In che razza di mondo vivete

https://video.corriere.it/cronaca/migranti-video-guardia-costiera-salvataggio-bambini/e01e20e8-0f93-11ea-bd6b-b9b6fa42a1a4

Facciamo schifo. Facciamo tanto schifo.

Allora adesso ascoltate questo video. Ascoltatelo. Guardatelo. Poi pigiate sul tastierino e ascoltatelo ancora.

Andate a letto con le urla di questa bambina nelle orecchie. Con le urla di questa bambina dentro la testa. Andate a letto con questo. E poi ditemi. Ditemi se riuscite a dormire.

Ditemelo. Perché questo è il frutto dell’immigrazione incontrollata. Il frutto dell’immigrazione che per anni avete preteso di sbatterci in faccia in Italia.

Questo è il frutto di quelli che volevano le porte aperte, i porti aperti, i ponti pure. Questo è il frutto di quelle merde che volevano fare i soldi con i migranti. Che c’hanno lucrato. Che c’hanno investito. Che c’hanno fatto soldi. Che c’hanno guadagnato, mossi solo dal Dio Denaro. Questo è il frutto di quelli che per anni hanno predicato pace. Amore. Integrazione. Facendosi belli con i selfie.

Voi. Voi che con i vostri finti sorrisi e i vostri fifì incollati alla camicia di seta andavate nei campi di accoglienza davanti il cancello, a farvi i selfie, a inarcare la boccuccia e a esclamare “poveri”. Voi che non avete la minima idea di cosa sia l’immigrazione. L’integrazione. Voi che andavate nei campi, imprecando contro la destra, a fotografare i migranti come fossero suppellettili. Souvenir. Senza capire che con il fuoco non si scherza. E che l’immigrazione andava gestita a livello globale. Questo è il frutto di quelli che non hanno capito che l’immigrazione così gestita come la volevano loro con le bandierine e i cuoricini, prima o poi sarebbe sfuggita di mano. E che non hanno capito che il fenomeno era troppo grande perché l’Italia da sola ne potesse far fronte. Questo è il frutto di chi si è indignato quando qualcuno urlava di chiudere i porti, di non far partire le navi, non capendo che se le navi non partono, le probabilità di morire in mare si arrestano. Questo è il frutto di chi non ha compreso la differenza tra immigrati, migranti; tra profughi e richiedenti asilo. Il frutto di chi pretendeva di accogliere tutti mentre l’Italia traboccava. E affondava. Questo è il frutto di chi ha concesso la protezione umanitaria. Quel triste baluardo fatto per assecondare gli animi di chi voleva mettersi in cuore il pace. Di chi voleva fingersi buono facendo un danno agli esseri umani. Questo è il frutto di chi non è stato in grado di imporsi. Di chi ha permesso continui ricorsi. Appelli. Giorni. Mesi. Anni. L’immigrazione incontrollata. La delinquenza. La criminalità. Questo è il frutto di chi ha fatto coscientemente credere che l’Italia sarebbe stata il Paese dei Balocchi, che si sarebbero rifatti una vita, quando una vita non ce l’avevano nemmeno quelli delle cooperative costretti a lucrare per vivere. Hanno trovato il business. Quello dei migranti. Ecco perché li vogliono.

Allora vi dico questo perché in questi giorni sto rileggendo il mio primo libro. Quello sull’immigrazione e posso dire che ci sono racconti che se qualcuno l’immigrazione non l’ha provata, almeno solo ad avvicinarsi un po’, non può capire. Migranti ridotti allo stremo. Senza forze. Né speranze. Nè desideri. Migranti ridotti dentro le tende. Ammassati nei letti a castello.

E mi meraviglio di chi predichi amore e non riesca a capirlo.

Ma soprattutto perché mi ha fatto schifo vedere chi ha condiviso questo video quasi come fosse contento perché i cattivi siamo sempre noi.

E allora mi chiedo come fate. Sì insomma come fate a usare le grida di una bambina e sbatterle in faccia a chi politicamente sta dall’altra parte ? Come fate? Come fate a usare una simile tragedia quando per anni avete predicato amore e accoglienza? Come? Perché allora mi chiedo in che mondo viviamo. In che mondo viviamo se c’è gente che aspetta di vederli morire per stare dalla parte della ragione. In che razza di mondo vivete.

#sbetti

Non lo sentirò più

Io non ho mai capito la morte. Non l’ho mai capita. E fa un male cane. Allora tempo fa sono al bar che faccio la rassegna stampa, bevo il caffè e mi si ferma una donna. Una signora elegante. Distinta. Una di quelle che c’hanno i cappelli a quadri e le gonne e le scarpe che sanno di Natale quando sta per arrivare. Una di quelle che c’hanno le mani di zucchero filato. Insomma mi giro. La riconosco. È una signora a cui avevo fatto un articolo quando il marito è morto. Due anni fa. Un infarto. Improvviso. Improvvisamente. E l’infarto se lo portò via il giorno prima della Vigilia di Natale. Uno di quei giorni dove c’hai già casa addobbata e ti prepari per le feste. Allora ricordo di essere entrata in quella casa e di aver subito respirato calore. Amore. Sì mancava un pezzo ma si avvertiva comunque la presenza. La presenza di qualcosa di grosso. Di profondo. Di importante. Allora ricordo che quel giorno la donna mi parlava. E io la lasciai parlare. Non faccio mai tante domande quando si tratta di morti, di racconti, lascio che le parole scorrano via come l’acqua, poi se mi serve qualcosa, chiudo lentamente il rubinetto e chiedo. Allora questa donna mi raccontava del suo grande amore. Dell’amore della vita. Uno di quegli amori che adesso non esistono con i mariti cornuti e le moglie in fila per gli alimenti. Uno di quegli amori che dici: “cazzo erano loro”, come può un amore così grande arrendersi alla morte. E ricordo anche che dopo l’intervista, anche se per me era una chiacchierata, ecco ricordo di essere salita in auto, aver scritto il pezzo di getto ancora al parcheggio e poi di essere andata in centro a passeggiare non so nemmeno io dove con il profumo del muschio del presepe di Natale e un po’ di nebbia che ti avvolgeva il naso. E mentre passeggiavo. Pensavo a quanto grande doveva essere questo amore. La donna mi aveva raccontato di quante cose facevano insieme, dei baci che ancora si davano, del buongiorno, della buonanotte, dei mazzi di fiori, delle lettere, delle passioni condivise. Insomma mi aveva raccontato di loro e mi aveva permesso di entrare dentro al loro amore. Così mentre passeggiavamo pensavo a tutto questo. Poi. Poi il pezzo è uscito. Il funerale è passato. E io e la donna siamo diventate amiche su Facebook. È bello sapere che nonostante tutto hai fatto bene il tuo lavoro. Quando si tocca il dolore degli altri, la linea di demarcazione tra ciò che puoi dire e fare è estremamente sottile.

Così ci seguiamo su Facebook e qualche settimana fa fatalità la incontro al bar.

Aveva gli occhi pieni di luce. Quando mi ha visto mi è venuta incontro, io mi sono alzata in piedi, ci siamo scambiate un bacio, era contenta di vedermi e io lo ero altrettanto. Mi ha detto “grazie”, e poi. Poi mi ha parlato di lui. Allora mi ha detto che un amore così grande non sa nemmeno se può esistere. E poi. Poi mi ha fatto leggere una lettera. Sì. Mi ha detto: “sai io gli ho scritto una lettera, e spero gli sia arrivata, se dentro la borsa la trovo, te la mostro”. Così io mi rimetto a bere il caffè e lei cerca.

A un certo punto. A un certo punto estrae fuori dalla borsa un pezzo di carta. La lettera. Ancora scritta a mano su carta. Ancora profumata dell’odore dell’inchiostro. Così con le mani tremolanti e delicate leggermente me la porge e io inizio a leggere. Nella lettera l’amata rifletteva sul fatto che non vedrà più suo marito. Che non lo bacerà più. Che non faranno più colazione insieme. Che non andranno più insieme alle mostre. E si soffermava sulla parola più. Più. Più. Più. Questa maledetta parola che indica abbondanza e anche lontananza. Morte. Distacco. Questa parola che indica tutto e niente. E allora mi sono fermata a riflettere. E mi sono detta: com’è possibile? Com’è possibile che ora ci siamo e tra un attimo non ci siamo più? Che senso ha? Dove finisce la nostra vita? Dove finisce la vita terrena? Le nostre cose? Che senso ha aver vissuto, aver provato, aver amato, aver costruito, aver fatto, e poi vola tutto via? È veramente così talmente fragile la vita da volare via in un solo istante? È veramente così vigliacca la vita da darci tutto e poi più niente? Cosa ci sta nel mezzo di un soffio che ti porta via la vita? Cosa? Domande che non trovano risposta. E che forse non va nemmeno cercata. Perché è la vita. Ed è così. È il ciclo. È la vita che finisce e quella che si ricrea. Poi. Poi quando ci stavamo congedando la donna mi ha detto: “sai io gli avevo scritto che qualora avesse letto, mi desse un segnale. E il segnale è arrivato”. Così estrae dalla tasca un biglietto con il quale lui le aveva mandato dei fiori, quando era ancora in vita. “Qualche giorno fa – mi dice – stavo pulendo e mi è caduto questo. I fiori per i 54 anni di matrimonio”. E allora lì. Allora lì mi sono detta che certi amori, quelli forti, quelli con madri e padri, quelli tra fratelli, ecco certi amori non muoiono mai.

Perché l’altra persone vive dentro di te. Ti scorre dentro. Te la senti addosso. L’unica cosa che devi fare è continuare a pedalare perché se pedali tu, vive anche l’altro.

#sbetti

📸 agosto 2019

Oriana Fallaci

Allora adesso vi racconto una storia. Insomma l’altro ieri era per me un giorno particolare, perché sei anni fa il 24 novembre 2016 iniziavo a scrivere ufficialmente per il Gazzettino. Sì insomma c’era stato quell’episodio di quando avevo scritto, circa un mese prima, di getto quell’intervista a Sergio Sgrilli che non avevo voluto lasciare sulla carta del formaggio, ma ufficialmente la mia avventura parte il 24 novembre. Ventiquattro novembre. Fuori c’era il sole.

Allora quel giorno prima faccio un’intervista a un nonnetto. Rapinato in casa. Ricordo che andai in pigiama a fare quell’intervista, tanta era la foga di quella mattina quando mi chiamarono. Avevo visto che nei film i giornalisti dovevano correre. E poi un cigno con incastrato un amo nel becco. Ci volle una task force di vigili del fuoco carabinieri e polizia locale per riuscire a beccare il cigno, togliergli l’amo di dosso e liberarlo. Ma insomma.

E così da lì cominciai. Ufficialmente. Mi venne assegnata una zona e mi dividevo tra un pezzo e l’altro. Gli anni passarono. I primi anni molte volte fu molto dura. Dovevi riuscire a farti strada dove non eri nessuno. Ma a me piaceva. Piaceva da morire. E quindi mi ci buttai senza paracadute. Le giornate erano scandite dalle prime interviste, gli articoli da fare, le battute da contare, le cose nuove da imparare, le regole da rispettare, i consigli comunali dove andare. Alcune regole mi stavano strette. Me le sentivo troppo addosso. E così a volte le rispettavo. Altre volte no. Mi piaceva quello che stavo facendo, amavo il mio territorio, volevo raccontarlo, mi piaceva andare di qua e di là a raccontare la realtà. A volte mi chiedevo perché lo facevo ma dentro di me una vocina mi diceva sempre: “fallo, vai avanti Serenella, vai avanti”. E così tra un pezzo e l’altro, tra mille chiamate, mail, notifiche, telefonini, registratori sotto la pioggia, interviste rubate, foto scattate, maledizioni di chi si è visto finire sul giornale e non voleva, ecco tra mille e mille e migliaia di cose sono andata avanti.

Poi, dopo quattro anni esatti, ho cambiato quotidiano locale.

Insomma gira che ti rigira. La mia vita stava scandita tra un pezzo e l’altro della cronaca miranese. Tra un pezzo e l’altro di altre storie e tra un progetto e l’altro di andare a raccontare quello che gli altri non possono vedere.

Il 28 marzo 2018, dopo aver fatto un pezzo per il quotidiano locale sulla mancanza di vie intitolate alle donne, mi dico sai che c’è? C’è che io vorrei intitolare una via a una donna coraggiosa, a una che aveva già previsto, a una che ce l’ha fatta, così come fosse da esempio per tutti questi giovani traditi dai sogni di gloria di questa Italia che va a rotoli e abituati nemmeno a comprare la carta igienica nei cessi. E così feci una petizione. Il quotidiano locale per cui lavoravo, che dopo due mesi mi “licenziò” per il mio pensiero, mi espresse anche il suo disappunto. Ma sostanzialmente me ne fregai. Ebbene.

Ebbene domenica 24 novembre, domenica scorsa, il viale di Villa Farsetti di Santa Maria di Sala #Venezia è stato intitolato a Oriana Fallaci.

Per scoprire che la carriera di Oriana è partita proprio da Santa Maria di Sala, da Sant’Angelo, come scrive il giornalista Claudio Gregori nel suo libro Labrón. Quando aveva 22 anni, venne inviata dal giornale Epoca, proprio a Sant’Angelo. E venne inviata per intervistare la mamma di Tony Bevilacqua. “Ci va anche una ragazza di 22 anni a intervistare la mamma di Tony”, scrive Gregori. “A Padova tutti conoscono questa donnetta di cinquantotto anni – scrive la giovane giornalista – con i capelli ancora neri tirati dentro la crocchia e lo sguardo umile; quella donnetta che alla vigilia di una corsa entra nel tempio – Sant’Antonio – e si inginocchia davanti alla tomba del santo, fra i ceri, gli ex voto e le ingessature dei miracolati. Prima di andarsene sfiora con la palma destra il marmo verde dell’altare perché dicono che porta bene”. La giovane inviata di Epoca si chiama Oriana Fallaci.

#sbetti

Io me ne fotto

Mi hanno detto: “Domani è la Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, perché non scrivi qualcosa su Facebook?”. Perché? Cosa volete che vi dica.

Cosa volete che vi dica se vi ricordate della violenza contro le donne solo il 25 novembre! Cosa? Cosa volete che vi dica se siete sordi gli altri giorni. Cosa? Ogni anno a novembre prima di Natale si assiste alla sfilata delle scarpette rosse. E un comune si inventa la fiaccolata. E un altro le panchine. E un altro le mutande col pizzo. E un altro le manifestazioni. I convegni. Le conferenze. Gli incontri. Gli spettacoli teatrali. I drappi rossi. I grandi bei discorsi. I fifì puntellati sui becchi delle camicie. Le mostre. I quadri. Le poesie. I concorsi letterari per dire: “no alla violenza”, “io dico no”, “fermiamo la violenza”, “stop alla violenza”. Qualche ridicolo si dipinge pure la faccia con qualche messaggio.

E così via.

Insomma ogni anno ci si inventano tante belle cose, e poi quando passa il 25 novembre le scarpette rosse vanno a puttane. Le panchine pure. I drappi anche. I discorsi e i propositi non ne parliamo. Finiscono giusti fritti dentro la canna del cesso.

Oh sì. Quando passa il 25 novembre, quando avete finito tutti i comizi in piazza, quando vi siete cosparsi di click e di inchiostro e di luci e di foto, allora si torna alla vita normale. Finisce il grande sogno. Finisce il sogno di vivere in un mondo dove la donna non venga discriminata. Dove la donna se incinta può essere assunta. Dove la donna anche se c’ha la minigonna non la devi guardare come un scimpanzé gigante con la lingua di fuori che non tromba dal 1907. La devi guardare con rispetto. Senza per forza aver la voglia di metterle le mani addosso. E finisce il sogno dove la donna non venga maltrattata. Violentata. Derisa. Stuprata. Infangata. Oltraggiata. Finisce il sogno dove la donna non sia vittima di violenza. Di prevaricazione. O di qualche squilibrato padre padrone che siccome esce con le amiche o parla al telefono le mette le mani addosso. Finisce il sogno della donna indipendente – per colpa anche delle donne che preferiscono scegliere il colore degli asciugamani del cesso in tinta con le tende, anziché lavorare – finisce il sogno della donna autonoma. Rispettata. Non maltrattata. E perché?

Perché con le panchine e le scarpette ci puliamo il sedere. Perché non ci sono fondi. Perché le donne non vengono aiutate. Perché non vengono sostenute.

Sapete quante sono le donne, di cui l’Istat tiene il conto, vittime di violenza in Italia? 44 mila. E sapete quanti fondi ci sono per i centri anti violenza? Dodici milioni di euro che divisi per tutte le donne che qui si rivolgono fanno meno di un euro a donna. Settantasei centesimi! Cioè lo Stato, per il sostegno e l’accoglienza che ogni giorno riceve una vittima di violenza, paga meno di un euro! Poi per i clandestini invece paghiamo fior di quattrini. Ma si sa che con i profughi ci fai i soldi. Con le vittime di stupri invece i soldi te li mangi. Perché ci vogliono strutture, ci vogliono servizi, ci sono costi. Psicologi, infermieri, gente specializzata, personale per i consultori, tutta gente che attualmente, almeno più della metà, lavora gratis. In più, sempre secondo dati Istat, il 63,7% delle donne maltrattate ha figli, minori nel 72,8% dei casi, e 27 volte su cento la vittima è di nazionalità straniera. Il che vuol dire che lo Stato non ha soldi nemmeno per gli italiani.

E poi. Poi la giornata commemorativa finisce nel gabinetto perché se per caso vai a denunciare, – lo so perché sto seguendo delle storie per il mio libro- ecco ti senti rispondere: “signora dobbiamo coglierlo con le mani nel sacco”, cioè prima devi farti ammazzare poi in punto di morte puoi anche denunciare.

Ecco perché. E poi perché le pene non vengono applicate.

Ho seguito alcune storie dove lui con denunce per maltrattamenti, stalking, tentati omicidi, stupri, viaggia a piede libero perché non ci sono prove.

Allora è la nostra cultura che è malata. È la nostra cultura dove non basta la parola a tentare almeno di far capire che mio marito mi violenta. La cultura che diffida sempre. Che la giustizia non può fare niente. Che ti dicono di tornartene a casa tranquilla perché manderanno sotto casa una volante. La cultura che costringe la donna a prendere un appartamento in centro a Milano anziché in periferia perché se per caso rientri a mezzanotte, e le metro non ci sono, chi torna a casa da sola al buio? La cultura che non ti fa sentire sicura. Che ti fa accompagnare. Che ti fa venire a prendere.

Ecco quali sono le scarpette rosse. Quelle che non puoi indossare perché le strade ancora non le puoi percorrere. Nemmeno quelle delle giustizia. Allora sapete cosa vi dico? Che tanti bei discorsi andrebbero appesi nelle aule dei magistrati, negli studi degli avvocati che difendono gli stupratori, sopra le scrivanie dei legislatori, nelle caserme, nelle case dei marescialli, dei carabinieri. E che sinceramente io me ne fotto. Non indosso le scarpette rosse, ma la minigonna la metto tutto l’anno.

#sbetti

#iomenefotto

#25novembre

La piovra: l’Acqua Granda

Quando sale l’acqua alta, non c’è niente che puoi fare. Prima ti bagna le scarpe. Poi ti entra in casa. Poi ti sale lungo i polpacci. Poi ti avvolge le cosce. Poi la senti scivolarti addosso fino alle anche. Gli stivali si ingrossano. Diventano pesanti. La gente pensa che l’acqua alta sia una cosa normale. Suggestiva. Avvincente. Ma di avvincente l’acqua alta non ha niente. Niente. È solo una grande piovra che si abbatte su Venezia e non lascia scampo. Bisogna solo aspettare. Che passi.

Crea disagi ai residenti, ai commercianti, agli artigiani, agli hotel, a chi a Venezia ci lavora o ci studia.

Ieri in alcuni punti era un metro e sessanta. I negozianti non fanno in tempo a svuotare il negozio dall’acqua che questo si riempie. Di nuovo. Alzano le paratie, mettono sifoni, prendono in mano secchi, ma non basta.

Attività ferme, negozi chiusi, ho visto gente bloccata dentro agli alberghi e osservare il fiume d’acqua scorrere. Qualcuno tentava di scavalcare la paratia e di salire sulle passerelle. Le persone in fila, una a una, venivano aiutate dagli agenti di polizia locale. Si procedeva a passo d’uomo. Gente con i trolley, chi con i passeggini. Gli anziani che non ce la facevano aspettavano. Qualcuno si faceva trasportare su qualche carretto. Stivali di gomma, calzoni fatti su e gambe scoperte. E come se non bastasse ci sono messi anche la pioggia e il vento. Ammassi di persone che aspettavano in stazione. Come a uno spettacolo a teatro, imbavagliati di fifì, guardavano quella pioggia scendere e quell’acqua salire.

La gente faceva la spesa con i pantaloni alzati. Ogni angolo di Venezia era inondato dal mare. Ogni calle. Ogni piastrella. Le famiglie, le coppie con bambini piccoli, in questi giorni, son andati a Mestre per prendere da mangiare. Anche le farmacie hanno faticato a rifornirsi, farmaci da buttare; pazienti da buttare. Ieri mattina il 70 per cento del centro storico era allegato.

E domani si attende un nuovo picco.

Il pezzo di oggi sul #Giornale qui sotto in foto.

E ci trovate con un nuovo servizio anche domani.

#sbetti 👇👇👇

http://m.ilgiornale.it/news/politica/venezia-senza-tregua-citt-paralizzata-qui-sembra-guerra-1785122.html

A Venezia non si sente più il galoppo dei trolley

A Venezia non si sente il rumore dei trolley che galoppano lungo le calli. Le uniche ruote che corrono sono quelle dei carrelli dei veneziani e dei negozianti che buttano via quintali di roba marcia.

Venezia stamattina non è come tutte le altre mattine. Non si vede la gente correre, parlare al telefono, impicciata, indaffarata. Non si vedono gli avvocati con gli zaini in corsa per la prima udienza, o gli studenti che marciano ripassando le lezioni. No. Non si vedono nemmeno fiumi di persone che ogni giorno affollano la città. Tutti in fila sopra le passerelle perché in alcuni punti l’acqua è ancora alta. Gli unici indaffarati sono i veneziani. Le uniche voci sono quelle dei residenti dei negozianti e dei commercianti che tentano di salvare quello che la natura e i rallentatori del Mose hanno distrutto e buttano quello che è irrecuperabile. I soli rumori che si sentono sono quelli della scopa di saggina che spazza via l’acqua, che sbatte sui pavimenti, il rumore degli aspiratori e quello dei phon che asciugano i frigoriferi. Per chi ha la fortuna di lavorare, i locali sono pieni, pieni di veneziani indaffarati, in tuta, che cercano un panino, un caffè, che fanno una pausa tra un sacco e l’altro.

Ma molti locali sono chiusi. Molti forni sono chiusi, molti negozi sono ancora chiusi. Con la roba per terra, con la gente che pulisce, con le persone armate di guanti e scopettoni.

“Il magazzino è un macello”, ci dice Luca Formentello dell’Atelier Murano Glass. Nel suo negozio si è alzato il pavimento. Le piastrelle si sono staccate una a una. “Nel giro di cinque minuti qui era tutto allagato – ci dice il titolare di una caffettiera in Strada Nova – siamo incazzati neri. Frigoriferi da buttare, freezer, tutto”.

La gente ancora tenta di attraversare le calli, con gli stivali, con i sacchi di immondizia. I bengalesi per coprirti i piedi ti vendono quei sacchi colorati a quindici euro. Fermano la fila sopra le passerelle e iniziano a urlare: “numero 42? 41? 37?”. Quando passa qualcuno che c’ha il 37, afferra i sacchi, paga e prosegue dritto. Poi non appena deviamo verso Santa Maria Formosa le scene si ripetono…

E le trovate nel #Giornale di oggi.

Dal cielo di Venezia. 15 novembre 2019.

#sbetti

👉👉👉 http://m.ilgiornale.it/news/politica/acqua-danni-e-solidariet-lultimo-fango-lodio-social-1784541.html

L’Acqua Alta non molla: la libreria più bella del mondo 🌍

Quella che vedete qui sotto, quella qui sotto sì. Ecco questa è la libreria più bella del mondo. Ci sono stata ieri. La chiamano così. La chiamano così in giro per il mondo la libreria Acqua Alta.

Anche se in realtà le librerie sono tutte belle. Ancora non capisco come facciano le persone a riempirsi le mani di bicchieri pieni di ghiaccio, vestirsi da asparagi e usare i libri come ferma porte. E non lo capisco no. Non lo capisco. Non capisco come l’uomo riesca a buttare la propria vita nel cesso. Ma insomma.

La particolarità di questa libreria e la sua bellezza è che c’ha i libri dentro le gondole. E che ci sta un gatto nero diventato il suo simbolo. Libri accatastati. Libri in pila. Pile di libri. Libri sfogliati. Libri in verticale. Libri appoggiati. Libri sopra le mensole. Libri dentro gli scaffali. Libri fino a su. Su sopra le pareti. Libri vecchi. Libri nuovi. Libri ingialliti. Libri impolverati. Libri ricoperti. Libri inumiditi. Libri puliti. C’ha libri. Libri. Libri. E libri ovunque.

E allora le prime due foto che vedete qui sotto sono i libri da buttare. Sì. Buttare. Sono quelli andati a male, perché l’anima non la puoi nutrire, per il fenomeno della piovra di questi giorni.

Sono migliaia di volumi accatastati, che sono stati inondati dall’acqua alta, e che non possono essere salvati. “Parliamo in tonnellate – ci dice un dipendente quando arriviamo a ora di pranzo ma qui si fa tutto un dritto – sarà una tonnellata di libri. Questa mattina mi saranno passate davanti non so quante cassette”.

E allora i libri che potrebbero essere recuperati si tenta l’impossibile per salvarli. Il phon. Il calore. Ma altri. Altri sono seriamente danneggiati. Sudici. Strudici. Alcuni giacciono per terra ridotti in poltiglia. Ridotti a pezzi. In brandelli di carta. E qui. Qui niente si può fare. L’idea di questa libreria venne nel 2004 a Luigi Frizzo che per proteggere i libri dall’acqua lo mise dentro vasche barche e barchette. Anzi al centro, proprio in mezzo, ci sta pure una gondola, con dentro i volumi.

E qui ci trovi di tutto. Pure quello che pensavi di non trovare. Quello che pensavi non potesse mai esserci. Morte in Kenya per esempio. Ieri mi passava il cuore lasciarlo lì. Ma non c’era modo. Era tutto bagnato. Umido. Sgualcito. E l’ho lasciato lì.

Ripasso con calma ho detto a chi doveva lavorare. E in mezzo ai piedi intralciavo il passaggio.

Poi, poi quando me ne sono andata ho visto il gatto bello folto nero. Se ne stava sopra una coperta arancione a sorvegliare la situazione. Per questi due giorni si temono ancora maree, ma l’Acqua Alta, l’Acqua Alta non molla.

#sbetti 💚📚💛

Venezia in ginocchio

Il Giornale 14 novembre 2019

“Ma noi abbiamo il #Mose – gridano i veneziani lungo le calli – noi abbiamo il Mose che ci salverà». Ma #Venezia non si salva. E affonda.

È la sera del 12 novembre. È notte. Fa freddo. Ed è buio pesto. Venezia combatte con l’acqua alta. «Forza su, dai che scende», gridano. Ma all’improvviso il mare sale. Sale a ritmo costante, tre, quattro, cinque centimetri ogni dieci minuti. Un metro. Un metro e cinquanta. Un metro e sessanta. Un metro e settanta. Alle 22.50 la lancetta dell’idrometro è agghiacciante. Un metro e 187 centimetri (con danni alla Fenice, in centro e alla Basilica). La gente inizia a scappare. I titolari iniziano a fuggire dai locali. Impossibile rimanere dentro, si rischia di morire annegati. Il vento spinge le barche sulla terra, i vaporetti iniziano a roteare, i pontili si spaccano, le barche colano a picco, tre vaporetti affondano. Le paratie non reggono. Le gondole sbattono contro le vetrine dei negozi. Le luci collassano, i tavoli traballano, ballano in mezzo al mare, come fossero giù, sotto a un fondale. L’acqua arriva alle anche, la gente non sa più che fare. Intanto i morti salgono a due. Il Consiglio regionale in corso viene sospeso. I consiglieri bloccati dentro al palazzo, si rifugiano ai piani superiori. I divani e le poltrone ondeggiano lungo le sale. Sembrano scene di un film catastrofico. Invece è tutto vero. «Questo non è uno spettacolo – scrive Tomaso Borz. su Facebook, giornalista veneziano – per la seconda volta nella storia, dopo il 4 novembre 1966 (194 cm), l’acqua alta ci ha stesi». Già stesi. In giro è il caos. Le sirene partono. I soccorsi si mobilitano. Luca Zaia attiva l’unità di crisi, il sindaco Luigi Brugnaro chiede lo stato di calamità. Viene indetta una conferenza stampa con il patriarca di Venezia, il capo della protezione civile Angelo Borrelli e il capo dei vigili del fuoco Fabio Dattilo. Venezia è in ginocchio. E il giorno dopo in giro c’è rabbia e disperazione…”

Quello che ho visto, quello che ho raccolto, quello che ho ascoltato lo trovate in questo pezzo.

#sbetti 👇👇👇

http://www.ilgiornale.it/news/politica/apocalisse-nella-laguna-due-morti-danni-e-paura-mai-visto-1784000.html

Ho visto la gente spalare via l’acqua

Ho visto le persone spalare l’acqua. Le ho viste con le lacrime agli occhi. Ho visto la gente piangere. Disperata. Attorniata dai sacchi pieni di roba da buttare. Ormai marcia. Senza più nulla da recuperare.

Allora in questi giorni sono stata in mezzo ai commercianti. In mezzo alle persone. In mezzo ai veneziani. Venezia non è solo fatta di turisti che prendono arrivano, si fanno quattro selfie, sputano per terra, mostrano il culo e ripartono. No. Venezia è fatta di gente che vive al piano terra. Di gente che ogni anno combatte con l’acqua alta. Di gente che ci vive. Di gente che ci è nata. Di gente che ha avuto la fortuna di nascere nella città più bella al mondo e ci vuole rimanere. Perché Venezia. Venezia non ha bisogno dei turisti per essere bella. Venezia è bella da sola. Venezia vive di luce propria. Venezia è una reliquia e voi l’avete trattata come una puttana. Ricordo ancora le immagini di chi piscia per strada. Di chi si cala i pantaloni in mezzo alle gondole. Di chi si tuffa dal Ponte di Rialto. Di chi lascia i rifiuti in mezzo alla strada. Credendo che Venezia sia Gardaland.

Allora in questi giorni mi sono resa conto della sofferenza che provano le persone che a Venezia ci vivono e non possono convivere con i turisti che credono che Venezia sia un parco acquatico.

Ho visto un sindaco mettersi le mani nei capelli. E chinare la testa. Ho visto gli occhi spaventati e atterriti del presidente Luca Zaia. Ho visto gli occhi delle persone e ci ho visto la disperazione. La consapevolezza che non è finita qua. Che tornerà. Che ogni tot di anni l’acqua Granda torna e non lascia sconti.

Una donna mi ha preso le mani, una titolare di una boutique, e mi ha detto: “è un disastro, cosa ne sarà di questa città? Lo vedi come è presa? È tutto distrutto. Hanno mangiato tutto. Rubato tutto”. Sono rimasta senza saper che dire. Le ho solo stretto la mano più forte. E poi andandomene le ho premuto la mano sul braccio e le ho detto: “forza non mollate”.

No, perché i veneziani non mollano. Ma Venezia. Venezia molla.

E questi giorni ho visto la gente non mangiare. Non dormire. Non avere l’acqua nemmeno per lavarsi i denti. Ho visto le donne che mi hanno detto “ho i capelli sporchi”, ho visto gli uomini in tuta pieni di freddo. I muscoli congelati. Ho visto le donne rannicchiate. Le mani congelate. Con i giubbotti dentro ai negozi. Ho visto i titolari e i negozianti bestemmiare. I facchini imprecare. Cercare di salvare il recuperabile. Ho visto la gente spazzare via l’acqua. Correre con gli enormi sacchi di spazzatura. Ho visto le persone non poter andare in bagno. Non poter fare un caffè. Non potersi scaldare. Ho visto persone asciugare i frigoriferi con il phon, buttare frigoriferi. Buttare freezer. Ho visto anche chi asciugava i libri con il phon. Ho visto proprietari che mandavano fuori dal proprio locale i clienti e in solidarietà li mandavano in quello accanto. Perché funzionava. Perché anche con le porte aperte potevi trovare un attimo di caldo. E poi. Poi ho visto gente disperata, accucciata, guanti in mano, scopettoni, stesa a terra a lavare il pavimento. Ho visto gente risollevare i manichini, spazzati via dalla furia dell’acqua e del vento. Ho visto gente pulire le piastrelle. Disinfettarle, lucidarle. Una a una. Ho visto persone oltraggiare lo Stato, il Governo, compagnia cantante, per questa Venezia lasciata a sé stessa. Ma soprattutto. Sopratutto ho visto una Venezia lavorare. Rimboccarsi le maniche. Darsi da fare. Ho visto le persone correre. Indaffarate. Affaccendate. Persone prendere la pala, tirare su la melma, riempire secchi di roba, togliere la roba marcia e aprire i sacchetti e gettarla.

Ho visto gente non piangersi addosso. Non fare scenate. Se non quelle di quando prendi confidenza. E così fumando una sigaretta ti scappa una lacrima. E poi te ne scappa un’altra. E un’altra ancora. E ci si sfoga. Ci si sfoga per questa Venezia che alla fine vince. Vince su tutto. Anche su chi la ama da spaccare il cuore e non vorrebbe farla morire.

Tra poche ore sul #Giornale

#sbetti

La sensazione è che Venezia affondi

Sono stanca. Tanto stanca.

È stata una lunga giornata. Ma vi scrivo lo stesso. Perché #Venezia non può aspettare.

E perché secondo molti veneziani è solo questione di tempo. Tempo.

“Signore questa nave è fatta di ferro, le assicuro che può affondare”, diceva il costruttore del Titanic a chi chiedeva di aumentare la potenza delle turbine.

Già.

Allora questa mattina mi sono svegliata. Doccia. Mi sono vestita in fretta e furia. Ho sentito la redazione. Stivali di gomma. Sciarpa. Guanti. E sono andata un attimo al bar a fare colazione. Il bar di una mia amica veneziana.

Dentro di me però, avevo quelle immagini di una Venezia devastata.

Me ne ero andata a letto guardando quella Venezia divelta, sommersa. Quella Venezia che sprofonda, che affonda. Quella Venezia sommersa dall’acqua. Una Venezia piena di sirene. Di lampeggianti. Una Venezia che lentamente sprofonda. Che lentamente muore. E per cui nulla si può fare.

“È solo questione di tempo – mi ha detto questa amica mentre mi serviva il caffè – prima o poi Venezia sparisce”.

Allora lì, lì mi sono venute le lacrime, consumavo il mio caffè cercando di non farmi vedere ma gli occhi non mentivano. Allora percorrendo la strada che mi portava a Venezia questa mattina, la strada non era più la stessa.

Non era la stessa strada di quando prendi il treno per andare nella città lagunare e ti trovi a dover fare un servizio, ad andare in tribunale, a prender qualche carta, a intervistare qualche magistrato, o di quando ti trovi per qualche appuntamento, o semplicemente quando ci vai per fare un giro. No.

Questa mattina pareva come se quel treno mi portasse in una città sospesa nel vuoto.

Al di là della terra. Al di là dell’aria.

In mezzo all’acqua.

Questa mattina pareva che quel treno mi portasse in una città sospesa. Che viaggiasse su binari sopraelevati. Che entrasse dentro le nuvole. Dentro la pioggia. In mezzo all’acqua. L’acqua. L’acqua. L’acqua. Questo benedetto elemento. Questo maledetto elemento. L’acqua che ti travolge. L’acqua che ti entra dentro. L’acqua che non risparmia niente e nessuno. Perché il fuoco lo puoi spegnere. L’acqua. L’acqua cosa fai.

Allora dicevo sono andata a Venezia col treno e per tutto il viaggio mi sembrava di stare sospesa. Non vedevo l’ora di scendere perché avevo tremendamente bisogno di fumare una sigaretta.

A Venezia scendo dal treno. Mi accendo la sigaretta. Mi incammino con i miei stivali pesanti e appena inizio a vedere i negozi pieni d’acqua con la merce a terra, con la roba da buttare, appena inizio a vedere le mani sopra i capelli della testa della gente disperata, mi sale un nodo in gola.

Mi viene da piangere. Non mi sento veneta. Non mi sento veneziana. Ma il legame con questa terra è talmente forte che squarcia l’anima.

Ho le lacrime agli occhi. Un ragazzo accanto a me se ne accorge e mi dice: “ a San Marco acqua alta”. Ho il volto rigato. Mi accendo un’altra sigaretta. Credendo che il fumo e la sigaretta stretta tra le dita potesse alleviare i pensieri. Ma i pensieri. I pensieri si fanno sempre più frequenti. Sempre più potenti. Cominciano a martellare sulla testa a ogni sbuffata di sigaretta. Il volto si cruccia. Lo sguardo si fa più severo. Cattivo.

Una città che è la più bella al mondo, penso, ridotta. Ridotta in questo stato.

Ma come è possibile. Ma come può essere. Come può essere che un gioiello così bello che sta sull’acqua del mare sprofondi. Si anneghi. Si affoghi.

Così ho iniziato a immaginare come potesse essere Piazza San Marco con le sue statue, i suoi merletti, le sue guglie, i suoi pinnacoli, i suoi cavalli e leoni alati, sommersa dall’acqua. Ho iniziato a pensare a come potesse essere una Venezia piena di calli negozi bar boutique opere d’arte monumenti giù giù nel fondale del mare. La faranno vedere in qualche documentario ho pensato e ci metteranno i proiettori con le luci, e ci andranno giù con i sommozzatori e la sveleranno ai nostri posteri. Questa era una città emersa ci diranno.

Una Venezia che non esiste più. Almeno sulla terraferma. Sott’acqua sì. Nel fondale.

E allora ho iniziato a immaginare la Basilica sommersa dall’acqua. Con l’acqua del mare che le sbatte addosso. Che la accarezza. Che la avvolge. Che la bagna. Ho iniziato a pensare al campanile, il Campanile di San Marco dove mai potesse arrivare, se potesse spuntare dal mare, dall’acqua. Perché la sensazione è che Venezia affondi. E che rimanga sotto il mare.

Ma poi. Poi l’immaginazione è stata interrotta dalla realtà e lì. Lì ho dovuto fare i conti con le persone.

E allora sono entrate dentro le loro botteghe. Dentro i loro negozi. Dentro le loro case. Mi hanno accolto. Non avendo niente. Nemmeno più un cesso dove pisciare. Nemmeno più un goccio d’acqua da bere. Nemmeno un caffè. Qualcuno mi ha offerto una sigaretta. Ma ho rifiutato. Non si accettano sigarette da persone che stanno vivendo situazioni drammatiche.

Ecco. E qui. Qui ho visto negli occhi la disperazione.

E questa è un’altra storia che vi racconto tra poche ore sul #Giornale.

Ora vado a letto. Sperando che il caldo delle coperte allevi questi senso di freddo. Di bagnato. Di umido. Di marcio. Che si respirava oggi, nella città più bella al mondo.

#sbetti

Mi sono cibata delle loro storie – Gračac – Croazia 🇭🇷

Sono entrata dentro le loro case.

E ho ascoltato le loro storie. Mi sono cibata delle loro parole. Non come quelli che predicano integrazione e tengono il culo bene al caldo. Con tutte le comodità del mondo. Senza sforzi. Parassiti. Mediocri. Inutili.

Amebe senza testa. Sterili.

Le cose per capirle bisogna vederle. Bisogna viverle. E ancora.

Ancora non si capisce abbastanza.

E allora quella che vedete qui sotto è l’entrata di una casa.

Dove queste popolazioni ci hanno accolto.

Siamo arrivati qui dopo un lungo viaggio. Uno di quelli a 180 all’ora quando la macchina sfreccia immersa nella landa di arbusti gialli verdi dorati arancioni marroni. Abbiamo corso per arrivare in tempo. Per arrivare giusti per pranzo. Ma per il pranzo delle 13 non ci siamo arrivati. Erano le quattro e mezza del pomeriggio. E loro ci hanno aspettato.

Hanno pranzato con noi. Anche la bimba che magari a sette anni c’aveva pure fame.

Siamo a Gračac, una località della Regione Zaratina. Arriviamo che il sole che sta scendendo. Fa quasi pure freddo. Quel primo freddo che ti penetra dentro e ti riempie di nostalgia dei vecchi inverni. Quando fuori fa freddo e alle cinque fa già buio.

Fuori si vedono le ragazzine sedute sopra a quei tavolini di pietra. Si scambiano confidenze. Ascoltano musica. Mangiano patatine. Stanno seduta a gambe incrociate sopra quei tavoli. Quando vedono che stiamo per scattare una foto, si mettono pure in posa. Qualcuna accenna a un simpatico saluto. “Are we nice?”, ci chiede una ragazza.

Per pranzo entriamo. Ci fanno accomodare. Sopra i tavoloni ci stanno i testi con dentro le cose ancora calde da mangiare. Carne. Maiale. Pollo. Verdure cotte. Verdure crude. Purè di fagioli. Le verdure sono stratosferiche. Mai mangiato verdure così buone. Hanno quel sapore intatto naturale genuino, che qui nemmeno se c’hai l’orto.

Poi. Poi alla fine caffè. Rigorosamente turco.

E allora con queste persone abbiamo parlato. Ci hanno raccontato.

E allora mi arrabbio. Mi arrabbio terribilmente tanto quando sento che la gente ci dà dei fascisti o dei razzisti. Mi arrabbio tremendamente tanto quando la gente predica integrazione e vive col culo posato senza fare il minimo sforzo. Giusto quel minimo necessario per fare giusto un po’ più del dovuto.

Ma non ci si formano i pensieri dietro a un computer stando a casa a twittare.

E a facebookare se non sapete nemmeno cosa ci sta al di là del mare. Il vostro mare perdio. Il vostro mare.

E allora poi alla fine. Alla fine ci siamo congedati. Il buio lentamente avanzava. Era ora di ripartire. Ci siamo rimessi in macchina. Diretti verso la prossima meta. E così continuando il viaggio.

#sbetti