Una generazione di stravolti

L’altro giorno ho intervistato una donna imprenditore, titolare di un’azienda che dà lavoro a 70 persone. Nel mezzo del servizio mi ha detto che da due anni cerca operai ma non li trova. Trovate il pezzo su Libero.
Lei cerca tornitori. Fresatori. Ragazzi appena usciti dalle scuole che sappiano come tenere in mano un tornio. Una macchina.
Ma in due anni di pandemia nessuno le ha mai suonato il campanello. In Italia non manca il lavoro. Manca la prospettiva. Che è una cosa diversa. Il problema dei giovani che non trovano lavoro andrebbe rivisto dalla parte di chi il lavoro lo offre e trova delle mezzeseghe abituate a condividere le stories su Instagram e le dirette su Tik Tok.
Il problema della mancanza di lavoro è che manca manodopera qualificata. Specializzata. Manca personale che abbia voglia di imparare un mestiere. E mancano anche le scuole che ti preparino a quel mestiere. Anche perché, diciamocelo qua, con la storia di aver laureato anche i cani e i porci, abbiamo perso di vista quello che veramente interessa. Alcuni fenomeni per il fatto di avere un pezzo di carta in mano si credono padreterni. Nessuno ti insegna a fare l’idraulico. Nessuno ti insegna a fare l’elettricista. Nessuno ti insegna a fare il muratore. Devi solo entrare in una ditta e imparare. Ma le aziende ora sono talmente oberate di regole e prescrizioni che anche far fare due ore di lavoro a uno diventa un problema. La titolare che ho intervistato ha fatto un accordo con una scuola che prevede che due giorni a settimana i ragazzi del 4* e 5* anno seguano le lezioni e in classe e gli altri tre giorni vadano in fabbrica. C’è un bisogno disperato infatti di gente che sappia fare e che voglia imparare un mestiere. La scuola poi in questo non ti aiuta.
Sforna una quantità di imbecilli che durante il primo mese di pratica negli studi legali (visto con i miei occhi) ti chiede come si fa una raccomandata. Sopravvivono i più svegli. I più intraprendenti. E i più scaltri. Gli altri dopo un po’ finiscono a casa a rincitrullirsi e presentare domanda per il reddito di cittadinanza. Uno dei meriti dei grilli è quello di aver posto il seme infernale nella coscienza dei giovani che anche se rimani a casa a grattarti le palle puoi benissimo beneficiare di un obolo che lo Stato ti concede semplicemente perché gli fai pena. Del resto parlavo anche con il titolare di un bellissimo hotel, che gente che vuole lavorare soprattutto sabati e domeniche non ne trova più. Nemmeno le sere. Molti non arrivano nemmeno a parlare di contratto perché ti dicono: “Se è per la sera io non sono disponibile”. E tanti altri invece preferiscono lavorare in nero così da non perdere i sussidi avuti.
Una parti di popolazione giovanile poi gioca a fare gli influencer. Gente che passa le proprie giornate a cambiare abito 5 volte e fare le prove davanti lo specchio perché così quando “monti il video crei l’effetto”. Gente che passa giornate intere a spalmarsi creme sul viso e sul sedere o farsi promotore di diete cammini digiuni equilibri strani.
Mai qualcuno invece che ti insegni a tribolare per guadagnarti da vivere.

#sbetti

Ci sono posti dove tornerò sempre

21 novembre 2020

Dal diario di Facebook del 21 novembre 2020

Ci sono dei posti dove tornerò sempre. Casa. Oggi a Venezia è la Madonna della Salute. Ci sono dei posti che mi riappareggiano l’anima. Che me la cullano. Me la caricano. Me la riappianano.
Quando devo pensare adoro sfinirmi e farmi male. Devo sentire che le gambe corrono da sole. La mia testa deve essere completamente concentrata sul corpo. Devi avere la mente annebbiata dal freddo e dalla fatica per vederci chiaro.
E allora ci sono dei posti dove da qui se ti sporgi un po’ più in là ci vedi le montagne, che giocano a nascondino con le nuvole, che invece quando il cielo è chiaro limpido perfetto le vedi bene, alte, erette, dritte. Immerse sullo sfondo creano figure dipinte nel cielo. Svettano verso l’alto. E sei lì che te le immagini. Te le immagini le montagne quando ti avvicini. Te le immagini di starci appresso. Di salirci addosso. Quando respiri l’aria, l’odore il sapore di montagna. Quando la sigaretta non ti sembra la stessa perché è quella che senti fredda secca gelida. È quella che sa di montagna. Che sa di fresco. Che sa di aria incontaminata. Quella che le dita ti si rattrappiscono dal gelo.
E ci sono quei posti dove gli alberi li vedi tingersi di rosso arancio arancione. Che sagomano figure lungo il cielo, con il sole che tramonta dietro. Ci sono posti che sanno di casa. Che sanno di casa sempre. Per noi abituati a sentirci a casa ovunque. Posti dove il sole tramonta e sorge sempre. Anche nella notte. Questi sono i posti dove mi piacere camminare. Correre. Sentire che i pensieri scivolano via lungo le gambe e il corpo si rigenera tutto. La mente spazia. Si apre. Coltiva nuove idee. Acquista nuova forza. Assume nuovo vigore.

#sbetti

I ladri lo sanno che possono entrarti in casa

Ammazza oh. Il buio arriva prima e i ladri hanno la mascherina.
È da un po’ di anni che assistiamo alla comparsa dei ladri quando la gente va in letargo. Anzi nei periodi di quarantena, grazie alla grassa e incolta sinistra padovana, abbiamo assistito anche ai “pusher non vanno in vacanza”, per la regia del sindaco Sergio Giordani.
Ma è da un po’ di anni che in Veneto e in altre parti d’Italia, i ladri imperversano facendosi beffe di tutto e di tutti. Ricordiamo gli episodi delle rapine in villa. L’orrore di Gorgo al Monticano.
Così come ricordiamo gli anni in cui i topi d’appartamento ti entravano in casa alle cinque del pomeriggio e tu non potevi farci nulla.
Il mio primo pezzo di cronaca nera al Gazzettino, nel 2013, fu proprio una rapina a casa di un vecchietto di domenica, in pieno giorno.
Ricordo ancora che quella mattina mi ero appena alzata e andai a fare il servizio in pigiama tanto che quando i carabinieri dentro casa del malcapitato mi chiesero se avessi voluto togliermi il cappotto, io declinai l’invito, perché sotto il cappotto nero lungo fortunatamente fino ai piedi, avevo una vestaglia verde con i fiorellini rosa che non mi pareva il caso di mostrare in pubblico.
Mi avevano chiamato all’improvviso e mi avevano detto che un anziano vecchietto era stato rapinato, così io, che avevo guardato i film dove il giornalista prendeva e partiva, sono partita e sono andata, nell’esatto stato in cui mi trovavo. È successo anche altre volte.
Ma quante ne ho viste di queste scene.
Ricordo bene gli anni 2014, 2015, 2016 e oltre – soprattutto dopo con la bomba immigrazione – ogni settimana facevano razzie e mambassa in ogni appartamento o casa. O attico. O villetta. Soprattutto quelle in centro. O in periferia. Ormai poco importa. Con le luci spente e i giardini aperti.
Con tanto di allarmi sofisticati ma che nessun effetto sortivano contro questi delinquenti da quattro soldi. Non nel senso che non fossero esperti. Ma nel senso che ti entravano in casa per rubarti quattro soldi per davvero.
In anni di cronaca nera ho visto i cittadini dotarsi dei più potenti mezzi di sicurezza, impianti sonori, acustici, allarmi, pentole in giardino collegate con le forze dell’ordine, la CIA, i servizi segreti, l’esercito, l’FBI, che nemmeno Saw l’enigmista avrebbe saputo creare un sistema così tanto ingegnoso.
Ma ogni anno i ladri sono tornati. Nemmeno le ronde. O gli spari in aria. Perché se per caso spari per aria perché hai sentito un rumore nel cuore della notte e sei in mezzo ai campi, dove la prima casa accanto sta su Giove, ti sequestrano le armi (è successo per davvero quest’estate nel veneziano), perché prima di sparare in aria devi sincerarti che il ladro o il rapinatore sia armato e abbia intenzione dì ammazzarti.
Ne ho intervistati di personaggi che hanno avuto i ladri in casa e si sono visti legare moglie e figli. Questi, secondo i nostri illustri giudici, a cui non è successo niente nella vita se non la rana che salta il fosso, avrebbero dovuto assicurarsi e controllare se il ladro avesse avuto la pistola giocattolo, il mestolo da cucina, un coltello (arma sempre più usata) o una pistola vera, e solo in quest’ultimo caso controllare anche se fosse carica e poi eventualmente, prese con il goniometro le misure, e calcolata la direzione dell’arma puntata addosso dal ladro, dopo essersi assicurati che l’intenzione è sparare in testa, allora avrebbero potuto premere il grilletto a meno che il delinquente intanto non ti abbia fatto secco.
Per ovviare a tutti questi problemi, nel corso degli anni ci si è avvalsi dei controlli di vicinato, che qualcosa hanno fatto, ma che ormai i ladri hanno capito e non si lasciano di certo intimorire da un segnale stradale a forma di centrotavola che indica che il territorio è sorvegliato da mamma chioccia e i suoi pulcini.
Così come ogni anno, a inizio novembre, pronti sotto il preannunciato Albero, nei gruppi dei controlli di vicinato, dove ormai ci finiscono i gatti abbandonati e i cani, e qualcuno che si lamenta delle cacche, arrivano i compiti per casa. Come fossimo un branco di deficienti.
E così inizia la solfa: “Fate attenzione ora il buio arriva prima e i ladri hanno la mascherina! Occhio che i ladri non vanno in letargo. Occhio che i ladri non vanno in quarantena. Occhio che i ladri non hanno la carrozza che si trasforma in zucca. E quindi si raccomanda di: lasciare le luci accese. O le tv o le radio accese, – con tutto quello che costa l’energia adesso! – evitare di lasciare porte e finestre aperte – grazie fossimo scemi – luci accese ovunque, nei giardini, tendoni, porticati, – suvvia fiato alle trombe ! – non aprire agli sconosciuti. E cose di questo tipo.
Cioè la casa, nel mentre non siamo in casa appunto, dovrebbe diventare una sorta di grande fratello o di trappola alla “Mamma ho perso l’aereo”, che dovrebbe servire come deterrente per i ladri.
Queste sono ottime indicazioni. Peccato però che i ladri lo sanno. Che possono benissimo entrarti in casa. Senza suonare. Senza chiedere permesso.
E se ti difendi per caso, tu rischi le pene dell’inferno e loro ti alzano il dito medio.

#sbetti

Abbiamo paura del virus e del vaccino

Questa mattina un tassista di Milano stava incazzato nero per i vaccini.
Sei casi di trombosi su un milione e sei di dosi, sono niente. Mi ha detto che non ce la fa più. E che io – passata la fase della mia lacrimazione lombarda – quando l’ho fermato era fermo da un’ora e mezza.
Prima invece era una corsa dietro l’altra. Poi, preso dal vortice delle parole, che si inerpicavano e si arrotolavano su se stesse e si infagocitavano e risucchiavano dolori malesseri ansimi spasimi, mi ha detto che la moglie deve andarsi a fare una mammografia urgente e ancora non riesce ad andarsela da fare. È strana questa pandemia. Incontri perfetti sconosciuti che ti raccontano le loro cose. Quando sanno poi che sei giornalista diventi quasi una manna dal cielo. E ti si infervorano contro.
Allora i vaccini adesso sono diventati la commedia del momento. L’ha detto Luca Zaia, “sembra un panettone sta roba: si alimenta sempre più”.
Non solo. L’altro giorno durante la conferenza stampa Zaia ha detto che ci sono migliaia di persone, quasi la metà – solo un migliaio a Treviso – che non si presentano al turno di vaccinazione e nemmeno avvisano. Lasciando così migliaia di dosi aperte che resistono per sei ore e che se non somministrate in tempo rischiano di essere mandate al macero. Un po’ come sul Titanic quando presero a distruggere le scialuppe.
Allora mi chiedo come l’uomo possa essere così demente.
L’anno scorso eravamo in preda al panico perché i vaccini erano l’unica salvezza, visti come acqua nel deserto più deserto, visti come la goccia che ti disseta quando non bevi da giorni, e ora che li abbiamo la gente nemmeno si presenta.
Ci sono disdette ovunque in tutta Italia. E alcuni nemmeno avvisano.
Nel paese dei fessi ci si prende pure il lusso di snobbare il vaccino. Invece mi risulta che le prenotazioni da parrucchieri ed estetiste fioccano dato che appena riaprono sia mai che qualcuno abbia qualche liana in testa.
Io sui vaccini non mi sono mai pronunciata. Anzi. Non è di mia competenza. Non mi trova preparata. Non potrei capire perché non sono un medico e quindi posto che non vivo isolata nelle caverne mi affido a chi ha studiato e ne sa più di me. Così come quelli che reperiscono le informazioni su Facebook e si sentono tuttologi dovrebbero informarsi e prendersi la briga di spendere un euro al giorno per comprare un giornale.
Mi affido agli esperti che dicono che i vaccini funzionano. Perché poi penso che se solo andaste a guardarvi le controindicazioni dell’aspirina. O del Buprofene. Allora staremmo freschi. Senza considerare che se quelle controindicazioni sono scritte vuol dire che da qualche parte sono apparse nell’uomo. Di certo non se le sono inventate.
Ma in Italia le cose devono sempre finire in vacca. A metà tra la tragedia e la farsa. A metà tra la commedia e la disfatta.
E chi fa comunicazione dovrebbe studiare.
Perché la gente in giro è terrorizzata. Non ti guarda nemmeno più in faccia. Come se il virus potesse trasmettersi guardandoci negli occhi sparandolo da una pupilla all’altra. Il mio libraio di fiducia ieri mi ha detto che la gente entra in libreria e nemmeno più ti saluta. Non ha nemmeno più voglia di chiacchierare. Testa bassa. Sceglie il libro. Prende. Paga e va via. Ci stiamo riducendo mutanti. E ancora se l’anno scorso avevamo una comunicazione istituzionale da gestire i polli, bozze che uscivano a poche ore dal chiudere le gabbie, ecco ancora, dopo un anno siamo presi con le pezze al sedere. La comunicazione qui è fondamentale. Deve parlare uno. Non cento.
Ema ha detto che preoccupa la sfiducia verso i vaccini. L’Aifa in via precauzionale – ci credo, ci può stare, dopo il casino fatto scoppiare – ha sospeso le dosi. In Germania sono stati riportati 7 casi di trombosi venose cerebrali su 1,6 milioni di vaccini somministrati. In Inghilterra che è l’unica che continua a iniettarlo tra gli 11 milioni di abitanti vaccinati ci sono stati finora 15 casi di trombosi o coaguli di sangue e 22 casi di embolìa polmonare, una percentuale inferiore a quella della popolazione non vaccinata.
Perché infatti di embolia, per chi non lo sapesse, abbiamo 60 mila casi all’anno, il che vuol dire 164 morti al giorno.
Ora in tutto questo casino. Servirebbe subito un cambio di passo.
La paura non può farci smettere di vivere.
Qui ora siamo arrivati all’assurdo paradosso che abbiamo paura del morbo e paura del vaccino.
E questo è totalmente inconcepibile.

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Scrutinio finale

Lo scrutinio finale finisce così. Affondandolo in una poltrona. L’altro ieri ho assistito allo scrutinio finale di mia madre. Gli scrutini nella scuola iniziavano alle due. Un’ora ciascuno. Un’ora per classe. Impossibile sgarrare. Ma già chi arrivava alle 15 non è riuscito a cominciare in orario lo scrutinio. Colpa dell’insegnante che doveva arrivare prima ma che siccome stava impegnata con l’altro scrutinio non poteva inserirsi nello scrutinio successivo. Ci sono docenti che hanno più classi. Insomma lo scrutinio per mia madre iniziava alle 15. Arrivo da mia madre alle 14.30 e la trovo che sta spazzando il portico. Bene ho pensato, si rilassa. Entro dentro casa e vedo già la postazione pronta. Il tablet in piedi sulla custodia a leggio, l’iPhone carico a mille ma già sotto carica, sia mai si scarichi. La prolunga per ricaricarlo pronta all’uso. Il carica portatile. La penna. I fogli. Il registro. L’agenda. I giudizi stampati. La sedia già pronta per sedersi. Alle 14.55 mia madre è lì che attende di cliccare sulla parola “partecipa”. Lo scrutinio ai tempi del Covid avviene all’interno di una piattaforma, dove ci stanno i docenti tutti quanti connessi, si condividono i voti, i risultati, si condividono i giudizi finali, ma non ci si può vedere, non ci si può guardare. Non ci si può nemmeno parlare sopra o confrontare o scartabellare voti per aria perché nel momento in cui parla uno, non può parlare l’altro, il microfono diventa muto e se non lo vuoi più muto devi riattivarlo e nel momento stai guardando lo schermo condiviso dalla collega ti scompare l’immagine dell’insegnante con cui stavi parlando e mentre tenti di farla ricomparire clicchi per sbaglio sul tasto rosso e devi ricominciare tutto. Alle 15 e 10 la piattaforma su cui stanno lavorando tutti i docenti si blocca, ha un down, come usano chiamarlo quelli che parlano inglese perché non sanno l’italiano e quindi rimane solo una cosa da fare: aspettare. Le insegnanti iniziano ad andare in tilt, gli insegnanti pure. I messaggi su whatsapp dopo saranno 250. Soprattutto perché chi doveva firmare a fine scrutinio, per la redazione del verbale, ma non riusciva a farlo. Il problema è generale hanno iniziato a dire, rimandiamo a domani. Ma passa mezz’ora e gli scrutini si fanno. E si fanno oggi. Mia madre che doveva iniziare lo scrutinio alle 15, ha iniziato alle 16.10. Finendo alle 17.09. In ritardo di oltre un’ora. Per firmare però non è bastato il tablet. La piattaforma di cui si è avvalsa la scuola per compilare lo scrutinio, si vede che non l’hanno adattata a tutti i dispositivi, la parte relativa alla firma non te la faceva vedere. Lo schermo finiva prima. Provavi a farlo scorrere verso sinistra e rimbalzava verso destra. Provavi a farlo scorrere verso destra e rimbalzava verso sinistra. Come a essere beffardo. Come a prenderti per il culo. Come a farti vedere che lui non è stupido, che alla fine se vuole, ti fotte anche solo per mettere un voto. Dopo un po’ mia madre prende il computer, lo apre, e mantenendo la calma, accede al sistema che era stato aperto sul tablet. Nome utente. Password. Tutto scandito con una calma nervosa. Aperto il pc, qui lo schermo si vede tutto. Sono quasi le cinque e mezza. Mia madre firma. Le altre colleghe anche. Mia madre avrebbe dovuto finire un’ora e mezza prima. Chi aveva dopo un altro scrutinio, slittato uno di un’ora e poi di due, e poi di due e mezza, e poi di tre, ha finito alle nove di sera, dalle 18 che doveva finire. I due scrutini di ieri invece sono durati dalle 14 alle 18.30. Due. Questa è la scuola di uno Stato che tra i diritti fondamentali annovera il lavoro e l’istruzione, dimenticandosene altamente. Uno dei capitoli, quello della scuola, che durante l’emergenza di questo coronavirus, è uno dei più brutti che sia mai stato scritto. Del perché i docenti, senza alunni, non siano potuti tornare in classe anche solo per parlare, per discutere dei voti, per fare gli scrutini, a noi comuni mortali non è dato saperlo. Il Governo non ha mai risposto.

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#Coronavirus

#Storie2020

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Dal mare. Il mondo è diventato un insieme di cerchi

Jesolo

Sono appena rientrata.
Oggi dovevo fare un servizio al mare. E domani trovate il pezzo sul #Giornale.
Allora ho preso l’auto. Ho messo dentro la borsa la macchina fotografica. Le sigarette. Messo su un cd. Oggi Bruce Springsteen. Come mi va. Come mi pare. Onnivora di musica. Ho abbassato gli occhiali da sole. E sono partita alla volta delle spiagge.
Oggi era la prima domenica del fuori liberi tutti. E la percezione è che lo smarrimento, l’angoscia, l’incredulità, la paura dei mesi scorsi abbiano lasciato il posto alla voglia di ripartire. Alla fiducia. Al coraggio. Alla leggerezza. Alla speranza. All’affidamento.
Ora ci affidiamo l’un con l’altro. Ora ognuno conduce la propria battaglia da solo.
Tutti in lotta contro tutti.
Tutti in lotta contro uno. Il virus.
Non ho visto gente scomposta. Maleducata. Che se ne frega. Il mondo è diventato un insieme di cerchi che si chiudono gli uni distanti dagli altri. Escludendo il resto. Li vedi proprio fisicamente. Dall’alto. Sembrano tante linee segnate con il compasso. Ci si fida solo di noi stessi. Ci si fida solo degli amici veri. Dei parenti. Di quelli che conosci da tempo. Di quelli dove ti senti protetto. Non ci sono più le persone che si raggruppano in uno sciame di rapporti liquidi fini solo a se stessi.
Orgasmi del bisogno. No.
Ora ci sono quelli con cui hai condiviso tutto che ti stanno accanto. Quelli che “ok sì ci penso un attimo, ma diamocelo sto bacio, un abbraccio, una stretta di mano”. La gente si lascia andare. Siamo diventati ligi, seri, rispettosi. Affezionati.
I rapporti che dovevano essere tagliati, quelli fatti di frasi fatte, di incontri estemporanei, di mancanza di vigore, sono stati già recisi con una precisione chirurgica.
I rapporti che invece sono tornati, o quelli anche appena nati, sono quelli veri. Quelli sinceri. Quelli che abbiamo riscoperto e che in quarantena dicevamo: “scusa sono stata una stupida”, “scusate ragazze, prometto che vi dedicherò più tempo”. “Scusate se vi ho trascurato”, “io prometto che ora uscirò anche se sono stanca”. Insomma le relazioni che contano si sono rafforzate. I cerchi nel mondo si contano a seconda delle relazioni forti. Se sei dentro al cerchio allora fai parte di quel gruppo. Sennò rimani una formica in attesa che arrivi la stagione.
Il cielo di questi giorno ha ripreso il suo colore scalzo. Non sta più pastellato come prima. Le moto hanno ripreso a correre. Le auto a viaggiare. A macinare asfalto sotto le ruote. I camion hanno ripreso a suonare i clacson. Li senti la mattina. Quando ti svegli. Ancora prima di aprire gli occhi. Li senti e dici “Dio per fortuna”.
E allora oggi osservavo quel mare azzurro. Sentivo quel vento che scomposto sulla pelle faceva riscoprire la voglia di crederci ancora.
Il sole era in alto. Bello. Grosso. Scaldava il corpo. Gli animi. Le speranze.
Quanti giorni abbiamo osservato quel sole con la voglia di ripartire.
E così stasera mentre tornavo a casa e guardavo quel sole calare lento al tramonto, di un tramonto rosso fuoco, mi sono detta che non so di più cosa possiamo fare.
Che è così che deve andare.
Che ora ognuno conduce la propria battaglia da solo. E che da lassù qualcuno ce la mandi buona.

#sbetti

Vo’ Euganeo: un paese spettrale

Dal diario 📓 di Facebook del 23 febbraio 2020

Questa è la piazza di Vo’ Euganeo e vi posso assicurare che ieri sera faceva paura.
Non una persona. Non un’anima viva. Non un negozio aperto. Sembrava uno di quei film dove i mutanti si mangiano gli umani e non trovano l’antidoto e intanto stanno tutti chiusi in quarantena.
Sarà che entro troppo dentro le cose.
Che le vivo appieno.
Sarà che devo entrarci dentro se voglio raccontarle.
Sarà che ho provato anche a sdrammatizzare. Ma non ce l’ho fatta.
La paura è tanta. La percepisco. La si sente nell’aria.
Un paese spettrale. Un fazzoletto di terra grande quanto tre campi da calcio che dall’oggi al domani si ritrova catapultato in un incubo. E fino a che non vedi, non credi. Impossibile. Impossibile entrare dentro l’angoscia di queste persone se non ci si prova ad avvicinare, chiudere gli occhi e sentire.
Allora ieri mentre andavo a Vo’ Euganeo percorrevo la strada lungo i Colli e mi chiedevo perché lo faccio. Ieri mattina non mi sono nemmeno svegliata bene.
Questa cosa del Coronavirus ti prende tutto, anche quello che credevi importante passa in secondo piano. Insomma dicevo, mi chiedevo perché lo faccio. Ok il lavoro. Ma una voce dentro mi diceva di andare. Così, prendo e per un servizio vado a Schiavonia, poi da lì. Da lì vado, passo per Este, per lo splendido castello e proseguo in direzione Teolo. Il panorama è incantevole. I Colli viaggiano lungo la strada come se si muovessero. Come se accarezzassero il cielo. Come se corressero così velocemente, giocando a nascondino col sole. Un sole rosso. Arancione. Giallo intenso. Che lentamente sta scendendo.
Allora dicevo, vedo questi cartelli: Vo’ 3 km. E mi dico, dai ok torno indietro. Lungo la strada non ci sta nessuno. Non c’è un trattore. Non c’è una persona. Le luci delle case stanno spente. Le porte stanno chiuse. I bar. I ristoranti. I negozi. Tutto chiuso. Nemmeno un posto dove poter andare in bagno. E fermarsi per poter scrivere. Ti rendi conto delle cose belle di cui puoi godere solo quando non le hai. Quando capisci quanto siano di fondamentale importanza. E così. Così “Vo 4 km”. La sera sta scendendo. “Vo 3 km”. La notte sta calando. “Vo’ 2 km”. Si fa sempre più scuro. Torno indietro. Ci sono i tornanti. Ma: “Vo’ 1 km”. Sere ci sei quasi. “Vo’” freccia verso destra. “Sere ingrana la marcia e corri, arriva dritto in centro, fai e poi te ne vai”. Così ingrano la marcia.
Arrivo al centro del paese e non vi dico lo scenario.
Lo trovate oggi sul #Giornale. Poi.
Poi riprendo l’auto. E prendo la via del ritorno verso casa. Ma appena sto per addentrarmi dentro ai tornanti per scendere a valle, la strada diventa tutta buia, non una luce, non un lampione. Niente. Nemmeno un faro di un’auto. Se non la mia. E così tornando indietro, mi sono chiesta perché lo facciamo. Perché. Perché ho provato a immedesimarmi nella vita di queste persone già contagiate. E nella vita di noi italiani con in testa la spada di Damocle. E a ogni tornante che facevo era un pensiero. Come può essere che viviamo come se dovessimo vivere per sempre e poi, poi un giorno quello che fino a qualche giorno fa era bello, i piani, i viaggi, i desideri, i nuovi progetti, ecco in meno di 24 ore perdono di significato. Non significano più niente. Perdono di importanza. Spariscono. Nel nulla. E sei costretto, tornando a casa, a riscavare dentro al cesto dei panni sporchi e ritirarli fuori. Con tutta la forza possibile.
Finiti in fondo. Ammassati. Puzzolenti. Lerci.
E così. Così ho capito un po’ perché lo facciamo. Per dare un’informazione che sia il più possibile corretta. Per non creare il panico. Già alimentato a catena dai quattro buontemponi dei social. E per raccontare queste storie perché possano servire a chi ha perso la forza. Perché lì, giusto in fondo, quando esci dai tornanti c’è sempre una luce. C’è sempre una speranza.
Proviamo a raccontare quello che gli altri non riescono a vedere.
Mi leggete oggi sul Giornale.

sbetti

Dal diario di Facebook del 23 febbraio 2020

Mai avrei pensato che l’Italia nel 2020, dovesse affrontare un’emergenza sanitaria così globale. Mai.
Nessuno lo aveva messo in conto. E ora diventa faticoso fare tutto.
In #Veneto si vive sospesi nell’attesa che passi tutto.
Vai in giro. La gente si guarda intorno. Si osserva. Non si bacia. Diventa difficile toccarsi. Scambiarsi una stretta di mano. Pagare in cassa. Tutti a debita distanza.
I gesti che prima facevi e che ti sembravano normali ora sono macigni.
Uscire dal bar e tirare fuori con le dita una sigaretta non è più normale. Non lo è più. Uscire dal supermercato e aprire un pacco di biscotti e sgranocchiare non è più normale. Non lo è più. Aprire la porta di un locale e pensare di toccarla con la mano, senza un guanto, non è più normale. Mangiare le patatine degli aperitivi nemmeno. Non lo è più. Aprire la mattina il cruscotto dei croissant al bar e scegliere quello che più ti piace, devi prestarci attenzione.
Quante cose siamo in grado di fare e non ce ne rendiamo conto.
Sono tutti gesti che apprezzi quando non hai più la libertà di farli.
#sbetti
#Storie2020
#Coronavirus

Da Schiavonia a Vo’Euganeo – Coronavirus

I Colli Euganei

Dal diario di Facebook del 22 febbraio 2020

È sera tardi. Abbandono Vo’ Euganeo con questa immagine scattata di fretta oggi.
Ora non ve lo sto qui a spiegare come ci si sente a uscire da questo paese spettrale. Ho voglia di andare a casa.
Uno scenario mai visto. Perfino la pompa di benzina, chiusa, vacillava, illuminata da una piccola torcia al calar della notte. Sembrava quella dei film americani.
So solo che quando ho visto il cartello verde che mi indicava l’autostrada, ho tirato un sospiro di sollievo. E giù per i tornanti, al buio, sono scesa.
Domani il mio racconto lo trovate sul #Giornale.
Vi aggiorno.

sbetti

Ve lo metto così di getto come l’ho scritto

Ve lo metto così. Di getto. Come l’ho scritto. Come l’ho scritto quel giorno quando di ritorno da Visso mi sono seduta su una sedia al mare, ho tirato fuori l’iPhone e ho scritto.

Oggi sono entrata nella zona rossa di Visso. In provincia di Macerata. Mi hanno fatto mettere il caschetto. Mi hanno preso. E mi ci hanno accompagnato. Siamo entrati. Il tempo di una manciata di metri, il tempo di superare quella vecchia caserma dei Vigili del Fuoco, dove c’è rimasta un’insegna e dove fuori se ne sta ancora un pupazzo a forma di pompiere, quando superato l’arco puntellato da trivelle e da bastioni di ferro, l’immagine e lo scenario sono devastanti.

Mi sono trovata davanti un paesaggio spettrale. Sembrava uno di quei paesi a fine guerra. Oppure uno di quei film a effetti speciali, dove l’uragano passa e lascia il vuoto. Entrare dentro il centro di Visso è stato come entrate in una bolla.

Il tempo pare fermo. Morto.

Non c’è più niente.

Non c’è un cazzo di nessuno.

C’e solo l’eco delle grida della gente. E c’è la furia della natura. L’ira della terra.

La collera di Dio. Uno non può fare a meno di pensare a come la natura da un giorno all’altro possa distruggerti. Possa prendersi tutto. Possa travolgerti. Possa devastarti. Ammazzarti.

E allora ricordo che oggi quando ho visto questa scena mi sono pietrificata. Mi sono sentita come quella pietra gettata lì a terra in mezzo al cimitero degli abbandonati.

Inerme. Impotente.

Senza la possibilità di poter fare niente.

Ricordo di non aver visto subito questa scena. No. Mi hanno fatto mettere il caschetto. Mi hanno accompagnato nella Zona Rossa, tempo una cinquantina di metri. Si attraversa l’arco e subito dopo la morte.

Non c’è più niente.

E allora mi sono chiesta come possa la natura ammazzare una città intera.

Ma soprattutto come si possa dopo tre anni essere ancora preso come se il terremoto ci fosse stato l’altro ieri.

Case sventrate. Immagini raccapriccianti. Finestre defunte. Porte semiaperte.

Il negozio di parrucchiera dentro c’ha ancora le sedie e gli specchi. Spettrale.

Il lattaio c’ha ancora il secchio con scritto “lavaggio ricotta”.

La casa c’ha ancora dentro il termosifone. I lampadari sospesi nel vuoto e mossi dal vento. Ancora ci stanno gli armadi sottosopra. Con dentro la roba. Coperte. Lenzuola. Panni non stesi ammuffiti dalla muffa. Ci sta lo stendino che spunta dalla finestra. Quel lampadario di un bambino che pende in giù e che nessuno può rimuovere e prendere perché anch’io ho provato ad affacciarmi, a espormi su quelle pietre ma basta una folata di vento e ti sembra che il palazzo crolli.

Che il muro scrostato orami sconquassato e devastato, rigonfio dalla pioggia e dal maltempo, ecco ti sembra che il muro cada giù, che ti caschi addosso. Rosoni rotti, capitelli spezzati. Insegne luminose tolte. Dove ci stava un bar una gelateria una pasticceria che poteva avere pure centoventi persone, di seicento metri quadri, che al mattino ti dava le paste buone, le brioche, e i croissant crema e cioccolato, ecco ora qui ci stanno soltanto le macerie. Macerie. Macerie. Nient’altro che macerie. Macerie in questo cumulo di morte che sta al centro dell’Italia ma che allo Stato non interessa. Perché Visso ha cinquecento voti e chi se ne fotte di cinquecento voti. Ce ne stavano milleduecento ma ora la gente sta partendo.

Il bar e la gelateria erano di un ragazzo che c’ha la mia età e che ho conosciuto e che c’ho parlato due ore. Perché quando mi immergo nelle storie, mi ci immergo veramente.

Voglio capire come fa questa gente a svegliarsi la mattina e trovare davanti agli occhi macerie. Case vuote. Chiese distrutte. Crocifissi divelti.

Voglio capire come uno non vada via di testa. Perché infatti la gente ci sta andando. Ho parlato con una signora che di anni ce n’ha sessantasette e che la casa, le hanno detto, è da buttare completamente giù.

Non c’è rimasto più niente. Se dovesse avere una casa probabilmente ce l’avrebbe tra vent’anni. Ma lei tra vent’anni c’ha 87 anni. Cioè capite. 87 anni. E non sai nemmeno se stai qua.

Gente che sa che non dormirà più sul proprio letto.

Gente che non vedrà più la propria cucina. Che non mangerà più sui propri piatti. Che non imboccherà più le proprie posate.

Gente che da due anni vive nelle casette e che da un giorno all’altro la furia del terremoto ha strappato via tutto. Tutto. Gente che non ha più una casa. Non ha più una famiglia riunita. Non ha più una piazza. Non ha più un panificio. Non ha più una macelleria. Non ha più un lavoro. Non ha più un’identità. Non ha più una biblioteca.

La storia è andata distrutta. La storia sta in quel cumulo di macerie che lo stato abbandona. Gente che non ricorda nemmeno quanti anni ha.

Sì. C’ho parlato con queste persone. Per alcuni il terremoto è accaduto un anno fa. Per altri due. La gente ha perso il conto dei giorni. Dei mesi. Degli anni. Sopravvive dentro scatole di latta nell’attesa di morire. A Visso di macellerie ce n’erano due, di panifici idem. Di parrucchiere ce ne stavano quattro e ci stava la banca che ora sta dentro un container. Ci stava l’ufficio postale che ora sta dentro un container. Ci stava un dentista. Che ora sta dentro un container. Ci stavano i bar. I negozi. I ristoranti. Gli hotel. Gli alberghi. Ora. Non è rimasto più niente. Zero. La gente prende arriva. Il turismo dell’orrore. Si fa i selfie e poi riparte e se ne va. E intanto la gente qui muore.

L’altro giorno è morta una vecchietta, mi dicono. Una nonna. E la casetta data dallo stato dov’era, quella che dopo due mesi aveva pure dovuto abbandonare perché dentro cazzo ci passava l’acqua, ci stava la muffa, ecco la casetta ora torna allo Stato. Le questioni ereditarie non sono State normativizzate. Ai figli non spetta nulla. Nessuno ha più niente. Niente. Se non il verde attorno. E allora immaginate come possa vivere una persona quando deve abbandonare la propria casa. Quando non può nemmeno andare a prendere le proprie cose.

Enrico quello della pasticceria, mi racconta che ci è andato con l’ascia a prendere le cose per il padre che sta alto un metro e novantaquattro e non c’aveva un cazzo da mettesse. Ecco dicevo pensate come possa vivere una persona che deve abbandonare la casa. Che forse riesce a portar via le sue cose. Che l’armadio per un anno diventa il baule della macchina. “La valigia del terremotato”, lo chiamavano quel sacco da immondizie nero. Gente che per un mese non si è lavata. Gente che c’aveva la barba da fare. Gente deportata in casa come si chiamano loro, che non ha dormito per giorni. Che a ogni piccolo movimento borbottio o rigurgito della terra, tremava di terrore.

E allora oggi io li ho visti gli occhi di quelle persone. Occhi spenti. Ancora sconvolti. Occhi freddi. Rigidi. Immagazzinati da una divisa. Occhi che ne hanno viste di tutte i colori. Che hanno visto le pompe di benzina esplodere. Che hanno visto i tombini ribollire. Occhi che non sanno che fare. Dentro le casette si vive come se si stesse un un grande villaggio. Ma non è casa. Non è casa loro. È una cosa, casa, come cazzo se chiama, temporanea. Temporanea che dura all’infinito. Terribile no. Terribile sapere che per tutta la tua vita dentro casa tua, non ci entrerai più dentro. Che quella è la tua terra. Il tuo paese. Ma che se vuoi ripartire te ne devi andare.

I ragazzi se ne stanno già andando.

Enrico per andare in palestra fa settanta chilometri. Il cinema poi vicino sta a Tolentino. A cinquanta chilometri. “Per noi è diventato normale – mi racconta – fare 50 chilometri per andare al cinema. Uno pensa in minuti poi non in chilometri. E ci metti più tempo a deprimerti che non a prendere la macchina e andare al cinema”.

Già.

Ma le persone sono devastate.

“Immagina che ricostruisci questa struttura che ti dà lo Stato – mi dice Enrico – e che ci porti dentro quelle tue poche cose che riesci a salvare. A un certo punto resisti fino a un certo punto. Ma quanto dura il carico di un cervello. In fisica c’è un punto di rottura. Qui qual è il punto di rottura? Il fatto di aver smosso le abitudini e di non avere riferimenti ti sconquassa. Molto non ricordano nemmeno l’età. Non si ricordano quanti anni sono passati dal terremoto”.

Gente che viveva su quattro piani e che ora vive su sessanta metri quadri. Ma le casette andavano bene per villaggio vacanza. Non per viverci. Qui ora ci è entrata pure la muffa. Le porte si aprono al contrario. Non ci sta un ripostiglio per la scopa. E tra poco qui scende pure il freddo. Freddo cane. Gelo. Neve. “Vogliono spopolarci”, mi dicono, così uno prende e va fuori. Noi lo sappiamo che questo centro non sarà mai ricostruito.

Il novanta per cento delle case è inagibile. Sarà buttato. Giù, la finestra del sindaco c’ha ancora la tenda di fuori.

Il Comune è stato messo dentro alla vecchia piscina comunale.

“Cosa ci è rimasto – mi chiede Enrico? / Siamo un popolo sperduto in mezzo alle montagne che non conta un cazzo. Ci è rimasto il verde. Le nostre montagne. Perché Visso era uno dei borghi più belli d’Italia. E per me lo è ancora. Ha il coraggio sfacciato di mostrarsi così. E la sede del parco naturale dei Monti Sibillini.

Visso va rimesso in piedi. E va rimesso subito.

Non molliamo!”.

Per #Storie2020

Dal diario #sbetti

Agosto 2019

#dovelaterratrema

Amici miei 🍷

Questo il mio pezzo per Venetoeccellenze.com. Mi hanno chiamato e mi hanno chiesto se volevo collaborare con loro. Se avete altre storie per il mio #Storie2020 scrivetemi. Messaggiatemi. Whatsappatemi. Fate segnali di fumo. Fate qualcosa. Non state nell’ombra. Uscite allo scoperto. E credete in voi stessi sempre.

Perché questa é la storia di Amici Miei. Miei. Miei. Amici miei è la storia di un amore. La storia di una passione. La storia di un amore condiviso. Condiviso a tavole. Tra le tavole ricamate. Tra le ostriche dorate. Amici Miei è la storia di chi non si è arreso. E nella vita ha fatto quello che voleva fare. Mangiare. Dar da mangiare. Studiare. Approfondire. Scrivere. Conoscere.

Perché lui Michele Florentino di 80 anni e la moglie Violetta, di storie ne hanno da vendere. Il loro ristorante Amici Miei per l’appunto che sta a Montecarlo e sta al Port de Fontvielle ha visto ai propri tavoli nomi importanti. Vip, personaggi politici, famosi cantautori, cariche istituzionali.

Li incontro una mattina di dicembre in centro a Mestre. Un ristorante. Un amico che ci mette in contatto. E ne nasce un pranzo. Fuori piove. Ma poco importa. Faccio domande e Michele Florentino inizia a raccontare.

Lui dall’altra parte per portare il meglio dell’eccellenza veneta. È stato lui a importare nel suolo francese piatti come la pasta e fagioli, il fegato alla veneziana o il famoso ben amato tiramisù. I francesi. I francesi non sapevano manco esistesse il tiramisù.

La pasta e fagioli.

Poi. Poi un bel giorno mi dice: “sai ho scritto un libro, vieni tu a presentarlo in Consiglio regionale?”. Io gli dico certo. E così. Così ne nasce una bella presentazione. Fatta di racconti. Di testimonianze. Di vite vissute.

Fatta di tutte quelle storie di donne e vini che Michele racconta nel suo ultimo libro. Un libro elegante. Dove la donna diventa protagonista. Dove la donna si fa in quattro per mandar avanti aziende di famiglia. Cantine. Per studiare nuovi sapori. Nuovi odori. Nuove fragranze. Vini pregiati. Champagne. Rossi. Bianchi. Vini creati e pensati con le loro mani. Con la passione. E così sono storie un po’ nate per caso, quando ti ritrovi con l’azienda di tuo padre in mano e devi dar da mangiare a figli e nipoti. La porti avanti. Crei lavoro per altre famiglie. Assumi. Sperimenti.

Perché l’Italia in fondo è stata sempre questa. Un popolo di eccellenze. Un popolo di lavoratori.

Scrivetemi. Da qualunque parte voi siate.

Pure su Marte.

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https://venetoeccellenze.it/amici-miei-storia-di-un-viaggio-lungo-una-vita/

#sbetti

A Venezia non si sente più il galoppo dei trolley

A Venezia non si sente il rumore dei trolley che galoppano lungo le calli. Le uniche ruote che corrono sono quelle dei carrelli dei veneziani e dei negozianti che buttano via quintali di roba marcia.

Venezia stamattina non è come tutte le altre mattine. Non si vede la gente correre, parlare al telefono, impicciata, indaffarata. Non si vedono gli avvocati con gli zaini in corsa per la prima udienza, o gli studenti che marciano ripassando le lezioni. No. Non si vedono nemmeno fiumi di persone che ogni giorno affollano la città. Tutti in fila sopra le passerelle perché in alcuni punti l’acqua è ancora alta. Gli unici indaffarati sono i veneziani. Le uniche voci sono quelle dei residenti dei negozianti e dei commercianti che tentano di salvare quello che la natura e i rallentatori del Mose hanno distrutto e buttano quello che è irrecuperabile. I soli rumori che si sentono sono quelli della scopa di saggina che spazza via l’acqua, che sbatte sui pavimenti, il rumore degli aspiratori e quello dei phon che asciugano i frigoriferi. Per chi ha la fortuna di lavorare, i locali sono pieni, pieni di veneziani indaffarati, in tuta, che cercano un panino, un caffè, che fanno una pausa tra un sacco e l’altro.

Ma molti locali sono chiusi. Molti forni sono chiusi, molti negozi sono ancora chiusi. Con la roba per terra, con la gente che pulisce, con le persone armate di guanti e scopettoni.

“Il magazzino è un macello”, ci dice Luca Formentello dell’Atelier Murano Glass. Nel suo negozio si è alzato il pavimento. Le piastrelle si sono staccate una a una. “Nel giro di cinque minuti qui era tutto allagato – ci dice il titolare di una caffettiera in Strada Nova – siamo incazzati neri. Frigoriferi da buttare, freezer, tutto”.

La gente ancora tenta di attraversare le calli, con gli stivali, con i sacchi di immondizia. I bengalesi per coprirti i piedi ti vendono quei sacchi colorati a quindici euro. Fermano la fila sopra le passerelle e iniziano a urlare: “numero 42? 41? 37?”. Quando passa qualcuno che c’ha il 37, afferra i sacchi, paga e prosegue dritto. Poi non appena deviamo verso Santa Maria Formosa le scene si ripetono…

E le trovate nel #Giornale di oggi.

Dal cielo di Venezia. 15 novembre 2019.

#sbetti

👉👉👉 http://m.ilgiornale.it/news/politica/acqua-danni-e-solidariet-lultimo-fango-lodio-social-1784541.html

L’Acqua Alta non molla: la libreria più bella del mondo 🌍

Quella che vedete qui sotto, quella qui sotto sì. Ecco questa è la libreria più bella del mondo. Ci sono stata ieri. La chiamano così. La chiamano così in giro per il mondo la libreria Acqua Alta.

Anche se in realtà le librerie sono tutte belle. Ancora non capisco come facciano le persone a riempirsi le mani di bicchieri pieni di ghiaccio, vestirsi da asparagi e usare i libri come ferma porte. E non lo capisco no. Non lo capisco. Non capisco come l’uomo riesca a buttare la propria vita nel cesso. Ma insomma.

La particolarità di questa libreria e la sua bellezza è che c’ha i libri dentro le gondole. E che ci sta un gatto nero diventato il suo simbolo. Libri accatastati. Libri in pila. Pile di libri. Libri sfogliati. Libri in verticale. Libri appoggiati. Libri sopra le mensole. Libri dentro gli scaffali. Libri fino a su. Su sopra le pareti. Libri vecchi. Libri nuovi. Libri ingialliti. Libri impolverati. Libri ricoperti. Libri inumiditi. Libri puliti. C’ha libri. Libri. Libri. E libri ovunque.

E allora le prime due foto che vedete qui sotto sono i libri da buttare. Sì. Buttare. Sono quelli andati a male, perché l’anima non la puoi nutrire, per il fenomeno della piovra di questi giorni.

Sono migliaia di volumi accatastati, che sono stati inondati dall’acqua alta, e che non possono essere salvati. “Parliamo in tonnellate – ci dice un dipendente quando arriviamo a ora di pranzo ma qui si fa tutto un dritto – sarà una tonnellata di libri. Questa mattina mi saranno passate davanti non so quante cassette”.

E allora i libri che potrebbero essere recuperati si tenta l’impossibile per salvarli. Il phon. Il calore. Ma altri. Altri sono seriamente danneggiati. Sudici. Strudici. Alcuni giacciono per terra ridotti in poltiglia. Ridotti a pezzi. In brandelli di carta. E qui. Qui niente si può fare. L’idea di questa libreria venne nel 2004 a Luigi Frizzo che per proteggere i libri dall’acqua lo mise dentro vasche barche e barchette. Anzi al centro, proprio in mezzo, ci sta pure una gondola, con dentro i volumi.

E qui ci trovi di tutto. Pure quello che pensavi di non trovare. Quello che pensavi non potesse mai esserci. Morte in Kenya per esempio. Ieri mi passava il cuore lasciarlo lì. Ma non c’era modo. Era tutto bagnato. Umido. Sgualcito. E l’ho lasciato lì.

Ripasso con calma ho detto a chi doveva lavorare. E in mezzo ai piedi intralciavo il passaggio.

Poi, poi quando me ne sono andata ho visto il gatto bello folto nero. Se ne stava sopra una coperta arancione a sorvegliare la situazione. Per questi due giorni si temono ancora maree, ma l’Acqua Alta, l’Acqua Alta non molla.

#sbetti 💚📚💛

Ho visto la gente spalare via l’acqua

Ho visto le persone spalare l’acqua. Le ho viste con le lacrime agli occhi. Ho visto la gente piangere. Disperata. Attorniata dai sacchi pieni di roba da buttare. Ormai marcia. Senza più nulla da recuperare.

Allora in questi giorni sono stata in mezzo ai commercianti. In mezzo alle persone. In mezzo ai veneziani. Venezia non è solo fatta di turisti che prendono arrivano, si fanno quattro selfie, sputano per terra, mostrano il culo e ripartono. No. Venezia è fatta di gente che vive al piano terra. Di gente che ogni anno combatte con l’acqua alta. Di gente che ci vive. Di gente che ci è nata. Di gente che ha avuto la fortuna di nascere nella città più bella al mondo e ci vuole rimanere. Perché Venezia. Venezia non ha bisogno dei turisti per essere bella. Venezia è bella da sola. Venezia vive di luce propria. Venezia è una reliquia e voi l’avete trattata come una puttana. Ricordo ancora le immagini di chi piscia per strada. Di chi si cala i pantaloni in mezzo alle gondole. Di chi si tuffa dal Ponte di Rialto. Di chi lascia i rifiuti in mezzo alla strada. Credendo che Venezia sia Gardaland.

Allora in questi giorni mi sono resa conto della sofferenza che provano le persone che a Venezia ci vivono e non possono convivere con i turisti che credono che Venezia sia un parco acquatico.

Ho visto un sindaco mettersi le mani nei capelli. E chinare la testa. Ho visto gli occhi spaventati e atterriti del presidente Luca Zaia. Ho visto gli occhi delle persone e ci ho visto la disperazione. La consapevolezza che non è finita qua. Che tornerà. Che ogni tot di anni l’acqua Granda torna e non lascia sconti.

Una donna mi ha preso le mani, una titolare di una boutique, e mi ha detto: “è un disastro, cosa ne sarà di questa città? Lo vedi come è presa? È tutto distrutto. Hanno mangiato tutto. Rubato tutto”. Sono rimasta senza saper che dire. Le ho solo stretto la mano più forte. E poi andandomene le ho premuto la mano sul braccio e le ho detto: “forza non mollate”.

No, perché i veneziani non mollano. Ma Venezia. Venezia molla.

E questi giorni ho visto la gente non mangiare. Non dormire. Non avere l’acqua nemmeno per lavarsi i denti. Ho visto le donne che mi hanno detto “ho i capelli sporchi”, ho visto gli uomini in tuta pieni di freddo. I muscoli congelati. Ho visto le donne rannicchiate. Le mani congelate. Con i giubbotti dentro ai negozi. Ho visto i titolari e i negozianti bestemmiare. I facchini imprecare. Cercare di salvare il recuperabile. Ho visto la gente spazzare via l’acqua. Correre con gli enormi sacchi di spazzatura. Ho visto le persone non poter andare in bagno. Non poter fare un caffè. Non potersi scaldare. Ho visto persone asciugare i frigoriferi con il phon, buttare frigoriferi. Buttare freezer. Ho visto anche chi asciugava i libri con il phon. Ho visto proprietari che mandavano fuori dal proprio locale i clienti e in solidarietà li mandavano in quello accanto. Perché funzionava. Perché anche con le porte aperte potevi trovare un attimo di caldo. E poi. Poi ho visto gente disperata, accucciata, guanti in mano, scopettoni, stesa a terra a lavare il pavimento. Ho visto gente risollevare i manichini, spazzati via dalla furia dell’acqua e del vento. Ho visto gente pulire le piastrelle. Disinfettarle, lucidarle. Una a una. Ho visto persone oltraggiare lo Stato, il Governo, compagnia cantante, per questa Venezia lasciata a sé stessa. Ma soprattutto. Sopratutto ho visto una Venezia lavorare. Rimboccarsi le maniche. Darsi da fare. Ho visto le persone correre. Indaffarate. Affaccendate. Persone prendere la pala, tirare su la melma, riempire secchi di roba, togliere la roba marcia e aprire i sacchetti e gettarla.

Ho visto gente non piangersi addosso. Non fare scenate. Se non quelle di quando prendi confidenza. E così fumando una sigaretta ti scappa una lacrima. E poi te ne scappa un’altra. E un’altra ancora. E ci si sfoga. Ci si sfoga per questa Venezia che alla fine vince. Vince su tutto. Anche su chi la ama da spaccare il cuore e non vorrebbe farla morire.

Tra poche ore sul #Giornale

#sbetti