Perché tutti aprono e noi chiudiamo?

Sarei curiosa di sapere quanti morti hanno risparmiato gli evidenziatori non comprati duranti il lockdown. Vorrei dei dati certi. Qualora fosse possibile averli.
Se vi ricordate c’è stato un periodo durante il governo degli scappati di casa, dell’onorevole Giuseppe Conte, in cui nei supermercati erano apparsi quei tremendi cartelli bianchi o gialli, in cui si vietava di comprare quadernoni caramelle penne matite accessori per la casa mutande pigiami infradito, eccetera eccetera.
Solo la carta da culo era consentito portare a casa in abbondanza.
Ricordo anche che una volta litigai con una commessa di un supermercato perché dovevo assolutamente prendere una cosa per mia nipote e le dissi che siccome pagavo la merce, ed ero ancora capace di intendere e di volere per stabilire cosa servisse nella mia vita o meno, poteva anche chiamare i carabinieri, e non me ne sarebbe fregato poi molto.
La commessa credeva scherzassi. Ma io ero seria. Anzi le dissi: “Vuole che li chiami io?”. Ricordo ancora il suo volto. Mi guardò con fare inebetito. Tanto che dovetti dirle di darsi una mossa a decidere perché c’era la coda dietro.
Ricordo che mi fece passare. Senza battere ciglio. E tornai a casa con il regalo che mi serviva.
Idem un giorno in biblioteca. Non volevano farmi entrare. Perché si entrava solo su prenotazione. Dissi loro che io nelle biblioteche ci lavoro se devo fare ricerche e che mi stava impedendo di lavorare.
Ora ho letto invece da qualche parte che nell’ultimo Dpcm volevano regolare cosa avessero potuto comprare i vaccinati o meno. Ribadisco che io sono per l’obbligo vaccinale.
Insomma volevano regolare cosa avremmo potuto comprare. I giornali, i profumi, i biscotti, le caramelle, i quadernoni e gli evidenziatori non essendo beni di prima necessità, non si sarebbero potuti acquistare.
Invece i beni di prima necessità sì. Ora chi stabilisce quale sia un bene di prima necessità o meno, mi piacerebbe saperlo, dato che a me la pasta non piace e quindi preferisco una pizza.
Poi però, anzi fortunatamente, siccome abbiamo un governo più accorto del precedente (non si sa ancora per quanto), qualcuno deve aver messo loro una mano sulla coscienza e onde evitare il ritorno del “carta culo day”, il governo si è redento e ha tolto questo inutile divieto in stile Pravda che nemmeno nella Russia più comunista.
Il problema però rimane attuale.
E cioè perché se tutti ora allentano, l’Italia chiude? I contagi sono in calo. Le terapie intensive reggono. La variante Omicron è molto più contagiosa ma molto meno letale, che bisogno c’è di stringere ancora. Anche perché di fatto sta gente è già chiusa. Quando vado in giro per bar e ristoranti, cioè sempre, lo faccio per lavoro quotidianamente, perché il sentire della gente lo annusi al bar, lo respiri; mi viene la tristezza. Cioè questi sono aperti ma sono vuoti. Le scuole poi non ve ne parlo. Ogni genitore che incontro è in preda a una crisi di nervi. Alcune scuole calcolano i positivi come pare a loro. Se ci sono due positivi o se uno è da settimane che non va a scuola lo calcolano come positivo lo stesso e allora tutta la classe va in quarantena. In Veneto per dire su 30 mila classi, 15 mila sono colpiti dalle norme anti virus. Nelle aziende poi è un macello. L’Inail ha calcolato che di media un lavoratore sta a casa un mese.
C’è gente che non ha niente, eppure sta isolato.
Ora mi chiedo, ma onde evitare di tornare a comprare carta da gluteo come se piovesse, non sarebbe il caso di allentare un po’ le maglie?

#sbetti

Tamponi. Il folle trucco dei falsi guariti

Pezzo uscito su Libero il 24 gennaio 2022

Che avranno mai da inventare ancora questi no vax per sfuggire alla vaccinazione. Adesso anche i finti guariti così da ottenere il certificato verde. In questo momento ci sono 11 squadre dei Nas dalla Liguria al Friuli che stanno controllando a tappeto tutti i punti tampone e le farmacie. Nell’ambito delle loro indagini si sono accorti che al momento del tampone viene controllato il codice fiscale e non il documento d’identità.Fatta la legge, trovato l’inganno. I no vax hanno capito subito di potersi infilare nel buco di questa pratica. E quindi cosa fanno. Ingaggiano un amico positivo al covid e gli danno il proprio codice fiscale. L’amico positivo, cavia e palo, torna a fare il tampone col codice fiscale dell’amico no vax negativo. Così da ottenere la trascrizione della positività. Dopo una settimana il no vax “finto positivo” va a fare il tampone e tac. Risultato negativo. In questo modo ottiene il certificato da “guarito”. Anche se positivo non lo è mai stato. Stratagemmi che come ha dimostrato la narrazione folle di questi episodi, vengono sempre scoperti, quindi non si capisce il motivo per cui ci si ostini a infrangere le regole. Ma il mestiere del furbo, lo sappiamo, è assai noto. C’è anche chi da positivo manda il fratello negativo a fare il test così da ottenere il via libera. Il sospetto ora è quello di una truffa messa in atto da persone alla caccia di un tampone positivo per ottenere il certificato. “Questi controlli li stiamo facendo da una settimana – spiega a Libero il comandante del gruppo tutela della salute dei carabinieri di Milano, Salvatore Pignatelli – nelle quotidiane attività che facciamo abbiamo visto che spesso, per questioni di rapidità, ci si limitava a chiedere solo la tessera sanitaria e non la carta d’identità. Ma anche la misura del tampone necessita di una completa identificazione per evitare che ci possano essere abusi. Siamo intervenuti per evitare che un positivo possa andare a fare un altro tampone col codice fiscale di un altro”. Tra gli abusi possibili quello di “sottoporre a tampone persone positive con più tessere sanitarie in diverse farmacie, per far emettere Green pass a nome di soggetti non immunizzati”. Da parte delle farmacie e delle aziende sanitarie, ci fa sapere Pignatelli, c’è la massima collaborazione. Così. Se già erano oberati di lavoro e tutti lamentavano le code chilometriche, ora i tempi è probabile si raddoppino, dato che il controllo dell’identità deve avvenire come ha ricordato Pignatelli in modo compiuto. Al momento le persone denunciate in Italia non sarebbero poche. Anche la settimana scorsa in Alto Adige sono state sospese 31 delle 3000 postazioni per l’inserimento degli esiti dei tamponi, per il sospetto che siano stati registrati dei “falsi positivi” per facilitare ai no vax l’accesso al Super Green pass in quanto “guariti”. I militari hanno accertato che gli addetti ai test siano effettivamente abilitati a farli e che tutto si sia svolto nel rispetto delle norme. Controlli anche in Veneto fanno sapere dai Nas, per verificare la corretta esecuzione dei test. Qui ancora non risultano illeciti di questo tipo. Insomma questi trucchetti sembrano tanto quelli degli adolescenti per saltare le interrogazioni. Peccato che qui ci sia di mezzo la vita. Quella degli altri.

Serenella Bettin

L’ignoranza dilaga più del virus

C’è un cordone di becera ignoranza a cui l’umanità non è mai sfuggita che corre nel nostro Paese e contro il quale, purtroppo, non esiste alcun vaccino.
Ed è ancora peggio del covid stesso. Non si inocula il vaccino anti beduino. Se sei beduino e zoticone sei destinato a rimanerci. La vita ha deciso per te.
A lor signori infatti che ieri hanno assalito e devastato la sede della Cgil e hanno protestato a Roma, dando sfogo a tutta la loro rabbia e violenza, vorrei ricordare che l’anno scorso di questo periodo, con la gente che litigava perché non poteva fare Halloween, stavamo andando incontro al secondo lockdown.
Allora vorrei mi dicessero qual è per loro la soluzione.
Vorrei ricordare infatti all’esercito di barbari armato di bombe carta, molotov e fumogeni che l’anno scorso, proprio in questo periodo, stavamo richiudendo il Paese perché i contagi erano in aumento e i morti anche. E le terapie intensive quasi al collasso.
Feci anche un pezzo dove a Montebelluna portavano via i morti con i camion della protezione civile perché in obitorio non ci stavano.
L’anno scorso sempre in questo periodo inoltre assistevamo alla chiusura delle attività di ristorazione, bar, discoteche (sempre chiuse), mostre, fiere, congressi, convegni, perfino i trasporti. Con un aeroporto, Treviso, chiuso.
L’anno scorso avevamo il coprifuoco tanto che se per caso andavi in qualche trasmissione la sera, a tornare a casa ti veniva l’ansia perché in giro c’erano solo delinquenti e nemmeno un cane.
Quest’anno, invece, dopo la campagna vaccinale, non è fantasia, ma dato di fatto, abbiamo i ristoranti pieni. I bar anche. Le fiere e le mostre che sono ripartite. I cinema aperti. Le strade colme. Gli eventi. Le manifestazioni. I parcheggi pieni. E l’economia che si appresta a risalire con una crescita del 6,3%.
Ma a quell’esercito di barbari rozzi incivili che ieri sono arrivati a ridosso di Palazzo Chigi, dopo aver occupato la sede della Cgil, sembra non interessare.
Non so quale sia la soluzione per loro.
Chissà forse preferiscono rimanere chiusi in casa di modo da avere l’alibi perfetto per poter dire: oggi non ho voglia di fare e sto a casa dal lavoro. Ammesso abbiano mai lavorato.
Fa una profonda pena e immensa tristezza vedere che chi vorrebbe difendere il lavoro andando in piazza a manifestare, gridando “No green pass, diritto al lavoro”, siano coloro che attaccano il lavoro stesso, buttandolo nel cesso e dimenticando quello che abbiamo vissuto.
Forse sarebbe meglio a questo punto ricordare con una qualche forma a questi cretini paladini della libertà presunta, come si stava a casa a cantare dai balconi con il lievito comprato come se non ci fosse un domani e con l’angoscia piantata nel culo perché non sapevi se a lavorare ci potevi tornare.
Ebbene.
Ora che finalmente ne stiamo venendo fuori, che abbiamo una campagna di vaccinazione, che hanno trovato i vaccini – tutti a invocare il vaccino durante il primo lockdown, ipocriti che non siete altro – la gente protesta perché non vuole un certificato che ahimè era prevedibile.
Come erano prevedili questi scontri tra i Guelfi e i Ghibellini del post covid.
Ma quelli che ieri si sono mostrati nella loro rozza ignoranza non hanno niente a che vedere con le paure dei vaccini, le domande, angosce, e dubbi, tutti comprensibili e comprensibilissimi.
Quelli di ieri sono persone che fanno rotolare il mondo al contrario. Quelli nati per distruggere. Anziché per creare. E costruire.
Sono quelli che vorrebbero andare indietro. Anziché andare avanti. Sono quelli che non si salveranno mai perché prigionieri di se stessi.
Ecco a queste persone, ma solo a queste, e a tutti quelli che li hanno supportati, farebbe bene qualche altro lockdown.

#sbetti

Giovani in prima linea a combattere contro il virus

C’è un posto dove i giovani combattono. La nostra inchiesta su Panorama di questa settimana. Giovani medici, infermieri, neolaureati che combattono contro il virus.

👉 https://www.panorama.it/abbonati/Inchieste/giovani-medici-infermieri-covid

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Dalla prima linea della lotta al covid: Veneto

Siamo dentro il reparto Malattie Infettive dell’ospedale di Treviso. Il camice bianco del primario Pier Giorgio Scotton che ci accompagna lungo le corsie, svolazza adagio. Senza fretta. Lui, qui, con la sua equipe, dall’inizio dell’emergenzacombatte ogni giorno contro un virus che sta flagellando il mondo. Una situazione critica in un Veneto dove si contano sempre più carri funebri, ambulanze e corrieri di Amazon. Il turn over delle epigrafi in alcuni paesi è impressionante. Se al mattino c’è un funerale. Al pomeriggio ce ne sta un altro. In questo reparto hanno 15 apparecchi ad alti flussi. Pompano 60 litri di ossigeno al minuto. “Questo – ci spiega il primario – evita che i pazienti possano andare nelle terapie semintensive”. Quando qualcuno finisce in terapia intensiva, lui sa già come andrà a finire. “Dai primi giorni già si vede quale sarà l’esito”, ci dice. Dal policlinico universitario invece di Padova le voci dei parenti che escono dall’ospedale non sono rassicuranti. “È ancora sedata. È ancora intubata”. Questa è la prima linea dell’emergenza. Il fronte. Qui a gestire i malati di covid ci sta una flotta di 600 persone, tra medici, infermieri, operatori. Gli ultimi quattro piani del monoblocco, più il terzo di Rianimazione e il terzo del Sant’Antonio, sono monopolizzati dal covid. Le ambulanze partono, arrivano, caricano scaricano barelle. Gli infermieri vestiti con scafandri, di cui non si vede il volto, salgono nelle ambulanze in una corsa contro il tempo. I medici e gli infermieri provano a non pensare. Studenti giovani di medicina o neo laureati si ritrovano al bar dell’ospedale, dieci minuti d’aria e poi si ritorna a combattere. “I malati non calano – spiega al Giornale il direttore dell’azienda ospedaliera Luciano Flor – qui abbiamo 208 posti letto riservati covid e 47 in rianimazione. Il reparto malattie infettive da 24 posti è passato a 58. Per cinque, sei pazienti che escono, ne abbiamo cinque, sei che entrano”. Ora qui di ricoverati ce ne stanno 202. Nella prima ondata gli operatori contagiati erano 140, ora, dal primo settembre ce ne sono stati 450. Giovani medici anche specializzandi. “Sono – preoccupato – dice – perché i ricoveri non calano, tanti ne dimettiamo, tanti ne entrano. Ma il tasso di mortalità è più basso di marzo”. Con un Veneto che comunque parla di un tasso di mortalità a fine novembre di un più 44% rispetto a quella che era la media dei tre anni precedenti. Questo è l’aspetto più drammatico, con oltre 5 mila morti. Anche a Verona, tra Borgo Trento e Borgo Roma, la pressione è forte. Da settembre a novembre i ricoveri sono arrivati a circa 700. L’azienda ospedaliera universitaria dal primo gennaio 2020ha assunto 253 persone per fronteggiare soltantol’emergenza covid. E un altro esercito di 240 infermieri sta per arrivare. “La pressione è elevata – ci dice il direttore generale Francesco Cobello – è uno sforzo enorme e delle 46 terapie intensive ora ne abbiamo tre libere. Abbiamo assunto tutto il possibile anche se trovare personale oggi è molto difficile”. Qui i posti covid sono 249: 172 ordinari, 31 semintensive e 46 intensive. Dobbiamo andare. C’è la diretta della conferenza stampa di Zaia. L’altro ieri è stato il giorno più brutto, con un Veneto a 165 morti in un giorno. Anche oggi non è dei migliori, più 77. Con 54.632 tamponi, tra molecolari e rapidi, la percentuale dei positivi sui tamponi è del 6,98. Il numero dei positivi dall’inizio è 200.607 (+ 3871), oggi 94.225. I ricoverati totali sono 3317, le terapie intensive 372 (-1). I morti 5069. Dimessi 8953. Cambiamo stazione. Alla radio suona Rain and Tears degli Aphrodite’s Child. Pioggia e lacrime. Viene in mente il primario del reparto malattie infettive di Treviso. Colui che combatte contro il virus, sapendo già come andrà a finire.

Serenella Bettin

Conviene rimboccarsi le maniche e andare avanti

Sono rimasta molto perplessa dalle polemiche sorte sui test fai da te.
Il Veneto da regione più contagiata che era a inizio epidemia ancora resiste ed è in zona gialla. Avevano detto che erano dei pazzi perché facevano i test rapidi, i test sierologici e ora i test fai da te, ma dati alla mano, nonostante qualche buon tempone perda tempo per far uscire il fiato, il Veneto si sta salvando.
Ma sono rimasta perplessa e anche un po’ amareggiata, perché le polemiche vengono da professionisti e politici mestieranti galoppanti, molto più bravi ad attaccare che a rispondere, soprattutto quando vedono che sul banco delle televisioni non ci sono loro.
Anche perché non si capisce perché dobbiamo sempre piegare la testa e calare le braghe anziché provare a risolverle le cose.
Sembra ci sia questa continua voglia di creare panico, terrore, terrorismo, paura, ansia, angoscia. Dovete stare zitti. Non respirate. Non dovete lavorare. Dovete spendere tanto, solo su Amazon. Dovete stare a casa. Non dovete fiatare. Fate il Natale su Skype. Zoom. Teams. State zitti.
Ogni qual volta c’è un problema o una questione da risolvere la maggior parte della gente anziché rimboccarsi le maniche, critica e si lamenta senza fare niente.
Queste sono quelle persone che pretenderebbero di tirare giù nel burrone tutti gli altri. Infondendo una certa dose di energia negativa che di questi tempi sinceramente non ne abbiamo bisogno. Negativo deve essere solo il tampone. Sembra ci sia questa voglia di dimostrare che deve andare tutto di merda. Quasi si gioisce.
Ecco vedete! Sono aumentati i contagi. Siete delle merde perché avete 17 anni e andate a limonare al parco. Perché i grandi mica se lo ricordano di essere stati ragazzini pure loro. No. Da grandi spaccano i coglioni perché si accorgono che sono grandi e hanno perso la loro capacità di sognare.
I grandi dicono ai grandi che sono degli esseri che non meritano rispetto. Inaffidabili. Stronzi. Nemmeno degni. Un giorno in amico mi ha detto che chi non lavora ha la sua solidarietà. Gli ho risposto che la solidarietà se la mettono nel sedere i commercianti. Gli imprenditori. Quando non mangi il sedere è tuo. Quando la sera non tornano i conti e devi pagare i dipendenti il culo è il tuo. E mio Dio sei indietro con l’affitto. E le tasse da pagare. E i fornitori. E il pane. Il latte. La carta igienica. L’igienizzate. Il culo è il tuo. Tuo e di quello degli altri a cui devi dare da mangiare.
Allora io sinceramente mi sento fiera di appartenere a un territorio che le cose, anziché piangersi addosso, prova a risolverle. A districarle. A studiarle. A fare squadra. A sentirsi parte di un ingranaggio. Che prova a darsi da fare, a trovare una soluzione, che non sta lì ad aspettare le elemosine dello stato e che prova con tutti i mezzi a tamponarci tutti, a togliere i malati, a diminuire i ricoveri.
Mi sento fiera perché sono cresciuta con la mentalità imprenditoriale di chi non si piange addosso e pensa che se si è fatta Venezia in mezzo all’acqua allora si può fare tutto.
Sì mi sento fiera. E mi sento molto più fiera di chi invece deve sempre controbattere. Di chi anziché costruire ce la mette tutta per distruggere.
Di chi prova gioia nel sapere che andrà tutto allo sfascio, perché sfigati come sono, la gente si fa forte sulle disgrazie degli altri.
Però vedete. C’è un passaggio che avete dimenticato. Ed è quello che nella vita un bel giorno si cresce. Non funziona più che se tutta la classe ha preso 3, allora sei meno sfigato. Nella vita si resta coglioni lo stesso.

#sbetti

“Tranquillo, a meno che non ammazzi la prof, quest’anno non vieni bocciato”

“A meno che non ammazzi la professoressa, tranquillo, quest’anno non vieni bocciato”.
L’altro giorno stavo in piazza. Stavo camminando, quando a un certo punto sento il vociare di alcuni ragazzini dietro di me. Sono in due. Sento il vento spostarsi per il loro avanzare. Erano in bici e sfrecciavano via veloci. I copertoni delle ruote si confondevano con l’asfalto e i pedali giravano a più non posso. Lo spostamento dell’aria, misto a quelle catene e ingranaggi, era percepibile, lo si sentiva tutto. Ragazzini a picco sul mare con un’estate davanti.
Ma il discorso nel mentre passavano l’ho sentito tutto. Uno dei due stava preoccupato perché a scuola ha alcune materie sotto. Si dice sotto quando in genere vai sotto il sei.
L’altro ragazzino gli diceva: “ma vai tranquillo, a meno che non ammazzi la professoressa, quest’anno sei salvo, lo dicono tutti”.
Interessante. Questa è la scuola ai tempi del covid. Questa è la scuola ai tempi di quelli che voi mentecatti politici da quattro soldi dite essere la fucina del futuro. Il nostro divenire. Investire sui giovani. L’innovazione. Il progresso. La didattica a distanza. Questa è la scuola che i giovani li vuole tutti una banda di sbandati e squilibrati che cannano le lezioni online, che fingono di non avere connessione, che sotto hanno ancora il pigiama e sopra una maglia messa al contrario in fretta e furia perché si sono svegliati cinque minuti prima che la lezioni iniziasse. Che quella campanella che suona a vuoto da mesi suonasse.
Questa è la scuola per la quale avete sempre fatto riforme, nuove norme, direttive, finanziamenti, progetti, mai condivisi, sempre illustrati e mai portati a termine.
Questa è la scuola che sforna i nostri mastri, che vuole insegnare la matematica, l’arte, la filosofia, la geometria, la storia, la geografia e non è capace di infondere sete, fame, voglia di sapere, di conoscere, di spaziare.
E la colpa non è sempre degli insegnanti. Anzi.
La colpa è di chi ha i genitori mentecatti che dicono ai figli che puoi anche fare a meno di studiare, tanto quest’anno ma chi se ne frega, ti danno il Nobel. La colpa è di questi sapientoni, come i coglioni che hanno imbrattato la statua di Indro Montanelli e di chi fa le riforme senza lavorare nel mondo della scuola. Di chi prende le decisioni ed è convinto che i ragazzi siano imbuti. Di chi non vuole rogne, problemi, incombenze e crede che l’unico modo per ovviare alla mancanza di didattica sia la videochiamata, la conferenza online, le lezioni in piattaforma, il distanziamento in plexigas, non capendo, che ci sono delle cose che nessuna tecnologia sostituirà mai. Il contatto. Il tatto. Lo sguardo. L’esperienza sensitiva. Il confronto. La fisicità. Il coraggio. La paura. Quella stizza che ti piglia il culo quando non hai studiato e la prof scorre il registro con il dito.
Anche quella ci vuole per imparare ad andare a scuola. Per farsela sotto e non cadere mai. Non quella che “stai tranquillo, a meno che non ammazzi la prof, quest’anno non vieni bocciato. Lo dicono tutti”.
Sì. Soprattutto gli asini.
#sbetti

Scrutinio finale

Lo scrutinio finale finisce così. Affondandolo in una poltrona. L’altro ieri ho assistito allo scrutinio finale di mia madre. Gli scrutini nella scuola iniziavano alle due. Un’ora ciascuno. Un’ora per classe. Impossibile sgarrare. Ma già chi arrivava alle 15 non è riuscito a cominciare in orario lo scrutinio. Colpa dell’insegnante che doveva arrivare prima ma che siccome stava impegnata con l’altro scrutinio non poteva inserirsi nello scrutinio successivo. Ci sono docenti che hanno più classi. Insomma lo scrutinio per mia madre iniziava alle 15. Arrivo da mia madre alle 14.30 e la trovo che sta spazzando il portico. Bene ho pensato, si rilassa. Entro dentro casa e vedo già la postazione pronta. Il tablet in piedi sulla custodia a leggio, l’iPhone carico a mille ma già sotto carica, sia mai si scarichi. La prolunga per ricaricarlo pronta all’uso. Il carica portatile. La penna. I fogli. Il registro. L’agenda. I giudizi stampati. La sedia già pronta per sedersi. Alle 14.55 mia madre è lì che attende di cliccare sulla parola “partecipa”. Lo scrutinio ai tempi del Covid avviene all’interno di una piattaforma, dove ci stanno i docenti tutti quanti connessi, si condividono i voti, i risultati, si condividono i giudizi finali, ma non ci si può vedere, non ci si può guardare. Non ci si può nemmeno parlare sopra o confrontare o scartabellare voti per aria perché nel momento in cui parla uno, non può parlare l’altro, il microfono diventa muto e se non lo vuoi più muto devi riattivarlo e nel momento stai guardando lo schermo condiviso dalla collega ti scompare l’immagine dell’insegnante con cui stavi parlando e mentre tenti di farla ricomparire clicchi per sbaglio sul tasto rosso e devi ricominciare tutto. Alle 15 e 10 la piattaforma su cui stanno lavorando tutti i docenti si blocca, ha un down, come usano chiamarlo quelli che parlano inglese perché non sanno l’italiano e quindi rimane solo una cosa da fare: aspettare. Le insegnanti iniziano ad andare in tilt, gli insegnanti pure. I messaggi su whatsapp dopo saranno 250. Soprattutto perché chi doveva firmare a fine scrutinio, per la redazione del verbale, ma non riusciva a farlo. Il problema è generale hanno iniziato a dire, rimandiamo a domani. Ma passa mezz’ora e gli scrutini si fanno. E si fanno oggi. Mia madre che doveva iniziare lo scrutinio alle 15, ha iniziato alle 16.10. Finendo alle 17.09. In ritardo di oltre un’ora. Per firmare però non è bastato il tablet. La piattaforma di cui si è avvalsa la scuola per compilare lo scrutinio, si vede che non l’hanno adattata a tutti i dispositivi, la parte relativa alla firma non te la faceva vedere. Lo schermo finiva prima. Provavi a farlo scorrere verso sinistra e rimbalzava verso destra. Provavi a farlo scorrere verso destra e rimbalzava verso sinistra. Come a essere beffardo. Come a prenderti per il culo. Come a farti vedere che lui non è stupido, che alla fine se vuole, ti fotte anche solo per mettere un voto. Dopo un po’ mia madre prende il computer, lo apre, e mantenendo la calma, accede al sistema che era stato aperto sul tablet. Nome utente. Password. Tutto scandito con una calma nervosa. Aperto il pc, qui lo schermo si vede tutto. Sono quasi le cinque e mezza. Mia madre firma. Le altre colleghe anche. Mia madre avrebbe dovuto finire un’ora e mezza prima. Chi aveva dopo un altro scrutinio, slittato uno di un’ora e poi di due, e poi di due e mezza, e poi di tre, ha finito alle nove di sera, dalle 18 che doveva finire. I due scrutini di ieri invece sono durati dalle 14 alle 18.30. Due. Questa è la scuola di uno Stato che tra i diritti fondamentali annovera il lavoro e l’istruzione, dimenticandosene altamente. Uno dei capitoli, quello della scuola, che durante l’emergenza di questo coronavirus, è uno dei più brutti che sia mai stato scritto. Del perché i docenti, senza alunni, non siano potuti tornare in classe anche solo per parlare, per discutere dei voti, per fare gli scrutini, a noi comuni mortali non è dato saperlo. Il Governo non ha mai risposto.

#sbetti

#Coronavirus

#Storie2020

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Il ground zero del Veneto

Dal Giornale, 8 giugno 2020

💪🎉💪 È il “ground zero” del #Veneto. Il Veneto ce la fa. Una delle regioni più colpite. Qui il 21 febbraio scorso scoppiò tutto. Qui ci fu la prima vittima italiana di Coronavirus. Adriano Trevisan, il pensionato di 77 anni di Vo’Euganeo. Ancora ricordiamo quel giorno. Quando partì tutto, le misure drastiche, il panico della gente, i medici chiusi dentro l’ospedale di Schiavonia, Vo’Euganeo blindata, l’arrivo dei militari, l’esercito, sembrava la guerra. Il #Giornale andò subito a documentare. Mesi difficili, tosti per tutti, neri, cupi, angosciosi. Ma ieri. Ieri i numeri del Covid erano a quota zero. Zero morti. Zero positivi. Uno: quello del giorno prima. Che ci avesse visto giusto Luca Zaia quando disse che se i dati epidemiologici e i numeri si fossero mantenuti come quelli di una settimana fa allora eravamo sulla buona strada, nessuno può negarlo. Una regione tra le prime a riaprire sostanzialmente tutto. A fine aprile qui il 40% delle aziende lavorava: misure di sicurezza, visiere, mascherina, distanziamento, controllo temperatura. Le strade cominciarono a riempirsi e il rumore era diventato un piacere. Lo è ancora. Solo che ora è più grosso. Si sente. Fa baccano. La gente corre. Due le parole d’ordine: ricostruire e ripartire. Il 26 aprile con un’ordinanza regionale, il Veneto riscoprì la libertà. Con l’apertura di bar e gelaterie, ma solo per asporto, le piazze si riempirono di famiglie in coda per il gelato. Il giorno dopo, un altro strappo, Zaia autorizzò lo spostamento all’interno della regione, per chi avesse seconde case o imbarcazioni fuori del comune di residenza. Autorizzò anche l’attività motoria all’aria aperta, da soli, a piedi o in bicicletta con l’obbligo di indossare guanti e mascherine. Di fatto qui è da fine aprile che si vive. Le città e i paesi iniziarono a riempirsi. Solo Venezia rimase deserta. Il 18 maggio si autorizzarono anche gli spostamenti tra le provincie confinanti tra le regioni, e quindi Friuli Venezia Giulia, Emilia, Trentino. Non sono mancate le polemiche. Gli attacchi. I cittadini, come li definisce il «governo», irresponsabili. Quando riaprirono i locali la movida divenne un incubo. Molti salutarono il lockdown annacquando mezzo bicchiere di alcol, mezzo di prosecco, Aperol e Campari, in coda verso il mare o in piedi nelle piazze. E poi via l’obbligo della mascherina dal primo giugno, ma solo all’aperto. Tanto che il governatore ha chiesto di poter usufruire dei mezzi pubblici nella loro capienza totale, ossia occupando tutti i posti, ma indossando la maschera. Insomma un Veneto che vede la luce e che ieri per la prima volta non ha visto crescere i numeri del contagio e nemmeno dei morti. I positivi rimangono fermi a 19.183, 1.085 quelli attuali. I decessi tra morti ospedalieri e non sono 1954. Nelle terapie intensive ci sono 16 persone, di cui soltanto uno è Covid. «I veneti sono stati bravissimi – ha detto Zaia – il virus lo abbiamo sconfitto anche grazie ai loro comportamenti». La Protezione civile nazionale in serata ha dichiarato che in Veneto ci sarebbero stati 1 positivo e 5 deceduti. Ma dal report aggiornato alle 8 del mattino di ieri, i positivi erano 0 e i morti anche. L’assessore regionale Gianpaolo Bottacin, contattato al telefono, ha così commentato: «È un dato statistico che non dice nulla, la Protezione civile nazionale non so cosa dica e non mi interessa». Con questo clima, Zaia si prepara per aprire le fiere, e per far andare i cittadini a votare. Intanto il 15 giugno il primo concerto d’Italia. Red Canzian in piazza dei Signori a Treviso. La mascherina obbligatoria solo al chiuso. E per i plexiglas a scuola? Non se ne parla.


SUL GIORNALE
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La campanella è suonata ma i banchi sono vuoti

La campanella è suonata. Ma i banchi sono vuoti. L’altra sera mia madre mi ha chiamato. Mi fa: “una mia collega mi ha detto che su YouTube c’è un video con il suono della campanella, riesci per favore a spiegarmi come posso trovarlo? Perché volevo metterlo durante la video chiamata dell’ultima lezione”. Mia madre ha una quinta elementare. E’ la prima volta in 44 anni di insegnamento che non sente il suono della campanella suonare. Quella dell’ultima lezione. Quella che ti spalanca le porte e ti getta a picco sul mare, l’estate, le vacanze, i libri nuovi da leggere, quelli che sanno di carta profumata che ti accompagneranno in spiaggia. Le ho spiegato allora che doveva prendere il tablet, aprire YouTube, cliccare sul pallino che somiglia a una lente di ingrandimento, e posizionarsi sulla parola “cerca”. Cerca. Scrivere: “suono campanella scuola” e attendere il caricamento dei video. Abbiamo ripetuto l’operazione quattro volte. Spegneva YouTube. Lo riapriva e ripartiva. “Bene così?”, mi chiedeva. Sì certo. Sei bravissima. Il giorno dopo mi ha mandato un messaggio su whatsapp e mi ha scritto “suono della campanella andato, tutto ok”, me l’ha scritto con una emoticon che trionfa vittoria. Quanto è stato duro il suono di quella campanella. Quanto responsabilità in queste insegnanti che quest’anno il fischio di fine l’hanno suonato loro. Mentre mi scriveva, stavo attraversando un parco e su una panchina ho visto un gruppetto di ragazzi. Avranno avuto sì e no quattordici, quindici anni. Consumavano una bottiglia di birra e fumavano una sigaretta. Ecco cos’ha prodotto per alcuni, tenerli a casa, ho pensato. Il suono della campanella loro l’hanno vissuto da qui. All’ombra di un salice, con una birra in mano. I ragazzi di mia madre alcuni non se ne sono nemmeno accorti che sia finita la scuola. Hanno passato mesi a svegliarsi al mattino e vestirsi per andare in salotto, che non fa molta differenza. Il giorno dopo sono passata dai miei per la colazione. Mia madre era fuori sotto al portico che compilava i registri. Metteva i giudizi. Era lì dalle cinque e mezza del mattino. Ha alzato lo sguardo e mi ha detto: “per fortuna ora ho finito”. Mia madre ha deciso di andare in pensione.

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#Coronavirus

#Storie2020

Dal mare. Il mondo è diventato un insieme di cerchi

Jesolo

Sono appena rientrata.
Oggi dovevo fare un servizio al mare. E domani trovate il pezzo sul #Giornale.
Allora ho preso l’auto. Ho messo dentro la borsa la macchina fotografica. Le sigarette. Messo su un cd. Oggi Bruce Springsteen. Come mi va. Come mi pare. Onnivora di musica. Ho abbassato gli occhiali da sole. E sono partita alla volta delle spiagge.
Oggi era la prima domenica del fuori liberi tutti. E la percezione è che lo smarrimento, l’angoscia, l’incredulità, la paura dei mesi scorsi abbiano lasciato il posto alla voglia di ripartire. Alla fiducia. Al coraggio. Alla leggerezza. Alla speranza. All’affidamento.
Ora ci affidiamo l’un con l’altro. Ora ognuno conduce la propria battaglia da solo.
Tutti in lotta contro tutti.
Tutti in lotta contro uno. Il virus.
Non ho visto gente scomposta. Maleducata. Che se ne frega. Il mondo è diventato un insieme di cerchi che si chiudono gli uni distanti dagli altri. Escludendo il resto. Li vedi proprio fisicamente. Dall’alto. Sembrano tante linee segnate con il compasso. Ci si fida solo di noi stessi. Ci si fida solo degli amici veri. Dei parenti. Di quelli che conosci da tempo. Di quelli dove ti senti protetto. Non ci sono più le persone che si raggruppano in uno sciame di rapporti liquidi fini solo a se stessi.
Orgasmi del bisogno. No.
Ora ci sono quelli con cui hai condiviso tutto che ti stanno accanto. Quelli che “ok sì ci penso un attimo, ma diamocelo sto bacio, un abbraccio, una stretta di mano”. La gente si lascia andare. Siamo diventati ligi, seri, rispettosi. Affezionati.
I rapporti che dovevano essere tagliati, quelli fatti di frasi fatte, di incontri estemporanei, di mancanza di vigore, sono stati già recisi con una precisione chirurgica.
I rapporti che invece sono tornati, o quelli anche appena nati, sono quelli veri. Quelli sinceri. Quelli che abbiamo riscoperto e che in quarantena dicevamo: “scusa sono stata una stupida”, “scusate ragazze, prometto che vi dedicherò più tempo”. “Scusate se vi ho trascurato”, “io prometto che ora uscirò anche se sono stanca”. Insomma le relazioni che contano si sono rafforzate. I cerchi nel mondo si contano a seconda delle relazioni forti. Se sei dentro al cerchio allora fai parte di quel gruppo. Sennò rimani una formica in attesa che arrivi la stagione.
Il cielo di questi giorno ha ripreso il suo colore scalzo. Non sta più pastellato come prima. Le moto hanno ripreso a correre. Le auto a viaggiare. A macinare asfalto sotto le ruote. I camion hanno ripreso a suonare i clacson. Li senti la mattina. Quando ti svegli. Ancora prima di aprire gli occhi. Li senti e dici “Dio per fortuna”.
E allora oggi osservavo quel mare azzurro. Sentivo quel vento che scomposto sulla pelle faceva riscoprire la voglia di crederci ancora.
Il sole era in alto. Bello. Grosso. Scaldava il corpo. Gli animi. Le speranze.
Quanti giorni abbiamo osservato quel sole con la voglia di ripartire.
E così stasera mentre tornavo a casa e guardavo quel sole calare lento al tramonto, di un tramonto rosso fuoco, mi sono detta che non so di più cosa possiamo fare.
Che è così che deve andare.
Che ora ognuno conduce la propria battaglia da solo. E che da lassù qualcuno ce la mandi buona.

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Ma quale scuola da remoto. Siete da internare

Non avrei mai voluto vivere un’epoca con le lezioni da casa. Le videochiamate. Le videoconferenze. Le piattaforme. Le lezioni online. Se qualcuno pensa sia il futuro e che la didattica a distanza stia dando i suoi frutti, credo sia da internare. Lo credo veramente.
Lo internerei e lo lascerei lì. A connettersi da un tugurio con il resto del mondo.
Gli esami su Skype. I calendari aggiornati. Il monitoraggio dei compiti. La mail degli interrogati. Le chiamate dei docenti.
Mai. La scuola è fisica. La scuola è fisicità. È anima. È follia. È pazzia. È chimica pura. La scuola è un incontro di elementi che si rafforzano. Che si alternano. È energia pura. È un’altalena che accelera, che scende, che va in alto, che immagina, che sogna, che chiude gli occhi, che si interroga. La scuola è esperienza. È sbucciarsi le ginocchia. È sanare le ferite del tuo compagno. La scuola è toccarsi. È guardarsi. È prendersi per mano. È lasciar andare. È lasciarsi. La scuola è ribellione. È cura. È amore. È condivisione di gioia. Noia. Insoddisfazione. Dolore.
A chi pensa di poter sostituire la scuola con una piattaforma, con dei sistemi da remoto, a chi pensa che la scuola possa incasellarsi dentro un sistema virtuale dove le aule diventano chat, dove i programmi diventano pdf, dove i colloqui diventano stanze, dove i confronti diventano chiamate, penso che questo qualcuno sia seriamente da curare.
Da qualcuno di bravo.
Penso fermamente che se c’è ancora qualcuno che crede che questi sistemi siano ottimi, che della fisicità se ne possa fare a meno, allora questo qualcuno non può che essere un danno. Se questo qualcuno insegna è ancora peggio. Andrebbe tolto dall’insegnamento.
La gente il lavoro lo riprende. Questi ragazzi la maturità la vivono una volta sola. La terza liceo anche. Chi gliela ridà la seconda media? Chi? Gli anni universitari non tornano. E se tornano, non saranno mai come quando eri spensierata e allegra e finito un esame ne preparavi un altro e gioivi per averlo dato e la settimana dopo giocavi a fare cazzeggio. Se lavoravi era cazzeggio pure quello. Perché diciamocelo qua. Quanto dura è stata studiare. Mettersi sopra i libri. I caffè, le virgole, gli evidenziatori. Le matite. La notte fonda. Il manuale di diritto civile che non molla. Quanto dura é stata portare a casa una laurea. Il giorno della mia, portavo una tesi sul confine tra diritto di cronaca e riservatezza, cominciai a parlare del processo Mose, sul diritto dovere di noi giornalisti di informare, e incontrai pure uno degli avvocati difensori. Se uno prova non ci riesce.
Quanto dura è stata seguire le lezioni, preparare gli esami, lavorare, seguire i morosi.
Non è colpa nostra se è arrivato il virus. Certo. Almeno fino a che non riusciranno a dimostrare il contrario e farci sentire in colpa.
È colpa nostra esserci dimenticati dei ragazzi. Averli lasciati in balia di se stessi.
Di tutte le colpe di cui ve ne siete lavate le mani, questa, questa almeno siate onesti.
Su questa non potete ancora starvene zitti.

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#Coronavirus

#Storie2020

Andate in pace

La messa è finita. Andate in pace.
Rendiamo grazie a.
Zitti per carità. Non parlate. Non dite niente. State zitti. Nessun grazie a Dio. Nessun segno della croce. Nessun amen. Nessun pollice sul mento. Nessuna elemosina. Nessun tormento da confessare. Solo all’aria aperta. Nessun canto. Nessun’ ostia. A Vicenza si sono inventati lo spara ostie. Praticamente un marchingegno che ti punta dritta l’ostia anziché fartela ingoiare in bocca dal parroco.
Nessun ostia insomma. Nessuno scambio della pace. La pace sia con Voi.
Con Noi. La pace sia con tutti.
Allora scusate.
Tra le varie regole, dettate dai professoroni espertoni delle 284 task force, che dovremmo seguire a partire da lunedì, mi chiedo chi mai avrà la maniacalità di impararle tutte quante e riuscire a metterle in pratica nell’esatto istante in cui devono essere applicate, anzi meglio un minuto prima perché 50 secondi dopo potrebbe essere già troppo tardi. Perché a volte basta il buon senso forse. Insomma le regole fanno così.
Praticamente una corsa a ostacoli, dove se sbagli sei fottuto, una specie di campo minato, di quei percorsi a raggi infrarossi dove c’è la donna vestita di nero che tenta di non far scattare gli allarmi di qualche museo. Per quanto riguarda il mare addio ai carnai puttanai e ingorghi odorosi e sudosi sotto il sole nell’attesa di un bicchiere di ghiaccio che paghi la bellezza di dieci euro e cinquanta. Niente consumazioni al banco. Al vostro ingresso allo stabilimento balneare ci sarà un Covid manager che vi guiderà verso la triste corsa a ostacoli. Si accerterà che poggiate il culo sullo sdraio e da lì non vi dovrete più muovere fino alle sette di sera. Potete fare le lucertole. Cioè a seconda di come ruota il sole le donne possono girare il sedere.
A Venezia poi, il patriarca Moraglia invece ha dettato regole ferree per la riprese delle messe. I fedeli dovranno stare distanti un metro. E fin qui tutto ok. Ogni fedele dovrà indossare la mascherina. Ok. In chiesa si entra da una parte e si esce dall’altra. Bollini ai banchi per far vedere quelli dove puoi poggiare il culo e quelli invece dove non ti puoi sedere sennò salti per aria. Niente acqua sulle acque santiere. Niente libri dei canti. Niente coro. Si sta tutti zitti muti. Vietato quasi pregare. Niente confessionale. Se proprio hai tradito il marito prendi il parroco e glielo dici all’aperto. Che tanto non cambia un cazzo. Sempre le corna tuo marito porta.
Niente strette di mano. Altro che scambiatevi un segno di pace. Scambiatevi uno sguardo. Nemmeno. Tutti giù. Testa bassa. Non respirate. Solo il parroco può dire messa. I fedeli stanno ad ascoltare. Niente tende. Porte aperte. Disinfettare i microfoni. Ovviamente.
La messa non ha inizio se non ci stanno alle porte i controllori. Due specie di steward che controllano chi entra e chi esce.
Idem per ristoranti e bar. Distanziamento di quattro metri. Pure cinque. Entri con la mascherina. E fin qui ok. Niente menù alla carta. Ci si siede al tavolo. In uno slalom di guanti disinfettanti mascherine sedili sanificati santificati sacchi ai piedi. Plexiglas davanti a tua moglie con cui hai dormito la sera prima in un turbine di ormoni messi in quarantena. Poi ancora si va in bagno. Uno alla volta. Ci si lava le mani. Ci si disinfetta. Addio coppiette che trombano nei bagni. Si torna al proprio posto. Addio aperitivi ai banchi. Finalmente meno maiali in circolazione. Si fa attenzione che al vicino non vada di traverso uno stuzzichino ed esploda in un concerto di tosse e scatarramento, si sta attendi a dove si mette i piedi, le mani, si sta in silenzio, non si ride, non si scherza.
Quando si va via si paga senza contatto, solo con carta, il cappotto se andremo avanti con l’epidemia sarà avvolto in un sacco di nylon che verrà prontamente restituito al proprietario e sarà la stessa cosa se andate a farvi i capelli o le unghie dei piedi.
Niente più cappotti da macchine in seconda fila, zaini, zainetti, borse lanciate e lasciate per terra. Tutto dovrà essere repertato come al Ris e appositamente custodito in un sacchetto di nylon. Poi se state sotto al phon e volete parlare, vietato con i bigodini in testa farsi i cazzi degli altri.
Per una volta sarete costretti a farvi i vostri.
E allora sì andate in pace.
Amen.
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