ho guardato la titolare e le ho fatto capire che avrei gradito lo scontrino, questa mi ha perfino guardato male. Un primo, in un ristorante del menga, costa 36 euro. Una colazione in un bar marcio di un paese costa 13 euro. E poi se chiedi di venirti a pulire i tavolini, i “dipendenti” – alcuni non saranno manco in regola – storcono pure il naso. Ma tanto son pagati talmente poco che i tavolini io li farei leccare ai loro titolari. Anche perché hanno aumentato tutti. Tutti. Chi il caffè. Chi la pizza. Chi ti porta 4 verdure in croce – giuro mi è successo in centro a Treviso – e te le mette in conto 6 euro, e quando chiedi se son fatte di oro, ti rispondono che “non possiamo farci niente, verdura e frutta poi, hanno aumentato tutto”. È per questo che mi incazzo quando leggo storie come quella di oggi, dove a Pordenone una tizia sono 20 anni che lavora in cucina e da 20 anni viene pagata 4 euro l’ora. Vergognatevi. Ma poi mi raccomando. Poi riempitevi la bocca. Poi continuate a dire: “I gggiovani non vogliono lavorare”. No i giovani si son svegliati. Non sono di certo coglioni come chi li sfrutta.

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A Venezia scontri tra polizia e manifestanti

Non è stata di certo una bella idea far partire il contributo d’accesso a Venezia il 25 aprile – viene da chiedersi se sia stata una bella idea il contributo d’accesso stesso – con quelli dei centri sociali che berciavano in piazza. E il nuovo ticket è entrato in vigore slalomeggiando tra proteste, polemiche, scontri con la polizia, qualche furbetto e la solita maledetta dannata burocrazia. Alè. Ma andiamo con ordine.

Da ieri a Venezia è entrato in vigore il contributo d’accesso, appunto, quel balzello – ne abbiamo parlato ieri appunto – che viene fatto pagare ai turisti mordi e fuggi, ossia quelli che arrivano in città al mattino e se ne ripartono la sera. Il ticket costa 5 euro, e chi non lo paga rischia una sanzione da 50 a 300 euro. Accipicchia. Però ieri mattina, i veneziani, anziché svegliarsi rincuorati, son caduti dal letto, disturbati più che altro dall’eco degli scontri che stavano avvenendo in città. Fischi, cori, grida, bandiere. I manifestanti, circa 800, compresi quelli “No grandi navi”, si sono radunati in piazzale Roma, per esprimere tutto il loro disappunto sul contributo e hanno cominciato ad avanzare verso il centro. Al che, è dovuta intervenire la polizia in tenuta antisommossa con caschi, scudi e manganelli. 

A essere attaccato è stato principalmente il sindaco lagunare Luigi Brugnaro, e l’idea di una città trasformata in un parco divertimenti. Tra l’altro, “Venezia non è Disneyland”, è proprio il titolo di una pagina Facebook molto seguita in città che denuncia proprio i turisti mordi e fuggi, quelli che si tuffano dai ponti o quelli che impiastricciano le vetrine con le mani sporche di gelato. Ma tant’è. 

Lo slalom poi è proseguito tra i totem esplicativi del contributo, posizionati proprio qui, fronte stazione Santa Lucia, tra i gazebo biglietteria allestiti ad hoc, e tra quella miriade di turisti scesi dai treni a lunga percorrenza, che invadeva la città trotterellando con le valigie. Una seconda manifestazione più pacifica, è stata quella di alcuni comitati cittadini, contrari al ticket, e che si sono posizionati vicino ai gazebo. Qui, tra totem di diverso colore, verde per i residenti, arancione per i turisti, azzurro per i gitanti, e tra steward e gente col naso per aria come a dire: “Dove son capitata”; ecco qui alt, fermi, i controlli. Allora: chi pernotta in una struttura ricettiva in città, e quindi paga già la tassa di soggiorno di 3 euro, non deve pagare il ticket. Chi ha l’esenzione, deve mostrare il Qr code dell’esenzione stessa. Esenzione che viene chiesta accedendo sul sito del comune. Chi ha meno di 14 anni basta che faccia vedere la carta d’identità e chi invece non dorme a Venezia ed è straniero, o viene da fuori regione, ecco, bè deve pagare i 5 euro. Perché c’è gente che non rinuncia a mettere piede a San Marco, nemmeno, nelle giornate di maggiore affluenza, anche a costo di pagare il biglietto. Il contributo, infatti, è stato concepito proprio nei giorni da overbooking, e in tutto, per ora, sono state previste 29 giornate.

Ma a Venezia ieri, dati aggiornati alla mano, sono arrivate 113 mila persone e di queste solo 15.700 hanno pagato il ticket. Il che vuol dire che 1 su 10 ha pagato, tutto il resto nisba. Balzano all’occhio i 40 mila turisti che dormono in albergo, i 2.100 parenti di residenti e i 2.000 amici di residenti. Mancano, si fa per dire ovviamente, gli amici degli amici dei parenti perché la cosa difficile è districarsi nella miriade di esenzioni previste. “Non si è mai fatto nulla per regolare il turismo ed era necessario fare qualcosa – ha detto Brugnaro – la paura del cambiamento è legittima, ma se la paura blocca, non c’è progresso. Oggi spendiamo più soldi di quanti ne incassiamo, ma questa non è una spesa è un modo per far capire che bisogna cambiare, evitando gli intasamenti. Non abbiamo più i finanziamenti della legge speciale per Venezia, nonostante vengano trovati per il ponte di Messina”. Così. Boom.

Serenella Bettin 

Oggi su Libero

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A Venezia si entra col biglietto

Canal Grande with Basilica di Santa Maria della Salute in Venice, Italy

Oggi chi voleva visitare Venezia ha dovuto pagare il biglietto.

Si chiama contributo d’accesso e alla fine, tra svariate polemiche, è entrato in vigore. Ventinove sono le giornate in cui è previsto il balzello. Balzello che colpisce saltuariamente, ma ovviamente nei giorni giusti, ossia nelle giornate con maggior affluenza, che coincidono con festività e ponti. Dovranno pagarlo solo i visitatori che si recano nella città in giornata, quindi – bada bene – non coloro che pernottano in laguna, e costerà 5 euro. L’obiettivo è quello di avvalersi di un deterrente economico per scoraggiare quei famosi turisti giornalieri, quelli mordi e fuggi per intenderci, che affollano la città con le gite fuori porta, che nascono e muoiono in giornata. Soglie massime o limiti alle presenze non sono state previste. Ma andiamo con ordine. Passo dopo passo. 

Intanto chi deve pagarlo. Lo devono pagare tutti quelli maggiori di 14 anni che vanno a Venezia in giornata. Il biglietto è obbligatorio se entri in città con qualsiasi mezzo, e quindi in auto, moto, treno, aereo o in traghetto, dalle 8.30 del mattino alle 16, in una di quelle giornate in cui è previsto il contributo d’accesso. Quali sono queste giornate. Come vi accennavamo prima, sono ventinove e sono: domani per l’appunto (25 aprile) oltre che 26, 27, 28, 29 e 30 aprile. Poi: l’1, il 2, il 3, il 4 e il 5 maggio. E l’ 11, il 12, il 18, il 19, 25 e 26 maggio. A giugno, invece, i giorni interessati dal balzello sono: 8, 9, 15, 16, 22, 23, 29 e 30. E a luglio il 6, il 7, il 13 e il 14. Per ora questi, e poi si vedrà, il tutto è in corso di sperimentazione. E per quest’anno, il biglietto non servirà per accedere alle isole minori.  Occhio, perché chi entra in città senza ticket rischia una sanzione dai 50 ai 300 euro, più il costo del biglietto ovviamente, che, lo ripetiamo, è pari a 5 euro. 

Chi non deve pagare invece. Non pagano il contributo (e non devono nemmeno richiedere l’esenzione, che poi vi spieghiamo come si fa) i minori di 14 anni (ovviamente) e i titolari della Carta europea della disabilità e relativi accompagnatori. Non lo devono pagare nemmeno i turisti che pernottano a Venezia, dato che per loro c’è già la tassa di soggiorno da 3 euro, a notte, a persona, ma questi devono essere registrati sul portale della città. Per chiedere l’esenzione invece, si accede sul sito del Comune di Venezia (www.comune.venezia.it), si clicca sopra “Contributo d’accesso” e si scorre fino a “Vai a esenzioni”. Qui, se sei un ospite in un albergo o altra struttura ricettiva, se sei un parente, un residente o nato nel comune di Venezia e in Veneto; se sei un lavoratore (anche gli amministratori in visita istituzionale), uno studente, uno sportivo, un proprietario di un immobile, uno che fa visita in carcere, un volontario, o addirittura se sei un residente a Venezia e devi invitare amici e conoscenti, devi richiedere l’esenzione. Per pagare invece, accedi sempre al portale, clicca su “Vai al pagamento del contributo”, scegli la data in cui vuoi andare, inserisci i tuoi dati, clicca “procedi” e paga. 

Serenella Bettin 

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C’è tutto un sottobosco di guardoni per quelle che non pagano le tasse

Soldi facili come loro. Guadagni vertiginosi come i loro tacchi. Profitti da capogiro come la testa che fan girare agli uomini.
Signori benvenuti nel nuovo regno del porno. Il paradiso dei vecchi. Degli stagionati. Antichi. Decrepiti. Decrepiti dentro.
Sono tornata a indagare il mondo delle escort e stavolta anche delle influencer che fanno soldi su Onlyfans. Correva l’anno 2016 e ancora il mondo non poteva sapere a quali cataclismi e drammi sarebbe andato incontro nel 2020 e così Tim Stokely si metteva in testa la sua meravigliosa idea.
Perché non creare una piattaforma per pubblicare contenuti di varia natura.
A chiunque chiedi come sia nato Onlyfans ti risponde sempre con sta menata colossale delle ricette solo che dopo, le ricette sono diventate bocconcini di panna montata che mostrano le tette, capezzoli turgidi in bella vista, mone al vento, culi in sovrimpressione. Gente che scopa. Gente che va. Gente che viene. In tutti i sensi. Durante la pandemia poi non ne parliamo.
I cornuti e le cornute, costretti a stare in casa, dovevano pur trovare un modo per sprofondare sul divano e costruire una realtà virtuale collettiva, sprofondando e immaginando una vita immaginaria e digitale. Lo sprofondo dello sprofondo.
Chi già trombava poco ha trovato un oppiaceo in questo disturbato marchingegno dove devi digitare un indirizzo mail, inserire i dati della tua carta di credito – l’ho fatto per lavoro – e non appena ti connetti con una – mi sono spacciata per un uomo – ti compare il messaggino vocale sensuale e suadente che dice: “Ciao, hai voglia di conoscermi un po’? Ho un po’ di tempo da dedicarti”. Dopo il primo pompino virtuale praticamente la tipa ti chiede di aprire una foto per la bellezza di 35 dollari. Se la apri il giochino va avanti, altrimenti risprofondi nel divano in cerca di un altro culo.
Solo che così la gente dopo la pandemia ha smesso di trombare e a suon di foto che si aprono e di pompini fatti senza sudare ha detto: sai che c’è. C’è che se posso scopare stando a guardare culi e tette che mi appaiono davanti come fossero caramelle in una bancarella di dolciumi, al diavolo anche trovarsi, spogliarsi, baciarsi, accarezzarsi, amarsi.
La gente, così, ha smesso di amare veramente e trova sollazzo in queste cose adatte a un mondo di masse ormai apatiche scontente infelici fiacchi indifferenti. Ma le giovani regine del sesso spinto, nel mondo reale, ahimè, si sono dimenticate di pagare le tasse. Non hanno dichiarato i soldi percepiti al fisco – e sono tanti – ed è scattata l’indagine. L’accusa è di maxi evasione.
Quando ho parlato al tel con una delle indagate, questa mi ha risposto che ha sbagliato il commercialista e, insomma, “ma quale maxi, sono stati dati numero a caso!”.
Un business quello di Onlyfans che muove 5,6 miliardi di transizioni l’anno. Perché al di là delle ragazze che si spogliano nude, c’è tutto un sottobosco fatto di gente morta, di anime castrate dalla depressione, di esseri mostrificati da questa vita poco vissuta, che stanno lì a guardare. Ed è la legge più antica del mondo: dove c’è l’ offerta c’è anche la domanda.
Un mondo di guardoni che magari la mattina dopo te li trovi al bar incravattati.
A cui dirai: “Hai sentito di quella indagine su Onlyfans?”.
“Che brutta cosa”, ti risponderanno.

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Più bestia dell’orso, c’è soltanto l’uomo

Jurka (madre di JJ4), trasferita nel 2010 nel parco della Foresta Nera

Era andato a fare una corsa nei boschi vicino casa, a Caldes. Provincia di Trento. Ma nella discesa era avvenuto l’incontro con Jj4. Dapprima lui aveva cercato di fuggire, poi di difendersi. Ma è stato tutto vano. L’orsa l’ha aggredito e Andrea Papi, 26 anni, è morto. Era il 5 aprile scorso.

All’indomani della sua morte i suoi social, tra i tanti commenti di dolore e condoglianze, erano stati riempiti di offese e insulti. I parenti hanno denunciato e ora ci sono 18 indagati.  Un malcostume sempre più diffuso quello di prendere posizione nei social, di parlare di cose senza averle viste. Nel dibattito becero e superficiale che dimentica di scavare il possibile e il difficile equilibrio tra la natura e l’uomo, c’era chi sosteneva che era stato Papi a invadere la terra dell’orso e chi sosteneva che era stato l’orso a invadere la terra di Papi. Quando accadono queste cose, come in una grande partita allo stadio, gli utenti del web si dividono in tifoserie e non c’è verso di fermarli. 

La morte di Papi aveva esasperato i toni, mettendo in risalto la natura di noi esseri umani – a volte più orsi degli orsi stessi – facendo emergere meccanismi perversi e manipolatori. Chi aveva seguito i social in quelle settimane poteva rendersi conto di come qualunque persona potesse dire la sua, arrivando a calpestare il dolore di una famiglia. Ma il terribile dibattito, diviso tra chi vedeva l’orso come Yoghi e il runner come carnefice, era carico di odio. Molti avevano insultato e offeso quel ragazzo costringendo la famiglia a scrivere una lettera.

“Visto il comportamento degli haters – avevano scritto – la famiglia ritiene ora di dover tutelare la memoria di Andrea richiedendo all’autorità giudiziaria di verificare la correttezza o meno di ogni singolo commento postato in rete da coloro che, senza rispetto alcuno per la memoria di Andrea, lo descrivono nei modi più beceri. La famiglia Papi, che ama gli animali e la natura, ha sempre chiesto rispetto e giustizia per sé e per Andrea”. Per i familiari, l’odio riversato era come “un secondo dolore derivato dalla moltitudine di commenti aggressivi, sconsiderati e denigratori della memoria di Andrea”, che, a detta di genitori, sorella e fidanzata, “muore per la seconda volta, vittima ora non tanto dell’orso ma dei leoni da tastiera”. E di leoni infatti, più che di orsi, ce ne sono tanti. Tanto che ora la procura di Trento ha chiuso le indagini e ci sono 18 indagati per diffamazione. Tra queste c’è anche Daniela Martani, ex hostess Alitalia e personaggio televisivo e radiofonico. Martani ha scritto su Facebook: “Sono stata denunciata dalla famiglia di Andrea Papi, il ragazzo ucciso dall’orsa (?) per aver espresso un parere che metteva in dubbio la veridicità della questione, una follia. Ormai la denuncia per diffamazione è diventata un’arma per intimidire chi contesta o ha una visione diversa dei fatti. Chiunque sia stato denunciato, mi contatti, ho già messo in piedi una strategia legale con il mio avvocato che può difenderci in blocco”. La Martani ha chiesto aiuto per una tutela collettiva. Ma dinanzi a questo, la fidanzata di Andrea, Alessia Gregori, non ha esitato a farsi sentire e nei suoi social ha scritto: “Adesso chiede solidarietà, invece sarebbe necessario collegare il cervello prima di parlare, invece che piangere sul latte versato adesso è ora di pagare tutto il dolore che avete causato, tu e tutti gli altri”. La Martani è stata denunciata per aver messo in discussione la veridicità dell’accaduto. Definendo la morte di Papi una “speculazione del dolore” e affermando che l’animale non avesse colpe. E c’è un altro post che all’epoca fece discutere. Scrive la Martani il 20 aprile scorso: “Andrea Papi non era andato a correre ma si era addentrato nel bosco per cercare l’orsa con i cuccioli e fotografarli? Guardate l’ombra nel suo ultimo video postato poco prima di morire. Si vede chiaramente che indossava un cappotto da appostamento pesante”.

Ieri, dopo la chiusura delle indagini, la Martani scrive così: “La fidanzata di Andrea Papi è una ragazza piena di odio e livore, rispecchia in pieno la personalità di chi è stato rieletto in Trentino. Vuole a tutti i costi vendetta”. Poi il post è stato cancellato.

Serenella Bettin

Libero 14 marzo 2024

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Mestre: un quartiere in mano agli stranieri

Una laterale di via Piave

Davanti a me ci sono cinque uomini. Cinque africani. Uno sta dietro al bancone del bar. Gli altri quattro siedono su dei tavolini luridi unti bisunti e malconci. Sono lerci di untume e di grasso. Non mi fido a entrare. Cerco un bagno. Ma decido di andare nell’unico hotel che offre una garanzia di sicurezza e una parvenza di normalità. Sono a Mestre. Zona stazione. Quartiere Piave. Nel bar con i tavolini luridi unti bisunti e malconci. Lerci di untume e di grasso, fanno pure le insalatone. Ci stanno due tabelloni fuori con scritti gli ingredienti e i prezzi che a guardarli – gli ingredienti – mi viene male. Chissà se qui fanno i controlli penso. Poco più in là ci stanno due spacciatori. Spacciano. Cercano clienti. Li vedi che hanno gli occhi guardinghi. Procedono con passo felino. E lanciano occhiate agli altri due che fan da vedette. Funziona così qui. In pieno centro. Con un quartiere totalmente in mano agli stranieri. Percorro via Piave una due tre volte, avanti e indietro indietro e avanti. Qui i negozi italiani, quei pochi coraggiosi e temerari, li conti sulle dita di una mano. Gli altri sono tutti pieni di immigrati. Bengalesi. Africani. Cinesi. C’è il negozio di elettronica che parla mandarino. Il negozio di vestiti che veste China. Il parrucchiere bengalese. Il negozio di souvenir di Venezia che di Venezia non ha nemmeno il nome. In giro si vedono uomini con il turbante in testa. Donne velate che procedono passo passo con infilati addosso orrendi sacchi neri. Ci sono ragazze che indossano occhiali da vista moderni, scarpe alla moda, jeans, ma sopra sono ricoperte da quella stoffa che pare tanto una tenda. Ci sono i bar tenuti da nordafricani. Dentro non ci entra nessuno. Se non loro. Una donna africana con la tuta rosa e un borsone esce da un locale, sta gridando al telefono con qualcuno. Blatera qualcosa che non capisco. Poi le si avvicinano altre due donne. Anche loro di colore. Anche loro con quel volto perso nel vuoto, incapaci di vedere un futuro. Accanto mi passa una ragazza bionda. Bella. Alta. Dell’Est. Indossa un piumino corto. Jeans larghi e una borsa di stoffa con dentro dei libri. Alcuni ragazzini sfrecciano in bicicletta ficcandosi in alcune vie laterali. Entro da un tabacchino per prendere le sigarette ma la donna, che non capisco se sia thailandese, peruviana, o cosa, non mi ascolta. È troppo intenta a parlare e urlare al telefono, che quando le chiedo “Rothmans slim” per favore, mi dice che non ci sono nemmeno. In realtà sono dietro al bancone. Qui si consuma il suicidio di civiltà dell’uomo. Vite ai margini, esistenze sul bordo di una finestra che dà sul vuoto, sguardi persi, defraudati esclusi, masticati dalla vita e dalle promesse di un futuro migliore. Sono quelle persone che vivono nell’ombra, in una città in cui cresce l’indifferenza.

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La baruffa chioggiotta per la casa agli immigrati

Libero 13 marzo

La lite emersa tra la nota immunologa Antonella Viola e la Cgil, su di chi sia il merito per aver trovato la casa a una famiglia di immigrati, sembra la storia di quello che fa la carità in chiesa e sulla busta ci mette il suo nome, così da far sapere al prete che il donato proviene da lui. Una classica storiella all’italiana dove quando si fa del bene non lo si fa per farlo, ma per dire che lo si è fatto. Il caso dell’aiuto ai comuni terremotati, per esempio, seguito dal comunicato stampa. Del resto, questa è l’Italia, bellezza.

Ma cosa è successo. 

La storia risale all’autunno scorso. Siamo a Padova. E una famiglia di tunisini fatica a trovare casa. Lui è un operaio edile. Lei ora ha da poco trovato lavoro come cameriera. E insieme hanno due bimbi piccoli. Quando sono arrivati in Italia erano stati inseriti nel sistema di accoglienza, solo che poi lui ha trovato lavoro con tanto di contratto con una ditta del padovano e quindi il Cas che prima li aveva accolti, li ha poi “rilasciati” per strada. Per mesi hanno faticato a trovare casa, arrivando a dormire anche in auto. O a giacere davanti a un bar, così da poter scaldare l’acqua per il latte in polvere della figlia più piccola. Poi la macchina della solidarietà si è mossa e la famiglia ha finalmente trovato una abitazione. 

Ora, la notizia dovrebbe essere che questi due bambini e i loro genitori finalmente hanno un tetto sopra la testa e invece no, perché, nel mondo dove contano più i like che la sostanza, è diventata una baruffa – quasi chioggiotta alla Goldoni – tra chi ha fatto cosa e perché. 

La storia della famiglia è stata raccontata sul portale Collettiva.itdella Cgil nazionale, lunedì scorso, e fa così: “Haddad e Asma hanno due bambini piccoli. Vengono dalla Tunisia, lui è un operaio edile, lei ha da poco trovato lavoro come cameriera. Sono usciti dal sistema di accoglienza perché Haddad ha firmato un contratto per una ditta dell’alto Padovano, eppure per mesi non sono riusciti a trovare una casa per loro e per i loro figlioletti”. E fin qui tutto. Ok. Solo che poi la Cgil ha scritto: “Poi la Fillea Cgil, insieme a Caritas e Avvocati di strada, è riuscita a trovare una soluzione”. Da qui apriti cielo. Antonella Viola nel leggere queste parole è sbottata. Forse giustamente. E ci ha messo il carico da 90. 

“Avevo deciso di tenere questa cosa assolutamente privata e riservata – scrive la Viola nella sua pagina Facebook- ma oggi l’indignazione è tale che mi sento di raccontare la verità. Io e mio marito abbiamo tolto dalla strada la famiglia di Asma, portandoli dapprima in casa nostra, dove abbiamo convissuto per un mese, e poi comprando un appartamento che andasse bene per le loro esigenze per poterlo affittare a un prezzo onesto. Non ho mai visto la Cigl, né la Caritas né alcuna altra associazione. Ho speso tantissimo tempo nel girare di agenzia in agenzia per trovare una soluzione confortevole, rapida e alla portata delle mie risorse economiche. La situazione di questa famiglia l’abbiamo risolta io e mio marito, senza ricevere alcun aiuto. Ho voluto farlo in silenzio perché le cose importanti non si fanno per raccontarle ma per il loro valore. E mai ne avrei parlato se non avessi letto queste falsità. Assurdo speculare sul dolore. Assurdo prendersi meriti inesistenti”. 

La Viola inoltre ha anche ripreso parte della nota della Cgil scritta nel sito Collettiva.it, commentando: “Bellissimo, peccato che sia tutto falso”. Così la Cgil ha corretto il tiro aggiungendo all’articolo le parole: “Una soluzione si è trovata grazie all’interessamento di una privata cittadina”. Insomma da un lato la Cgil che dice che si sono adoperati loro per trovare casa a questa famiglia. E dall’ altro la Viola che rivendica la paternità dell’opera pia compiuta con il marito Marco Cattalini. La Cgil quindi si è scusata e la Viola nella serata di lunedì ha scritto: “Per correttezza voglio farvi sapere che abbiamo ricevuto le scuse da parte di Fillea Cgil per il testo poco opportuno col quale si accompagnava per altro un video molto importante. Va bene così. Da parte mia sono solo felice di aver dato una mano a una famiglia nel momento del bisogno. Quindi buon lavoro a tutte le donne e gli uomini di buona volontà”. La Cgil poi ha fatto sapere che c’è stato un malinteso e che loro volevano solo accendere i riflettori sul tema dell’emergenza abitativa. Solo che ora i riflettori si sono accesi su un’altra questione. E invece per noi Viola o Cgil poco importa. La cosa essenziale è che questa famiglia ora abbia un tetto sopra la testa. 

Serenella Bettin 

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Perdonali Gino. Il mondo è pieno di odiatori

Gino Cecchettin

Perdonali Gino.
I commenti denigranti e denigratori su Gino Cecchettin, il padre di Giulia trucidata in quel modo da quello che avete descritto “un bravo ragazzo” “le faceva i biscotti”, mi hanno fatto venire i conati di vomito.
Del resto c’era da aspettarselo in questo Paese di rosiconi, che odia tutti, perfino il vicino che ha l’erba più bella.
E in quel Paese che ora venderebbe la madre pur di avere un millesimo della visibilità che hai tu Gino, non capendo che, tu Gino, di questa visibilità avresti fatto volentieri a meno. Che avresti preferito non averli i giornalisti davanti casa a tutte le ore del giorno e della notte per un mese, ricordandoti ogni secondo che tua figlia è stata ammazzata.
Volevi startene lì tranquillo in quella casa di campagna, in quel paesello tranquillo di quel fazzoletto di terra che è il Veneto. Fare le tue cose, lavorare, curare il tuo giardino, dar da mangiare al cane. E invece il destino si è messo di traverso. E tu ne hai tratto insegnamento, dando una forma e un volto al tuo dolore e scrivendone un libro.
Ma questo agli odiatori sociali non va bene.
Ho letto di quelle cose così talmente orrende e mostruose che davvero mi chiedo se dietro le tastiere ci siano degli uomini o degli animali.
Perdonali Gino.
Perché forse il fatto di stare dietro a uno schermo li rende asettici, freddi, insensibili.
Perché la gente è così.
Odia le persone senza un motivo, scarica tutta la sua rabbia prepotente e arrogante su un mezzo con le luci riflesse e non si accorge che dall’altra parte c’è un essere umano. Una persona. Che vive. Respira. Ama. Si innamora. Soffre. Cade. Si rialza.
E soprattutto le persone parlano di storie che non conoscono, di uomini e donne che non hanno mai visto, di argomenti seri che non approfondiscono, trattandoli come fossero chiacchiere da bar, imperversando come fossero scimmie parlanti.
Io mi ricordo di Lei (ora Le do del Lei) fuori da quella casa e dentro quel bar. Mi rimase impressa la sua garbatezza e delicatezza nel dirmi che in quel momento non mi voleva parlare. E mi colpì quella sua calma quando per un mese ha avuto giornalisti da tutto il mondo fuori casa. La riprendevano anche se andava a portare via le immondizie. Milioni di persone incollate alla televisione per vedere se per caso quel giorno fosse uscito a portare fuori il cane e ora quelle stesse persone la odiano perché lei ha dedicato un libro a sua figlia ed è andato a presentarlo da un noto conduttore.
Quale atrocità ha commesso Gino. Quale.
Ma la gente non sa. Non capisce.
Imbalsamata nelle loro posizioni, ingessata nei loro stereotipi, rincitrullita dai social; la gente nemmeno si pone il problema di cosa possa significare per un padre perdere la figlia in quel modo. E la moglie due anni fa. La gente non lo comprende. Stenta a capirlo. Nemmeno ci prova. Non prova empatia. Tatto, sensibilità. Veniva lì fuori casa a curiosare. A cercare di soddisfare la propria curiosità morbosa. E poi. Poi quando avrebbe bisogno di sostegno le dà la zappa sopra i piedi.
Odiatori. Frustrati. Avviliti. Depressi. Anemici. Finti. Invidiosi.
La gente non sa che ogni mattina le manca il fiato e la sera quando va a dormire anche. Non sa che scrivere serve a elaborare il lutto. A vivere due volte. A far rivivere.
Almeno, lasciatelo in pace.
Un padre che perde una figlia ha tutto il diritto di scrivere un libro, di presentarlo, di ricamarlo, di diffonderlo.
O volete togliergli anche questo?

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“Prima almeno fammi pisciare”

Udine centro

“Prima almeno fammi pisciare”.

Entro in un locale a Udine che saranno le quattro del pomeriggio. È appena uscito il sole e vedo gente in maniche corte. Come è bizzarra la vita. Esci di casa col temporale, con l’acquazzone che non lascia scampo nemmeno ai tombini che si riempiono tutti, e ti ritrovi dopo qualche ora e qualche madonna di troppo col sole primaverile che quasi spacca le pietre. Qui la gente ha già iniziato a fare l’aperitivo. “Ci sarà un motivo” mi disse una volta uno dei miei più cari amici che fa il medico “se le cliniche per i trapianti di fegato sono tutti al nord. Sarà che i beoni sono tutti lì”. “Può essere”, gli avevo risposto. Ma all’epoca ancora non mi interessavo dei risvolti sociologici della città. Detta tra noi. Me ne sbattevo altamente il cazz. E vivevo meglio. Insomma vedo sta gente che alle quattro del pomeriggio di pieno lunedì fa l’aperitivo che si preannuncia bello lungo. Ordino un caffè. La troupe anche. E mi infilo un attimo in bagno. Con la coda dell’occhio continuo a fissare quella ragazza che mi sta dietro e che continua a guardare lo schermo del telefono con davanti un bicchiere di rosso. Sembra abbarbicata qui da tempo. Ha le labbra carnose. I capelli che le cordonano il volto. Una salopette di jeans. E sotto indossa una maglia gialla. Che tristezza penso. Qualunque sia il motivo del suo essere così da sola, così davanti a quel vino rosso, credo non ne valga la pena. Soprattutto se fosse un lui. Vorrei andarglielo a dire ma la mia discrezione per le storie degli altri mi impone di rimanermene zitta. Vado in bagno e ci sono quelli con la turca. Dopo di me entra un padre con il figlio e veramente non capisco come faccia a farlo pisciare lì. Esco dal bagno e all’improvviso la gente inizia ad arrivare a frotte. Non capisco nemmeno dove vadano. Chi ordina un prosecco. Chi un rosso. Chi uno spritz. Chi pane salame e quant’altro. Davvero non capisco come facciano a mangiare e bere tutto quello e sono solo le quattro del pomeriggio.

Un uomo fuori, con la pancia da birra, si è appena levato la felpa. Ora boccheggia in maniche corte tracannando vino bianco a più non posso. Un altro indossa un cappello e mi pare già abbasta su di giri. Mi avvio verso la stazione dei pullman. Sono qui che stanno le baby gang. Così le chiamano gli studiosi dei fenomeni sociali che etichettano le persone, funziona un po’ così. Li prendi e li incaselli dentro a dei riquadri e poi vedi se hanno le stesse caratteristiche. Ma di baby questi, non hanno proprio niente. Catene ai Jeans. Orecchini. Capelli tirati. Laccati. Accenti a noi sconosciuti. Parole in arabo. Dove non capisci una mazza. Appena mi avvicino a un ragazzo questo si alza in piedi e mi dice: “Scusi, scusi”. Cacchio penso devo fare proprio così paura. Così mi raccontano che sono egiziani. Che vivono in comunità. Che vogliono i documenti. Che stanno dentro la casa accoglienza. Ma che vogliono andarsene per lavorare e fare soldi. Poi ci sono i tunisini. Qui fanno le risse quasi ogni giorno. Faccio un giro, paro con gli autisti degli bus. Con i controllori. Le persone. I pendolari. Quelli che vanno a lavorare. Quelli che tornano dallo studiare. La gente ha paura. Torno indietro. I ragazzini si sono messi difronte a me. Urlano qualcosa in arabo che con tutta la mia più buona volontà fatico a comprendere. In questa babele di lingue mi viene in mente quell’altro. Quell’altro di prima. In dialetto stretto: “Prima almeno fammi pisciare”.

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Vannacci paragona i genitori alle scarpe e alle ciabatte

Sinceramente spero vivamente che si smetta di parlare del neo divo generale Vannacci. Lo spero vivamente. Non mi sta nemmeno simpatico, neanche un po’. Troppo autoritario per me, troppo illiberale e intollerante. Troppo indirizzatore di un percorso delineato da lui. Con me non resisterebbe nemmeno mezzo minuto. L’ho intravisto qualche volta in televisione e non mi è parso un granché, anzi, quando si è trattato di dare una mano al gioielliere di Cuneo non mi pare si sia sbracciato. Se ne stava ingessato senza dire niente davanti a una persona che sperava almeno in una pacca sulla spalla. Ma ho notato che alla gente in realtà di come stai e cosa stai passando frega poco niente. Con il suo fare austero e fermo e inflessibile – io personalmente non lo avrei voluto nemmeno come mio migliore amico. Manco come capo da cui imparare qualcosa. Dato che se uno limita la tua libertà, non è libero nemmeno lui – ecco dicevo con il suo fare austero rigidamente fermo e inflessibile, parla di un mondo al contrario senza sapere quale sia quello dritto. E che non sia libero nemmeno nelle sue posizioni lo si è visto dalle teorie espresse. Che secondo me non avrebbero dovuto manco essere riprese.

Uno che paragona i genitori alle scarpe e alle ciabatte, tanto basta.

“Gli otto miliardi di persone che sono al mondo sono nati da un uomo e da una donna: perché privare i bambini del diritto di avere un padre o una madre? Certo, uno può perdere un genitore in un incidente, o per un divorzio. Ma se faccio la maratona parto con due scarpe, non con una scarpa e una ciabatta. Io, come molti, cerco di orientare le mie figlie verso l’eterosessualità”, ha detto ad Aldo Cazzullo in un’intervista pubblicata sul Corriere della Sera.

Un libro dove lui parla in modo abbastanza impositivo a tratti anche volgare di omosessuali, immigrati, ambientalisti, trans, prendendo come esempio quello che lui definisce “normali”, mi chiedo normali rispetto a cosa. Parole diciamocelo qua indifendibili per un uomo in carica alle Forze Armate. Perché hai poco da dire che Vannacci esprime la maggioranza silenziosa – sono tutti silenziosi quando c’è da tirar fuori le palle – con la finta illusione di poter dare nutrimento a un pensiero alternativo alla minoranza rumorosa. Oggi per esempio girando un servizio, ben due testimoni che avevo beccato hanno deciso all’ultimo di tirarsi indietro quindi davvero credetemi non capisco come certa gente possa adorare Vannacci e comportarsi da coniglio. La verità è che Vannacci rappresenta se stesso, tanto da apparire su Chi in copertina e con la posa da velina di chi spruzza l’acqua con la gamba, interessato solo alla sua figura e alla sua persona. Alla gente appare come una guida, un guru uscito dalle trincee della guerra e dai covi più austeri delle istituzioni che la gente si chiede perché mai non abbia parlato prima. Il suo libro che non è libero in quando limita la libertà altrui, è una efficace operazione di marketing per dar da mangiare alla popolazione sfolta e denutrita di buon senso credendo che i maggiori problemi del nostro paese possano essere relegati in alcune pagine spiegate solo attraverso le teorie di un essere umano che vorrebbe mettere le museruole a chi la pensa in modo contrario, che vorrebbe imporre la sua posizione, che vorrebbe cordonare le varie scene del crimine da lui descritte. Una volontà di non tenere conto dello scorrere del tempo, dello spazio, dei confini che non sono più confini ma linee da maneggiare e destreggiare con cura perché è ovvio che non ci stiamo tutti che gli italiani non fanno più figli ma è anche ovvio che quelli all’ Esselunga che sono morti erano romeni venuti in Italia a fare certi lavori che ahimè gli italiani non sanno più fare. Una cosa mi dispiace ed è vedere che ancora i media danno spazio al generale invitandolo ovunque usandolo come ariete – e lui non se ne rende conto – e accendendogli i riflettori addosso che se non sta attento tra un po’ si brucia. Vannacci è libero di pubblicare tutte le prodezze che vuole, di scriverle, di pensarle, di partorirle, può anche metterci nove mesi per partorire i suoi pensieri, può anche fare studi sul genoma dei gay e mettersi a studiare medicina e chirurgia o biologia ma se smettessimo di dargli così tanta visibilità Vannacci rimarrebbe uno come tanti che ha sentito il bisogno di esternare il suo pensiero spacciandolo come fosse anche quello degli altri.

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Bologna, la Dotta: qui lo spaccio è a cielo aperto

Bologna febbraio 2024

La tipa che mi sta davanti ha la gola tagliata. Si muove con fare spagnolesco e continua a ripetere che dentro di lei c’è un mostro. “C’è un mostro dentro di me”, farnetica in preda alla droga e ai fumi dell’alcol. “Guarda la mia gola tagliata”, fa a quell’altro che gli sta davanti in piedi. Lui indossa una pelliccia marrone fino ai piedi. Lei indossa un giubbino nero e quando va a testa in giù per scacciare il mostro, il giubbino le copre la testa, le scopre la pancia e lì inizia la sua danza. Comincia a roteare e inarcare il corpo e poi ad avere una specie di convulsione che non riesco a capire bene, perché avvicinarmi pare impossibile. Fino a due minuti prima si stavano cucinando il crack, lì in pieno centro, in pieno giorno, in una laterale di via Zamboni, il cuore della città universitaria di Bologna. Mi fermo a parlare con qualche residente e becco due genitori che sono andati a trovare la figlia. La figlia studia qui a Bologna. I genitori vengono dal Sud, cari i genitori che fanno studiare i figli, e mi dicono che sono qui in trasferta. La madre mi dice che non sembra una zona tranquilla, la figlia invece, capello corto sbarazzino orecchino al naso e alla bocca, molto più aperta e globalizzata mi dice che sì, che non c’è niente di male, che alla fine quei due sono due persone senza tetto che hanno solo bisogno d’aiuto.

L’aiuto, chi glielo dà l’aiuto. Viviamo in un mondo dove tutti sono pronti a farsi i cazzi degli altri, ma se sei un poveraccio e tiri a campare, per la società sei un rifiuto, un fallimento, un morto di fame e meriti di fare la vita che fai. Che pena questo mondo così schifoso. Faccio due metri e mi ferma un ragazzo di colore. Vuole vendermi fumo, roba, maria, hashish, droga, coca. “Come – gli dico – così qua a cielo aperto, voi spacciate?”. Mi sembra di essere Salvini, non ci voglio manco pensare, e quindi con fare più accomodante gli chiedo se fanno così tutti i giorni. Mi risponde: “Sì, certo”. “Ma sempre?”, “Sempre”. Gli dico che non voglio niente. Accanto a noi ci sono due ragazzi che suonano il djambè, quel tamburo a calice che usano in quei Paesi tipo Mali, Guinea, Costa d’Avorio, Senegal. Le mani che battono sopra il tamburo, una canna, la droga che scorre a fiumi e quelle bottiglie di birra che si ammucchiano a ogni minuto. Una. Due. Tre. Quattro. Cinque. Mi incammino verso i portici della zona universitaria, qui siamo nel cuore di Bologna, la Dotta. Ma faccio cinque passi che mi ferma un ragazzo. “Fica, fica, fica”, comincia a dirmi. E un altro. “Dove vai? Vuoi fumare? Vieni qua”. Dopo un po’ decido di andarmene e mi trasferisco in zona stazione. Le sentinelle dello spaccio sono a ogni dove. Si muovono con fare felino, furbo, a tratti perfino mansueto. Qualcuno ti ferma per venderti hashish. Venti, trenta, quaranta, cinquanta euro. Qualche altro per venderti maria. Qualche altro finge che sia tabacco e ti chiede se vuoi fare un tiro. Poi, mentre mi addentro in un parchetto isolato, al buio, con la scorta che mi controlla da lontano, incrocio un ragazzo e mi ci fermo a parlare. Mi dice che lui non ha i documenti, che è irregolare, che non trova lavoro se non lavorare in nero. “In nero? E lo trovi il lavoro in nero?”. “Certo che lo trovo”, mi dice. “Trovo sempre qualche giardiniere o qualche muratore o qualucuno che monta scale che mi dà da lavorare”. Eccoli penso. Eccoli i farabutti del lavoro. Quelli che gli immigrati non li vogliono, ma che se serve loro per evadere il fisco allora vanno bene anche gli stranieri, meglio se non parlano italiano così almeno possono sfruttarli meglio.

Poi poco più in là ci sta un tipo. Mi parla in arabo. Grazie alla scorta riesco a capire che voleva vendermi roba grossa, tagliata fina, roba buona, dama bianca, polvere sottile. Sullo sfondo una banda di ragazzini ha cominciato a fare casino: “Arrivano i serpenti”, dicono. “Arrivano i serpenti”. I serpenti per loro sono i poliziotti. Uno mi si avvicina. Mi chiede se sono una sbirra. Ormai si è fatta notte. È sceso il buio. Mi guardo attorno, la città si è dissolta lasciando posto ai colori notturni e ai luccichii di quelle poche auto rimaste che si specchiano sulle pozzanghere della pioggia appena caduta. I lampioni smorzano la luce, le luci delle case a poco a poco si spengono. In giro rimangono soltanto loro. Senzatetto, tossicodipendenti, sbandati, persone a cui la vita non ha ancora concesso un riscatto. E noi. Qui a riprendere e documentare. Mi volto, mi guardo in giro, mi accendo una sigaretta. Sono tesa. Il giorno dopo devo andare a incontrare lo stupratore, ma questa è un’altra storia…

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