Le bollette alle stelle e la politica che fa?

Perché anziché ciarlare e intavolare squallide scatologie, dal greco skatós “cacca” e lògos “discorso”, non parliamo di quella cartiera nel Polesine che ha ricevuto una bolletta di 9 milioni di euro. Nove milioni capite.
Nove milioni.
Con gli stessi consumi dell’anno scorso.
Anzi l’anno scorso erano pure un pochino di più, solo che la bolletta non era di nove milioni per il mese di luglio ma di 2 milioni e 350.
In sei mesi 44 milioni, contro gli 11 del 2021.
Con questi costi conviene stare fermi.
E infatti per i mesi di luglio e agosto, La Cartiera del Polesine, ha dovuto stoppare le quattro linee produttive: troppo oneroso continuare.
Una società che dà lavoro a 180 dipendenti, e chissà quante famiglie, con 115 milioni di fatturato, con 350 mila tonnellate di carta lavorata.
I dipendenti diretti sono stati messi in ferie obbligate. Onde evitare di ricorrere alla cassa integrazione che tanto si sa, arriva con i tempi dello Stato, cioè mai.
Se lo Stato avanza soldi da te, tu glieli devi dare subito pena sanzioni more interessi.
Ma se sei tu che avanzi soldi dallo Stato campa cavallo che l’erba cresce. Uno fa in tempo a morire. Ad ogni modo.
La situazione per le imprese è allarmante. Ne avevo scritto ancora in tempi non sospetti, quando qualcuno mi diceva: “Impossibile”. E invece avevo ricevuto la notizia di una cartiera a Lucca a cui era giunta una bolletta di 1, 6 milioni di euro.
La Confesercenti l’altro giorno ha parlato di 90 mila imprese a rischio. Con 250 mila lavoratori che potrebbero rimanere a casa.
La Confcommercio addirittura parla di 120 mila realtà che potrebbero saltare. Il prezzo del gas è diventando insostenibile. E molti dopo le ferie stanno pensando addirittura di non riaprire. Qualcuno dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza.
Ma mi raccomando continuate a frignare, a saltabeccare da un argomento all’altro e soprattutto a terrorizzarvi per i fascisti ormai morti e sepolti.

#sbetti

Basterebbe studiare Diritto Costituzionale

Chiara Ferragni

Basterebbe aver studiato o studiare – si è sempre in tempo – diritto costituzionale.

Tra le ultime battaglie radical chic della Cheerleader de noantri, c’è quella secondo cui nei paesi governati dalla destra sarebbe praticamente impossibile abortire. Ora io non so sinceramente dove la Ferragni abbia preso queste informazioni, se tra un selfie, un gelato, o un vestito ultimo modello, e se forse non sapendo cosa dire abbia fatto quella sparata per sollevare una polemica da leggere sotto il solleone. Ma conosco le Marche e le cose stanno decisamente in modo diverso.

Insomma la Ferragni sostiene che nelle Marche, da quando governa il partito della Meloni, per le donne è diventato impossibile praticare l’ aborto. Ma la Ferragni non sa quel che dice. Siamo completamente fuori dai gangheri. Intanto quella legge che tutela l’aborto, la 194, è una legge dello Stato che non si tocca e non è che una regione domani mattina si sveglia e decide di non applicarla.

Basterebbe aver studiato un po’ di diritto costituzionale dato che se hai 27 milioni di followers almeno ti dovresti informare. Ci sono materie che non possono essere oggetto di una legislazione regionale, dicesi legislazione quella cosa per cui fanno le leggi, e manco concorrente – dicesi concorrente ossia quando la competenza è divisa tra stato e regioni – ma che sono di competenza esclusiva statale. Basterebbe studiare. E se non si ha la voglia o la capacità di affrontare certi argomenti, basterebbe leggere i dati.

I dati vengono dall’ultima relazione del ministro Speranza. Non da Mu’ammar Gheddafi. E dicono che sull’attuazione della 194 (dati 2020) risultano 1.351 interruzioni di gravidanza negli ospedali marchigiani su 9.326 nati vivi, quindi uno ogni sette bambini venuti al mondo a cui è stata tolta la luce. Ma non è questo il punto. Con una media di 3,7 aborti al giorno e un tasso di abortività di 4,5; quando la media nazionale è 5,4. Non solo. Tra i ginecologi marchigiani obiettori di coscienza la media è del 70% (media Italia: 64,6), mentre l’interruzione di gravidanza è disponibile nel 92,6% delle strutture sanitarie, contro un dato nazionale del 62%. Davvero la Ferragni non sa quel che dice.

Serenella Bettin

“Chi arriva ultimo ha il caz.. floscio”

“Chi arriva ultimo in acqua ha il cazz.. floscio”.
Wow. Obiettivamente non avevo mai sentito questa espressione così erudita ed elegante. In effetti è una legge fisica quella per cui chi arriva ultimo in acqua ha il pene che non gli tira. Ebbene. Oggi ero in spiaggia e mi sono imbattuta in questi ragazzini.
La gente che mi conosce sa quanto io odi il mare d’estate con le persone. Questi immensi puttanai artistici piastrellati da gente con i culi di fuori, i lembi di pelle che fuoriescono ovunque e i peli che non stanno dentro le mutande.
Ma quella del “cazzo floscio se arrivi in acqua per ultimo” ancora non l’avevo sentita.
Una sfida goliardica certo, se non fosse che questa marmaglia, il nostro futuro praticamente, coloro che un domani saranno i nostri medici, avvocati, ingegneri, politici – Dio ci salvi – ecco questa accozzaglia ha passato praticamente tutto il pomeriggio a infastidire le persone che dormivano o trovavano sollazzo beatamente al mare.
Uno correndo con i piedi storti perché questi non sanno manco più correre, mi è salito sopra l’asciugamano, sollevando una cosa come immensi nuvoloni di sabbia.
Gli ho chiesto dove pensava di essere, se, forse immedesimandosi troppo nella parte, fosse convinto di essere allo zoo e mi ha risposto bestemmiandomi in faccia. Dopo la bestemmia ce n’è scappata un’altra e poi anche un rutto. Pace. Poco male. I rutti degli altri non mi toccano. Ma alla fine siccome non mi levavo dai piedi e ostruivo loro il passaggio – quando mi ci metto so essere stronza fino alla ennesima potenza – se ne sono dovuti andare.
Ora scusate ma una cosa mi frulla nella testa. E cioè dove siano i genitori. Non che padri e madri debbano seguire i figli alle calcagna ma io quando avevo 14 anni non me ne andavo in spiaggia col desiderio di infastidire la gente e lanciare sabbia sulle chiappe del culo alle signore impomatate con i capelli tinti che sembrano lilla. I rutti poi, siccome la birra non mi è mai piaciuta, mi venivano anche male.
Quando andavo in spiaggia a 14 anni me ne stavo per i cavoli miei, senza dar fastidio a nessuno, se non a coloro i quali davano fastidio a me. E la sera quando rincasavo e mi guardavo allo specchio stavo bene con me stessa perché a parte le grandi rivoluzioni che ho sempre sognato e i miei nobili 8 in condotta, non avevo mai sputato in faccia alla gente e mi ero sempre comportata bene. Detto questo mi chiedo a chi lasciamo il mondo. Se non sia il caso di ripensare a un’educazione di questa gentaglia che si appresta a lanciarsi nel futuro. La seconda cosa che mi chiedo invece è perché mai continuo ad andare al mare a ferragosto in mezzo al puttanaio di persone.

#sbetti

È bello questo lavoro. Contaminarsi e contaminare

Offagna – agosto 2022

Molte volte penso che se non avessi fatto questo lavoro, probabilmente avrei fatto l‘assistente di volo. Non so perché. Mi ha sempre affascinato.
O la poliziotta.
In effetti, mi sono iscritta a Giurisprudenza per diventare commissario di polizia, giudice, magistrato, pubblico ministero. Poi quando ho capito di che pasta è fatta la magistratura e quando il giornalismo si è accorto di me e io di lui, amore a prima svista, allora ho deviato.
Ed è stata la deviazione più bella della mia vita. Quella che rifarei mille altre volte. Quella che non ti fa guardare l’orologio quando stai lavorando. Scrivendo. Vivendo. Cibandoti di ossigeno.
Quella che batterei ancora e ancora e ancora, anche su una strada non battuta.
Del resto, manco la mia era battuta.
Me la sono percorsa tutta, passo dopo passo, metro dopo metro, centimetro dopo centimetro. Quante volte l’ho battuta quella strada. Avanti e indietro. Indietro e avanti. Quante volte l‘ho rifatta, calpestata, sviscerata, scarnificata. Quante volte ho riso, ho pianto, ho gioito, sono stata contenta, delusa, affaticata, ma viva.
Come oggi.
Oggi da qui si stava veramente bene. Offagna. Non ci ero mai stata.
Con i suoi 2 mila abitanti se ne sta aggrappato a 300 metri lungo la Riviera del Conero, che se li sali tutti ci puoi vedere il mare, le colline, quelle enormi distese di prati colorati di verde e di campi coltivati che accarezzano il cielo, che appena ci sali e domini il territorio ti senti quasi mastodontico, a tratti piccolo.
Quelle enormi nubi che sanno di spumiglia.
Entrare in casa d’altri. Venire accolti. Giocare con i loro figli. Parlare del più e del meno nel modo più naturale possibile, con delicatezza garbo e rispetto.
Il rispetto delle parole. Delle usanze. Delle abitudini. Amalgamando il tuo vissuto al loro. Il loro al tuo. Contaminandosi. Contaminando.
Con la pretesa di imparare e non di insegnare.
Sono queste le cose belle del nostro lavoro. Che puoi trovarti qui un giorno per caso, quando meno te lo aspetti…
Ci vediamo su Controcorrente

#sbetti

#Girando

#ontheroad

Era ubriaca la militare che ha investito e ucciso il 15 enne

Libero – 23 agosto 2022

È la prima parola che pronunciamo. E anche l’ultima. “Mamma”. È morto così Giovanni Zanier, 15 anni, travolto su una pista ciclabile di Porcia un paesino in provincia di Pordenone, sabato notte. È morto invocando la madre. Un’auto guidata da una soldatessa americana di 20 anni, militare di truppa in servizio alla Base Usaf di Aviano, lo ha travolto dopo aver sbandato all’altezza di una rotonda e non gli ha lasciato scampo. L’auto lo ha caricato sul parabrezza, il giovane è stato sbalzato per diversi metri, si è alzato, poi è crollato a terra. Per trenta minuti i soccorsi giunti sul posto nel giro di breve, hanno tentato l’impossibile per provare a salvarlo. Per trenta minuti gli hanno praticato il massaggio cardiaco. Poi Giovanni è stato portato d’urgenza in ospedale in una corsa disperata, ma non c’è stato nulla da fare. È morto poco dopo. Era di ritorno da una serata di musica latino americana, passata con due amici. La mamma lo aveva accompagnato in auto e lui sarebbe dovuto rientrare a piedi. L’incidente è avvenuto alle due e mezza di notte. E la rotonda era senza illuminazione. L’amministrazione comunale, da aprile, per far fronte ai rincari energetici e alle bollette sempre più salate, ha emesso una delibera per far sì che le luci vengano spente in anticipo con l’obiettivo di risparmiare il 30% sulle bollette dell’energia elettrica. Bastava mezz’ora prima e la rotonda sarebbe stata illuminata. Ma nessuno può dire se Giovanni sarebbe morto lo stesso o no. Anche perché non è questo il punto. Il punto è che chi conduceva l’auto, questa soldatessa americana, era ubriaca. Giunta in pronto soccorso era stata sottoposta a tutti gli accertamenti tossicologici del caso.

E infatti.

L’alcoltest ha dato esito positivo e il tasso alcolemico nel sangue era pari a 2,09 grammi per litro, ossia quattro volte il limite consentito. Appena accaduto l’incidente, è stata la militare a chiamare i soccorsi. L’impatto è stavo violentissimo. E lei era sconvolta. Non si era resa conto della gravità di ciò che aveva provocato e stando ad alcune testimonianze appena scesa dall’auto avrebbe detto: “Pago tutto io”. Ma pago o no, è stata arrestata per omicidio stradale e posta agli arresti domiciliari nel suo alloggio all’interno della base dove risiede. L’udienza di convalida dell’arresto è prevista per oggi. Ora si apre tutto uno scenario legato ai contenziosi legali Italia – Usa. Ossia, da chi sarà giudicata la militare? Dalla giurisdizione italiana o da quella americana?

“Per i fatti commessi fuori dal servizio – spiega a Libero il procuratore della repubblica di Pordenone, Raffaele Tito – la giurisdizione è concorrente, a meno che il ministro italiano non rinunci al diritto di priorità e può a suo insindacabile giudizio dire che questo fatto non interessa alla giurisdizione italiana. Ma è il ministro della Giustizia che decide in base all’articolo 1 della legge 1966 del 1956. Mi spiego meglio, se la soldatessa avesse guidato un mezzo militare allora responsabile è la giurisdizione americana, invece guidando un mezzo privato la competenza è concorrente”. 

Tuttavia le autorità americane potrebbero chiedere a sé la giurisdizione ma per farlo dovrebbero fare richiesta al ministro della Giustizia italiano come prevede il trattato Nato del 1951 attuato in Italia con la legge del 1955. Sulla base dell’accordo il nostro ministro potrebbe rinunciare alla giurisdizione. E il provvedimento del ministero non può essere impugnato. È un potere politico. Il fatto di essere una militare della base americana mette la soldatessa nelle condizioni di poter evitare il processo in Italia. La Convenzione di Londra del 1951 sulla giurisdizione dei militari Nato in Europa prevede così. La strage del Cermis ne è la prova. Qui un aereo americano, volando senza autorizzazione a una quota troppo bassa, tranciò i cavi della funivia provocando 20 morti. Nonostante i pubblici ministeri italiani chiesero di processare in Italia i quattro marines dell’equipaggio, il gip di Trento ritenne che la giurisdizione dovesse essere quella militare statunitense.

Serenella Bettin

Il caso dello stupro finito nei social

Tutti a gridare contro il video dello stupro finito nei social, ma nessuno si indigna per quello che ha dichiarato chi ha fatto le riprese col telefonino.
Sto seguendo con ignavo interesse la sterile polemica emersa sul fatto che Giorgia Meloni – come tutto il resto del mondo – si sia resa colpevole di aver condiviso il video di quella povera ragazza ucraina stuprata dal 27 enne guineano.
Il fatto è accaduto domenica mattina alle sei a Piacenza.
E davvero non riesco a capire dove sia il problema. Ora tutti a dar lezioni di etica ma c’era stata una volta – non molto tempo fa – in cui un quotidiano aveva diffuso nomi e cognomi di una donna e dei suoi figli vittime di violenza.
Nessuno si era tanto scandalizzato per il fatto che una donna, ancora viva per fortuna, finisse in prima pagina con nome cognome indirizzo virgolettati eccetera eccetera.
Mi rendo conto però che le campagne elettorali, a partire da quelle comunali, da un po’ di anni a questa parte stiamo rasentando la soglia dello squallido.
Il video, condiviso da tutti nei social, forse altro non voleva fare che denunciare uno stupro.
Era totalmente oscurato, già pubblicato da un sito, dove le fisionomie del volto e del corpo manco si vedevano.
Non so se ce ne fosse un altro che girasse ma non credo.
Qualcuno ha detto che è un modo becero di fare campagna elettorale ma posto che ancora gli umani non possono prevedere il futuro – nemmeno la Meloni – nessuno poteva sapere che quello stupro sarebbe avvenuto a distanza di circa un mese dalle elezioni.
Non credo manco che il guineano abbia fatto questo ragionamento. Cioè dire: “Aspetta che violento una donna così ci costruiscono su qualcosa per la campagna elettorale”. Quello manco sa che qui si vota.
Ha visto una ragazza e l’ha violentata.
Ma la polemica sorge soprattutto dopo l’omicidio in diretta di Alika.
Quel video la gente se l’è bevuto nei social in tutte le salse. Qualcuno inclinava perfino il cellulare per vedere se riusciva a scorgere qualcosa in più. Usato da destra, sinistra, centro, avanti e indietro.
Quel video come quello dello stupro è finito vignetta di un partito che ci ha appiccicato sopra il proprio simbolo.
Ma soprattutto, e questo non smetterò mai di chiedermelo, ho letto cosa ha dichiarato il signore che ha girato le immagini mentre sotto i suoi occhi una donna veniva stuprata.
L’ho letto e ho avuto paura. Mi sono venuti i brividi. Anche perché mi sono immaginata la scena.
L’autore delle immagini ha detto che ha visto l’uomo che si avvicinava alla signora. Che sulle prime ha pensato che stessero confabulando, e che poi si è accorto che lui le stava mettendo le mani addosso.
A quel punto ha telefonato al 112 e ha ripreso la scena col telefonino.
Questa cosa mi lascia sconvolta. Veramente.
Davvero non capisco come facciamo noi umani ad anteporre un telefonino, uno strumento virtuale, a un fatto reale che avviene in quel momento, lì sotto i nostri occhi, con una donna che grida aiuto e che intanto viene stuprata. È come vedere qualcuno affogare e non buttarsi a mare per salvarlo.
Non lo so.
Ma se mi capitasse, vorrei che qualcuno intervenisse, che qualcuno scendesse in strada a salvarmi, a urlare, a far scappare un animale che in quel momento sta abusando del mio corpo.
Chissà, magari senza video non lo avrebbero preso, – ma tanto tra qualche mese sarà fuori – ma almeno quella povera creatura si sarebbe risparmiata una sciagura così grande.

#sbetti

Dopo la bravata degli “imbecilli” a Venezia, eccolo il surf che va da solo

Libero – 19 agosto 2022

Nessuno ha il coraggio di dirlo, ma suvvia, gli amanti delle onde avranno provato tutti un po’ di invidia nel vedere i due “imbecilli” cavalcare la laguna di Venezia col surf a motore. Perché di questo si tratta. Volare sull’acqua senza fare fatica è una vera e propria “figata”. Il surf elettrico. Quello che va da solo. La moda del momento. Il video dei due surfisti che cavalcano la laguna è divenuto virale. Condiviso anche dal sindaco Luigi Brugnaro – e non per gradimento – sta facendo il giro del mondo e funge quasi da trampolino di lancio per sdoganare questo nuovo modo di fare surf che alcuni hanno definito democratico. Costa poco. Non fai tanta fatica. E se mantieni l’equilibrio la tavola va via da sola. Infatti si può surfare anche in assenza di onde e addirittura nei laghi. Ovviamente rispettando la distanza di sicurezza. Insomma un accessorio da mettere in valigia, oseremo dire, perché tra i surf elettrici presenti sul mercato ci sono anche quelli gonfiabili. Apparsi per la prima volta in Australia negli anni Trenta, questi si chiamavano “surf scooter” perché in principio erano questi. Le moto d’acqua. Quelle che vedevi sfrecciare sul mare come bolidi che sembravano volare. Poi a qualche costruttore nautico venne l’idea di realizzare un surf a motore e qualche anno fa vennero messi in commercio i primi modelli. Già l’anno scorso era un po’ esplosa la tendenza. Se vai nelle spiagge di Puglia, Marche, Molise, li vedi sfrecciare a tutta battuta. Tutte queste tavole sono costruite con materiali resistenti e performanti, tra cui la fibra di carbonio e sono quasi tutte dotate di hydrofoil, un appendice che consente di alzarsi sul livello dell’acqua.

Ma come funziona?

La tavola è simile a quella usata per fare surf, anche se qui non si cavalcano le onde, ma si resta in qualche modo sospesi. Il propulsore elettrico sottomarino ad elica permette di viaggiare sul pelo dell’acqua semplicemente controllando il motore attraverso un telecomando senza fili. La tavola poi si accende attraverso una chiave calamitata che funge anche da dispositivo di sicurezza. Funziona un po’ come il tapis roulant. Se il surfista cade dalla tavola la chiave si stacca e il motore si spegne. Alcuni surf a motore arrivano anche a 50 chilometri orari. E ce n’è per tutti i gusti. Per tutti i tipi. Per tutti i fisici. Il prezzo?

Online ci sono varie proposte che vanno dai 13 mila agli oltre 15 mila euro. C’è quello che arriva dalla Svezia, che tocca i 30 nodi e raggiunge una velocità massima in soli quattro secondi. La tavola è spinta da un motore elettrico brushless (a corrente continua, senza spazzole) di 11 kilowatt e la velocità la si può controllare con un acceleratore portatile. In Spagna questa tavola dotata di batteria arrivò già nel 2014. In Germania invece un’azienda, nel 2015, grazie a una campagna di crowdfunding, iniziò a costruire i primi modelli. La velocità massima è di 26 nodi, la potenza del motore è di 10 kilowatt equivalente a un 14 cavalli. E udite, udite: si gonfia. Ma nel mercato c’è anche il surf per taglie pesanti che regge piloti fino a 100 chili. Poi c’è anche quello per i poveri, sotto i 6 mila euro, che sulla piattaforma Kickstarter – crowdfounding indipendente che mette in risalto idee e progetti di privati o aziende che hanno bisogno di un supporto economico – sta avendo il suo discreto successo. Anche i cinesi sono arrivati sul mercato. Waydoo Flyer, leader in sistemi elettronici e progettazione alare, ha messo in commercio un eFoil dal prezzo contenuto e buone prestazioni. La tavola ha 30 minuti di autonomia, cinque velocità, un motore da 6000 watt. E si acquista direttamente sul sito a 7100 euro. Ma ci sono anche quelli economici economici che li puoi trovare ovunque. Spedizioni pure gratis. Basta digitare su Google “surf elettrico” e ti viene fuori di tutto. C’è sì quello da 7.599 euro, ma c’è anche quello su Amazon a 3.196 euro. Così come c’è anche la tavola da surf “facile da usare”, “alimentata da una batteria agli ioni di litio ricaricabile, ecologica e sicura” al modico prezzo di 1689 euro. Questa, c’è scritto su Amazon, è dotata di “sistema di controllo intelligente”. Gli imbecilli a Venezia sono avvisati.

Serenella Bettin

Venezia senza veneziani

Libero – 18 agosto 2022

Te la ricordi Venezia piena solo di veneziani?

Oh sì che me la ricordo. Erano i tempi del covid. Dove Venezia era vuota scarna magra, metteva l’angoscia. Giravi per mezz’ora e non trovavi anima viva. Quando hanno riaperto poi, in giro vedevi i veneziani correre e fare jogging. Jogging capito. Jogging. Vedere a Venezia qualcuno che pratica la corsa è surreale. Ante pandemia era impossibile. Sia in estate che in inverno non c’era un metro quadrato libero. La gente si accalcava sulle calli, si accoccolava davanti le vetrine, con le mani impiastricciate di gelato si ammucchiava ovunque. E Venezia resisteva. Ha sempre resistito. Ha resistito con l’ “Aqua granda”, 4 novembre 1966. Ha resistito con l’acqua alta, 12 novembre 2019. I commercianti spalavano secchiate fuori dai negozi e l’acqua ritornava indietro. “Uno. Due. Tre”. E a ogni secchio era un “ti ta morti cani” e a ogni “ti ta morti cani” era una bestemmia. Ha resistito al covid. Alla chiusura. È rinata. È riesplosa in tutta la sua bellezza. Questo museo a cielo aperto dove ovunque ti giro ci vedi l’anima perfino di una colonna. Ha resistito al trotterellare dei trolley, alle cavalcate dei turisti, a chi correva a destra, a sinistra, in una sgambettata senza fine. Ha resistito ai turisti cafoni. A chi l’aveva presa come pisciatoio, come sessodromo, come vasca da bagno.

Ma oggi. 

Oggi Venezia sta scendendo. La sua popolazione la sta abbandonando. Venezia in centro storico è scesa sotto i 50 mila abitanti. Se vai in campo San Bartolomio ci vedi il “contaveneziani”. L’hanno messo lì, lampeggiante, in una farmacia. A ogni veneziano che muore o se ne va, il “contaveneziani” scende. E lo fa con una facilità estrema. Fuori uno. Fuori due.

Due anni fa c’era una coppia, gestore di un negozio alimentari in piedi da 113 anni, che non trovava veneziani a cui cedere l’attività. Se provi a cercare casa idem. A Venezia è impossibile. Ti viene voglia di guardarla, scrutarla, assaporarla e poi prendere e andare via. Non c’è un affitto che sia proponibile. Chi affitta, lo fa solo a turisti o studenti. Il prezzo dell’affitto sale, il periodo è breve e si guadagna di più. “Non è che i veneziani non vogliono più stare a Venezia – confida a Libero il manager di un noto e prestigioso hotel che preferisce mantenere l’anonimato – è che chi vorrebbe venire a vivere in questa città incontra tutta una serie di problematiche. L’affitto improponibile, la qualità dell’ immobile inaccettabile. Qui ci abbiamo perso tutti. Ovvio che per noi è meglio avere i turisti, ma i veneziani per dire dove vanno fuori a cena? Se ne vanno perché in alcuni periodi qui ti senti invaso, ti manca l’aria, c’è l’impossibilità di godere dei propri spazi. Questo è dovuto anche a chi, avendo una casa, ha deciso di metterla in affitto e fa locazioni brevi. Non incontrerà mai residenti”. Basta passarci per le calle veneziane. Può capitare di fermarti su un palazzo dove su dieci campanelli, otto sono bed and breakfast. Persone di nostra conoscenza sono state “sfrattate” perché dove abitavano ci hanno fatto un affitta camere. “Non è che meno veneziani porti un aumento del turismo – ci dice il manager – l’ affluenza è dettata dalla destinazione, dagli eventi che propone. Ovvio che vorremmo tornassero i turisti che spendono. Certo che i clienti che vengono trovano una città svuotata della sua anima”.

Insomma uno choc. “Lo choc dei 50 mila c’è – dice Renato Brunetta, ministro, che di Venezia se ne intende – ma è relativo. Bene che se ne parli perché suona come un campanello d’allarme per poter fare un ragionamento più ampio. Quello che sta subendo il centro storico è identico a quanto accade a Firenze, Milano, Roma, dove i centri si svuotano di funzioni urbane standard a favore del turismo. Con quello di massa si sviluppano servizi che hanno sempre meno bisogno di residenti per vivere. Bisogna agire con progetti, ed è quello che stiamo facendo con Venezia capitale della sostenibilità”.

C’è anche chi lancia un monito all’amministrazione comunale. “Ai 49 mila abitanti – dice Claudio Scarpa, direttore associazione veneziana albergatori – vanno aggiunti i 25 mila del Lido e i 5000 delle isole. Il vero allarme è l’indice di invecchiamento. Per ogni bambino da 1 a 14 anni ci sono tre vecchi sopra i 60 anni. Noi chiediamo all’amministrazione di dare non più le case in base al reddito, a chi appare essere povero, ma solo a chi ha moglie e figli”. Ma il sindaco della città lagunare, Luigi Brugnaro, vorrebbe contare anche i domiciliati. “L’anagrafe tiene conto solo di una parte delle persone che vivono abitualmente in città, ossia i residenti – dice l’assessore ai servizi al cittadino Laura Besio -per superare questa criticità, il sindaco aveva annunciato di “aprire la quota dei domiciliati, affinché si registrino come tali”. E intanto Venezia perde veneziani.

Serenella Bettin

Qualsiasi cosa con Piero Angela diventava una favola

Io non ho avuto la fortuna di conoscere Piero Angela. Ho conosciuto il figlio. Piero Angela lo seguivo da piccola.
Quando l’altro giorno ho visto comparire la notifica sul telefono che diceva che Piero Angela era venuto a mancare, mi sono subito rattristata.
Piero Angela per noi piccoli era l’appuntamento che non potevi perdere. Quella voce calma pacata soave equilibrata e delicata che ti spiegava le cose, che ti raccontava la vita, che ti faceva conoscere la loro nascita, crescita, evoluzione.
Qualsiasi cosa con Piero Angela diveniva una favola, un romanzo, un libro aperto a cui era impossibile resistere.
Dopo Piero Angela, di personaggi di questo calibro non se ne sono visti molti, abituati come siamo a dare credito a gente senza spessore.
Siamo pieni di personaggi senza senso, gente che parla e straparla senza avere cognizione di causa, gente in cerca di like su Facebook, Instagram eccetera eccetera che tutto vuole fare tranne trasmettere una sana e genuina informazione. Conoscenza. Sapienza. Dottrina.
Il modo di divulgazione che aveva Piero Angela e che non farà mai scuola perché di fenomeni ce ne sono tanti e altrettanti incompetenti, era di una semplicità e di una bellezza uniche. Con competenza. Con gentilezza.
Lui si sedeva sul divano degli italiani provando a raccontare i misteri del mondo. Quando lo faceva non c’era politica che tenesse. Non c’era il virus di sinistra, e nemmeno quello di destra o quello di centro.
C’erano il virus e Piero Angela, che con il suo tono affabile e mai presuntuoso te lo spiegava. Quando doveva affrontare qualche argomento anche il più spicciolo lo faceva partendo dai dati, dalle analisi, dai fatti. I comizi, le miserie umane e le polemiche li lasciava altrove.
“Fate la vostra parte per questo difficile Paese” aveva detto.
Quanto vorrei che in questo Paese di beccafichi ti ascoltassero.

sbetti

Gli ulivi in Puglia sono come nobildonne

Puglia – agosto 2022

La Puglia. Che dire della Puglia. Sono giorni che voglio vomitare parole piene di enfasi che mi si sono depositate dentro, incastonandosi nel cuore e non ne ho avuto il tempo.
Le corse. I treni. Le auto. Le valigie. I pranzi al volo. Le cene anche. I saluti.
La Puglia ti entra dentro.
Ti entra dentro come un turbine che ti si infila nel cuore. Nell’anima. Nella mente e non ti lascia andare.
Il giorno che sono arrivata anzi che sono tornata in Puglia – c’ero arrivata due domeniche fa, poi sono rientrata, sono andata nelle Marche e poi sono tornata in Puglia di nuovo – mi è venuto a prendere un tipo alla stazione. Un Tuk Tuk. Ed era lo stesso che mi era venuto a prendere a Polignano per portarmi in stazione quando dovevo in fretta migrare a Civitanova Marche.
“Ma tu non sei quella che è ripartita lunedì? – mi ha chiesto – Adesso sei tornata?”. “Ah sì. Sai ho una vita un po’ complicata”.
Il tizio si chiama Francesco. Come il santo.
Quello che aveva bucato. Quello che quel giorno non si trovava un taxi manco a pagarlo oro. Non si trovava un transfer. Non c’era nessuno disponibile. Mica come a Milano che chiami un taxi e arriva nel giro di due minuti.
“Possibile non ci sia un taxi!”. “Pronto! Voglio un taxi”! “Quanto ci vuole a chiamare un taxi perdio!”. “Devo andare a lavorare!”
E il taxi non arrivava. E più lo invocavo, più non si trovava.
Francesco mi ha caricato sul mezzo e dietro ci ha messo la valigia. Ero appena arrivata alla stazione di Polignano. Dire che ero distrutta era dire poco. Mi sentivo stanca ma l’energia era tanta. Mi ha chiesto che lavoro faccio.
Gli ho detto che faccio la giornalista e che sono dovuta rientrare per lavoro.
Alla domanda: “ok ma dove vivi?”, si apre un mondo. “Bella domanda”.
In realtà è sempre un po’ un casino. Sono nata nelle Marche. Ho casa lì. Ci vado quando devo evadere. Quando lavoro sto in Veneto. Ma da poco sono finita anche a Milano. In Puglia ci sono venuta a trovare delle persone. Poi il lavoro sta a Milano o a Roma dipende. A Civitanova invece sono dovuta andare a seguire quel fattaccio di cronaca. “Ah sì ho sentito. Ma qui siamo fuori dal mondo. Niente social. Niente televisione”. Dove stavo io non arrivavano manco i giornali. Lui si gira. Mi guarda. “Come siete complicati al Nord. In Puglia non devi lavorare”.
La Puglia. La Puglia è un incrocio di colori. Di distese d’ulivi. Il tipo Marcello Ape che la sera ci ha accompagnato ad Alberobello, vi racconterò anche di questo, Dio se vi racconterò, mi ha detto che in Puglia ci sono 66 milioni di ulivi. Ci sono più ulivi in Puglia che abitanti in Italia.
E infatti li vedi. Li vedi mentre percorri le distese di pianure incolte e ti appaiono accanto. Ti scivolano via mentre corri in auto, di notte di giorno di sera al tramonto, spuntano come funghi. Con queste chiome gigantesche che paiono acconciature di signore impomatate. Gli ulivi in Puglia sono tutti nobildonne. Si adornano. Si vestono. Si truccano. Come rami indossano enormi collane. E paiono dirti: “Ciao benvenuta. Benvenuta nel nostro sud”.
Il sud. Se vai al sud te ne innamori. Difficile non innamorarsene. Già la parlata. La parlata è quella lenta cadente calda entusiasta cascante. Sembra una cascata che sgorga l’acqua. La cadenza poi. Quella cadenza che ti fa respirare i profumi e il vento caldo. Se sfavilli per le strade con la gonna lunga, la parlata la senti tutta. La e aperta. La o chiusa. Ti innamori dei paesaggi. Dei tramonti. Il giorno che ci sono tornata sarà perché avevo gli occhiali con le lenti da sole che ti accecano e dipingono i colori come Giotto, c’ho visto il cielo blu turchese, il mare blu cobalto, le distese di sabbia, quelle d’erba, quelle costruzioni di pietra che manco pareva di stare in Italia. E poi quei merletti. Quei balconi. Quelle villette bianche che rispecchiano la luce del sole. Quel bianco candido. Che ti entra dentro. E poi la gente in strada. Le urla. Le parlate sfavillanti, talmente sfavillanti che a ogni vocale cadono scintille e fioccano faville.

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In viaggio sul Tuk Tuk

Puglia – agosto 2022

Questo sant’uomo si chiama Francesco. Come il Santo appunto. E la mattina del 1.agosto mi ha portato con questa apetta in stazione a Polignano a Mare. Dovevo rientrare in fretta per andare a Civitanova Marche e non potevo perdere il treno. Qui li chiamano i Tuk Tuk o come si chiamano. Me l’hanno detto la sera che sono arrivata. Ero in cerca di un taxi e mi hanno detto: “Noi qui abbiamo anche questi”.
Quella mattina se non ci fosse stato lui rischiavo di perdere il treno. Non si trovava un taxi libero. Non c’era un transfer. Ho chiamato e ho trovato lui.
“Possibile non ci sia un taxi!”. “Pronto! Voglio un taxi”! “Quanto ci vuole a chiamare un taxi perdio!”. E il taxi non arrivava. E più lo invocavo più non si trovava.
Quando ho chiamato il Tuk Tuk mi ha detto arrivo per le otto e invece è arrivato alle 8.15.
Ero in preda ai fumi.
Mi ha detto: “Mi dovete scusare ma la mia giornata è cominciata bucando”. Mi ha fatto tenerezza e mi sono calmata. Capita a tutti, capitano gli imprevisti. Mica come noi su al nord che gli imprevisti non sono ammessi.
Ha caricato la valigia sul retro, che retro è una parola grossa. A ogni curva o sobbalzo che faceva guardavo indietro per vedere se ci stava ancora. E più mi giravo più la vedevo sobbalzare. Mi tenevo e mi si scollavano le mani dal manubrio. Correva come un matto.
Tutto intorno a me erano distese di paglia gialla e foglie verdi e arbusti e mattoncini di argilla sparsi qua e là, paesaggi bellissimi rapidi e scoscesi, che davano su un mare blu immenso sullo sfondo. Non pareva manco Italia. Bella com’era.
Arrivati alla stazione mi fa scendere. Io parto di corsa per prendere il treno.
Mi volto. Lui mi guarda e mi fa: “Signora mi dovrebbe pagare”.
Me ne ero dimenticata.
E così continuando il viaggio…

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