Coronavirus: il caso del presunto paziente zero

Il caso del presunto paziente zero. Poi negativo.
Da Vo’ Euganeo ad Albettone. Il nostro racconto sul #Giornale

Passando per via Mattiette, inerpicandosi lungo i tornanti, Albettone dista da Vo’ Euganeo 6,6 chilometri. Otto minuti d’auto in cui ti chiedi se il virus possa essere passato anche da queste parti.

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https://www.ilgiornale.it/news/politica/vo-euganeo-codogno-poi-bar-infetti-altro-falso-positivo-1831726.html

La paura ci salva

Dal diario di Facebook del 25 febbraio 2020

Faccio la giornalista dal novembre 2013 e ho fatto in tempo a vedere il Veneto martoriato e rivoltato e ributtato più e più volte.
In sei anni e mezzo di attività giornalistica vissuta sempre con estrema passione e in prima linea (scusate se lo dico così ma io l’ho sempre vissuta tale) anche quando scrivevo di cessi sporchi e piste ciclabili, ho fatto in tempo a vedere un tornado spazzare via tre comuni. Era l’8 luglio 2015. Le tegole volavano dentro le case. La gente disperata.
Ho fatto in tempo a vedere lo scandalo del Mose. Era il 4 giugno 2014. Quella mattina saltarono via le poltrone e i vetri si infransero buttando i detriti a mare.
Ho fatto in tempo a vedere la crisi delle banche. Migliaia di risparmiatori sul lastrico di chi aveva percorso le loro schiene calpestandole.
Le rivolte dei migranti. A novembre 2017 marciarono per giorni in via di una resurrezione.
Poi l’alluvione che ha spazzato via il cuore delle Dolomiti bellunesi. La tempesta di Vaia. Era il 27 ottobre 2018. Gli alberi cadevano come cadono i soldati in guerra trafitti dai cecchini.
Venezia sott’acqua, con la gente disperata, con i negozi devastati, con le persone che non sapevano dove andare. Ed era il 13 novembre 2019. Quattro mesi fa.
Ed ora questo. Il Coronavirus.
E c’è una cosa che qui è diversa. Ed è che coinvolge tutti. Che tutti ci sentiamo vulnerabili. Che non è come l’alluvione che colpisce un paese e quando passa sai che è passato. Qui sai che il virus potrebbe annidarsi ovunque.
E in questo clima sospeso di incertezza, mista a sprazzi di angoscia, è per quello che non sopporto chi fa il gradasso, perché non va bene nemmeno il panico, ma la dovuta attenzione, bé quella sì. Quella potrebbe salvarci.
Vi auguro buon pranzo.
Oggi si torna a Vo’.
Vi aggiorno.

#sbetti

#Coronavirus

#Storie2020

Non fa figo

Rimango sempre molto sconcertata da come la gente dentro al cervello abbia la segatura. Allora adesso vi racconto una cosa. Insomma questi giorni non so voi, ma le chat su whatsapp sembrano esplodere. Tutti dicono la loro. Tutti dicono che non è niente. Tutti condividono tutto. Tutti che ricondividono tutto e il contrario di tutto. Ognuno sembra avere la verità in tasca. Ognuno sa dirti esattamente come devi fare in quell’esatto istante. Tutti buoni a darti consigli. Tutti Highlanders, tutti forti, razionali, per poi pisciarsi dentro le braghe.
Allora dicevo tutti dicono la loro ma sarà che a me le persone supponenti, quelle ignoranti proprio, quelli che credono che loro siano i meglio e il resto è cacca; ecco dicevo sarà che a me tutta la feccia di questa popolazione non riesco a sopportarla, e ieri sono sbottata. Insomma in un gruppo si parlava di questo Coronavirus. E io già ero nauseata da una persona che derideva tutti. Se qualcuno esprimeva le sue paure, lui rispondeva come gli asini ignoranti alle medie: “mi fate semplicemente ridere”. Il classico sborone che dice di trombarsele tutte e poi se c’azzecca senza luce è un miracolo. Ecco sarà che aveva già cominciato male, quando stamattina io mando una frase condividendo un pensiero che avevo letto nella bacheca di Andrea Franco. Che in sostanza diceva così: “chi pensa che il Coronavirus sia na cazzata, non si capisce se lo fa perché fa Figo o perché fa mona”. Così io prendo, lo riposto, sperando che stesse zitto. Uno intelligente lo avrebbe fatto. E lui cosa fa. Mi risponde con una frase del genere. Che leggete qui sotto.
Io prendo e abbandono il gruppo.
Perché. Perché vaglielo a chiedere a quei morti che vediamo nelle strade se fa figo vederli. Vaglielo a chiedere a quelle persone senza mangiare che andiamo a trovare in Bosnia se fa figo. Vaglielo a chiedere a chi ti racconta la propria storia dicendoti che al mondo non ha più niente se fa figo. Vaglielo a chiedere a quelle persone che intervistiamo in mezzo alle enclavi in Kosovo se fa figo. Vai. Scrolla il tuo sedere dalla sedia e vai a vedere il mondo. Vaglielo a chiedere a quelle persone che intervistiamo questi giorni se faccia figo raccogliere le loro testimonianze. Vai.
Perché mi è venuta tanta tristezza che una persona possa pensare che uno vada in una zona di rischio perché faccia figo.
E perché non si capisce cosa ci sia di così figo per andare in una zona di rischio.
La gente pensa che il giornalista sia come quello dei film. Che prende parte scrive. Che è sempre tutto di corsa. All’ultimo minuto. Sì certo per certi aspetti la nostra vita è molto emozionante. Vivo a mille. Quando ho più da fare a tremila. Ma non permetto che mi si venga a dire, dinanzi a un’emergenza del genere, che noi andiamo nei luoghi a rischio perché fa figo. Perché io.
Io sarei rimasta volentieri a fare altro questa settimana. Magari più divertente. Magari con gente più sorridente. Magari più bello. Sarei rimasta volentieri a fare altro anziché
andare in un posto e stare attenta a dove poggi il culo perché potresti uscirne infetto.
Sarei andata da tutt’altra parte anziché stare a raccoglie le storie di un Veneto ancora in ginocchio. A rischiare. A mettere a rischio la sicurezza dei miei familiari e di mia nipote.
Non perché fa figo.
Perché mi viene tanta tristezza pensare che gente così mediocre che probabilmente piscia di fuori, tirando pure l’acqua del cesso, abbia il diritto di voto.

sbetti

💙 Nell’attesa che passi tutto

Dal diario 📓 di Facebook del 24 febbraio 2020

Di ritorno da #Albettone, questa è la piazza di #Mirano #Venezia oggi. Mirano è uno dei paesi dove nel comprensorio ci sono quattro contagiati. In Veneto in tutto sono 33.
Una piazza che il giorno prima del Carnevale, alle cinque del pomeriggio, si riempiva di anime, giochi colorati, bambini, festoni, coriandoli e stelle filanti. Si riempiva di trombette e di schiume appiccicose.
Oggi non una sagoma. Non una maschera.
Non una fatina dorata. O un Arlecchino burlesco.
Qualcuno ha accennato mezza gonna colorata e mezzo trucco sul viso e poi si é chiuso in un bar. La gente fa le provviste come se fossimo in guerra. Stamattina in panificio la gente ordinava 40 pagnotte da congelare. E questa mattina mi sono fermata a Rubano a fare la rassegna stampa e a parte due insegnanti che avevo accanto a me perché le scuole sono chiuse, il resto erano tutte persone che prendevano in caffè, si guardavano attorno, lucidavano i telefonini, controllavano dove sedersi, e poi tra color che son sospesi se ne uscivano.
Questa che vedete qui sotto gli anni passati era un turbinio di festa, di giovani, di colori. Le voci dei bambini che urlavano si udivano fino all’altra parte del paese e i ragazzetti che vociavano anche.
Si vive sospesi. Nell’attesa che passi tutto.
Perché passa. Deve passare.
Domani mi trovate sul #Giornale.
#sbetti
#Coronavirus
#Storie2020

🛎 Vi racconto come nasce la psicosi

Dal diario 📓 di Facebook del 24 febbraio 2020

Vi racconto come nasce la psicosi.
Questi sono gli scaffali del supermercato del Lando vuoti.
Allora questa mattina vado al bar. Faccio la rassegna stampa. Leggo i giornali. Bevo il caffè. Prendo le sigarette.
Poi quando sto per pagare, il ragazzo cinese mi guarda, esita per un attimo a chiedermi qualcosa e poi con gli occhi quasi impauriti e anche dispiaciuti mi fa: “Hai paura?”.
Io rimango zitta cinque secondi. Penso a quello che mi ha chiesto. Sorrido, ripeto la parola “paura” e poi gli dico: “non lo so, non lo so se ho paura”. Non lo so.
Allora davvero non lo so in questi giorni se ho paura. Va a momenti. Non so come spiegarvi. Ci sono dei momenti in cui ti senti crollare, momenti in cui vedi tutto nero, in cui pensi a chi sta male, in cui pensi a dove possa essere il virus, al fatto che non lo vedi, al fatto che se sei in guerra le bombe le senti, ma qui, qui no. Qui il virus può infilarsi dappertutto, può insidiarsi ovunque, può nascondersi in ogni dove. Può incunearsi dappertutto.
E invece ci sono altri momenti in cui ti senti forte, in cui senti che hai la forza per raccontare, in cui ti senti che devi prendere e andare perché un giornalista non può avere paura, dicono, ma la paura esiste e va vissuta.
Allora dicevo ci sono dei momenti in cui ti senti forte, dei momenti in cui ti senti debole, e vorresti scappare, e vorresti svegliarti il giorno dopo e scoprire che il Coronavirus che sta vivendo il mondo è un solo grande incubo. E accade così all’improvviso. Succede qualcosa, qualche notifica, qualche bombardamento di notizie, qualche testimonianza, che ti fa sprofondare. Che ti spazza via tutte le difese. Poi.
Poi ci fai il callo. Ti tiri su la sciarpa e riparti.
Allora dicevo non sai quanto ci sia da preoccuparsi. Tutti dicono la loro. Tutti dicono tutto il contrario di tutto. Un esperto dice A. L’altro dice B. Funziona un po’ come l’aiuto del pubblico o di quello da casa di Gerry Scotti. Ancora meglio il 50 e 50. Il 50 per cento che qualcuno ci azzecchi. L’altro 50 per cento che l’altro ci azzecchi a sua volta.
Ma non funziona così. La risposta giusta ce l’ha solo il Coronavirus.
Allora dicevo la psicosi. Questi sono gli scaffali del supermercato Lando vuoti. E oggi prima di vedere queste foto, mi scrive un amico che sta attendendo un test perché una sua amica è stata a contatto con il 67 enne di Mira, una delle persone contagiate, in Italia. Così mi scrive: “sto aspettando i risultati perché questa mia amica è stata a contatto con lui e io poi ho visto questa mia amica, e le ho dato i soliti due baci”.
Allora a me viene in mente che anch’io la settimana scorsa avevo visto il mio amico. E vado in crisi. Cioè penso: se questa sua amica ha visto il mio amico, se questa sua amica è infetta, e se io poi ho visto il mio amico… due più due.
Insomma lì comincio a mandare un vocale a mia sorella, e uno a una delle mie più care amiche. Non voglio andare in panico. Riesco a contenerlo. Allora penso. Ma quando ho visto io il mio amico? Che giorno. Insomma tempo dieci minuti. Io dico al mio amico: “chiama la tua amica e fatti dire il risultato”. E lui mi risponde: “già fatto, appena sa mi dice”. Tempo un quarto d’ora, il risultato arriva. Nel frattempo stavo per mettermi a piangere. Ma ok. Il risultato è negativo. Evvai!!!!
Poi. Poi però ci mettiamo un attimo calmi. E pensiamo. “Sì piano – mi dice il mio amico – perché io e te ci siamo visti prima che io mi incontrassi con lei”. Ah già è vero.
Io tiro un sospiro di sollievo. Ma penso essenzialmente a due cose: che quando accadono queste situazioni diventiamo tutti un po’ egoisti. E che bisognerebbe stare calmi e mantenere il sangue freddo. Il panico generalizzato non è la soluzione. Non lo è.
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Viaggio nel Veneto colpito: Coronavirus

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Viaggio nel #Veneto colpito.

Dal diario di Facebook del 23 febbraio

Il vigile piantonato davanti all’ospedale di Schiavonia, nel Padovano, non accenna nemmeno un sorriso. Sta bardato con la mascherina e rimane immobile. «È qui l’ospedale da campo?» chiediamo. Ma lui non accenna nemmeno una risposta, da sotto la maschera mugugna qualcosa e con la mano ci fa segno di proseguire dritto.
L’ospedale da campo con 96 posti letto è qui dietro. Alcune tende le stanno sistemando ora. È sabato pomeriggio. E il presidio è blindato. Polizia, carabinieri, tutti piantonati davanti all’ospedale, con addosso le mascherine, circondati dal filo bianco e rosso che delimita il cortile. Ci inoltriamo nel retro. I primi dipendenti stanno uscendo. «Fanno uscire quelli risultati negativi ai test» ci dice un uomo in divisa.
La tensione è alta. Fino a poche ore prima erano chiusi dentro l’ospedale dove hanno passato la notte. «È un incubo. Mia moglie lavora in ospedale a Schiavonia. Ci sono tutti i dipendenti chiusi dentro» ci aveva detto un uomo; «non fanno più uscire nessuno» ci avevano detto altri.
Al tampone per verificare un eventuale contagio infatti sono stata sottoposte 450 persone, di cui 300 tra pazienti e frequentatori occasionali dell’ospedale, quindi 150 dipendenti. Ma anche tutto il personale che non si trovava venerdì in ospedale sarà sottoposto al test. I dipendenti sono in tutto 600.
Un uomo delle forze dell’ordine racconta di come abbia passato tutta la notte a svuotare l’ospedale. «Come in un film». Hanno evacuato pure le salme…
Da Schiavonia a Vò Euganeo – il paese dove abitava Adriano Trevisan, la prima vittima italiana del Coronavirus – sono ventotto minuti…
Oggi sul #Giornale

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Vo’ Euganeo: un paese spettrale

Dal diario 📓 di Facebook del 23 febbraio 2020

Questa è la piazza di Vo’ Euganeo e vi posso assicurare che ieri sera faceva paura.
Non una persona. Non un’anima viva. Non un negozio aperto. Sembrava uno di quei film dove i mutanti si mangiano gli umani e non trovano l’antidoto e intanto stanno tutti chiusi in quarantena.
Sarà che entro troppo dentro le cose.
Che le vivo appieno.
Sarà che devo entrarci dentro se voglio raccontarle.
Sarà che ho provato anche a sdrammatizzare. Ma non ce l’ho fatta.
La paura è tanta. La percepisco. La si sente nell’aria.
Un paese spettrale. Un fazzoletto di terra grande quanto tre campi da calcio che dall’oggi al domani si ritrova catapultato in un incubo. E fino a che non vedi, non credi. Impossibile. Impossibile entrare dentro l’angoscia di queste persone se non ci si prova ad avvicinare, chiudere gli occhi e sentire.
Allora ieri mentre andavo a Vo’ Euganeo percorrevo la strada lungo i Colli e mi chiedevo perché lo faccio. Ieri mattina non mi sono nemmeno svegliata bene.
Questa cosa del Coronavirus ti prende tutto, anche quello che credevi importante passa in secondo piano. Insomma dicevo, mi chiedevo perché lo faccio. Ok il lavoro. Ma una voce dentro mi diceva di andare. Così, prendo e per un servizio vado a Schiavonia, poi da lì. Da lì vado, passo per Este, per lo splendido castello e proseguo in direzione Teolo. Il panorama è incantevole. I Colli viaggiano lungo la strada come se si muovessero. Come se accarezzassero il cielo. Come se corressero così velocemente, giocando a nascondino col sole. Un sole rosso. Arancione. Giallo intenso. Che lentamente sta scendendo.
Allora dicevo, vedo questi cartelli: Vo’ 3 km. E mi dico, dai ok torno indietro. Lungo la strada non ci sta nessuno. Non c’è un trattore. Non c’è una persona. Le luci delle case stanno spente. Le porte stanno chiuse. I bar. I ristoranti. I negozi. Tutto chiuso. Nemmeno un posto dove poter andare in bagno. E fermarsi per poter scrivere. Ti rendi conto delle cose belle di cui puoi godere solo quando non le hai. Quando capisci quanto siano di fondamentale importanza. E così. Così “Vo 4 km”. La sera sta scendendo. “Vo 3 km”. La notte sta calando. “Vo’ 2 km”. Si fa sempre più scuro. Torno indietro. Ci sono i tornanti. Ma: “Vo’ 1 km”. Sere ci sei quasi. “Vo’” freccia verso destra. “Sere ingrana la marcia e corri, arriva dritto in centro, fai e poi te ne vai”. Così ingrano la marcia.
Arrivo al centro del paese e non vi dico lo scenario.
Lo trovate oggi sul #Giornale. Poi.
Poi riprendo l’auto. E prendo la via del ritorno verso casa. Ma appena sto per addentrarmi dentro ai tornanti per scendere a valle, la strada diventa tutta buia, non una luce, non un lampione. Niente. Nemmeno un faro di un’auto. Se non la mia. E così tornando indietro, mi sono chiesta perché lo facciamo. Perché. Perché ho provato a immedesimarmi nella vita di queste persone già contagiate. E nella vita di noi italiani con in testa la spada di Damocle. E a ogni tornante che facevo era un pensiero. Come può essere che viviamo come se dovessimo vivere per sempre e poi, poi un giorno quello che fino a qualche giorno fa era bello, i piani, i viaggi, i desideri, i nuovi progetti, ecco in meno di 24 ore perdono di significato. Non significano più niente. Perdono di importanza. Spariscono. Nel nulla. E sei costretto, tornando a casa, a riscavare dentro al cesto dei panni sporchi e ritirarli fuori. Con tutta la forza possibile.
Finiti in fondo. Ammassati. Puzzolenti. Lerci.
E così. Così ho capito un po’ perché lo facciamo. Per dare un’informazione che sia il più possibile corretta. Per non creare il panico. Già alimentato a catena dai quattro buontemponi dei social. E per raccontare queste storie perché possano servire a chi ha perso la forza. Perché lì, giusto in fondo, quando esci dai tornanti c’è sempre una luce. C’è sempre una speranza.
Proviamo a raccontare quello che gli altri non riescono a vedere.
Mi leggete oggi sul Giornale.

sbetti

Dal diario di Facebook del 23 febbraio 2020

Mai avrei pensato che l’Italia nel 2020, dovesse affrontare un’emergenza sanitaria così globale. Mai.
Nessuno lo aveva messo in conto. E ora diventa faticoso fare tutto.
In #Veneto si vive sospesi nell’attesa che passi tutto.
Vai in giro. La gente si guarda intorno. Si osserva. Non si bacia. Diventa difficile toccarsi. Scambiarsi una stretta di mano. Pagare in cassa. Tutti a debita distanza.
I gesti che prima facevi e che ti sembravano normali ora sono macigni.
Uscire dal bar e tirare fuori con le dita una sigaretta non è più normale. Non lo è più. Uscire dal supermercato e aprire un pacco di biscotti e sgranocchiare non è più normale. Non lo è più. Aprire la porta di un locale e pensare di toccarla con la mano, senza un guanto, non è più normale. Mangiare le patatine degli aperitivi nemmeno. Non lo è più. Aprire la mattina il cruscotto dei croissant al bar e scegliere quello che più ti piace, devi prestarci attenzione.
Quante cose siamo in grado di fare e non ce ne rendiamo conto.
Sono tutti gesti che apprezzi quando non hai più la libertà di farli.
#sbetti
#Storie2020
#Coronavirus

Da Schiavonia a Vo’Euganeo – Coronavirus

I Colli Euganei

Dal diario di Facebook del 22 febbraio 2020

È sera tardi. Abbandono Vo’ Euganeo con questa immagine scattata di fretta oggi.
Ora non ve lo sto qui a spiegare come ci si sente a uscire da questo paese spettrale. Ho voglia di andare a casa.
Uno scenario mai visto. Perfino la pompa di benzina, chiusa, vacillava, illuminata da una piccola torcia al calar della notte. Sembrava quella dei film americani.
So solo che quando ho visto il cartello verde che mi indicava l’autostrada, ho tirato un sospiro di sollievo. E giù per i tornanti, al buio, sono scesa.
Domani il mio racconto lo trovate sul #Giornale.
Vi aggiorno.

sbetti

Coronavirus: la paura a volte salva la vita

È morto uno dei due anziani in Veneto, di Vo’ Euganeo, risultato positivo al test del Coronavirus.
Tra poche ore lo trovate sul #Giornale.
È morto lì. In ospedale a Padova. Dopo aver contratto il virus in un paese che, tra poco, non ha nemmeno le chiese. Un buco di culo di 3 mila abitanti. Incontaminato da tutto. Vergine da tutti. Intatto. Pulito. Immerso nell’aria fine dei Colli e tra i panorami al tramonto scoscesi di rosso.
Non la stazione di Milano. Non l’aeroporto di Fiumicino. Non lo scalo di Malpensa. Non il porto di Brindisi.
È morto dopo quindici giorni. E ora, in queste ore, mi stanno arrivando dei messaggi preoccupanti. “È un incubo… Mia moglie lavora in ospedale a Schiavonia – mi scrive una persona – Ci sono tutti i dipendenti chiusi in ospedale… sono molto preoccupato”. “Non fanno più uscire nessuno – mi scrive un altro – Ci stanno preparando un ospedale da campo nel parcheggio”. E poi ancora. Ancora e ancora. Le chat di whatsapp hanno iniziato ieri pomeriggio a rimbalzare, ad emettere ogni tipo di suono. La gente è allarmata. Perché tutto questo fa paura. Ho anche incontrato una mamma per strada che voleva che il figlio non andasse a un concerto a Padova perché teme il Coronavirus. “Stai a casa”, gli ha detto. “Ti rimborso io di due volte il biglietto”. Perché quando c’è di mezzo la morte, perdiamo la ragione.
Allora prima per scrivere il pezzo sono andata a guardarmi il numero dei morti in Cina. Sono 2233. Cioè duemiladuecentotrentatré persone morte nel giro nemmeno di un mese, con 115 nuovi decessi solo nelle ultime 24 ore e 889 nuovi casi. Duemila duecento trentatré.
Allora sono andata a guardarmi il numero degli abitanti del paese dove sono cresciuta.
E sono 1632. Milleseicentotrentadue.
Meno seicento persone dei morti in Cina. Un paese intero spazzato via nel nulla. Per colpa di un virus che un giorno arriva, si pianta sull’organismo, infetta il corpo, colpisce la bocca, il naso, le mani, si aggrappa ovunque e porta via tutto. Una crisi globale tenuta forse consciamente nascosta.
Allora il problema ora è capire se siamo in emergenza. Quanto dobbiamo avere paura. Perché alla fine è questo che in situazioni estreme ci tiene in vita. La paura.
La paura ci fa essere prudenti. Attenti. Accorti. Ti fa lavare le mani. Pulire le scarpe. Evitare di toccare dappertutto e poi ingozzarti di cibo alla stazione. La paura rende liberi. La paura a volte salva. La libertà ti rende immune.
Però. Però di fronte a tutto questo, oltre alla tristezza di un paese cancellato dall’universo, un paese dove i morti segneranno le pagine dei libri di storia, dove quei messaggini dei figli mandati ai padri: “papà ci rivediamo presto, sta tranquillo, anch’io sono Infetta”, finirà in qualche lettura di qualche manuale di storia o letteratura, ecco dinanzi a tutto questo mi sta salendo tanta rabbia. Perché quando qualcuno aveva proposto di mettere in quarantena chiunque rientrasse dalla Cina, sono riusciti a farci pure la più sporca politica. Razzismo hanno detto. Fascismo. Perfino sul Coronavirus, su un’emergenza così globale, sono riusciti ad appiccicarci addosso il colore. Perché gli stolti della politica hanno creduto che la paura da Coronavirus fosse di destra. Quando invece. Quando invece la paura non è né di destra, né di sinistra. La paura è semplicemente umana.
Vado a letto.
Buonanotte.

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#Storie2020

Lei è Egea Haffner, e l’altra sono io

Lei è Egea Haffner. E l’altra sono io.
Aveva tre e anni e mezzo quando le portarono via il padre. Una sera suonarono alla porta. La madre andò ad aprire. Le dissero che era un normale controllo. Che doveva andare con loro al comando. Era maggio. Ma era fresco. Il padre si mise una giacca. Indossò una sciarpa. Un saluto alla moglie. E lo portarono via. Da lì. Da lì più niente. Del padre nemmeno un ricordo…
Allora questa sera per #Storie2020 vi voglio raccontare una storia.
La storia di Egea Haffner. La profuga istriana. L’esule giuliana numero 30001. È lei la bambina con la valigia. Quella che stava lì ferma in quella foto, lo sguardo perso nel mondo, e la bocca un po’ crucciata.
È lei.
Allora quando ho conosciuto Egea Haffner, lì per lì, non l’avevo vista subito. Se ne stava sotto al palco di quel teatro a Verona, nell’attesa che la prima del suo film iniziasse.
Mi sono avvicinata. L’ho guardata. Le ho sorriso. E non mi è nemmeno venuto da chiederle: “Egea?”.
Non mi è venuto. Appena l’ho vista ho capito subito che era lei. Lei. Era lei la bimba con la valigia. Uguale identica. Stesso mento. Stessa bocca. Stesso taglio di capelli. Stessi lineamenti del volto. Squadrati. Dolci triangolari. Cambiava solo l’espressione. Più dolce. Più pacata. Più matura.
Stessi occhi. Solo più calmi. Più consci.
Egea non aveva più l’aria di quella bambina costretta a lasciare la propria terra senza capire perché. Egea il perché l’ha capito.
Allora dicevo mi sono avvicinata e le ho chiesto se potevamo parlare. Lei mi ha sorriso. Mi ha pronunciato un “sì certo”, un sì immenso e ci siamo appartate in una sala.
Egea ha iniziato a parlare. I suoi ricordi. La sue emozioni. I suoi racconti. Le sue fughe nei sotterranei. Gli allarmi. Le bombe.
Teneva in mano la medaglietta del padre. Il papà Kurt Haffner, figlio di un ungherese di Budapest che a Pola aveva una gioielleria e figlio di una viennese che faceva la pasticcera. I partigiani di Tito lo presero quella notte, aveva 26 anni. Lo fecero sparire presto. Probabilmente venne infoibato nei dintorni di Pisino, la notte stessa.
Allora Egea mi racconta di suo padre e io ho brividi. Sono lì che tengo la macchinetta, che tento di riprendere qualche scena. Ma la mano inizia a tremare. I brividi mi corrono lungo la schiena. Risalgono le braccia. Non riesco a capire come una bambina possa sopravvivere a tutto quel dolore. Poi gliel’ho chiesto. Le ho chiesto come fa. Come ha fatto.
E lei mi ha detto che sono fondamentali le persone. La vicinanza. La solidarietà. Perché per il padre non c’è stato un processo. Non c’è un corpo. Non c’è un verbale. Egea non ha mai avuto il diritto di piangere suo padre. Svanito nel nulla, lasciando un vuoto incolmabile, cullato nemmeno da una lapide.
Solo una cosa ricorda. Che quella sciarpa, che quella sera il padre indossò per andarsene, venne vista il giorno dopo dalla madre addosso a uno dei partigiani di Tito.

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Sul #Giornale

sbetti

Così ci hanno tenuto nascosta la Storia

#Vittoriale

Allora adesso per #Storie2020 vi DEVO raccontare una storia.
Una storia che vale la pena “ascoltare”. Insomma oggi stavo a una conferenza. Era finita la prima parte. Esco un attimo, vado a cambiare il ticket sull’auto, mi fumo una sigaretta, anzi due. Mi prendo un caffè. Ne fumo un’altra. Incontro una donna. Mi fa conoscere un uomo. Ci mettiamo a parlare. Passano i minuti. E torno alla conferenza.
La seconda parte era iniziata.
E riprendo posto. Sto lì. Ascolto. Prendo appunti. Cerco di scandire le parole. Quando a un certo punto vedo che la cosa va per le lunghe e io devo andare.
Ma passa un nano secondo che prende parola un signore. Sono lì che devo uscire. Mi sta per riscadere il parcheggio. I miei amici mi aspettano dall’altra parte del Veneto, ma a un certo punto sento: “Il 3 maggio gli slavi di Tito entrarono a Fiume e Riccardo Gigante sparì per sempre”.
Tre maggio penso. Il mio compleanno. Il giorno della Libertà di Stampa.
Allora sono lì che sento che devo andar via ma quel discorso mi colpisce.
E più penso che me ne devo andare, più in me si fa strada il pensiero che devo restare. Come se a ogni parola pronunciata da quel signore, si aprisse la strada per rimanere. Ogni parola scacciava la fretta di andarmene. Ogni suo fermarsi mi invogliava a restare.
Ma sento che devo uscire perché altrimenti mi mettono la sanzione, ma niente non ce la faccio. Il culo mi rimane incollato alla sedia e lì rimango.
Allora questo signore parla di Riccardo Gigante, un senatore che venne ucciso dai partigiani di Tito e i cui resti rimasero nascosti per 73 anni. Settantatré.
“Riccardo Gigante – racconta questo signore – è stato visto il 4 maggio legato con il filo di ferro insieme ad altri italiani e che questi furono trovati ammanettati squartati e gettati in una fossa comune”.
Assieme a loro c’era anche il finanziere Vito Butti.
Colui che parla è Roberto Menin. Che dice: “sapete perché oggi sono arrivato tardi? Perché ero al Vittoriale”.
E da lì inizia a raccontare. Al Vittoriale oggi c’era la cerimonia di deposizione dei resti di Gigante.
Gigante venne fatto sparire il 3 maggio 1945. E ucciso il 4. La fossa dove la polizia segreta jugoslava nascose il corpo del senatore venne scoperta il 7 luglio di tre anni fa. E sta nella zona di Castua, nei dintorni di Fiume, a soli due tre metri di profondità. A Fiume gli italiani uccisi e in gran parte gettati nelle foibe di Kostrena e Grobniko furono 652.
Ma Gigante venne trovato grazie a un partigiano che confidò dove era stato sepolto assieme agli altri prigionieri. Disse che bisognava cercare una pietra a forma di teschio.
Negli anni 90 poi, in silenzio perché non si poteva dire, misero in piedi un’operazione di ricerca e due anni fa vennero alla luce, recita il referto, “le ossa scomposte e frammiste” di otto teschi.
Identificarli era impossibile. I discendenti di Gigante vennero informati.
Insomma lì che studiano come fare. Come ricomporre i pezzi. Quando ingaggiano il Ris di Parma e tramite il discendente Dino Gigante che si sottopone al test, il Ris stabilisce che quei resti sono di Roberto Gigante.
Ecco.
Oggi i resti di Gigante, sindaco di Fiume per 25 anni, e senatore del Regno D’Italia, sono tornati a “casa”.
Gigante è stato sepolto accanto a Gabriele D’Annunzio. Così come D’Annunzio avrebbe voluto. Gli aveva riservato un posto.
Allora io mi domando, ci sono voluti 73 anni prima che i resti di Gigante venissero individuati. Settantatré anni prima che si potesse pensare a garantire una degna sepoltura a un uomo che se ne stava buttato dentro una foiba ridotto in ossa.
E ce ne sono voluti 75 per far sì che questa sepoltura fosse fatta. Celebrata. Consacrata. Se fosse stato uno di un’altra corrente probabilmente sarebbero arrivati la Cia, la Nato, i Caschi Blu. Sarebbero arrivati tutti.
Invece Gigante se n’è andato in silenzio.
E in silenzio è stato sepolto.
Questa è la Storia. Questa è la Storia che quattro mascalzoni hanno tenuto nascosta. Questa è la storia che non ci hanno fatto studiare nei libri di storia, alle medie, al liceo, questa è la storia che le Foibe le facevi l’ultima settimana prima degli esami. Un solo accenno. Una sola parola. Timida. Quasi come una vergogna.
Foibe e si girava la pagina. Ecco.
Questa è la storia del pensiero unico. Del conformismo. Dell’oppressione. Delle dittature. Dell’omologazione. Del diniego della libertà di espressione.
Perché c’avete provato anche con i morti a cancellare la memoria. Ma non ci siete riusciti. Perché i morti, prima o poi, vengono a galla.
E vengono a galla tutti.

#sbetti

Le belle parole ce le possiamo infilare dritte nel culo – Violenza Donne

Questa mattina facendo la rassegna stampa al bar ho letto su un quotidiano un dato interessante e non capisco come continuate a riempirvi la bocca di stronzate.

Insomma leggevo che negli ultimi vent’anni sono state uccise 3230 donne. E le cronache da inizio anno contano già 13 vittime. Tredici. Tredici cazzo. Tredici. Nel 2018 sono state 142 le donne assassinate. E nel 2019 103. L’85,1 % degli omicidi poi avviene in ambito familiare e a marzo 2019 si è registrata una donna vittima di violenza ogni 15 minuti. Cioè ogni quarto d’ora. Ogni quarto d’ora c’è una donna che va a bussare alla porta di un commissariato o di chi Dio solo sa chi e chiede aiuto.

Allora mi chiedo cosa stiamo aspettando. Se intendiamo andare avanti così. Cosa diavolo stiamo aspettando se le donne muoiono ogni tre giorni.

Mi chiedo cosa le fate a fare tante belle manifestazioni, tante belle iniziative, tanti bei convegni, tante belle scarpette rosse quando parliamo sempre di problemi già avvenuti. Di problemi irrisolti. Quando ancora in giro ci stanno gli orango tango che credono che la donna sia di loro proprietà. Che non si possa vestire in un certo modo. Che non debba indossare la minigonna. Che non debba andare a lavorare. Che non possa sorridere a un uomo. Che non debba uscire con le amiche. Mi chiedo cosa stiamo aspettando se qualche celebroleso a cui hanno insegnato che la donna è un oggetto e che te la puoi giostrare come ti pare, ecco una mattina si sveglia e decide di piantarti quindici coltellate. Cosa. Perché a poco servono tante belle parole. A poco servono tante belle manifestazioni. A poco servono tante belle scarpette rosse lungo le strade che ricordano le vittime e non fanno nient’altro che male. Fanno vedere che la donna è debole. Che ha bisogno di una panca per sentirsi rispettata.

Perché allora. Allora forse dovremmo partire dalla base. Dalla vittima. Da chi subisce. Forse dovremmo spiegare a queste giovani generazioni e anche a quelle vecchie che se un uomo ti aggredisce non lo fa perché ti vuole bene, non lo fa perché ti ama, e povero ha perso la testa, lo fa perché è un mascalzone e non cambierà mai. Forse dovremmo spiegare a queste nuove generazioni e alle donne giovani e meno giovani che l’indipendenza economica è una cosa fondamentale perché non c’è nessuno al mondo che può ostacolarti nel tuo desiderio di realizzare un sogno anche se fosse professionale. Forse dovremmo spiegare ad alcune donne che a letto non si risolvono le cose. Che se lui ti offende è già una persona che non merita il tuo tempo. Che se ti mette le mani addosso va denunciato. Che se ti allontana dagli amici e dalla famiglia non lo fa perché “poverino è geloso, sai, quella di prima gli metteva le corna”. Lo fa perché è malato. E non guarirà mai. Vedo donne che si prostituirebbero per far piacere al loro uomo. Donne che si accontentano. Donne a cui va bene farsi mantenere e poi perdono la libertà senza potere. Donne che si svestono, che diventano ridicole, perché devono per forza incontrare un uomo. Perché devono per forza stare con qualcuno. Anche a costo di prenderle. Crocerossine travestite da cenerentole che continuano a far da mangiare e stirare e sono quattro cornute.

E questa è solo colpa nostra. Perché ci hanno insegnato che senza uomo la donna non è niente. Che senza un uomo accanto non ti sentirai mai nessuno. Ci hanno insegnato che per forza di cose devi trovarti qualcuno. E che poi se questo ti mena, “porta pazienza perché chissà cosa hai fatto tu”. Questo sento. Queste oscenità sento quando parlo con queste donne vittima di una relazione tossica.

Perché allora. Allora forse dovremmo insistere sulle donne. Dovremmo fare in modo che non si facciano trattare come schiave. Come zoccole. Come esseri inferiori. Dovremmo fare in modo di far capire loro che un uomo violento non cambia. Che i segnali ci sono sempre. Che se un uomo alza anche soltanto un dito va denunciato subito. Che se ti offende va messo alla porta. Che sei forte. Che puoi stare in piedi da sola. Che cosa te ne fai di un bradipo che ti offende. Di un mascalzone che ti mena. Di un troglodita che ti sputa addosso. Cosa. Dovremmo cambiare prospettiva. Cambiare strategia. Guardare le cose da un’altra parte. Scardinare gli stereotipi. Riequilibrare i ruoli. Ma la donna non può restarsene ferma a guardare e aspettare che la menino. Perché senza questo lavoro, senza questa convinzione, senza questa forza che abbiamo il dovere di trasmettere alle giovani generazioni e a chi sta vivendo una relazione pericolosa, ecco senza tutto questo, le vostre belle parole e scarpette rosse non servono a niente.

Se il lavoro non parte dalle donne, le belle parole ve le potete infilare dritte nel culo.

#sbetti

#direbastanonbasta

#Storie2020

Io non chiedo a un uomo di essere libera. Io sono già libera

Se Francesca Maria Novello non fosse la fidanzata di Valentino Rossi non se la cagherebbe nessuno. Eppure ci indigniamo. Eppure prendiamo parte alle tifoserie. Eppure ci schieriamo dal divano a seconda di dove sia più comodo girare il telecomando.

Senza riflettere sul problema. Quello vero.

Allora questa sera Rula Jebreal رولا جبريل durante il suo monologo a #Sanremo ha fatto un appello agli uomini e ha detto: “uomini lasciateci libere di essere quello che vogliamo essere: madri di dieci figli, donne in carriera, mogli”.

No. Mi dispiace.

Io non chiedo a un uomo di lasciarmi libera di essere ciò che voglio essere. Io sono già libera. Io non chiedo a un uomo di lasciarmi libera di essere madre. Di essere moglie. Di essere donna in carriera. Io sono già libera.

Io non chiedo a un uomo di poter fare qualcosa. Io lo faccio e basta.

Una donna non deve chiedere il diritto a nessuno per essere libera. Per essere lasciata in pace. Per non essere stuprata. Violentata. Offesa. Una donna non deve chiedere a un uomo di non farle del male.

Una donna la libertà ce l’ha già.

È proprio qui che sbagliamo. Che sbagliano.

La gente si indigna molto più per una frase di Amedeus, che per quello che accade nelle nostre case tutti i giorni.

Perché ci hanno messo in testa che per esistere devi chiedere. Devi pregare. Devi sperare sempre di avere l’approvazione degli altri. Devi stare un passo indietro.

Perché se tuo marito ti stupra è colpa tua perché non gliela dai mai. Se tuo marito la sera vuole giocare non gli puoi dire di no.

Perché se tuo marito ti dice che non devi mettere la gonna lo fa per il tuo bene. Se ti tira una sberla lo fa perché ti ama. E ti vuole proteggere.

È stato proprio questo il problema. L’averci messo in testa che noi sbagliamo. Che noi vogliamo. Che non pretendiamo.

È questo il punto di partenza sbagliato. Quello che vi hanno inculcato in testa.

Il credere che per avere diritto di fare qualcosa dobbiamo chiedere. Chiedere. Chiedere. Chiedere la libertà. Chiedere a un uomo di lasciarti libera. Chiedere a un uomo di poter uscire con le amiche. Chiedere a un uomo di poter andare in ferie. Chiedere a un uomo di poter fare un viaggio. Chiedere a un uomo di poter lavorare. Chiedere a un uomo di lasciarsi amare.

Conosco donne che si travestirebbero da tappeti per cacca dei cani, pur di compiacere il proprio uomo. Donne che cercano a tutti i costi il principe azzurro. Donne che fanno le prime donne e che se non hanno un uomo accanto si sentono perse. Angosciate. Irrealizzate.

Donne all’apparenza forti che appena incontrano un uomo diventano zerbini. Indumenti per la biancheria. Mutande ancora da lavare. Ridotte nella merda dei panni sporchi da lavare di nascosto dentro le case.

E ne ho viste di queste storie. Ne vedo tante. Tantissime.

Donne travestite da ancelle che cercano il principe azzurro assecondandolo in tutto. Andandoci a letto. Credendo che una scopata di sesso risolva tutto. Donne succubi del piacere altrui che pensano ancora che l’amore sia fare una trombata a settimana e preparare la cena la sera. Donne che non sanno stare in piedi da sole. Che hanno bisogno dell’uomo. Donne che perdono il lavoro. Che non sanno dire di no. Che soccombono in tutto.

Donne che rinunciano alle amicizie, alla famiglia, che credono che la gelosia sia una prova d’amore.

Perché allora, allora sto scrivendo un libro sulla violenza contro la donna e vi posso assicurare che ogni volta é una mazzata. Ogni volta è un pugno all’anima. Ogni volta è una rabbia che risale lo stomaco, che tenta di uscire fuori, che si riversa sulla carta.

Ogni volta è un notare come ci hanno inculcato il Cristianesimo, il senso di colpa, la tradizione popolare, la donna che fa l’uncinetto, quella che se sta in minigonna la puoi scopare.

E ogni volta. Ogni volta è un rendersi conto che se non cambiamo noi, allora non cambierà mai nulla.

Perché è molto inutile dire basta.

Perché molte volte, molte volte dire basta non basta.

Non basta più.

#sbetti

#direbastanonbasta