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“Quando feci sparire mia sorella Udilla”. Mago Silvan si racconta a Libero

Qui la mia intervista 👇

“Sto scaricando il taxi. Sono appena arrivato da Milano. Un attimo e le rispondo”.

Non ha di certo bisogno delle nostre presentazioni Mago Silvan. Mago. Prestigiatore. Chiamatelo come volete. Appartiene a quella schiera degli artisti di fama internazionale, secolari, vecchia maniera, che ancora scaricano i taxi da soli. Perché Silvan c’è da sempre. C’è sempre stato. 

Quando lo incrociamo ha appena finito uno spettacolo da standing ovation a Treviso, al teatro Del Monaco. 

Mago Silvan, appena arrivato da Milano. Ma dove la trova la forza?

“Genetica. Sono felice, amo la vita i miei figli, nipoti e le persone che mi stanno accanto. Sono un uomo fortunato. Ho sempre cercato di raggiungere i miei traguardi artistici con onestà”. 

A proposito, ha appena girato per “Splendida cornice”, per la Rai. Sempre in movimento.

“Sì, mi sono trovato benissimo. Mi piace Geppi Cucciari. È spontanea, sagace, impertinente, colta e intelligente”. 

Ci racconti il suo primo spettacolo.

”Troppo lungo! Annoierei il lettore. Le dico soltanto che a undici anni, sotto la tettoia dell’Oratorio don Bosco a Venezia, città nella quale sono nato e che amo visceralmente, presentavo uno spettacolo di quattro ore e mezza… Presenti preti, laici e le famiglie dei miei coetanei. La magia intesa come prestidigitazione è parte integrante della mia natura”. 

Anche se suo padre per lei sognava una carriera da avvocato. 

“Era amico di un avvocato di grande notorietà, principe del foro Carnelutti”. 

E come l’ha presa quando ha saputo che voleva fare il mago?

“Convinto si trattasse di una professione alquanto bizzarra configurandomi come Sik Sik l’artefice magico di Eduardo, era contrario. Successivamente diventò il mio più grande estimatore. È diventata la mia professione e la mia passione. O viceversa”. 

Direi. Lei è celebre a livello nazionale e internazionale. Che effetto le fa? 

“Sono compiaciuto e gratificato anche se ritengo ci sia ancora da apprendere e studiare. Non ci crederà ma nonostante abbia scritto una dozzina di libri sull’insegnamento e la storia della prestidigitazione con la riedizione de “La Nuova Arte Magica”, 600 pagine per la Nave di Teseo, mi ritengo solo a metà strada. Si ricorda il detto socratico no? “Chi più’ sa sa…”. 

Sa di non sapere insomma. 

“Da quest’arte antica e immensa, che insegna come alterare la realtà oggettiva nel dire ciò che non si fa e fare ciò che non si dice…”. 

E allora glielo chiedo, la differenza tra un prestigiatore e un avvocato? 

“Sotto certi aspetti la teatralità. Una dialettica convincente, persuasiva e astuzia psicologica. Dimostrare con convinzione che il bianco è nero o viceversa”. 

E come preferisce essere chiamato? Mago, illusionista, prestigiatore…

“Sono sinonimi. Mago è il termine che viene usato abitualmente per una dizione comprensibile Prestigiatore è termine esatto, dal latino praesto e digitus, in sintesi svelto con le mani”. 

Ecco appunto. Le mani. Come le mantiene? Come le allena queste mani?

“Ho creato degli esercizi speciali per irrobustire le falangi e l’eminenza tenar cosi si chiama il muscolo del palmo della mano  sotto la radice del pollice”. 

È vero che le assicurò per mezzo miliardo?

“Esatto”. 

Ma le scalda prima di uno spettacolo?

“Articolandole come le spiegavo con degli esercizi appropriati tra i quali dei piccoli pesi legati alle dita”. 

Si allena ancora?

“Certo da una vita”. 

Quante ore?

“Due tre ore al giorno”. 

Ma qual è il suo segreto. Come fa? 

“Passione tenacia esercizio costante. La stessa domanda può essere rivolta a un ciclista, tennista, corridore, danzatore, pugile”. 

E lei quando ha capito che sarebbe stata la sua strada? 

“Da sempre. È un legame mentale dei ricordi che assorbiamo nei primi anni della nostra infanzia. Tutto ciò che ai miei occhi rappresentava l’irrazionale, il magico è rimasto impresso nel mio subconscio. Un tributo se vogliamo definirlo a tutto ciò che rappresenta l’inconoscibile, il mistero. Sono convinto che la vita perderebbe parte del suo senso se non avessimo a ogni età la capacità di stupirci!”. 

E il suo gioco di prestigio preferito.

“Indipendentemente dal tagliare donne a fettine, farle levitare a mezz’aria, trasformarle in tigri o pantere. Nei miei spettacoli, la pura destrezza. Fare apparire o sparire 140 carte da gioco con l’ausilio delle sole mani”. 

Ah una cosa ho sempre voluto chiederle a proposito delle donne a fettine. Le lame sono vere?

“Certo”. 

È mai accaduto che qualcosa andasse storto?

“Sì, molte volte ma il pubblico non si accorge mai, poiché il mago con la sua abilità cambia immediatamente l’effetto magico che intende presentare con un altro”. 

Allora ora glielo chiedo. Ha mai conquistato una donna con il potere della magia?

“Mentirei se dicessi il contrario”. 

E di questi giovani prestigiatori che pensa?

“Tutto il bene possibile. Sono veramente  bravissimi. Possiedono molto talento. In tutte le Regioni esistono dei Club magici, vivai di ottimi talenti per coloro che desiderano imparare l’arte prestidigitatoria. A Milano con la guida di Mario Pavesi una mostra attuale “A me gli occhi”, prodotta dalla Cineteca, sta ottenendo un successo strepitoso. Proiezioni cinematografiche interattive posters storici eventi dal vivo di  maghi, illusionisti passati alla storia, fino al 28 aprile”. 

E il mago più scarso secondo lei? Si può dire vero?

“Scherzando si può dire tutto: anche la verità. Ma nessun mago deve essere considerato scarso. Sono tutti eccellenti da incoraggiare aiutandoli con discrezione a migliorare, o invogliandoli alla lettura di testi che trattano la nostra arte senza atteggiamenti di presunzione o superiorità. Questo per continuare a coltivare la passione e diventare ciò che hanno sognato”. 

Se dovesse spiegarla a un ragazzo che vuole intraprendere la sua strada. È una vocazione? È talento? È arte, studio ?

“Esattamente ciò che ha detto. La mia, anche se è inelegante parlare di sé è stata una vocazione. Sono sempre stato attratto da tutto ciò che rappresenta il magico, l’irrazionale, il paradosso”. 

Cosa pensa dei prestigiatori americani e dei loro mega show?

“Bravissimi straordinari in teatro. Televisivamente sconcertanti e miracolisti”. 

La differenza tra ieri e oggi…

“Non esiste una magia tradizionale classica o di avanguardia. Esiste soltanto una bella magia che stupisce e incanta con onestà”.

Che poi la magia è un potere? Cos’è?

“L’arte magica affonda le sue radici in epoche molto lontane. In Egitto in Grecia a Roma la destrezza del mago era camuffata da magia per asservire il potere politico sociale e religioso. Potrei discettare per ore della sua storia che da sempre affascina l’uomo”. 

Ma qual è stato il suo primo gioco di prestigio?

“Quello di far sparire mia sorella Udilla allestendo i drappeggi necessari nel salotto di casa”. Ah scusi, dimenticavo, e il magico “Sim Sala Bim” come nacque? “È una frase che ha sostituito le mie primissime parole magiche: Tac tac se rumba yama cler come tributo e omaggio a un grande prestigiatore danese del secolo scorso Dante”.

Quindi Sim Sala Bim? Mago Silvan??!

Serenella Bettin

Intervista uscita su Libero il 27 marzo 2024
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Centocinque anni: sopravvissuto ai gulag russi

Quando arrivo nella sua casa di Villanova di Camposampiero nel padovano, Giuseppe Bassi, 105 anni, compiuti il 3 febbraio scorso, sta leggendo il giornale. Non capita tutti i giorni di incontrare un tale miracolo della natura. Un uomo che ti stringe la mano con ancora una tale foga addosso.
Le braccia spalancate che agguantano le pagine e quel volto immerso tra la carta, dipingono un’immagine che mai si vorrebbe vedere annacquare. E non posso pensare di raccontare la sua vita con i colori dell’acquarello perché per quegli anni lontani devo usare soprattutto il nero: la prigionia, la sofferenza, il dolore, la tragedia. Colore che lui – uno degli ultimi, se non l’ultimo per davvero, sopravvissuti italiani ai gulag russi – dopo la liberazione, ha intonso e amalgamato con i colori dell’ocra, dell’oro e dell’argento, e della sua vita ne ha fatto un capolavoro.
Due figli, Carlo e Alberta; tre nipoti.
Benedetta, pensate, che sta in questi stessi metri quadri, è nata, dopo 100 anni, il giorno prima del nonno. Qui sotto lo stesso tetto.
La vita che scorre, l’una il prolungamento dell’altra.
Gigante negli anni, minuto nel fisico, ancora per colazione ogni mattina rigorosamente beve latte e Nesquik con sbriciolati dentro otto biscotti. Appena entro nel salone, si alza, balza in piedi, mi accoglie.
Fatto prigioniero dalle truppe russe e deportato nei campi di concentramento, in prigionia ci rimase 42 mesi, dal 24 dicembre 1942 al 7 luglio 1946 passando per i campi di Tambov, Oranki, Suzdal, Vladimir, Odessa e San Valentino.
E questa è la mia intervista uscita su Libero

La prima domanda sorge quasi spontanea. 

Ma dove la trova la forza a 105 anni? 

“I 105 non li sento come peso. Si affronta la vita in modo normale, come si era vissuti prima, si continua a vivere con quella normalità”. 

Bassi, una vita tanto normale non direi, ha fatto la campagna di Russia…

“Sì, ho fatto il mio dovere di militare, ero sottotenente e ne sono uscito vivo”. 

Quando capì che l’avrebbero spedita in Russia? 

“Ma in realtà sono stato io. Ricordo che il 3 febbraio 1942 incontrai un vecchio maresciallo della caserma di Padova. Aveva in mano un foglietto: stava arruolando qualche soldato per andare in un reggimento che sarebbe partito per la Russia. Allora gli ho detto che mettesse in nota anche me perché volevo essere come tutti gli altri. La sera quando tornai a casa raccontai a mio padre il fatto e lui mi disse: se questa è la tua volontà”. 

E poi cosa accadde? Come è finito nei campi di concentramento? 

“A dicembre arrivò la chiamata. Noi eravamo in linea sul Don, vede qui da questa cartina… dal fronte del Don fino alla valle di Arbusowka, la valle della morte, nei giorni precedenti si era scatenata l’offensiva russa e qui mi hanno fatto prigioniero”. 

Che giorno era?

“Era la Vigilia di Natale del 1942”. 

Le va di raccontarci come l’hanno presa. 

“Siamo stati circondati ad Arbusowka, abbiamo resistito alcuni giorni senza mangiare, dormendo al ghiaccio. Dopo alcuni giorni però ci siamo dovuti arrendere, non avevamo cibo, da bere, non avevamo armi per difenderci. Ci avevano ormai stretto in una tenaglia; tre carri armati tedeschi in nostra difesa ci giravano attorno ma finita la benzina è avvenuta la resa”. 

E da lì?

“Da lì, dalla valle della morte fino ai lager il percorso fu tutto a piedi”. 

A piedi? 

“Sì, molti morirono durante le marce, almeno ventimila persone morte nel tragitto per raggiungere i campi. Insomma, era dura. Poi una volta giunti nei campi, durante il giorno si lavorava con turni massacranti”. 

Vi davano da mangiare? 

“Sì, un tè caldo al mattino, un pezzetto di burro e un pezzo di pane. A mezzogiorno c’erano zuppa e cassia, sa cos’è la cassia?”. 

No… 

“Era una polentina di miglio, avena, orzo, grano e mais. Abbiamo vissuto così per quattro anni ma ci sono stati prigionieri che sono stati trattenuti e hanno fatto quattordici anni di prigionia. E dire che nel mio campo non ci furono episodi di cannibalismo”. 

Mio Dio. E dove?

“Vicino al mio, quello di Crinovaia. C’era una grande ex caserma della cavalleria dello Zar e in questi capannoni sono finiti circa 30 mila prigionieri del Corpo d’Armata Alpino. Qui si sono trovati alla mercé di soldati russi crudeli e fanatici. Siccome da mangiare non ce n’era, per cibarsi andavano alla ricerca di polmoni, fegato, parti del corpo che si potessero cuocere con facilità. Squartavano i cadaveri e quello era il loro cibo”. 

Se la sente di raccontarci la vita nel campo? 

“Si lavorava duro. E si scavavano le fosse comuni dove buttare i corpi. Ma io avevo localizzato la zona dove scavavamo le fosse, e questo fu fondamentale”.

Si spieghi meglio.

“Io ho sempre fatto il geometra. E lì disegnavo sulle cartine delle sigarette, era l’unica carta che avevo, ogni Natale facevo un disegno della prigionia. Disegnavo l’interno del campo. Ne facevo settanta, ottanta copie e le mandavo agli amici e grazie ai miei disegni – vede questi? – vede – vede – Ecco, grazie a questi disegni, dove magari indicavo il segnale della direzione del vento, poi è stato possibile rinvenire le fosse comuni”. 

Oh mio Dio, questa storia è bellissima. 

“Adesso alcuni miei disegni sono contenuti all’interno del museo del campo di Suzdal con una sezione dedicata”. 

È più tornato lì? 

“Sì due volte, sono cittadino onorario dal 2004. E dire che sono vivo grazie a un anello”. 

Ce la racconti. 

“Quella mattina mi avevano tirato fuori dalla fila per fucilarmi, facevano così loro, poi il soldato russo si è accorto che alla mano avevo un anello. Lui diceva: “Davajte” che significa dammelo in russo. Io gliel’ho dato, lui si è dimenticato del kaput e io sono ancora vivo. Sa i russi erano molto attenti agli oggetti di valore. Come agli orologi da polso”. 

Lei ne aveva uno? 

“Sì, ce l’ho ancora, glielo prendo. Per i russi l’orologio da polso era una rarità, loro non li avevano. Siamo stati noi soldati a portare gli orologi. Un orologio era valutato anche tre chili di zucchero e quando l’ho saputo ho preso l’orologio e me lo sono nascosto nella scarpa, così ero l’unico a sapere sempre l’ora”. 

E da qui il nome del suo docufilm? Perché lei ha fatto anche un film. 

“Eh sì, i miei compagni di stanza mi chiedevano: “Bassi! L’ora?”. E da qui il film “Bassil’ora”. Poi il 4 novembre di due anni fa mi fecero Cavaliere della Repubblica Italiana”. 

Quando la rilasciarono dal campo di prigionia?

“Dopo quattro anni, il 7 luglio 1946, dopo quattro anni tornai a casa”. 

La guerra, le guerre… nel 2024. Che effetto le fa?

“La guerra ancora nel 2024 non è possibile. Per quanto riguarda la Russia, io so cosa significa Russia. Per il resto, guardo le immagini, torno indietro con la testa e non posso non pensare alla guerra come a qualcosa che faccia soffrire”. 

Serenella Bettin 

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Libero, 16 febbraio 2024

“Io rapinato. Non ho più un soldo e devo risarcire i rapinatori”

La mia intervista uscita su Libero il 7 dicembre 2023

Via Garibaldi 71, dove raggiungiamo Mario Roggero, a Grinzane Cavour in provincia di Cuneo, è la via principale del paese. Impossibile, pensi, che qualcuno si sogni di assaltare una gioielleria in pieno centro. Eppure. Eppure erano le 18.36 di mercoledì 28 aprile 2021. Tre uomini a volto coperto fanno irruzione nel negozio di Roggero. Prima entra uno. Poi un altro. Il primo minaccia la figlia di Roggero con una pistola. La lega con delle fascette. L’altro aggredisce la moglie minacciandola con un coltello alla gola. E un altro è in auto. La rapina dura sei minuti. I momenti sono concitati, lui non sa che fare. Quando i banditi sgusciano fuori, Roggero prende la pistola, esce dal retro del negozio e li insegue sparando i colpi della sua 38 special. Due rapinatori, Giuseppe Mazzarino di 58 anni, e Andrea Spinelli di anni 44, muoiono. Il terzo, Alessandro Modica, rimane ferito a una gamba. Lunedì 4 dicembre scorso, la Corte d’assise di Asti ha condannato Roggero a 17 anni di reclusione, oltre alle spese processuali, spese legali, al risarcimento dei danni, e alle provvisionali “immediatamente esecutive”. Il tutto, come risulta dal dispositivo, per un totale di: 502.120 mila euro. Oltre mezzo milione. “Io non ho più un soldo – racconta Roggero a Libero – Non ho più niente. Ho due mutui ipotecari sulla casa”.

Lei aveva già versato 300 mila euro ai parenti dei rapinatori.

“Sì quelli erano i due alloggi di mia madre. E mi sono indebitato con le banche di altri 300 mila euro”. 

Ma queste provvisionali, sono in aggiunta ai 300 mila già versati?

“Assolutamente sì”.

Le famiglie dei rapinatori avevano chiesto molto di più.

“Avevano chiesto quasi tre milioni, per la precisione: 2 milioni e 885 mila euro. Ma lei si rende conto in che Stato viviamo. Il rapinatore può chiedere il risarcimento del danno: follia. Anche perché che avrei dovuto fare in quegli attimi? Non avevo alternativa”. 

Le va di ripercorrerli?

“Ero sul retro in laboratorio, sento suonare, guardo il monitor e vedo una persona di circa un metro e 90 con un cappello ben calzato sugli occhi e la mascherina. Poi entra un altro, più piccolo, ma sempre stesso giubbotto, stesso cappello e stessa maschera”. 

Ma erano mascherati quindi? “Sì ma all’epoca ancora si usavano le mascherine. Il primo si gira, guarda l’altro, va al bancone di mia moglie e tira fuori un coltello. Passa dietro il banco, prende mia moglie per un braccio e le punta il coltello alla gola. L’altro tira fuori una pistola e la punta in faccia a mia figlia”.

E poi?

“Quello più piccolo sferra un pugno terribile alla mandibola sinistra di mia moglie. Un pugno bestiale, lei ha fatto un urlo atroce, io apro la porta, mi tuffo verso di loro e attacco il più alto”. 

A mani nude? “Si. Avevo in mente lo spavento terribile dell’altra rapina”.

Quella del 2015?

“Sì quella ci ha sconvolto la vita. Mi hanno massacrato di botte, mi hanno spaccato tre costole, il naso. Leso una spalla che ho dovuto far operare spendendo 12 mila euro, calci da rigore in tutte le parti del corpo. Una cosa bestiale. E sa quanto mi hanno dato di risarcimento?”. 

Quanto?

“Io avevo diritto a 85 mila euro e mia figlia a 15 mila. Mi hanno versato 100 euro in due tranche”.

Lei qui aveva reagito? “Erano in due a picchiarmi, alla fine mi hanno legato, perdevo parecchio sangue dal naso e ho dovuto mettere la faccia di sbieco sul pavimento perché non riuscivo a respirare”.

Invece quel giorno, nel 2021 intendo, usa la pistola.

“Quando accadono queste cose pensi a proteggere la vita dei tuoi cari. Quando i banditi sono usciti di corsa, Laura, mia figlia, era legata ma io non vedevo mia moglie. Loro sono saliti in auto e io ho visto che uno aveva ancora la pistola in mano”. 

Continui.

“Il primo colpo l’ho sparato contro lo specchietto retrovisore. Il mio obiettivo era quello. Volevo fermare la macchina. Però non riuscivo a vedere. E se ci fosse stata mia moglie lì dentro? Ho visto Spinelli che stava salendo in auto e mi puntava ancora la pistola. Così gli ho sparato nelle gambe, ma lui è alto, l’ho preso sopra l’anca”.

Ritiene di aver esagerato?

“Assolutamente no. Non vedevo mia moglie, e quando ho visto che non c’era, l’altro aveva ancora la pistola. In quel momento dovevo difendermi, perché pensi che se spara prima lui tu sei morto”.

Sparerebbe ancora?

“Col senno di poi no. Se uno punta ovvio che sparo. Che ne so se uno ha la pistola giocattolo. Io in quel momento mi sono visto morto. Quando sono uscito, io credevo che mia moglie fosse in auto con loro perché la tenevano legata”.

Lei non aveva visto che era in negozio?

“No. Altrimenti non sparavo. Io volevo solo accertarmi che mia moglie non fosse in auto”.

Cos’ha provato durante la rapina?

“Terrore”.

Lei se l’aspettava una condanna a 17 anni.

“No assolutamente. Io mentre ero lì lunedì pensavo a un’assoluzione”. 

Lei quanti anni ha?

“Fra cinque mesi faccio 70 anni, capisce, 70. Settant’anni e dopo aver lavorato una vita, sono cinquant’anni che lavoro, io e mia moglie abbiamo vissuto qua dentro, ho 4 figlie, 8 nipoti, sempre lavorato, pagato le tasse, ecco a 70 anni la mia prospettiva è di andare dentro fino a 90? Qui siamo pazzi. C’è qualcosa che non quadra. Follia totale”.

Come la vive?

“In modo drammatico, tutto questo ha rovinato la vita non solo mia, ma anche quella di mia moglie, delle mie figlie. Una figlia che lavorava con noi, ha smesso perché ha paura anche a entrare in negozio, i miei nipoti non vengono nemmeno più a trovarci. E aspetti: dopo la rapina del 2021 altre 4 spaccate a casa, oltre alle 10 precedenti in negozio. Io non ne posso più. E la giustizia protegge i delinquenti”.

Serenella Bettin

“Mio marito in carcere ha perso 50 chili, sta morendo”

Da Libero del 29 novembre 2023

“Per me un giorno vale l’altro, mio marito in carcere ha perso 50 chili, sta morendo, aiutatemi per favore”. Quando contattiamo Maria Angela Distefano le lacrime le soffocano la voce. Quando iniziamo a parlare, si ode un fruscio di parole, un pianto, poi il silenzio. Il tempo di riprendersi un attimo e Maria Angela diventa un fiume di parole. Ha troppo dolore dentro. Il marito Guido Gianni, 63 anni, gioielliere, è chiuso nel carcere di Palermo dal 28 maggio 2021. Ieri erano esattamente 18 mesi. Un anno e mezzo. Condannato a 12 anni e 4 mesi per duplice omicidio volontario e tentato omicidio volontario, la Cassazione gli ha inflitto la condanna a tredici anni dal fatto. Quando uscirà di lì Guido Gianni di anni ne avrà quasi 80. La sua “colpa”? Aver reagito a una rapina da parte di un commando armato per difendere la moglie e un cliente. Era il 18 febbraio 2008. Quel giorno entrano in tre dentro la gioielleria a Nicolosi, piccolo paesino alle pendici dell’Etna in provincia di Catania, una gioielleria che moglie e marito avevano messo insieme con tanto sacrificio. Maria Angela viene presa in ostaggio, picchiata, strattonata per i capelli e minacciata con una pistola puntata alla tempia e al cuore. Sono attimi concitati. Il marito non sa che fare. E a vedere la moglie così, gli sembra di morire. Muore per davvero. Quando ti accadono cose simili una parte di te muore. Se ne va. L’attimo dopo sei un’altra cosa. C’è una colluttazione. Secondo la sentenza, i banditi scappano e lui spara. Partono dei colpi, due banditi muoiono e uno rimane ferito. La moglie ha chiesto la grazia, ma pochi mesi fa la grazia è stata rigettata.

“Più passa il tempo e più si allontana la speranza di avere mio marito a casa – racconta la donna a Libero – mi creda, sto facendo di tutto. Oggi sono 18 mesi che lui è chiuso lì dentro. Un calvario e ora lui sta male. Ha perso tantissimo peso. Bisogna aiutarlo. Ho chiesto che gli vengano fatte delle analisi. Dalla taglia 63 è passato alla 48, capisce cosa voglio dire?”. La moglie racconta di come il marito avrebbe perso una cinquantina di chili. “Ha perso 50 chili – racconta – io sì gli porto qualcosa da mangiare affinché ricordi i sapori di casa sua ma anche la depressione è una brutta bestia. Si vede. Ha il colorito del volto spento smunto. Lui era un bell’uomo. Ha perso anche due denti. Che devo fare? Qualcuno mi aiuti”. Maria Angela il 16 luglio scorso ha anche scritto una pec al presidente del Consiglio Giorgia Meloni: “Sono disperata – si legge nella lettera – piango sempre e ho paura che Guido lì dentro morirà, e io insieme a lui. Presidente le parlo a cuore aperto: la prego mi aiuti a far tornare Guido alla sua vita e alla sua amata famiglia. Sta molto male e mi si stringe il cuore vederlo soffrire”. Due settimane fa ha anche scritto al Santo Padre. E ora chiede un incontro con il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella.

“L’altro giorno era la giornata contro la violenza della donna – sbotta Maria Angela – mia figlia dice che anche io sono vittima di violenza. Sì, mi sento così. E questo non è mai stato tenuto in considerazione. Io sono stata picchiata, malmenata, minacciata con una pistola, avevo il volto tumefatto, mi hanno staccato ciuffi di capelli. Sono finita al pronto soccorso. Potevo essere uccisa. È giusto che mio marito paghi per avermi difesa? In più non ce la faccio più. Anch’io ho problemi di salute. Devo fare una visita cardiologica. E per me andarlo a trovare sta diventando un salasso”. Da casa della signora, infatti, il carcere di Palermo dista 2 ore e 48 minuti, quasi tre ore di viaggio ad andare e tre ore a tornare, in una strada che, Dio mio, è un cantiere aperto. Un tragitto che la donna, che vive con una misera pensione di 600 euro, percorre a sue spese, ogni due sabati per poterlo vedere sei ore al mese. “Quando ci vediamo lui non mi può dare nulla – ci racconta – e io non posso dare nulla a lui. Quello che gli porto deve passare mille controlli, una volta ho messo una lettera con delle parole dolci e me l’hanno fatta tornare indietro”. E i vostri incontri come sono? “Le mani ce le possiamo toccare, ma solo un bacio di sfuggita, è proibito baciarsi. Lì poi è pieno di telecamere, anche se respiri ti registrano”. Maria Angela che di anni ne ha 69 teme anche per la sua salute. “Mi scoppia il petto e il cuore, mi gira la testa, devo fare dei controlli, sono debilitata con le ossa e peggioro sempre. Occorre qualcuno che mi assista. Io sto cercando di tenere duro e lotterò fino alla fine. Ma lui mi dice che uscirà da lì dentro la bara. Mi sento persa. Non è stato condannato solo lui ma tutta la nostra famiglia. E ogni giorno che passa è sempre peggio. Io ho paura di stare da sola. Ti rovina la vita una cosa del genere. Ora viene Natale e mi sento morire”. Sarà il secondo senza di lui. La figlia Aurora che per sposarsi attende il padre dice rivolgendosi al babbo: “Da 18 mesi le nostre vite sono state sconvolte. Non hanno solo condannato te ma anche a noi. Non è giusto tutto quello che stiamo passando. Che qualcuno faccia qualcosa”.

Serenella Bettin

“Chi ha ucciso mio figlio non ha fatto un giorno di carcere”

Quando i genitori di Davide mi ricevono a casa è una mattina di settembre. Lo senti in questa casa che manca qualcosa, qualcuno. Il ricordo di Davide è lì presente, fisso, costante, è impregnato ovunque. Nelle pareti, nell’aria, negli occhi dolci della madre e in quelli mesti del padre.
Aveva 17 anni Davide. Tempo un mese e ne avrebbe compiuti 18.
Una vita piena di sogni. La fidanzatina Lucrezia. Il fratello più piccolo. L’essere così legato a lui come vivessero in simbiosi. I genitori. La motocross. La scuola. Le sue passioni. Il fratello gli diceva sempre che avrebbe voluto mettere su un’officina. “Io sto dietro con la tuta – gli diceva – tu studia, stai davanti, fai meccatronica”.
Accanto al tavolo del salone c’è una foto che parla di loro: ritrae Davide con il fratello.
“È un inferno quotidiano”, mi dice la madre piangendo. “Davide non c’è più”.
Il dolore è impossibile da cancellare. Soprattutto se sai che chi ha fatto del male a tuo figlio è ancora libero. E lo sarà sempre.
Al braccio destro la madre ha tatuato il nome del figlio. Al collo indossa la catenina con la sua iniziale.
Davide Pavan è morto la sera dell’8 maggio 2022. Aveva passato la serata dalla fidanzatina. Stava rincasando con lo scooter quando a Paese, comune del trevigiano, è stato centrato in pieno da un’ auto. Davide è praticamente morto sul colpo. A causare l’incidente un poliziotto risultato poi positivo al test dell’alcol e che viaggiava a velocità sostenuta. L’agente ha patteggiato una pena di 3 anni, 6 mesi e 10 giorni. Ma praticamente non ha fatto un giorno di galera.
Anzi ai genitori del ragazzo è arrivata una fattura di 183 euro da parte della ditta incaricata dal comune di Paese per pulire la strada rimasta sporca del sangue del figlio e per levare i rottami dell’incidente.
Quando il padre mi parlava si vedeva che aveva tanto da dire. Avrebbe voluto dire di più. Ma qualcosa lo smorzava. Non ce la faceva. Era come se si fosse rassegnato. I soldi che hanno avuto di risarcimento dice sono soldi sporchi. Si sentono anche in colpa a spenderli. “La casa poi”, mi dice. Questa casa è troppo grande. Troppo grande senza Davide. “Brucerei tutto”.
A un certo punto suonano alla porta. La madre si alza. “Scusi devo rispondere”.
“Signora non si preoccupi”.
“È uno dei soccorritori di mio figlio…”
La mia intervista su La Verità.

👉 https://www.laverita.info/pavan-vedelago-ingiustizia-2665710414.html

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La Verità – 21 settembre 2023

La mia intervista al papà di Martina Rossi. “Me l’hanno ammazzata e sono liberi”

Martina avrebbe dovuto scrivere la sua storia. Martina avrebbe dovuto imprimere sulla carta i suoi racconti. A lei, il padre aveva affidato i suoi pensieri. Le sue tribolazioni. Le sue gioie. Cos’è un padre senza figli. Senza memoria.

Perché Martina è morta. 

Martina Rossi è morta per mano della cultura maschilista che ancora si incunea nei nostri territori. È così talmente radicata che solo un cambio radicale di mentalità può scardinare.

Ed è la cultura che vede la donna oggetto da commentare, da denigrare, da non rispettare, al punto che le sue volontà e i suoi desideri sono interpretati come capricci. Come i No per esempio. Serviranno anni di lotte per far capire che un No deve rimanere No. 

Andrebbe cambiata la testa ad alcuni uomini che si sentono padroni e non sono nemmeno padroni di loro stessi. 

È agosto 2011 e Martina è in vacanza con le amiche a Palma di Maiorca in Spagna. Una notte, nella stanza d’albergo dove alloggiava, per sfuggire a uno stupro scappa dalla terrazza e precipita di sotto. Il 3 agosto 2011 Martina muore. Per i fatti vengono condannati Alessandro Albertoni e Luca Vanneschi, oggi più che trentenni, residenti a Castiglion Fibocchi (Arezzo). La difesa ha sempre sostenuto che Martina si fosse suicidata. Dopo una prima condanna a sei anni, assolti in appello, la cassazione il 7 ottobre 2021, dieci anni dopo, li ha condannati a tre anni per tentata violenza sessuale. L’altra fattispecie, morte in conseguenza di altro reato, si è prescritta. 

E da ottobre scorso i due sono già in semilibertà. 

Noi di Grazia ci siamo messi in contatto con il padre. Bruno rossi, 83 anni. Ancora combattivo, il cuore in mille frantumi, gli occhi lucidi e la voce che si fa roca, tanto è ancora il dolore. 

Bruno, hanno mai pagato veramente queste persone?

“No. Mai. Abbiamo chiesto il risarcimento dei danni, ma non vogliamo un centesimo perché nulla potrà ridarci indietro Martina. Vogliamo solo che i responsabili di questa tragedia paghino davvero e daree le risorse a chi ne ha bisogno grazie alla associazione che aiuta le donne che subiscono violenza. Vogliamo riuscire ad avere un po’ di giustizia”.

Esiste questa giustizia?

“Non credo si faccia molto per tutelare le donne. C’è una buona attenzione nel mondo femminile e del volontariato, ma ci sono donne che subiscono torti tremendi e hanno un grande bisogno di aiuto”.

Com’è cambiata la società secondo lei? Questi stupri e femminicidi sono sempre più frequenti. “La famiglia è condizionata negli aspetti economici. Io sono stato sindacalista al porto di Genova, lo so bene. Ora sempre meno gente riesce a lavorare. Uno lavora per due, di conseguenza la famiglia è poco strutturata, sempre più allargata, ma ha reciso le radici. Si trasferiscono pochi valori, non si parla, non ci si conosce, si dà poco affetto alle persone. Proprio ieri sentivo questo padre che ha dimenticato la bimba in auto. Pensi quale strazio sta vivendo questa famiglia. La società ha bisogno di medicine, di momenti di affetto, di dolcezza, di obiettivi da raggiungere”. 

Secondo lei la donna a volte non denuncia perché non ha la dipendenza economica?

“Certo, noi lavoravamo tutti e due. Io quando mi sono sposato, telefonavo a Franca e le chiedevo come si butta la pasta. Ho capito che la vita era cambiata e ho imparato che prima si butta l’acqua e poi la pasta. Martina era arrivata tardi ma cresciuta in fretta, con tanto affetto”.

Quanti anni aveva lei quando è nata?

“Cinquanta, adesso ne ho 83. Ora avrebbe 33 anni. Si rende conto… 33. È morta a 20, cosa sono vent’anni? Niente. Avrei voluto essere nonno. A Martina piacevano i bambini”.

Sta seguendo il caso di Giulia Tramontano?

“Sì. Lui, Impagnatiello è la incarnazione delle persone che non sopporto. Uno così è semplicemente cattivo. Passi sulla vita della persona con cui hai fatto un figlio. Con il figlio in pancia. Ma come fai? Ma che padre aveva questo bambino? Una pena adeguata non c’è. Usando il buon senso, non servirebbe nemmeno il processo. Gli devi dare l’ergastolo. È automatico. Poi in carcere è giusto che lavorino. Ma che facciano lavori come quelli che fanno i portuali di notte al freddo, come facevo io. Quelli che hanno fatto del male a Martina ora lavorano dal padre e vanno a dormire in prigione. Come è possibile?”. 

Già, come è possibile? 

“Perché se hanno un avvocato bravo, non vanno in carcere. Non è più un processo sulla morale ma è un fatto tecnico tra avvocati. A volte mi viene voglia di partire per andare a vedere se dopo il lavoro tornano a dormire in carcere davvero. La morte di Martina si è già prescritta, come si fa? Ma la morte non si prescrive mai. Per chi perde un figlio, la vita finisce. Martina poi… era così bella”. 

Com’era? “Una meraviglia. Nei suoi comportamenti, nella sua riservatezza, nel suo modo di scrivere, di disegnare. Era in gamba. E poi è finito tutto. Durante il processo hanno cercato i momenti più stupidi, tipo quante volte ha bevuto Martina”. 

Si fa il processo alla vittima e non agli aguzzini? 

“Sì, esatto”. 

Come è cambiata la sua vita? “Vado nelle scuole a cercare di portare un messaggio per rompere questa catena infinita di omicidi. Si spezza solo con la cultura. Ma si è interrotto tutto, tutto non ha valore. Ti tolgono un figlio e ti manca la terra sotto i piedi. Mi piaceva tanto giocare a scacchi, ma da quando è morta lei non li ho più toccati”. 

Serenella Bettin

Sul numero di Grazia settimanale, del 15 giugno 2023

Io sto con la guardia condannata a 9 anni per aver fatto la guardia

Se mi chiedete cosa si provi a intervistare un uomo che da lì a poche ore entrerà in carcere, non lo so esattamente. Devo un attimo rielaborarlo.
So che ieri mi è capitato. E qui sotto trovate la mia intervista uscita La Verità, a Massimo Zen.

Lui è l’ex guardia giurata che il 22 aprile 2017 reagì a un commando di banditi che stava per compiere l’ennesimo assalto a un bancomat. Il quarto nella stessa notte per l’esattezza.
Zen quella sera esplose due colpi.
Il primo colpì il cofano del mezzo dei ladri, l’altro finì addosso a uno dei banditi: Manuel Major, un giostraio, che morì. La settimana scorsa la cassazione ha confermato la condanna per Zen a nove anni e sei mesi di carcere.

Quando gli ho chiesto se avesse paura mi ha risposto di sì. Che questa cosa lo spaventa. Perché non sa cosa troverà lì dentro. E che studierà da addestratore cinofilo.
Questa persona finisce in galera per aver difeso i cittadini. Questa persona finisce in galera per essersi difesa. I due lo stavano investendo. Lui ha esploso due colpi e un colpo è rimbalzato.
Questa persona finisce in galera perché non si è girata dall’altra parte.
Questo è lo Stato in cui viviamo. Uno Stato che garantisce i banditi e condanna le persone per bene.

Sulla carta trovate impresse le sue parole. Gli ultimi attimi di un uomo LIBERO che ha fatto il suo dovere, quello di cercare di difendersi e di difendere questo Paese, che ormai fa acqua da tutte le parti.

Massimo Zen sta per entrare in carcere. Lo raggiungiamo al telefono pochi attimi prima che lo passino a prendere. Lui è la guardia giurata di Cittadella, comune in provincia di Padova, che il 22 aprile 2017 reagì a un commando di malviventi che stava per compiere l’ennesimo assalto a un bancomat, nel trevigiano. Il quarto nella stessa notte per l’esattezza. Zen esplose due colpi.

Il primo colpì il cofano del mezzo dei ladri, l’altro finì addosso a uno dei banditi: Manuel Major, un giostraio, che morì. La settimana scorsa la cassazione ha confermato la condanna per Zen a nove anni e sei mesi di carcere. 

Come ci si rapporta a un uomo che ha fatto il proprio dovere, quello di difendersi e difendere, e sta per entrare nel braccio dei condannati.

Proviamo a fargli qualche domanda. 

Massimo tra poco passano a prenderla. “Sì, sto aspettando. Ma sono in ritardo come tutte le cose in Italia. Li aspettavo sabato ma di sabato lo Stato non lavora. Ho preparato i vestiti, il minimo necessario, sistemato alcune cose qui a casa e tra un po’ me ne andrò”.

Lei se lo aspettava? “Sinceramente no. Anche perché la procura generale di Cassazione aveva detto di rinviare tutto in appello e invece non hanno rinviato”.

Perché secondo lei? “Non lo so. Non abbiamo ancora le motivazioni”.

Una condanna che arriva dopo sei anni. “Sì, nei quali ho sempre dovuto arrangiarmi. L’azienda è sparita, sono stato lasciato solo. E le spese legali sulle mie spalle”.

Ma lei in questi anni ha continuato a lavorare? “Sì, fino a dicembre 2021, fino a quando non mi hanno tolto i titoli e ritirato l’arma”.

Quel giorno che è successo? “Avevamo sentito alla stazione radio che c’era un assalto a un bancomat da parte di una banda di malviventi. E ritengo sudisposizione dei carabinieri abbiamo cercato di fermarli. Loro hanno cercato di investirmi anche perché sulle deposizioni dei due arrestati c’è scritto: “potevamo farlo volare come un birillo”.

Ma loro sono ancora in carcere? “Non lo so, non posso saperlo”.

Se tornasse indietro lo rifarebbe? “Se guardo alla mia coscienza e alla mia divisa sì lo rifarei. Ma se guardo quello che ho passato e quello che sto passando e considerando le leggi che ci sono in Italia, mi girerei dall’altra parte”.

Ne vale la pena? Proprio oggi – ieri per chi legge – sulla Verità pubblichiamo un dossier sulle forze dell’ordine che hanno le mani legate. “Esattamente. Io ero vigilante privato ma se penso al carabiniere a Vicenza. Ti indagano per atto dovuto. Atto dovuto cosa? Ha sparato a una persona che aveva aggredito le forze dell’ordine”. Ho parlato con qualche suo collega che mi ha detto che la cosa migliore è far finta di niente e lasciarli andare. “Brava. Sì. A chi diamo la colpa poi se le città non sono sicure? Tanto non vieni tutelato. Per cosa poi. Per 1.500, 1.300 euro al mese? Rimani da solo. Spariscono tutti”.

Lei quanto prendeva? “Io arrivavo a 1.500 ma dopo 20 anni di servizio. Un vigilante all’inizio prende 1.100 euro al mese”.

Ha figli? “Sì uno grande. E ora la mia compagna che rimane da sola”.

Adesso in carcere cosa farà? “Studio. Devo finire i corsi da addestratore cinofilo”.

La spaventa? “Sì perché non so cosa troverò. Purtroppo in Italia è così. Perché tu possa difenderti prima devono spararti”.

Se non finisce in cassa da morto. “Già. Ma qualunque divisa indossi sei un bersaglio”.

Vuole dire qualcosa al ministro Carlo Nordio. “Anche se dico qualcosa non ha nessun peso. Sono deluso da questa giustizia”.

Ci salutiamo. Impossibile dire altro. Le parole faticano a uscire, così come i saluti. Sono gli ultimi attimi di un uomo libero che ha solo cercato di difendersi.

Serenella Bettin

“Una montagna senza neve è una pianura senza acqua”

Franco Secchieri – Glaciologo

Da Libero – 4 luglio 2022

“Il ghiacciaio è un essere vivente e come tutti gli esseri viventi, senza sangue muore”. Franco Secchieri studia i ghiacciai da 50 anni. Membro del Comitato Glaciologico Italiano, glaciologo, vanta quattro spedizioni nelle montagne del Karakorum e dell’Himalaya. Ultimamente si sta occupando proprio del “caso Dolomiti”.Ieri dopo la tragedia sulla Marmolada l’abbiamo raggiunto al telefono.“Con le temperature così elevate è più facile che il ghiacciaio si rompa e possa franare a valle. Dal filmato che ho visto, si vede una grande massa che si stacca dalla cima dove arriva la funivia e che cadendo si polverizza. Poi la valanga percorre un sacco di strada e arriva fino al sentiero normale dove c’erano gli escursionisti che stavano facendo la salita. Ma avanti di questo passo sarà sempre peggio. Il ghiacciaio della Marmolada tra venti trent’anni non ci sarà più”.Secchieri ci spiega che sabato scorso lo zero termico era oltre i 4000 metri. Le Dolomiti arrivano a un massimo di 3300. La cima della Marmolada è 3342 metri. Un problema, perché se lo zero termico è oltre i 4000, vuol dire che la neve al di sotto si scioglie. E se si scioglie è un disastro. “Come funziona un ghiacciaio? – continua Secchieri – Negli inverni prosperosi, quando nevica molto, i ghiacciai crescono perché la neve si accumula e si trasforma in ghiaccio. Per anni è accaduto questo, ma da trent’anni la neve ha iniziato a fondere e i ghiacciai scompaiono”. Secchieri ci spiega che la fusione è quel fenomeno per cui la neve si trasforma in acqua. E dalle immagini riprese col drone si vede un ghiacciaio in sofferenza, roccioso, dove la neve a inizio luglio si è già sciolta. Alcune foto da lui scattate dipingono perfettamente il problema. In una immagine di 37 anni fa si vedono il manto bianco e la punta della montagna che sembra un pandoro di neve, nelle foto recenti la neve lascia il posto alla roccia e il ghiacciaio si ritira. Ok, ma come mai? “Sono tante le spiegazioni. Non c’è solo l’effetto serra. Ossia l’immissione di Co2 che fa aumentare la temperatura. Ci sono componenti astronomiche e la circolazione globale dell’atmosfera che sta cambiando. Il clima è sempre cambiato certo, ma è la velocità del cambiamento che è diversa. Una volta il ciclone africano durava pochi giorni, ora dura settimane”. Gli esperti dicono che questo Caronte ce lo porteremo dietro fino a metà agosto. Ma allora che possiamo fare? “Abbiamo già fatto tanto per rovinare il pianeta. Non possiamo deviare il corso dell’orbita della terra. Dobbiamo adattarci. Ci siamo accorti che l’ acqua manca, dobbiamo cercare di trattenerla e non sprecarla. Purtroppo i ghiacciai si stanno frammentando. Se la neve si fonde i ghiacciai scompaiono. Ma il ghiaccio per vivere ha bisogno della neve. Si nutre e cresce se c’è, si ammala e muore se questa non c’è più. Del resto montagne senza neve, sono pianure senza acqua”.

Serenella Bettin

Madri che ammazzano i figli: “Quando inizia deve finire”

Libero giovedì 16 giugno 2022

Quando l‘altro giorno ho saputo che la madre di quella povera bimba a Catania aveva confessato, ero a Cesena per un servizio e in auto con un collega ho detto: “Dio mio che orrore. Non può essere una cosa del genere”.
Quando capitano questi fatti orrendi per giorni ci penso sempre. Mi fa paura l’essere umano. L’instabilità. La precarietà delle menti di padri e madri che hanno messo al mondo figli.
Ho il terrore della precarietà delle menti del genere umano.
Poi ieri mi è capitato di intervistare Vincenzo Maria Mastronardi, psichiatra, criminologo, docente all’Università.
Il suo libro “I serial Killer”, una notte quando ancora studiavo Legge, l’avevo divorato tutto.
Non avrei mai pensato di riuscire un giorno a intervistarlo. E ieri quel giorno è arrivato.
Nel 2007 Mastronardi ha scritto: “Madri che uccidono”.
Quando gli ho chiesto: “Ma come è possibile che una madre non si fermi? Non le viene in mente: “oddio cosa sto per fare?”.
Come è possibile che non risponda a quel “mamma mamma mamma mamma”.
“No – mi ha risposto lui – quando comincia deve finire”.
In quel momento mi sono sentita morire.
Quel “quando comincia deve finire” mi ha lasciato pietrificata.
Dietro queste madri che ammazzano i figli si nascondono i più grandi drammi, animi squartati mai guariti.
Oggi su Libero con Vittorio Feltri 👇

Vincenzo Maria Mastronardi, psichiatra, criminologo clinico, già direttore della cattedra di Psicopatologia Forense all’Università La Sapienza di Roma, nel 2007, tra le suenumerose pubblicazioni (32 libri), ha scritto: “Madri che uccidono. Le voci agghiaccianti e disperate di oltre trecento donne che hanno assassinato i loro figli”. Titolare della cattedra di Teoria della devianza e criminogenesi all’Università degli Studi internazionali di Roma è anche Garante dei diritti delle vittime di reato (Associazione difensori civici italiani). Seguendo queste donne ha visto i più grandi drammi. Gli squarci più profondi di anime mai guarite.

Professor Mastronardi, il caso di Catania. Cosa si nasconde dietro una madre che ammazza la figlia? “Io ho visitato e periziato 17, 18 mamme figlicide e tutte fanno una tale pena. Indipendentemente dalla capacità di intendere e di volere, tutte hanno o una patologia pregressa o una follia mostruosa della normalità razionale con una bassa soglia di tolleranza allo stress”.

Questa follia esplode così? “Ci può essere una psicosi post partum che può durare anche un paio d’anni o una depressione maggiore con una visione pessimistica di sé e del mondo e del futuro, o a monte una schizofrenia paranoide o un disturbo psicotico per esempio uno scompenso ormonale. Oppure una patologia del comportamento”.

Cioè? “Una bassa soglia di tolleranza allo stress; alle spalle ci possono essere lutti, abbandoni reali o amplificati, separazioni”.

Quanto i divorzi incidono? “Possono incidere se vi è un terreno psicopatologico”.

Cioè preesistente? “Sì, altrimenti sé tutte le separazioni dovessero portare a figlicidi…”.

Quali sono i segnali? “Un mutamento del proprio comportamento che dapprima è sereno e tranquillo e poi si manifesta con estemporanee azioni aggressive mai verificatesi prima, come gettare a terra cose, o l’acqua bollente addosso al figlio”.

Qual è la differenza tra una patologia clinica e una comportamentale? “Nella patologia del comportamento la persona ha la possibilità di scegliere se lasciarsi andare all’ istinto omicida oppure no”.

Cioè la madre capisce cosa sta per fare? “Sì, invece nella psicosi la persona vede tutto nero ed è costretta ad agire proprio perché è la malattia stessa a condizionarla”.

Ma come è possibile che una madre alla settima coltellata non si fermi? Non le viene in mente “oddio cosa sto per fare”? “No, quando comincia deve finire. Come se fosse un motore che si mette in moto e non riesce più a fermarsi. C’è anche la sindrome di Medea, uccido per gelosia tuo figlio perché tu mi stai cornificando”.

Qualcuno sacrifica i figli per punire il compagno o compagna? “Sì”.

Come quel padre che ha chiuso il figlioletto di 7 anni, dopo averlo ammazzato, dentro l’armadio. “Esattamente”.

Ma il caso Cogne. Ammesso sia stata lei. È veramente possibile che uno non ricordi? “Sì è possibile. A me è capitata una persona che aveva ucciso la figlia col filo del citofono e aveva scoperto di averlo fatto due anni dopo, sognandolo”.

Cosa accade nella mente? “C’è una rimozione del reato compiuto. La mente entra in autoprotezione per proteggere se stessa e per non star male”.

C’è stato un aumento di figlicidi? “In vent’anni in Italia abbiamo avuto 480 casi. Tra il 2017 e il 2018 pare ce ne siano stati 36”.

L’essere costretti a casa con i figli, in tempi di pandemia, può influire? “Dopo la pandemia è successo qualcosa. Da un’ indagine fatta su mille famiglie è emerso che alcune riuscivano a compensare bene, altre famiglie si sono spaccate. Come se la pandemia fosse una sorta di spartiacque”.

Serenella Bettin

In due hanno 200 anni. Un miracolo della natura

Franco e Francesca – maggio 2022

Quando li ho conosciuti ho pensato e creduto fossero un miracolo della natura.
E lo sono per davvero.
Francesca ha 96 anni. Li ha fatti il 26 maggio.
“Finisco di fare le pulizie e poi può venire quando vuole”, mi ha detto quando l’ho chiamata al telefono.
Con il marito abita al 5 piano di una palazzina in centro a Treviso, in piazza Giustinian – Recanati.
La porta quando arrivo è aperta. Lei si sta guardando allo specchio. Scruta la sua immagine. I suoi occhi bucano il vetro. Un ritocco ai capelli e mi accoglie. “Perché non ha preso l’ascensore?”, mi chiede. “Faccio ginnastica, preferisco”.
“Fa bene! Prego si accomodi”.
Avevo letto sul Gazzettino a firma di Maria Elena Pattaro – onore alla paternità della notizia cosa sempre più sconosciuta in questo mestiere, pensate che una volta un quotidiano locale veneto aveva ripreso una mia storia senza citare la fonte con tanto di foto (allucinante) – ecco dicevo avevo letto che a Treviso c’erano due coniugi che insieme facevano 200 anni.
Ma mai avrei pensato un simile miracolo.
Lei arzilla, ha due occhi del colore dell’oro marchiato a fuoco, accesi, attenti, lucenti. Ancora sprigionano la voglia di vivere.
Un golfino di cashmere rosa perlato, un filo di rimmel, un po’ di rossetto, ai piedi indossa infradito e come pantaloni ha quelli belli larghi, vita bassa, comodi. La casa sembra quella di due sposini appena rientrati dal viaggio di nozze. Non ci sono cose vecchie. Ingiallite. Medicinali in bella vista. Ci sono i ricordi e i cimeli dei loro viaggi. I libri. Le foto dei figli. Tutto è in ordine.
“Francesca dove sei?”.
Fa capolino lui dall’altra stanza cercandola, come si cerca sempre quell’amore da una vita, anche quando l’hai trovato, è sempre una ricerca dell’uno verso l’altro. Quando lui arriva in salone, sorretto un po’ dal treppiede, mi sorride. Ha gli occhi azzurri del colore del cielo, quello chiaro. I capelli bianchi gli incorniciano il volto. I lineamenti nitidi perfetti netti segnati dal tempo. La mandibola marcata ancora porta l’eleganza e il vigore di un maestro di ballo. Mi stringe la mano con forza e vigoria. E mi fa accomodare.
Lui, Franco Zanon, 104 anni fatti il 3 aprile scorso, classe 1918, ha alle spalle 4 guerre. È stato anche naufrago. A 17 anni scrisse una lettera a Mussolini perché voleva arruolarsi in Marina. Mussolini lo fece chiamare e lui venne spedito a Pola. Poi quando tornò a casa decise di cambiare vita. “Ero talmente disgustato dalla guerra – mi dice – da quello che avevo visto che non ne potevo più. Così mi sono iscritto all’Accademia di Ballo di Milano e da lì ho iniziato a fare il direttore artistico”. Ed è così che incontra lei. Lei nata a Farra d’Isonzo, in provincia di Gorizia. Friulana, tempra dura. “Io sono goriziana – ci tiene a ribadire – qualche dovrebbero cucirmi la bocca”. All’anagrafe si chiama Maria Carmen Trevisiol. Ma per gli amici loro sono da sempre Franco e Francesca.
Finite le scuole superiori si iscrive a Ca’Foscari a Venezia. Poi però escono i concorsi per l’insegnamento e decide di provarci. Passa il concorso e diventa maestra di scuola elementare. Una sera a Caorle, quando lui era direttore artistico del Petronia, incontra lui. Lui la vede e capisce che quella è la donna della sua vita. Lei che ancora le sistema il golfino. Lei che ancora le sistema i capelli. “A me all’inizio non interessava – mi racconta lei sorridente – sa… avevo anch’io il mio bel fisico. Avevo il mio giro, mai avrei pensato”. E invece. Invece finiscono a nozze, sposati da 67 anni. A 80 anni hanno fatto il giro del mondo insieme. Valigia, trolley, senza tanti fronzoli. “Arrivavamo in albergo – mi racconta lei – nemmeno il tempo di cambiarci ed eravamo già fuori a vedere, visitare”. “Abbiamo preso 34 aerei e 12 navi”.
Ma i vostri figli? Non vi dicono niente? “Ci lasciano liberi. Indipendenti. Il telefonino ? Mi chiede lei, spesso lo dimentico. Il segreto è non rompere le scatole a nessuno”.
Loro vanno a fare spesa da soli. Escono. Vanno in piazza. Fanno gli aperitivi. La loro casa è un museo ordinato di libri foto cimeli ricordi di viaggi. “Il posto più bello è stata la Polinesia”.
“Tra poco usciamo”, mi dice. “Andiamo a prendere il pane”.
“Mi saluti il suo direttore Alessandro Sallusti – mi dice lui – il mio preferito, è l’unico che seguo”.
Quando lei mi accompagna alla porta mi dice: “Ciao bella, a te lo posso dire”.

#sbetti

“Ciao bella donna”. “Shh. Zitto che non si può dire”

A casa di Giancarlo Gentilini – sabato 14 maggio 2022

Quando faccio le interviste chiedo sempre di andare a casa. È a casa che ci si lascia andare. Ci si scarica. Ci si scioglie. Si abbattono muri e finestre. A casa si scoprono tutti i lati. Gli angoli. Le paure. I pregi. I difetti. Lo percepisci da quello che senti. Lo annusi. Nei gesti. Nelle pareti. Tra le suppellettili. Parlano anche i muri. Oggi su Libero la mia intervista a Giancarlo Gentilini. Uno degli Alpini più vecchi. 93 anni. Come le Adunate.

Quando sono entrata a casa di quest’uomo, l’ho visto tutto d’un pezzo in piedi sulla porta. In un attimo come in un flash che ti attraversa il cervello mi sono rivista seduta sui banchi del liceo a Treviso, quando lui era sindaco. In un attimo mi sono venute in mente quelle scene di quando tolse le panchine per non far sedere gli immigrati. Di quando disegnò i teschi a terra per segnalare gli incroci pericolosi. Di quando avviò la protesta contro i chewing-gum. O di quando si scagliò contro il Gay Pride. Dalle espressioni colorate di certo non si può dire che non fece parlare di sé. Quando ai miei amici marchigiani dicevo: “vado al liceo a Treviso”, mi rispondevano: “Oddio dove c’è il sindaco sceriffo?”. Ma la città a quei tempi era sicura. Mica come adesso che Padova per esempio è un ricettacolo di banditi spacciatori e molesti. Ricordo che quando frequentavo il liceo mi dicevo: ”io un giorno questo sindaco lo voglio conoscere. Ci voglio parlare. Voglio fare una lunga chiacchierata con lui. Voglio vedere com’è. Capire come pensa”. E quel giorno è arrivato. Sabato 14 maggio sono rimasta tutto il pomeriggio a casa sua. In piedi sulla porta mi ha stretto la mano che pareva me la stritolasse. Mi ha fatto accomodare in salotto. E quando sono entrata ho fatto un giro su me stessa. Tutto attorno era un caleidoscopio di quadri, foto, immagini, che parlano da sole. Mi ha subito colpito quella su in cima alla porta dove lui abbraccia la moglie. La moglie si chiama Maria Pace ed è una signora risulta e distinta. Mi devo ricordare di ringraziarla ancora per il caffè e dirle che era buono davvero. Dopo l’intervista mi ha accompagnato con la moglie alla porta. Mi ha detto: “Ciao bella donna”. “Shh- gli ho detto – non si può dire”

E qui trovate la mia intervista uscita su Libero

In piedi tutto d’un pezzo lì sulla porta, alle quattro in punto, Giancarlo Gentilini, è pronto per ricevermi. Mi fa accomodare in salone. Tutt’attorno è un puzzle di quadri, ritratti, fotografie che parlano da sole. Una bella immagine lo ritrae mentre abbraccia la moglie. La moglie Maria Assunta Pace è una signora risoluta e distinta. Lui, giacca verdone a quadri e cravatta verde Lega, indossa la spilla degli Alpini. Alle pareti un ritratto lo dipinge impettito. La fascia tricolore di quando era sindaco di Treviso. E quel cappello. Per lui sacro. Quello delle Penne nere. Novantaquattro anni il 3 agostoprossimo, ha gli stessi anni delle Adunate degli Alpini e indossa l’energia di un 50 enne irrobustito dalla vita. Naso adunco. Il suo profilo sembra quello del Duca di Urbino, Federico da Montefeltro. Gli occhi cerulei, attenti, cercano sempre l’interlocutore. La sua grinta si trasmette nelle mani. Nei colpi sopra il tavolo quando si scalda. O nella sua risata ancora grossa grassa e pazzesca, quella che in mezzo alla gente si distingue perfettamente. Perché lui è stato questo. Dalle espressioni che facevano discutere. A Treviso lo vedevi ovunque. Giunto alle cronache internazionali per la sua lotta agli immigrati clandestini, al Gay Pride, ai chewing-gum per terra, fu lui a far togliere le panchine per non fare sedere i clandestini. O a disegnare i teschi per segnalare gli incroci. Chi scrive ricorda quegli anni. Andavo al liceo a Treviso. E tutto si può dire tranne che la città non fosse sicura. Sindaco dal 1994 al 2003, vicesindaco fino al 2013, per anni ha avuto la scorta. Fu Umberto Bossi durante un comizio a riferire che era stato minacciato dalle Br. Sorriso fiero. Sguardo attento. Nel 2000 venne insignito della targa di “sindaco sceriffo”, anche nel North Carolina. È uno di quegli uomini che non puoi imbrigliare. Non li puoi incatenare.

Cosa pensa dei fatti di Rimini? “Ciò che è successo è una congiura di un colore ben definito che non è certamente quello del centro destra. Hanno voluto cercare qualcosa che potesse minare la sacralità degli Alpini”.

A Rete Veneta ha detto che non ha mai visto queste cose alle Adunate. “Mai. Ne ho fatte 50 in tutta Italia, la mia prima nel 1957. L’Adunata è una cosa sacra. Ma si è persa la sacralità”.

Cioè?“Ora ci sono la sfilata e poi tutto il codazzo di banchetti, qualcuno avrà pensato fosse una sagra”.

Dicono ci siano state oltre 500 segnalazioni di molestie. “Se qualcuno ha sbagliato deve essere punito, io sono per il rispetto delle regole. Ma gli Alpini non fanno queste cose. Avranno fischiato per un bel sedere. Io ho fatto il servizio militare con gli Alpini, mi hanno insegnato ordine, disciplina, rispetto delle persone e delle regole. Il principio dell’Alpino è: prima gli altri, poi te”.

Non trova fuorviante che proprio loro abbiano potuto macchiarsi di queste cose? “C’è stata un’invasione di 450 mila persone, mica tutti erano Alpini. La regola per noi è: se vedi qualcuno che fa lo scemo, fuori. Ma sa qual è il mio cruccio?”.

Quale? “Non aver visto tanti giovani sfilare perché il servizio militare non è più obbligatorio”.

Lo rimetterebbe? “Sì, quelli che l’hanno tolto li fucilerei politicamente. Per me è stata una scuola di vita. Brigata Cadore, sesta Artiglieria Montagna. Quando ci fu il disastro del Vajont, 1500 uomini arrivano lì dopo due ore”.

Ce ne siamo dimenticati. “Non si studia più. Io a 93 anni sogno l’esame di maturità. Ora questi giovani sono isolati. Si costruiscono un mondo a parte. Manca il sacrificio. Durante la guerra partivo con il camion a legna e andavo a Jesolo; caricavo le taniche piene dell’acqua di mare perché mancava il sale per fare la polenta”.

Ma lei ha ancora questa grinta. “Ne ho viste di tutte i colori. Quando ci fu il bombardamento a Treviso andai col vescovo a ricomporre i corpi”.

Ora di questa guerra cosa pensa? “Un delitto che porterà alla fine della nostra civiltà. Complice la debolezza dell’Europa”.

Avrebbe inviato le armi in Ucraina? “Certo, io sono per il rispetto dei confini. Nessuno può avere l’idea di occupare territori non suoi. Ho vissuto i periodi di Stalin, Hitler, Mussolini. I dittatori non guardano in faccia nessuno”.

Putin lo è? “Sì”.

Non trova imbarazzante la polemica delle femministe dinanzi a questo? “Demenziale”.

Se fosse il presidente Ana cosa farebbe? “La parola offende come un pugno. Ma la magistratura è quello che è. Basta vedere i libri del suo direttore Alessandro Sallusti con Palamara. Io sono finito sotto processo da tutte le parti”.

Aveva anticipato i tempi della bomba immigrazione. “Ho scritto a Trump che lui ha vinto con quello che dicevo io 25 anni fa”.

Ora questa Lega? “Porteremo i voti alla Lega ma sento che si è allontanata dal popolo. La forbice si è aperta. Noi, Lega Nord, avevamo creato un movimento che partiva dal basso. Il partito parte dai vertici”.

Questa autonomia la faranno? “Non lo so, hanno sperperato soldi col reddito di cittadinanza. Salvini non doveva approvarlo”.

Sì è fatto tardi. Devo andare. “Ciao bella donna”, mi dice quando mi accompagna con la moglie alla porta.

“Shh, stia attento che non si può dire”.

Serenella Bettin

#sbetti

Rigopiano. “Le ho detto che la mamma era diventata un angioletto”

Valentina Cicioni e Giampaolo Matrone, l’ultimo selfie prima della tragedia

Questa intervista è uscita sul quotidiano Libero il 18 gennaio 2022. A cinque anni dalla valanga che colpì Rigopiano.

“Lo sa cosa mi fa male? Il non poter fare una treccia a mia figlia. Con le mani non ci riesco”. Giampaolo Matrone ha 38 anni. È uno degli 11 sopravvissuti della tragedia di Rigopiano (Pescara). Oggi sono 5 anni. Ventinove i morti in quell’hotel inghiottito da una valanga di 120 mila tonnellate. Cinque anni di una vita stravolta, che cambia per sempre. Dove si tengono stretti ricordi. Ci si fa forza. E si riscrive un altro capitolo. Ma cinque anni in cui il processo non è mai iniziato. Le udienze che ci sono state sono brevissimi sketch dove i giudici fanno da comparse, fanno l’appello, e poi prendono e rinviano. Giampaolo in quella tragedia ha perso la moglie Valentina Cicioni, 32 anni.La loro figlioletta Gaia all’epoca aveva 5 anni. Ora è il padre a prendersi cura di lei.

Prima della tragedia faceva le paste nel negozio “La Deliziosa” a Monterotondo (Roma) che i suoi genitori aprirono quando lui aveva sei anni. Ora? “Ora la pasticceria ce l’ho ancora. Dal 2013 l’ho rilevata con mio fratello. Solo che se prima stavo in laboratorio e impastavo, ora con le mani non riesco a fare tanto e quindi al mattino dopo che ho accompagnato Gaia a scuola, vado in ufficio. Seguo l’amministrazione della pasticceria. Abbiamo dipendenti”.

Come sta fisicamente? “La gamba sinistra è ancora addormentata, zoppica un po’. La mano destra ha subito 5 interventi, la tengo d’appoggio. Se lei mi vede non direbbe che sono stato 62 ore sotto le macerie. A oggi rimane una cicatrice nel cuore per la perdita di Valentina e una profonda delusione per questo processo che non parte”.

Scandaloso. Come mai? “Non lo so. Non c’è nemmeno una calendarizzazione serrata delle udienze. In quelle fatte i giudici entrano, fanno l’appello e vanno via. Rinviano per qualsiasi cosa, qualsiasi cavillo è buono per rinviare”.

Oggi esce uno studio dell’Università di Trento che dimostra che non c’è correlazione tra la valanga e le scosse sismiche che ci furono quel giorno come sostengono gli indagati. “Sì, che cosa brutta, vogliono far passare la valanga come conseguenza del terremoto, così si discolpano tutti. Ma con i periti e gli avvocati dello Studio3A di Mestre stiamo smontando questa tesi pezzo dopo pezzo”.

Voi cosa sostenete? “Il terremoto poteva far venire giù due centimetri di neve. La valanga è stata causata dalla forte nevicata. Non dalle scosse. Ci hanno lasciato lì senza mezzi di soccorso. Poi l’albergo che lì non doveva essere costruito”.

Lo Stato è stato presente in questi anni? “No. Uno deve sempre fare affidamento su ste stesso. Se sei tu che devi dare allo Stato ti devi sbrigare, ma se è lui che deve dare a te non ci contare perché sei già morto”.

Sessantadue ore. Come ha fatto a sopravvivere? “Ce ne vorrebbero altre 62 per raccontare la forza e la voglia di stare attaccato alla vita. Mi stavo soffocando, svenivo, dormivo e mi svegliavo. Quando dormivo vedevo Valentina, come se lei mi sorreggesse e mi dicesse: “cerca di esserci almeno tu con Gaia”. Quando sono arrivati i soccorritori ho detto: “non state qui da me, andate a salvare Valentina”.

Gaia dov’era? “Per fortuna a casa con i nonni”.

Come gliel’ha raccontato? “Dopo 10 giorni è venuta a trovarmi in ospedale. Le ho raccontato che avevamo fatto un incidente e che la mamma era diventata un angioletto. Lei mi ha detto: “Papà cerchiamo di parlarle al telefono”. Io le ho detto: “No al telefonino no. Lei ci guarda dall’alto e sarà sempre con noi. Oggi la ricordiamo solo con i ricordi belli. Io ho sempre detto a Gaia che se vuole vedere l’arcobaleno deve cominciare ad amare la pioggia”.

Nel 2022 esce il suo libro. “Sì me l’avevano chiesto ma ancora non me la sentivo. Un anno fa ho deciso di far conoscere a tutti chi fosse Valentina, una mamma e una donna fantastica, così quando Gaia è grande lo può leggere con calma. E soprattutto racconto come sono andate veramente le cose”.

Come? “Noi quella mattina volevamo andare via. C’era troppa neve. Le paure erano tante. Avevamo già fatto le valigie. Ma la strada era impraticabile. Tutta la mattinata in attesa. Fino a che non ci hanno detto che avremmo dormito lì. Poi all’improvviso…”.

All’improvviso? “All’improvviso quella botta di vento che ha spazzato via tutto. Tutti noi. Come una metropolitana impazzita che passa. Come mille tir da cento chili l’uno. Io ero accanto a Valentina, lei è stata scaraventata via, schiacciata contro il muro del caminetto”.

Domani – oggi per chi legge – ci sarà alla commemorazione? “No, non me la sento. Tengo solo le cose belle. Ci sono andato due anni. E ogni volta arrivavi a casa la sera e dicevi: “per fortuna è finita”. Io non voglio più dire “per fortuna è finita”.

Serenella Bettin

Il pezzo uscito su Libero

La moglie di David Rossi: “Avevamo una sintonia perfetta. Lui voleva lasciarmi un messaggio”

Quando ieri ho intervistato la moglie di David Rossi, Antonella Tognazzi, ho avuto l’ennesima conferma di quello che percepisco quando entro dentro queste storie. La consapevolezza. L’equilibrio raggiunto dopo un dolore enorme.
Di lei mi ha colpito la gentilezza. Se mi dovessero chiedere di associarla a una qualche parola, la assocerei alla gentilezza.
All’inizio sono entrata in punta di piedi. Poi il nostro dialogo è diventato naturale. Mi ha fatto riflettere. Quando mi ha detto: “lo so che lui voleva mandarmi un messaggio. In 15 anni non abbiamo mai litigato. Avevamo una sintonia perfetta”.
Questi sono i rapporti che valgono la pena essere vissuti. Questi sono i rapporti che danno un senso alla vita. Quelli che nonostante tutto non muoiono mai.
Quando mi ha detto: “credo ci sia l’interesse a farlo passare come suicidio”, mi sono zittita.
Perché poi l’altra sera per caso, ho ritrovato un bigliettino con scritta una frase di Confucio che mi aveva detto un caro vecchio parroco a cui ero molto legata. “Ci sono due errori che si possono fare lungo la via verso la verità. Non andare fino in fondo. E non iniziare”.
La moglie mi ha detto che David pensava che ci fosse un tempo per tutto.
Ci sarà un tempo anche per questo.
Questa la mia intervista su Libero

“Questi sono fatti gravissimi. Se la magistratura opera così c’è da avere paura tutti». Antonella Tognazzi è la moglie di David Rossi. Il manager della Comunicazione del Monte Paschi di Siena morto il 6 marzo 2013. Quel giorno Rossi cadde dalla finestra del suo studio e poco dopo morì. Di due indagini che la magistratura ha avviato, entrambe sono state archiviate seguendo la pista del suicidio. Ma, come risulta dalla relazione della Polizia postale, la mail con cui Rossi annuncia il suicidio, sarebbe stata creata il giorno dopo la sua morte. Come è possibile? Chi ha scritto quella mail? I pm di Siena lo sapevano. Perché nessuno ha indagato? «Fatti gravissimi», dice la moglie intervistata da Libero.

Signora Tognazzi sono passati nove anni.
“Sì. Nove anni che cerchiamo di scoprire la verità. Ci sono troppi elementi che non tornano. Abbiamo inoltrato richieste alla procura di Siena portando a sostegno le prove, ma da parte della magistratura c’è sempre stato un muro”.
Come mai secondo lei?
“Non lo so. Da quando è successo il fatto noi abbiamo sempre chiesto che si indagasse per omicidio. Tutte le nostre richieste sono sempre state rispedite al mittente. Non tenendo conto di tutte le prove”.
Tipo l’orologio. È caduto mezz’ ora dopo il corpo di suo marito. Qualcuno deve averlo buttato?
“Si limitano a dire che quel luccichio che si vede cadere dalla finestra dopo la caduta di David non è l’orologio ma qualcos’ altro. Ma allora devono dirmi cos’ è”.

Perché non hanno approfondito?
“C’è voluta l’apertura di una commissione d’inchiesta parlamentare per chiarire cose che la magistratura non ha mai chiarito”.
Pierangelo Maurizio a “Quarto Grado” ha fatto vedere che nel pezzo di strada dove è stato trovato David, in un’ora passano centinaia di persone. Possibile che quella sera non sia passato nessuno?
“Per me è difficilissimo entrare in questi dettagli. Crea un disagio enorme. Cerco di sapere il meno possibile. Ci sono i tecnici e gli avvocati che godono della mia massima fiducia”.
Le va di parlare di quei biglietti?
“Quel giorno la Scientifica è arrivata tre ore dopo. Uno dei magistrati ha vuotato il cestino e li ha ricomposti. Ma quei messaggi iniziavano con parole precise che David non usava mai. Tutti mi chiamano Toni. Lui mi diceva “ti chiami Antonella e io ti chiamo col tuo nome”. O “Amore”, lui non mi chiamava mai “amore”.

Teme che quei biglietti non li abbia scritti lui? O potrebbe averli scritti sotto minaccia? “No. Non dico questo. Ho riconosciuto la calligrafia. Ma ci ho letto un messaggio”.
Cioè?
“Come se lui avesse voluto dirmi: occhio quando leggerai queste parole. Come non ti tornano queste, non ti deve tornare tutto quanto. Non può essere un caso. Avevamo una sintonia perfetta noi. Ci capivamo al primo sguardo. In 15 anni mai litigato”.

Gli ultimi giorni aveva notato qualcosa di strano in lui?
“Era preoccupato per la situazione della banca. C’era questa tensione. Negli ultimi giorni però io ero ricoverata per una bronchiolite. Ma ora col sennò di poi posso dire che lo vedevo impaurito. Sì. Era impaurito. Vedevo un David che non era David. Era pieno di ansie. E lui non lo è mai stato”.
E quella mail con cui annuncia il suicidio?
“Quella mail me la fecero leggere per dirmi che era un gesto volontario. Io nell’immediato rimasi basita, stralunata. Quando un magistrato ti dice determinate cose poi cerchi di capire, ma ci credi perché te lo dice un giudice”.
Invece cosa pensa ci sia dietro?
“L’interesse a farlo passare come suicidio”.
Per questioni legate alla banca?
“Non lo so. Lui sicuramente sapeva qualcosa. In relazione alla banca. Ai festini. Era scomodo”.

Cosa si può fare adesso?
“Stiamo lavorando per chiedere la riapertura del caso. La procura di Genova ha riaperto alcuni fascicoli perché Genova è competente sulla procura di Siena per l’operato di alcuni magistrati”.
Ora viene fuori che la mail con cui David annuncia il suicidio è stata creata dopo la sua morte.
“Anche quella è strana. C’è tutta una conversazione. David si stava scrivendo con l’amministratore delegato a mezzo iPod. Che senso ha abbandonare l’iPod e scrivere una mail indirizzata alla stessa persona col pc?”.
I pm di Siena, stando a quanto detto dal gip di Genova, sapevano che quella mail fosse un falso.
“Sì. Anche questa cosa è scandalosa. La procura di Siena come minimo avrebbe dovuto avvisarci. Secondo lei l’hanno fatto?”.
David aveva nemici?
“No. Ma era una persona di spicco in questa città, conosceva vari ambienti. Era scomodo”.

Serenella Bettin