Studenti e influencer con ancora i denti da latte. Ingrati

Ho letto che gli studenti del liceo Manzoni di Milano hanno occupato la scuola perché si dicono preoccupati di questa “fase politica pericolosa e repressiva, visti gli ultimi risultati elettorali”.
Mi viene da ridere.
Non so cosa sia più pericoloso.
Se il falso allarme del fascismo e gli studenti con ancora i denti da latte o le fantomatiche influencer che con i loro 124 mila followers non mostrano un briciolo di dignità e di rispetto per i vecchi.
Una tizia, di cui ora ignoro il nome e me ne vanto, ha detto che i vecchi non dovrebbero votare. Che se ne stanno lì “aggrappati alla vita”. E che sono dei vecchi rincoglioniti babbioni che non sanno cosa c’è fuori.
Ingrata che non è altro. Nemmeno il rispetto per chi l’ha messa al mondo e l’ha mantenuta.
Io invece mi sento molto preoccupata dai cantanti che prevedono giorni tristi per la democrazia, dalle influencer con le labbra rifatte, i denti da latte, che tra la vendita di un paio di “ammazza scorregge” e una storia su Instagram con la mona al vento, propongono modelli di vita evanescenti e inconcludenti e discriminano, perché di discriminazione si tratta, tutte quelle persone che non la pensano come loro.
Del resto. Ho imparato a mie spese. Sei libero se sei come loro. Sennò diventi una mosca da schiacciare.
Non so davvero chi sia il più fascista veramente. Anche perché poi leggo che contestualmente a queste proteste degli studenti con ancora i denti da latte, ce n’è una in Iran ben più importante che i nostri figli dei vecchi rimbambiti babbioni rincoglioniti non sanno manco cosa sia.
Sono gli studenti della facoltà di Medicina dell’Università di Shiraz, nel sud dell’Iran, che protestano nel campus dell’ateneo per Mahsa Amini, la 22enne morta mentre era in custodia della polizia morale dopo essere stata arrestata perché non portava il velo in modo corretto.
Radunati nel cortile, hanno iniziato a scandire slogan in una sorta di abbraccio virtuale tra ragazze e ragazzi.
Qui invece si chiudono dentro le scuole, saltano ore di lezione – che dato il livello di ignoranza non farebbe loro male frequentare – per parlare dei rischiosi risultati elettorali.
E si vede che questi studenti da latte hanno una visione strana della democrazia.
Forse credo che visti i risultati, vi converrebbe studiare. Magari anche solo aprire i libri.

sbetti

Prima di lei solo Oriana

È una foto. Lì.
Che con tutta la sua potenza espressiva marca e segna la storia.
Solo un’altra c’era riuscita finora.
E si chiama Oriana Fallaci. Niente a che vedere con tutte le nuove Oriane del mondo che tentano di somigliarle anche con le parole.
Oriana faceva parlare di sè. Andava controcorrente. Metteva un pezzo di se stessa in tutto quello che faceva. Roba che quelle di adesso manco se lo sognano.
È accaduto che la giornalista Christiane Amanpour, annoverata da Forbes tra le 100 donne più influenti nel mondo, inviata di guerra, quando per poco a Sarajevo un proiettile non le ha sfondato la testa, si sia rifiutata di indossare il velo con il presidente della Repubblica Islamica Ebrahim Raisi.
Raisi era a New York per l’Assemblea Generale dell’Onu. E tramite un suo collaboratore, le aveva riferito che lei avrebbe dovuto indossare il velo perché sono i mesi sacri di Muharram e Safar.
“Io il velo?”. “Assolutamente no. Tu vieni a New York. Sei ospite in casa nostra e io indosso quello che mi pare”.
Queste in sostanza più o meno le parole. Una bella lezione per le paladine di tutti.
Lei non indossa il velo e rimane lì da sola.
Sì è fatta fotografare con una sedia vuota.
È la storia che si riscrive. La fotografia che entra prepotente nelle nostre vite. E l’immagine libera che consacra un momento dissacrante. È l’immagine di libertà e ruvidezza che non puoi fare a meno di guardare. Non è lui che dà lo smacco a lei. È lei che dà lo smacco a tutti.
Alla faccia delle tante Boldrini Mogherini e compagnia cantante.
Ce le ricordiamo, tutte belle velate, come se il sogno di indossare una tenda nera fosse un sogno di ogni donna occidentale. La Amanpour avrebbe voluto parlare col presidente. Chiedergli conto di quei massacri che stanno avvenendo in Iran e di cui le femministe italiane paiono non accorgersene. Avrebbe voluto chiedere conto di quella ragazza, Mahsa Amini, sequestrata e morta in seguito all’arresto della polizia morale, un po’ come il vostro politicamente corretto. E ora le donne stanno scendendo in piazza bruciando il loro hijab.
Allora mi chiedo le progressiste femministe dove siano. Dove.
Un bordello mai visto con gli Alpini e per le donne che scendono in piazza a protestare per i loro diritti bruciando i veli, niente. Zitte.
Nessuno ha da dire nulla per queste povere donne vittime di soprusi.
È vero in Italia siamo abituati ancora bene.
In Iran bruciano i veli, qui si sollazzano per una A al posto di una O.

#sbetti

L’Agenzia delle Entrate è esperta di pizze

C’è un caso che ho letto nella stampa locale e che mi ha destato parecchie perplessità su come l’Erario tratta i cittadini per bene.
Ora che non si dica che io voglia sempre andare contro l’Agenzia delle Entrate ma questa è abbastanza eclatante.
Tutto inizia nel 2013 quando gli imprenditori Mauro e Massimo Furlan, titolari di due locali, anche abbastanza famosi del Veneziano e del Padovano, vengono sanzionati per aver omesso nelle dichiarazioni dei redditi circa 600 mila euro.
Una sanzione che aveva raggiunto gli 800 mila con i rincari delle cartelle che come è noto anche queste vengono dalla Russia e dall’Ucraina.
La contestazione dell’Agenzia delle Entrate si basava sulla quantità di farina consumata.
Una roba da far ridere i polli.
Praticamente l’Agenzia per un giorno si era improvvisata pizzaiola e aveva calcolato quanti sacchi di farina ci volessero per fare una margherita una capricciosa una peruviana.
Così come nella Bella Addormentata nel Bosco aveva cosparso le scrivanie di farine acqua olio sale e pepe e aveva dato il via alle danze, con le tabelle nutrizionali delle varie pizze e i quantitativi di farina da usare.
Peccato però che, siccome ognuno dovrebbe fare il proprio mestiere senza infilare il naso in quello degli altri, l’Erario non aveva tenuto conto che la farina non servisse solo per sfornare pizze ma anche pane, bruschette – poi mica tutte le ciambelle vengono fuori col buco, basta guardare i nostri politici – e quelle venute male, ahimè vengono anche buttate via. I politici no.
Insomma i due imprenditori sarebbero stati dei farabutti perché con tutta quella farina avrebbero dovuto guadagnare sicuramente di più.
Ora, alla faccia dell’equo e giusto processo, della giusta durata dei processi, della riforma della giustizia, la Cassazione finalmente, Alleluia Alleluia, dopo nove anni di tribolazioni, giudici, avvocati, spese e altro, ha stabilito che l’Erario ha sbagliato.
Indossando il cappello da pizzaiolo avrebbe dovuto sapere che la farina serve anche per fare altre cose oltre alle pizze e quindi quegli 800 mila euro non sono dovuti.
È la prima volta che l’accusato si fotte l’accusatore. E che l’Agenzia, grazie all’avvocato che li ha difesi, Federico Veneri, (fategli una statua!) ora deve pagare le spese legali, e pure le sarà chiesto un risarcimento milionario.
Ma questo per farvi capire qual è l’andazzo. Molti contribuenti sono stati fottuti da questo modus operandi. E molti imprenditori grazie ai vostri accertamenti milionari si sono suicidati.
Hanno imbracciato una corda e hanno deciso di farla finita.
Ora abbiamo scoperto che il problema è che forse dentro l’Erario ci lavora gente che non ha mai dovuto fare il pizzaiolo per sbarcare il lunario.
Beati loro.

sbetti

I morti delle Marche: vittime della sciatteria di chi ci governa

Gli undici morti del fango nelle Marche non sono le vittime di una calamità naturale, di un incidente, di una tragica fatalità.
Sono lo specchio nitido preciso del pressappochismo, dell’ignoranza, della sciatteria, della arroganza, della incuria negligenza e sciattezza che governano questo Paese e le amministrazioni che lo compongono. A partire da quelle locali.
Il Paese del “tanto capita sempre agli altri”. Quello del “tanto non succede niente”.
Quello dell’ “oggi è così domani si vedrà”. Quello dei rozzi trozzaloni che se piove anziché portarsi da casa l’ombrello te lo inculano dal macellaio.
Il Misa, quel fiume appenninico che sorge nel comune di Genga nella Marche e che sfocia nel mare Adriatico, era già esondato nel 2014 e aveva fatto tre morti. A seguito dell’alluvione Renzi stanziò 45 milioni e 140 mila euro proprio per la sistemazione idraulica di questo fiume.
E c’è anche un documento che certifica il rischio esondazione e una delibera del 2016. Ancora al timone della regione non c’era Francesco Acquaroli.
Un fiume che diciamocelo qua, pare sia chissà cosa, e invece è torrentizio. Non stiamo parlando del Po o di qualche corso imponente.
I politici locali per l’occasione, come sempre accade, incravattati come pinguini, avevano fatto tanto di tagli di nastri, brindisi eccetera eccetera: “finalmente ora le alluvioni e le emergenze resteranno un ricordo”.
Anzi a dirla tutta i progetti per quell’area risalgono agli anni 80 quando il Fondo per gli investimenti e l’occupazione finanziò per la prima volta la vasca di laminazione nella frazione di Bettolelle. Ossia l’opera a monte di Senigallia che se ci fosse stata questi giorni avrebbe salvato alcune vite.
Ora è risaputo che con i se non si fa la storia ma dove sono finiti i soldi che dovevano servire per la messa in sicurezza del fiume? Perché nessuno aveva pulito i fossi, fatto manutenzione, costruito quelle famose vasche di cui si parla da trent’anni? La vasca che avrebbe dovuto salvare Senigallia è in stand by dal 2014.
Perché la storia del Misa non è niente di meno che uguale a tante altre storie italiane. Lo scandalo Mose. Una delle opere più controverse e uno dei più brutti e vergognosi scandali giudiziari. Il Ponte Morandi. Le opere incompiute. Tutta quella sciatteria su cui si crogiola e ci coccola chi ci governa.
Dietro al disastro nelle Marche ci sono fondi mai spesi. I ritardi. La burocrazia che ti tritura. Le macchinazioni. I piaceri. Il farsi i fatti propri credendo che capiti sempre agli altri. È inutile che le amministrazioni mandino i messaggi di cordoglio alle famiglie, quando si è costruito dove non si doveva costruire. Quando non si è pulito dove si doveva pulire, quando per gli interessi e il menefreghismo totale di gente incolta e ignorante si è voltato la testa dall’altra parte. E non è colpa di certo del neo presidente che andato su nel 2020 tra pandemia e bollette mancavano le alluvioni.
Sì certo, possiamo pure fingere che sia tutta colpa del cambiamento climatico. Possiamo pure fingere che abbiano ragione Greta e i gretini. Possiamo pure fingere che non si poteva prevedere.
I morti però, quelli no.
Quelli non sono finti.
Mi auguro non abbiate il coraggio di guardare negli occhi i loro parenti.

sbetti

Non è un Paese per giovani

Non è un Paese per giovani.
L’altra sera ho avuto modo di parlare con tre ragazzi. Hanno tutti intorno ai 25 anni. Chi più. Chi meno. C’ho parlato tutta la sera e mi è venuta su la rabbia. Quanta rabbia.
Mi hanno raccontato del loro lavoro, di quanto hanno studiato, di come vengono trattati, di quanto vengono pagati, di come lo Stato ogni mese si prende la metà della loro busta paga. Sembravano fiumi in piena.
Avrei voluto fermarli, arrestarli, dire loro “basta vi prego basta”, trattenerli dal dire quelle parole che fluivano via come l’acqua ma li ho lasciati parlare e ho ascoltato tutto.
C’è uno che si fa il mazzo per 12 ore al giorno. Il fine settimana lavora anche in un locale per sbarcare il lunario. Mi ha fatto vedere la busta paga, lo Stato ogni mese si tiene metà del suo stipendio.
Il suo amico invece, lavoratore in un magazzino. Questo fa gli straordinari manco lo pagano. Nel campo della ristorazione ha avuto solo problemi. Ci sono alcuni seri che pagano i dipendenti, questo lo so per certo, li trattano bene, con i guanti, se entri come cameriere in un posto serio, se vedono che sei bravo e ci sai fare magari arrivi anche oltre.
Ma ci sono anche i farabutti che se ne approfittano. In nero quando ti va bene sono 7 euro l’ora. Sette euro per arricchire un energumeno col Cayenne che ti parcheggia sotto il naso e ti fischia quando ti deve chiamare. I turni festivi non sono retribuiti come dovrebbero. Lavorare così diventa impossibile. L’altra ragazza invece da anni fa un lavoro che non le piace. Non viene valorizzata, non viene spronata, stimolata.
In questo Paese hai poco da dire, mancano stimoli, prospettive, tutto diventa impossibile. Ti trovi davanti a mille blocchi, ostacoli, tutto sempre difficile, macchinoso, legnoso.
Quando parlo con questi ragazzi – a parte quelli svogliati e ce ne sono veramente tanti, Dio se ce ne sono – le mosche bianche che hanno voglia di fare le facciamo fuggire all’estero. Loro infatti stanno pensando di andarsene.
Quando parlo con questi ragazzi ci vedo il fumo negli occhi, la rabbia, la delusione, l’angoscia, lo sdegno per essere stati frustrati ingannati, delusi. Hanno infranto le loro speranze. Il loro sogni. I loro desideri. Le loro aspirazioni.
Hanno soffocato i loro talenti, le loro attitudini, le loro inclinazioni. Hanno amplificato i loro bernoccoli, le loro ansie, paure, preoccupazioni.
Ho detto loro: “ribellatevi, andatevene da quel posto, costruite qualcosa di vostro, tirate fuori i pugni porca miseria, urlate, sbraitate, riprendetevi in mano la vostra vita. Fate una battaglia che non sia soltanto vostra. Svegliatevi!”
Una vita vissuta come vogliono gli altri, per arricchire chi usa la vostra schiena per salire i podi, è una vita sprecata. Che ci state a fare a questo mondo se non potete tirare fuori quello che siete. Ma niente. Solo la rabbia e lo sdegno. Zero azione.
Tu ci parli e li vedi navigare nel vuoto, si tuffano a mare come si buttano i pesci pescati che non li vuoi più e te ne sbarazzi. Hanno macigni sul petto che paiono massi. Sono derisi, scontenti, amorfi, inappagati. Sono la punta dell’iceberg di un mare merdum che non puoi svuotare. È lì, devi solo tentare di stare a galla o di uscirne. Del resto impossibile vivere in Italia. Questo Paese è totalmente irriformabile. I giovani vengono usati come preservativi nelle campagne elettorali, servono come godimento passeggero, come protezione, come qualcosa per accapparrare voti, c’è una certa parte politica poi che ai giovani non ci pensa nemmeno, li indottrina, li forma, li plasma, li vuole esattamente come vuole lei. I giovani non sono delle creature da far sbocciare, sono dei fogli di carta da modellare come origami che quando cambia l’onda disfi.
Di disoccupazione giovanile, di mancanza di progetti ne hanno parlato per anni in tutte le salse. Non c’è verso. Non c’è gergo. Non c’è ascolto. Meno nascite, meno giovani, meno lavoro. L’abbandono del posto fisso, la mancanza di tutele, la derisione di percepire un reddito e non fare un tubo, la fine della condivisione, l’inizio di solitudini iperconnesse, sempre lì, sempre assenti ma presenti, sempre online, sempre onair, sempre ansiogeni di un’ansia collettiva che fai fatica a sradicare. Soprattutto ora. La guerra, la pandemia, la totale incapacità della politica. Per chi ha voglia di lavorare, queste non sono fisime. Sono ansie. Angosce. Preoccupazioni. Sono struggimenti, affanni, tormenti che non ti fanno dormire la notte. Tutti e tre mi hanno detto: “Conviene andarsene. l’Italia è una merda”.
Non posso che essere d’accordo.

sbetti

Lo Smartworking è l’alibi perfetto per non fare un tubo

L’altro giorno ho chiamato in un ufficio comunale e mi è stato risposto che la persona con cui avrei dovuto parlare era sì in servizio ma era in telelavoro e l’unica forma commestibile per poterci parlare era la mail.
Quando ho chiesto come diavolo potessi fare per conversare con questa persona, come diavolo fosse possibile nel 2022 non poter attivare una deviazione di chiamata, come diavolo per diamine fosse possibile non poter parlare con qualcuno attraverso un dispositivo mobile, quell’aggeggio che teniamo sotto il sedere ogni sacro santo giorno, dall’altro capo ho sentito silenzio.
Il ragazzotto, mero esecutore cinese, messo lì a rispondere al telefono per una pippa di tabacco, non sapeva che dirmi. Mi ha detto: “Signora non lo so. Queste sono le disposizioni anti covid e qui lavorano ancora in regime di Smart working”.
Mi viene da ridere.
Soprattutto ora che leggo che i Comuni si stanno preparando per affrontare l’inverno.
Ci sono intere task force di massimi espertoni e professoroni comunali che in questi giorni siedono attorno a un tavolo per decidere come campare da qui alla prossima estate.
Con tutti gli sprechi che ci sono stati in questi anni, quando entravi negli edifici pubblici e ti pareva di stare sotto l’Equatore, doveva arrivare il momento per cui qualcuno si redimesse. Per cui qualcuno abituato a slacciare la cravatta ora debba indossare le mutande col pelo.
Ma soprattutto e qui non capisco.
Sento che in molti comuni vorrebbero praticare lo smart working. Addirittura ci sono ancora consigli comunali che avvengono su inutili piattaforme, dove i cittadini pagano tanto di gettone a politici che si riuniscono mentre hanno la pasta sul fuoco.
Una trovata a dir poco geniale, dato che lo Smart working è diventata la scusa per non fare niente, l’alibi perfetto, mascherata con i
la questione del risparmio energetico.
A scuola ci siamo andati tutti.
Se io ho 30 persone dentro un locale, devo riscaldare un solo locale. Se invece ne ho 30 e ognuno è a casa sua, di locali devo riscaldarne trenta. Mi pare cosa ovvia.
Quindi non capisco dove sia questo risparmio. Anche perché lo Smart working come si chiama non favorisce di certo l’efficienza e la puntualità.
Sono cinque giorni che ho mandato una mail. E aspetto ancora la risposta. Quando vi sveglierete!

sbetti

Compra una Vocale

Sono felice. Dio se sono felice.
Oggi mentre ero in auto mi sono detta che sono veramente fortunata.
Finalmente vivo in un Paese la cui più grande preoccupazione, tra il post pandemia e le bollette e tutte le porcate che succedono ogni giorno, si preoccupa e gioisce se per caso la Treccani – che tanto ormai non se la calcola più nessuno perché la gente che non sa l’italiano vive Googlando – tra i suoi vocaboli inserisce le parole che terminano per A, come giocare a “Compra una vocale”.
Che bel Paese è il nostro che quando le donne vengono ammazzate dai mariti, e quando le donne finiscono col cranio fracassato perché i testimoni erano in ferie, si preoccupa di inserire la A nel vocabolario.
Che bello. Che mastodontico. Finalmente vivo in un Paese che sa cosa vuol dire lottare per i diritti. Finalmente vivo in un Paese che lotta per la libertà. Che compra le vocali da appendere alle porte degli uffici con i soldi dei cittadini. E poi se in piazza ne stuprano 50 chissenefrega. Finalmente vivo in un Paese dove mi sento libera di andare in giro. Dove mi sento sicura di girare per strada di sera di notte da sola. Dove non incorro in qualche malintenzionato che mi spoglia, mi stupra, mi mena. Finalmente sono libera di scendere alla stazione alle dieci di sera perché grazie alla A sulle porte i criminali e i delinquenti se la stanno facendo sotto.
È risaputo infatti che i delinquenti e i padri padroni hanno paura di signora Treccani. E signora Treccani ha inserito – per la gioia di quelle la cui vita è stata talmente crudele da farle accontentare di una vocale – le parole come medica, avvocata, ingegnera, architetta, chirurga, notaia, che al solo pensiero di leggerle e sentirle mi fa accapponare la pelle.
Queste sono le conquiste che piacciono ai celebrolesi. Agli stuprati dal politicamente corretto. Di tutto quel ventre molle che ideologizza, infilza, inculca, di tutti quelli che sei libero se sei come loro. Ne ho di esperienza. Io venni discriminata dai paladini dei diritti di tutti perché le mie idee non andavano bene. Manco Putin.
Quando scrivevo consigliere e mi riferivo a una donna, perché per me è consigliere, mi correggevano in consigliera. Alla fine scrivevo solo il cognome, così nessuno aveva da dire nulla.
Ma quello di cui più mi compiaccio è che obiettivamente avevamo finalmente bisogno di una riforma così importante, di un “progetto ambizioso e rivoluzionario” al mondo “così inclusivo” che introducesse nei nostri sentire e parlare comuni le parole che finiscono per A.
Ma mi chiedo allora perché non battagliare e scornarsi come mucche anche per far inserire le parole che finiscono per O.
Cioè qual è il grado intellettuale di una persona che gioisce se per caso la Treccani inserisce la A al posto della O? Vorrei indagare.
Nella vita normale cosa cambia? Ma soprattutto non capisco una cosa. Sarà che ragiono al contrario. E potrebbe anche darsi dato che ci sono molti esemplari nell’universo che hanno la testa al posto del culo e potrei essere tra questi.
Come mai questa battaglia non la fanno gli uomini. Da che mondo e mondo sono gli uomini a essere discriminati. Sono gli uomini che vengono inglobati dentro un genere più universale. Che schifo. Che menzogna. Che derisione. Comprendere il genere maschile e ricomprendere tutti. Da che mondo e mondo quando alle elementari insegnano “nel parco ci sono 20 bambini”, si intendono bambini e bambine.
Se dicono invece “nel parco ci sono 20 bambine” si intendono solo le bambine. Lo capisce anche uno stupido. Mi chiedo perché le donne debbano avere questo privilegio di essere inglobate insieme agli uomini. Lo trovo altamente discriminatorio verso il sesso maschile, che devono condividere le I o le O col resto del mondo.
Davvero non lo capisco. Fatela una bella battaglia. Portate a casa queste conquiste di civiltà.
Mentre le donne muoiono ammazzate, compratela questa benedetta A.

sbetti

Chi ha ancora la sapienza nelle mani, in questo svogliato Paese

La Ragione – 9 settembre 2022

Quando aveva sette anni portava da bere ai trullari. I trullari sono i restauratori di trulli. Mosche bianche, personaggi rari, che ogni 200 anni riparano quei caratteristici coni bianchi tipici di Alberobello. Così ha iniziato la sua gavetta. Giuseppe Maffei, oggi 74 anni, è uno degli ultimi tre trullari rimasti. La sua bottega sta in via Duca d’Aosta in centro ad Alberobello, questo groviglio di vicoli tortuosi, scoscesi, ciechi. Un labirinto che sembra un paese fantastico.

Ci sono capitata per caso dentro la sua bottega mentre girovagavo una sera. Dentro balza all’occhio la riproduzione di un trullo scoperto che lascia intravedere come sono fatte queste costruzioni all’interno. Cisterna, focarile, basole, scarde: lui gli elementi del trullo li conosce tutti. Per anni ha insegnato nelle scuole “Architettura dei trulli”, tanto che nel 2010 per la “divulgazione della tecnica del trullo come attività didattica” è stato nominato cavaliere della Repubblica Italiana per il suo costante impegno nei confronti della città e dei suoi abitanti e per la passione che lo lega alla professione artigianale.

Artigianale appunto. “L’artigianato sta morendo – mi dice – il turismo è cambiato. E con questo turismo di massa quello che facevo prima non funziona più”. Lui, infatti, trullaro dall’età di sette anni, la gavetta l’ha fatta con gli zii portando da bere ai trullari più anziani. Poi passato lo scoglio di portare le bottiglie d’acqua, ha iniziato a portare le pietre, e dalle pietre ha iniziato a riparare i trulli. O meglio le chiancarelle, lastre in pietra calcarea tipiche della Puglia. Sono queste che si deteriorano ogni 200 anni. “Col freddo, col gelo, col sole, si rovinano e quindi hanno bisogno di essere restaurate”. Il lavoro del restauro dura dieci quindi anni. Poi Giuseppe si è messo a costruire trulli in miniatura. Erano gli anni 80. “Con l’arrivo del turismo ci siamo inventati questo prodotto. Ora però anche il turismo è cambiato, quello di massa non aiuta”. Oggi i clienti si accontentano dei souvenir prodotti in Cina – ebbene sì, esistono anche questi – a basso costo, compri due paghi uno, a discapito di quelli fatti a mano impastati con le mani di un artigiano.

E infatti. La sua bottega è un caleidoscopio di trulli. Uno ci entra dentro e ne esce ubriaco. Sono belli. Bellissimi. Coccoli. Raffigurano tutta l’arte e la passione instancabile che ha dentro quest’uomo. Ce ne sono di tutti i tipi. Grandi, piccoli, appesi, a coppie, singoli, decorati come presepi, presepetti. Ora la sua attività l’ha trasferita ai figli di 37 e 32 anni. In giro ci sono anche giovani che stanno costruendo nuovi trulli. Ma sono pochi. Saranno circa tre squadre da tre quattro operai. Sono perle rare che ancora mantengono la sapienza nelle mani di questo svogliato Paese.

Serenella Bettin

Agosto 2022 – Alberobello

In genere leoni fa rima con qualcos’altro

Mi fa un po’ ribrezzo la frase pronunciata dal carabiniere: “Se allevi conigli non puoi pretendere leoni” in merito alla tragica fine di Alessandro. Il ragazzino di 13 anni che si è lanciato volontariamente nel vuoto.
Anche perché sinceramente non capisco cosa c’entri.
Questo è uno dei tanti casi in cui, mi sovviene Umberto Eco, i social hanno dato e continuano ahimè a dire voce anche agli imbecilli.
Alessandro aveva 13 anni e si è lanciato dalla finestra di casa a Gragnano nel napoletano dove viveva.
Vittima di cyber-bullismo.
La gente crede che il bullismo sia una roba buona da mangiare. Una roba di poco conto.
Soltanto perché la parola bullo è stata spesso associata a qualcuno che si diverte e infastidisce gli altri. “Ah ah ah arriva il bullo”.
In realtà il bullismo è un fenomeno sottovalutato. Non si tratta di bullismo. Cambiate nome. Chiamatelo vergogna. Senso di non appartenenza. Timore. Ansia. Paura. Angoscia. Quel senso che ti pervade dentro quando le guance si colorano di viola e vorresti urlare e scappare e gridare al mondo che non sei come ti vogliono loro ma non trovi il fiato nemmeno per parlare. È un qualcosa che non ti fa dormire la notte. Che quando la mattina ti svegli e trovi quei deficienti che ti ridono in faccia ti verrebbe voglia di spaccargli il muso ma non trovi le forze. Ti verrebbe voglia di scappare. Rifugiarti in qualche luogo che solo tu conosci. Ti vergogni. Ti senti sporco. Inadeguato. Ingombrante. È una sensazione terribile.
Ero alle medie. E c’era un deficiente patentato di una terza classe che aveva fatto non so quanti anni di ripetizione, avete presenti quelli bocciati sette otto volte. Questo imbecille ce l’aveva con me. Io ero mora. Abbronzata. Capelli lunghissimi neri. Mi chiamava Boccaonta. Da Pocahontas.
Una volta con l’accendino fece cenno di bruciarmi i capelli. Pensai ai miei genitori che avevo a casa. Non volevo farli star male. E così quel giorno alla vista di quell’accendino trovai la forza di urlare. Non so da dove mi venne. So che gli gridai in faccia in piedi davanti a tutto il pullman. Gli dissi che era un coglione e che non avevo paura. Da lì lui forse si vergognò – ormai tutti sapevano – e non mi fece più nulla.
Ogni tanto, quando le cose non vanno come vorrei ripenso a quel giorno, a quando trovai la forza di urlare convinta di non avere manco un filo di fiato in corpo. E mi serve. Perché quando qualcuno mi sta mettendo i piedi in testa ricaccio dentro di me quell’urlo. Ora.
A me andò bene, perché sinceramente era poca cosa e durò poco. Ma qualcuno che ne soffre veramente, che per mesi, anni si sente vessato, sotto torchio, frustrato, rischia di avere problemi seri e non sapere come uscirne. Incapace di reagire.
Alessandro aveva 13 anni. Forse non merita di essere additato come un “coniglio” adducendo la responsabilità ai genitori che ora soffrono la perdita più terribile.
A ben vedere dietro lo schermo i leoni non mancano. Peccato che leoni faccia rima con qualcos’altro.

sbetti

Riappaiono i vademecum per gli italiani. La colpa è sempre nostra

Noto con svogliato che sono riapparsi i #vademecum per gli italiani in tutte le salse.
Pare di essere tornati ai tempi del covid, quando ti insegnavano a lavarti le mani, a lavarti i piedi, i peli del pube.
Ti istruivano su come non starnutire in faccia alla gente, come tossire mettendoti una mano davanti la bocca; e ti dicevano quanti metri potevi fare fuori casa.
Tutte cose, quelle relative all’igiene personale, apprese all’asilo e poi forse dimenticate e che secondo i nostri rappresentanti andava bene rispolverare.
Tuttavia mi auguro che quando sia passata definitivamente l’emergenza non ci sia qualcuno che mi tossisca in faccia.
Covid o meno, mi causa comunque un leggero ribrezzo ingoiare i microbi degli altri.
Così come mi causa una lieve repulsione mista a disgusto, avere a che fare con quelli che quando ti parlano ti si devono per forza accostare e metterti il naso davanti la bocca.
Io col distanziamento ci sguazzavo. Lo preferivo.
Ma veniamo alla situazione attuale.
Leggo che per quest’autunno, anzi a cominciare da ieri, dovremmo cucinare la pasta senza farla bollire, non portare a completa ebollizione l’acqua, fare un lavaggio delle lavatrici ogni due giorni, non lasciare i dispositivi come tv e decoder in stand by, far durare la doccia anziché sette minuti, cinque; spegnere i caloriferi se si è in un’altra stanza – qui forse entra in aiuto il calorifero con le rotelle amato dalla Azzolina che consente di riscaldare una stanza alla volta, lo puoi muovere, non causa ingombro, resiste alle ditate dei piedi ogni volta che ci sbatti addosso e previene le infezioni, semplice, pulito, senza contagio – poi abbassare le temperature di due gradi negli edifici e accendere quindici giorni dopo la normale accensione.
Nelle isole parlano anche di far partire i riscaldamenti l’8 dicembre, il giorno dell’Immacolata, assieme ai Mercatini di Natale oltre al vin brûlé, termosifoni per tutti, che bellezza.
Sinceramente sono un po’ ammorbata da questo sistema di regole proteiforme che prende molte forme. E mi chiedo perché ogni volta la responsabilità debba essere addossata agli italiani. Comportamenti virtuosi dovrebbero essere naturali, sta alla coscienza di ciascuno metterli in pratica. Certo se qualcuno vuole vivere come un rozzo zoticone sprecando e spandendo ovunque, la colpa non può essere di tutti.
Ma soprattutto con tutti gli sprechi che ci sono in giro perché non facciamo i vademecum per i pubblici?
Un esempio?
Le luci nelle biblioteche e negli uffici comunali spesso e volentieri rimangono accese. Interi vivai di lampioni che non servono a nessuno rimangono accesi ogni sera solo per far vedere l’immensa opera nuova di zecca acquistata dal Camerun. Aziende con luci fuori che paiono luna park in funzione e comuni con fognature obsolete e uno spreco d’acqua che potrebbe servire un Paese. I riscaldamenti negli edifici pubblici sono stati sempre accesi, dal 15 ottobre fino agli anni scorsi. Quando entri trovi dipendenti in maniche di camicia e abbigliamenti primaverili quando fuori ci sono meno 8 gradi.
In tutto questo, i vademecum sono per gli italiani? Forse è il caso che qualcuno, anche per le scelte fatte totalmente ottuse e per niente lungimiranti, faccia mea culpa.
E occhio a mettere troppi punti, la maglia si fa stretta.

sbetti

Mi è esploso un capillare nell’occhio. Saranno le bollette

Mi è esploso un capillare nell’occhio. Non so a cosa sia dovuto. Capita dicono. Sarà che non sto mai ferma. L’altro giorno finché pensavo a come fare un lavoro, sfregavo la mano sul volto. Non si fa. Ce l’avevano insegnato anche col covid.
Così può essere sia stato quello. Oppure può essere che doveva esplodere punto. Fatto sta che ora ho sta roba rossa che mi sguazza dentro il bulbo, nella parte bianca e che mi costringe a portare gli occhiali da sole anche quando parlo con le persone. Una cosa che odio. Fino all’altro ieri la parte rossa era grumosa invece adesso si è appiattita. Ammorbidita. Spalmata. Sarà anche questo clima. Non la senti la pressione che c’è in Italia. Non lo senti questo clima così soffocante, opprimente, degradante. Sembra facciano a posta a farti stare male.
A proposito.
Il Cremlino da oggi è pronto a bloccare il petrolio ai Paesi che impongono un tetto al prezzo del gas. Un ricatto insomma. Del resto c’era da aspettarselo. Sono mesi che i potenti vanno avanti a farsi dispetti, e tutto intorno non c’è che un cimitero di aziende e croci di famiglie.
Ma tant’è.
Dicono che da questo autunno, chissà arrivi presto che non ne posso più di vedere gente rozzamente scoperta, ci sarà un grado in meno negli edifici. Per fortuna. Sinceramente ogni qual volta sono entrata in quelli pubblici, a cominciare dai comuni, mi sono sempre chiesta se avere le maniche corte in pieno gennaio non fosse un tantino esagerato. Dipendenti statali con il sedere al freddo o al caldo a seconda delle stagioni.
Poi c’è anche un piano b. Ossia se non basta, avremo i negozi chiusi prima, i ristoranti anche e anche le scuole faranno orario ristretto dal lunedì al venerdì. Qualcuno, ma mi auguro non sia vero, per risparmiare aveva proposto il ritorno allo smartworking e alla dad – queste atrocità umanitarie – ma mi chiedo in che modo. Da che mondo e mondo se hai 40 persone tutte nello stesso locale, riscaldi un locale solo, se invece le dislochi ognuno a casa sua, sarai costretto a riscaldare 40 locali. Mi pare un’operazione ovvia. Non ci vogliono menti eccelse per capire questo. L’altro modo per risparmiare energia è il mantenimento dell’ora legale tutto l’anno. Il 9 comunque si deciderà che fare. Ossia quelli che i problemi li hanno creati, si ritrovano per risolverli. Un po’ come quando una coppia litiga e la sera discute a tavola.
In tutto questo, con i poveracci, i disgraziati, le famiglie ridotte male, l’agenzia delle entrate veloce veloce come un fulmine, manda le cartelle. Sugli italiani piovono 20 milioni di cartelle esattoriali. Dieci già arrivate e un altro milione che arriverà nel 2023. Quattro milioni sono da pagare entro il 31 dicembre e sono quelle congelate per l’emergenza sanitaria. Ora che l’emergenza è finita, l’agenzia delle entrate come un avvoltoio senza scrupoli si nutre dei suoi cadaveri.
Mi chiedo con quale creanza si possa arrivare a chiedere in un momento come questo agli italiani il pagamento delle cartelle esattoriali, quando sappiamo perfettamente che i negozi bar ristoranti che tengono aperto adesso hanno guadagno pari a zero. Veramente non lo capisco.

sbetti

Viaggio nell’ omofobia

Servizio andato su Controcorrente Mediaset il 28 giugno 2022

Non ho mai gradito alcune posizioni ultracattoliche. Ma queste hanno battuto ogni limite. Arrivare a credere che i gay, i trans, le lesbiche abbiano dei problemi mentali, e che alcune persone siano un abominio del Signore mi fa riflettere sull’ arretratezza culturale che ancora persiste nel nostro Paese.

Gli abomini sono certe posizioni.

Ho raccolto alcune voci. Il mio servizio su Controcorrente. Clicca su 👆

Sbetti

I due giovani pastori. Niente riscaldamento, “solo coperte”

La Ragione – 8 luglio 2022

Lui si chiama Elay Cerra. Ha 18 anni e viene dal Comune di Valdastico in provincia di Vicenza. L’ho incontrato un giorno per caso, nel mio caotico peregrinare. Mi ha colpito perché assieme a lui vi era un ragazzo di colore e insieme tenevano a bada un gregge di pecore. Un fenomeno sempre più diffuso nei pascoli e nelle campagne. Siccome gli italiani non vogliono più fare alcuni lavori, i pastori e gli agricoltori ricorrono agli immigrati. Isolamento, ambienti duri e orari incerti non hanno invogliato i giovani a seguire le orme dei padri. Pensate che in Abruzzo, ancor prima dell’epidemia da Covid, il 90% dei pastori era straniero. Così quel giorno mi sono fermata. Sono scesa dall’auto e ho chiesto quale fosse la loro storia.

Elay Cerra è figlio di un poliziotto, ha origini calabresi. Il nonno faceva il pastore e lui s’è innamorato di questo lavoro. Poi ha preso con sé un senegalese – sveglio, scaltro, in gamba – che corre dietro alle pecore e le fa pascolare sulla retta via. Si chiama Mouhamed, ha 22 anni e fa il pastore dal 2019. Dopo un passato in fabbrica a Milano ha deciso di vivere in mezzo ai monti.

Li ho incontrati un giorno d’inverno, quando fuori fa freddo e loro svernano. La fatica. Il sudore. Il sacrificio. Il freddo. Il gelo. Lavori che rimangono una chimera, una ipotesi assurda nel panorama italiano dove ci siamo riempiti di dottori laureati su Google. L’arte di imparare un mestiere e di fare poi fatica per guadagnarsi la pagnotta è diventata una roba da sfigati in un mondo di strafottenti che campano sulle spalle dei precari. Elay, che sogna un giorno di avere un gregge di mille pecore, si chiama così perché la madre quando era incinta di lui stava leggendo un libro che aveva un protagonista con quel nome. Il padre ha anche provato a fargli cambiare idea: «Figlio mio, ma dove vai? Chi te lo fa fare?».

Ogni giorno Elay e Mouhamed si mettono in cammino. D’inverno vivono su una roulotte senza riscaldamento («Ci si scalda con le coperte»). Sveglia alle 6.30, colazione con latte e biscotti. E poi via, subito al lavoro. Devono controllare se qualche pecora abbia partorito, se ci siano nuovi agnellini. Poi le portano al pascolo. Cucinano a turno e a mezzogiorno mangiano pasta, carne, pane: «Dipende da cosa abbiamo in dispensa». Quindi ripartono, vanno al pascolo, stanno dietro alle loro pecore e le fanno correre. Mettono la pecorella, quella che non ha l’istinto materno, assieme all’agnello e così si abitua, prendendone l’odore. La sera cenano e si fiondano a letto. Niente televisione. Solo il sottofondo della natura, che ultimamente fa a pugni col mondo.

Di Serenella Bettin

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Disegno di Gerardo Spera apparso sul quotidiano