La resistenza Dnipro c’ha il volto di una ragazza

Foto Sarah Rainsford

La resistenza a Dnipro c’ha il volto di una ragazza. C’ha i capelli biondi. Raccolti. I lineamenti dolci. Docili. La bocca socchiusa. Gli “Occhi chiari, laghi gemelli, occhi dolci amari”. Ci sono centinaia di donne qui che trascorrono il tempo a preparare bottiglie molotov.
Kiev ormai è circondata. I cannoni distruggono gli edifici. Seminano vittime innocenti. Secondo l’ intelligence Usa la caduta della capitale è una questione di giorni. Ma Putin deve forse fare i conti con qualcosa che non aveva previsto.
Il sindaco pugile di Kiev Vitalij Klitschko, campione del mondo di boxe con 45 vittorie in 47 incontri, col fratello Wladimir si è arruolato come riservista nell’esercito ucraino e ha invocato la resistenza.
È questa la lotta per la libertà.
D’altra parte invece il presidente russo che ha invitato più volte i militari ucraini al golpe. “Prendete il potere – ha detto – abbandonate questa amministrazione composita da una banda di drogati e neonazisti”.
Nei sobborghi si combatte per tutto il giorno, idem a Mariupol e nel Donbass. Mentre a Odessa l’aeroporto è in mano ai russi. I missili sganciano dozzine di mine. Armi micidiali, sebbene siano vietate dalle convenzioni internazionali.
Ma a Putin non interessa.
Da dire che i russi hanno avuto gravose perdite. Ieri per la prima volta il portavoce della Difesa russo ha parlato di morti e feriti. Il fatto che prima non avessero detto niente, è sintomo del “fatto che la guerra non la stanno vincendo”, ha detto Carmen Lasorella.
Per gli ucraini, i russi avrebbero avuto in 4 giorni, 4300 fra morti e feriti. Perché è dal 24 febbraio che i carri armati russi hanno acceso i motori. Colonne russe premono su Kiev. Ma ci sono milioni di abitanti pronti alla guerriglia urbana con bottiglie di Molotov. Mosca ha anche limitato l’accesso a Facebook. “Basta pubblicare foto – dicono anche da Kiev – sui social perché potrebbero dare informazioni all’avversario”.
L’Ucraina mette in campo una strategia non solo militare ma anche tattica. La Russia viene colpita da diversi attacchi cyber.
E i cartelli stradali vengono tolti per impedire agli invasori di orientarsi. I civili si stanno armando. Distruggono ponti. Mandano in tilt il sistema ferroviario. Così che entrare in città è più difficile. Tagliano alberi. Scavano buche. All’ingresso della capitale Kiev ha scavato trincee distribuendo 18 mila armi automatiche ai residenti. È una guerra che si combatte con agguati improvvisi, tattiche, armi anti tank date da americani e britannici. Anche l’Ue ha fornito i propri missili. Ogni ucraino combatte. C’è anche il soldato che si fa saltar per aria col ponte per impedire l’avanzata dei russi.
O la vecchietta. Quella che sfida i russi.
“Tieni – dice rivolgendosi a un colbacco e porgendo dei semi di girasole – Mettili in tasca, quando morirai cresceranno nella nostra terra”.

#sbetti

Foto @SarahRainsford

Vaglielo a dire che la chiamata in Ucraina non sarà mai gestita

Ieri al bar mi si avvicina una donna.
Ucraina. Voleva una ricarica del telefono per chiamare i suoi parenti. L’ho guardata.
Aveva gli occhi gonfi. Pieni di pianto. Il volto colava angoscia e disperazione.
I capelli malconci, i vestiti anche, una di quelle donne che dalla vita hanno avuto poco e si sono assuefatte. Non rinvigorite dalla droga del volere.
Chi glielo dice che forse la sua chiamata non sarà mai gestita. Vaglielo a spiegare.
In queste ore folli si continua a combattere a Kiev, Kharkiv e in altre zone dell’Ucraina.
Quelle che stiamo vivendo sono ore drammatiche. Non solo per loro. Per tutti noi. Tutto il mondo guarda col fiato sospeso quell’imponente fazzoletto di terra dove ora si fanno la guerra.
La Russia ha schierato il suo esercito più forte. Ma Kiev non molla. I russi hanno colpito i centri di comando. Il presidente dell’Ucraina ha incitato il popolo alla Resistenza e ieri sera Mosca ha bombardato l’ospedale pediatrico. Un bimbo è rimasto ucciso. E due sono rimasti feriti.
È la guerra dei bambini.
Il prezzo per la libertà. A Dnipro un rifugio antiaereo è diventato una terapia intensiva per i neonati. I piccoli dall’ospedale pediatrico sono stati trasferiti qui in braccio dalle infermiere.
In un video diffuso nei social si vedono anche i soldati sfilare accanto a quelli che prima erano luoghi di ritrovo. I parchi per bambini. Fermi. Le giostrine immobili. Vuote. Solo il vento muove qualche altalena.
Le sirene si fanno sempre più intese. E nei rifugi pieni di profughi qualcuno porta i giochi per i più piccoli. Quando sentono i missili, hanno detto le infermiere, dicono alle madri di stare calme e ai bambini di correre nel rifugio perché è un gioco. Così.
Come una playstation. Ma in realtà il terrore li travolge.
Una bimba è nata due notti fa nella stazione metropolitana di Kiev. Si chiama Mia. Nei social l’hanno ribattezzata Libertà. Le immagini che arrivano sono inquietanti.
Un video mostra un carro armato che passa sopra una macchina e la schiaccia.
I papà vanno al fronte in lacrime. Si vede una immagine di un padre che china la sua testa sulla propria figlia. Piange. Lei anche.
La fa salire su un autobus.
Mi chiedo il senso di tutto questo.

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Roma. “Qui fanno il pane più buono del mondo” 🌍

Roma – 26 febbraio 2021

Ogni volta che la sera poggio la testa sul letto, possa essere quello di casa, di un albergo, un hotel, un bed & breakfast; o quello di casa di un amico, un’amica, un collega, un parente; un divano letto; ecco ogni volta, cerco sempre di essere sempre grata a chi mi ha fatto stare bene o a chi mi ha trasmesso qualcosa durante la giornata. Ma soprattutto cerco di essere grata a chi la vita me l’ha donata. Senza quella. Non avrei potuto nemmeno vedere queste tante bellezze che ci sono in giro. Perché oggi giravo per Roma. Ed è bella Roma. Per davvero. E allora salivo su sul Gianicolo. E poi sul Palatino. E poi andavo su e andavo giù a piedi con la moto in taxi.
La moto andava su e su e su e su e io me ne stavo attaccata dietro con i piedini che facevano pressione come quando un uccello si attacca ai fili della luce. E più mi tenevo più avevo paura di prendere la scossa. Prendi un giorno a Roma. Sole. Sali in moto. Si parte. E a ogni curva che ti sembrava di cadere di roteare di sentirti un tutt’uno con questo mondo. Perché nella vita bisogna anche lasciarsi andare. Bisogna salirle le montagne. Passo dopo passo. Passetto dopo passetto. Facendo una sosta. Una pausa. Rimanendo in attesa col corpo sospeso sul resto del mondo. Respirare aria sana. Buona. Cambiarla quell’aria. Anche solo per vederne l’effetto. Per rientrare con stimoli nuovi. Nuova energia. Bisogna percorrerle le strade. Calpestarle. Navigarle. Circumnavigarle ancora. E ancora. E ancora.
E così mentre la moto saliva vedevo la gente correre a piedi. Fare jogging. Le auto incolonnate come tante lattine luccicate dal sole. Vedevo i cani a passeggio. I bar aperti. I negozi anche. Ma soprattutto vedevo quegli eterni monumenti. Chiese. Campanili. Obelischi. Pilastri. San Giovanni in Laterano. Le Terme di Caracalla. La villa. Quella più bella. Sentivo sotto correre i sanpietrini e l’asfalto che correva sotto le ruote. E la moto che saliva saliva e saliva.
E poi.
Poi quel pane. Un collega mi dice che qui fanno il pane più buono di Roma.
Entro e vedendo il pane a forma di Colosseo gli chiedo: ma lo posso mangiare anche domani?
Io così onnivora di tutto.
Io che la vita me le sono bevuta tutta e me la bevo ogni giorno. Ho fame. Ho sete. Ho sete di notizie. Di storie. Ho fame di tutto quello che mi fa crescere. Amare. Innovare. Prospettare. Gioire. Partire. Costruire. Me la devo bere la vita. Tutta. Devo sentire che mi sbatte addosso e che la sento dentro. Allora chiedo al panettiere se lo posso mangiare. E lui si mette a ridere. Mi dice che no. Non si può. Ingorda. Sì è pane ma è un peccato mangiarlo.
Si è fatta sera. Le case accendono le luci. Le strade accendono le luci dei lampioni. Dio quanto mi piace questa atmosfera. Mi ricorda i vecchi tempi. Mi mette un senso di nostalgia, di casa che non c’è, di mettersi alla prova. Mi mette un senso che tanto non tornerà mai niente più come prima. Di quella vita da piccoli. Mi viene in mente che in quel momento sono felice e vorrei urlare al mondo grazie. Ma chi ti sente. Canticchio Max Pezzali. Il tassista che ti chiede: “lei è milanese”.
Vedo le case. Luci. Rimmel. Il rimmel di una tipa. Sottile. Ben delineato. Parla al telefono. “Ci vuole un cambio. Eleganza. Pulizia. Ordine”. La sto a sentire. C’ha il cappotto maculato. E le unghie affusolate.
Ti mette energia. Voglia di fare.
Poi squilla il telefono. Mi chiama una madre. Mi dice che sta preoccupata per i figli. Già i figli.
“Mamma perché devo studiare. Mamma perché devo fare l’università. È asettica non ha senso”.
Non ha ritmo. Socialità. Non c’è concerto. Suona un lento adagio. Manca la musica. Manca lo schiocco delle dita. Ti sembra di perder tempo. Questo tempo perso. Questo tempo che non torna indietro. Questo tempo che stavano vivendo e un turbine a ciel sereno si è messo di traverso.
Si è fatto tardi.
È ora di rientrare.
Mi viene in mente il pane. E mi viene in mente mia madre. Lei che ripone tutto. Io che consumo invece e faccio spazio al nuovo, buttando via il vecchio. Una volta mi ricordo che le avevo regalato un orsetto. Per Pasqua. L’orso è ancora lì.
Di cioccolato. Saranno vent’anni.
Vent’anni fa.
È un peccato mangiarlo mi dice mia madre.
È un peccato mangiarlo.

#sbetti

Io non ho visto la guerra. Ma ho visto gli strascichi devastanti che lascia

Questo mio post finirà nel letamaio di tutti gli altri post che si sono scritti oggi.
Le dichiarazioni. I tweet. Le foto prese da internet. La bramosia. La foga di postare prima degli altri. In me non ci sono studi geopolitici, spiegazioni internazionali, dichiarazioni di pace. Anzi probabilmente non servirà manco a un tubo. Ma una cosa ve la volevo dire lo stesso.
Quello che vedete in foto è il mare dell’Adriatico visto dalle Marche. Al di là c’è la ex Jugoslavia.
Mi hanno fatto questa foto quest’estate al mare.
Un tardo pomeriggio quando non avevo voglia di parlare.
Mi capita spesso. E quando mi capita mi devi stare lontano. Quel giorno avevo appena conosciuto un uomo. Erano anni che lo vedevo al mare. Sempre la stessa spiaggia. Ero convita fosse tedesco.
Quel giorno io andavo in passeggiata. Lui tornava. E facemmo un pezzo di strada assieme.
Mi racconta che viene dal cielo di Bosnia. Gli dico che in Bosnia ci sono stata. Così come in Bosnia Erzegovina. In Serbia. In Kosovo. Lungo la rotta Balcanica. Non ho fatto la guerra. Non l’ho vista. Ma ho visto gli effetti che lascia. L’acredine nell’aria. La rabbia. L’odio. Il rancore. La violenza. Il puzzo della guerra lo respiri tutto. Lo vedi. Lo senti. Lo annusi. Lo percepisci. Lo vedi dai vestiti sgualciti. Dalle labbra secche. Dagli occhi impavidi. Lo vedi negli occhi della gente. Nei loro sorrisi rassegnati. Fiacchi. Deboli.
Nel loro avere tutto perché hanno conosciuto il niente. Lo vedi nelle case sventrate. Nella melma al posto delle strade. Nelle pareti ancora colpite dai colpi di mortaio.
L’uomo mi racconta che lui a 19 anni partì per andare a combattere. “La vedi questa?”, mi chiede. “Questa è una cicatrice che mi sono fatto durante un combattimento. Mi dicevano di ammazzare e ammazzavo. Mi dicevano di sparare e sparavo. Ti insegnavano chi era il nemico. Diventa normale poi. In guerra non pensi nient’altro che a salvare te stesso”.
Lo guardo con gli occhi sempre più interrogativi. Più affossati. Mi riporta con la mente a quando ho fatto quei giri nei Balcani. Mi ricordo in quella scuola al confine con la Bosnia dove la vegetazione incolta e la nebbia di quella mattina disegnavano un paesaggio spettrale. Qui l’insegnante mi disse: “La vedi questa scuola? Venne bombardata. Non c’era più niente. Le case qui davanti non c’erano più. Le buttarono giù un sabato pomeriggio”. Quando scoppiò il covid un ragazzo di Sarajevo mi disse: “Noi non abbiamo paura. Noi abbiamo conosciuto lo stato di assedio”.
L’uomo del mare mi racconta che la sua famiglia era divisa. La madre croata. Il padre bosniaco. Per anni non vide più la sua famiglia. Lui voleva studiare. Darsi da fare. Trovare lavoro. Aveva sogni. Ambizioni. Desideri. Quegli stessi desideri che ha un ragazzo di 20 anni.
Ma non gli è stato concesso. “Ho ammazzato persone. Avrei ammazzato anche mio padre. In guerra non ragioni. Pensi solo a salvarti. Quando la guerra è finita non avevo più niente. Nemmeno un paio di jeans. Non avevo una casa. Un lavoro. Una macchina. E così ho preso. Mi sono imbarcato e sono arrivato in Italia”.
Mentre mi parlava lo vedevo che soffriva. Ma davanti c’aveva un muro di ghiaccio. Quando in guerra conosci l’odio è difficile sradicarlo poi. Non trasmetterlo ai tuoi figli.
Lo stesso odio che ho incontrato quando sono stata a Sarajevo. A Belgrado. In Kosovo. Quando me ne sono andata dalla Bosnia, quel giorno, con l’auto che mi riportava in Croazia. Col sole che mi lasciavo dietro. Col tramonto che mi si apriva innanzi, in compagnia ma sempre più sola, riscaldata dal calore di quella palla infuocata, ripensavo ai tanti discorsi.
Ma c’era una domanda. Una domanda alla quale dovevo trovare una risposta.
Ho preso in mano il telefono. E ho chiamato quel ragazzo di Sarajevo. Gli ho chiesto “Ma perché? Perché tutto questo. Perché tutto questo odio”.
“Troppo male è stato fatto”, lui mi ha risposto.
Io non l’ho vista la guerra.
Ma ho visto gli strascichi devastanti che lascia.

#sbetti

È bella Belgrado. Bellissima

Belgrado

È bella #Belgrado. È Bellissima.
Belgrado è un acquerello di colori, un intrigo di sapori, un groviglio di foglie colorate.
È un tripudio di scoiattoli che saltano sul prato e si arrampicano sugli alberi. Un intreccio di vecchiette che vendono lenzuola ricamate lungo le strade. Belgrado è un incrocio di cani randagi. C’ha ancora negli occhi il sapore della guerra. Lo vedi. Lo senti. Lo annusi. Lo percepisci. Lo vedi dai vestiti sgualciti. Dalle labbra secche. Dagli occhi impavidi.
A Belgrado c’è la vecchietta che dà da mangiare ai piccioni. C’è il pianista che suona in mezzo alla gente, ci sono i ragazzi che giocano a palla e i vecchietti che si sfidano a scacchi.
La mattina si sveglia con l’odore dei cappuccini, dei tramezzini e dei fornelli accesi.
Passi tra le scale di appartamenti ingrigiti e trovi le donne che fumano sigarette e si preparano al turno delle pulizie. Una sigaretta con loro. E fuori il chiarore del sole che ha sostituito quello delle bombe.
Ci stanno dei quartieri a Belgrado che nemmeno te li immagini. E stanno nei cunicoli dei palazzi. Nei condotti sotterranei. Negli stretti corridoi. Stanno sopra i tetti delle case. Tra le finestre degli innocenti. Lungo le scale. Dentro gli ascensori. In mezzo ai corridoi di palazzi fatiscenti. Enormi. Possenti. Con il pavimento ondulato e la sensazione di mal di mare. Stanno dentro le stanze. Fuori. Lungo i marciapiedi. Nelle case di periferia.
Stanno tra le storie delle persone. Quelle con cui ci puoi parlare.
Qui nella piazza centrale della capitale.
Qui dove la fitta e incolta vegetazione della Bosnia lascia spazio ai palazzi di Serbia.
Palazzi, luci, grattacieli, insegne luminose. La Dubai dei Balcani. La New York degli Stati Uniti.
Perché Belgrado è l’ incrocio tra il vecchio e il nuovo, tra il nuovo e il vecchio, tra il moderno e il contemporaneo.
La sera Belgrado si riempie di canti. Di balli. Di donne. Di uomini. Attorno ai tavoli dove stai mangiando arrivano i cantori. Contrabbasso. Chitarra. Mandolini. Fisarmoniche. Parlano di santi. Di morti. Di amori non corrisposti.
Capita di mangiare e di avere a fianco questi signori. Ricordano quelli del Titanic. “Ci prepariamo ad affondare con dignità, continuate, continuate a suonare”. Ma loro no. Loro non affondano. Loro vivono e fanno vivere.
La via principale è piena zeppa di locali. Quella scomoda. Quella con i sanpietrini. Quella che se per caso c’hai i mocassini, viene giù tutto. Anche i santi. E le madonne.
Quella che è tutto un sali e scendi e devi stare attento a camminare senza piantare il sedere per terra.
Ci sono locali che sembrano lanterne. Bugigattoli. Piccoli. Colorati. Alcuni freddi. Altri caldi. Stanno nei sotterranei. Con i soffitti in legno. Con le tavole azzurre. Con le tovaglie colorate. Quelle belle. Quelle bianche e rosse. Quelle bianche rosse e verdi. Quelle a quadratini che ricordano tanto i paesi di montagna. Poi ci stanno i tavolini fuori. All’aria aperta. I bagni incurvati, danzanti, fanno l’amore con le mattonelle e gli specchi, incastonati tra le pietre di un soffitto e il primo piano di un appartamento. Localini sotto le rocce. Nascosti tra le pietre di una città che torna a vivere. Alcuni illuminati a Natale. Altri addobbati dai mille colori. Inebriati di mille sapori. Fuori a illuminare le tavole ci stanno i lampioni. E i canti di questi signori cantori. In un torrenziale di note.
Poi ti capita di salire. Proprio lì. Proprio qui. Dove il Danubio e la Sava fanno l’amore.

#sbetti

#serbia

La lingua dei fessi

Noto che sempre più persone parlano la lingua dei fessi.
La lingua dei fessi è la lingua di quelli che non sanno l’italiano e per darsi un tono parlano in inglese.
Dopo aver sentito la boiata del train manager in treno l’altro giorno, oggi, sempre in treno – sarà che qui si annidano i fessi qualunque – la tipa davanti a me ha avviato una riunione online.
A un certo punto parlava di timing, destination moment; planning, scheduling, conference, heads, feedback.
Ma che cazzo di minchia dite. Ma come parlate.
Ma perché siete così ingrati a chi vi dà da vivere.
Le conference call. Le web project manager. Le cip e ciop. Le project dei weltin bet project manager organizaZIOn.
Una volta una mi ha detto: “Ti prenoto la call”. Le ho riso in faccia. Le ho chiesto se fosse così talmente menomata intellettualmente da non riuscire a dire: “Ti fisso una chiamata”. Mi guardò malissimo. Ma poco male.
Ti prenoto la call poi è roba che non si può sentire.
Storpiano le parole così come si tagliano i rami secchi in giardino.
Quelli che più ti fanno accapponare la pelle sono quelli che pretendono di parlare in inglese e poi non beccano un congiuntivo che sia uno. Ti scrivono qual è con l’apostrofo. Ti mettono soggetti e verbi completamente sballati.
Quelli ancora più insulsi sono quelli a cui chiedi qualcosa e ti rispondono Asap. Asap è una formula inglese che sta “As Soon As Possible “prima possibile”. Se i pirloni anziché rispondere asap rispondessero “il prima possibile”, faremmo prima davvero.
Una volta uno mi ha chiesto se gli dedico uno slot di tempo. Gli ho risposto che non siamo in aeroporto.
Gli slot, questi manco lo sanno, nel linguaggio aeroportuale sono le fasce orarie in cui è permesso per quell’aereo atterrare o decollare. Ma ci sono un sacco di parole che vengono ignorantemente bullizzate. Per dire take away basterebbe dire semplicemente asporto. Anche se ti trovi con gente che ancora non distingue l’asporto, dal “te lo porto a casa io”. Per dire delivery, basterebbe dire “a domicilio”. Per dire cashback rimborso. Il cluster che tanto hanno imparato durante la pandemia non è altro che un focolaio. La Fashion Week è la Settimana della Moda. Così come in francese la chiamano col loro nome.
Flag è la spunta blu. Outdoor è per dire all’aperto. La sharing economing di cui fa figo riempirsi la bocca è l’economia di condivisione. E ce ne sarebbero tante altre.
Semplicemente come fuck you. Che vuol dire andare a fareinculo.

#sbetti

Ma gli sbirri dove sono?

Ho visto lo spettacolo ripugnante dei ragazzini che si menano come animali nelle piazze d’Italia, soprattutto a Milano, e non posso che essere stravolta.
Da cittadina però vi racconto cosa mi è successo l’altro giorno. L’altro giorno stavo alla stazione centrale di Milano e con me avevo questo pacco che vedete in foto.
Un vecchio regalo di Natale fattomi arrivare da una persona e che avevo sempre lasciato nella città milanese.
L’altro giorno l’ho riportato in Veneto.
Mi presento alla stazione centrale con questo dono. Sono lì che cammino e mi accorgo che le guardie composte da due militari e due uomini della polizia di stato che mi stavano davanti, mi si mettono dietro. Sento che c’è qualcosa nell’aria. Così mi fermo in un punto all’aperto. Metto la borsa per terra. Il pacco anche. E mi accendo una sigaretta. D’un tratto mi trovo le guardie sotto al naso. Che guardando il pacco di Natale mi dicono che dovevano fare un controllo. Io li lascio fare. Fornisco loro i documenti. Non mi scompongo manco se fossero venuti giù i fulmini e continuo a fumare. Loro controllano. Fanno. Brigano. Farfugliano qualcosa. E poi mi lasciano andare. Ora. Ben venga. Probabilmente una tipa come me che mi pare chiaro abbia i lineamenti da terrorista con un pacco agghindato a Natale immagino possa destare sospetto. Ma mi chiedo dove sono le guardie quando i ragazzini si menano. L’altro giorno idem. Ero al bar a leggere i giornali quando mi si parano davanti i carabinieri perché volevano che esibissi il Green Pass. Ho risposto loro che rispetto il loro lavoro. Ma che la sera ci sarebbero da controllare i ragazzini che fino alle due di notte fanno la corsa con le macchine.
Nei video che girano sulle chat di Milano Bella da Dio eccetera eccetera durante le risse non si vede un uomo in divisa che sia uno. La Lamorgese farebbe bene a impiegare le forze dell’ordine dove servono anziché demansionarle e umiliarle a controllare il moto ondulatorio o i Green pass alla gente per bene.
Il controllo del lasciapassare da parte delle forze dell’ordine non è altro che una perdita di tempo, denaro, risorse, per uno Stato preso con le pezze al culo, che non ha manco la benzina per le volanti della polizia, solo per farvi vedere che lo Stato c’è. Ma di fatto non aggiunge sicurezza agli italiani. Anzi li rende ancora più nervosi e insofferenti dinanzi alle istituzioni, dato che oltre l’80 per cento della gente ha scelto sapientemente di vaccinarsi.
Ora mi chiedo. Come mai da mesi assistiamo a intere scorribande di idioti patentati che tengono sotto scacco le città, violentano le ragazzine, organizzano rapine, fanno razzie, pisciano sulle vetrine, ne compiono di tutti i colori, e non si riesce a prenderli?
A Treviso fanno così da mesi. Impossibile che non si sappia. Lo sa anche il nonno del mio vicino che non ha Facebook. Si organizzano nelle varie chat e si danno appuntamento nelle piazze. Una domenica tocca a Treviso. Quella dopo a Padova. Quella dopo ancora a Mestre. E poi da lì quelli di Treviso vengono a menare quelli di Padova. E quelli di Padova vengono a menare quelli di Treviso. E quelli di Treviso quelli di Venezia. E quelli di Venezia quelli di Treviso. Alla fine si menano tutti. E picchiano duro.
Mentre le nostre forze dell’ordine controllano i certificati di vaccinazione.
Lamorgese complimenti.
Nemmeno un campo di pannocchie.
Una cittadina stufa.

#sbetti

Non capisco allora perché i no vax hanno diritto a morire

Piergiorgio Welby

Da ex studentessa di Legge e laureata tale, davvero non capisco come si possa vietare a qualcuno di morire perché tribola le pene dell’inferno da un letto e invece si consente a una persona di rifiutare le cure salvavita che le consentirebbero di rimanere sulla faccia della terra. L’abbiamo visto con i no vax.
Quando studiavo Giurisprudenza, in più occasioni ho avuto modo di approfondire il tema dei diritti umani e del fine vita.
Feci alcune ricerche, durate anni, sul caso di Eluana Englaro e sul rifiuto delle trasfusioni di sangue da parte dei testimoni di Geova. Come anche il rifiuto della nutrizione nei soggetti anoressici.
Quando mi sono occupata di quel caso della donna in stato vegetativo a Mestre da 12 anni, ora morta, e sono andata a trovarla, mi sono chiesta se veramente fosse giusto lasciare viva questa persona come un vegetale. Me lo sono chiesta.
Non mi sono data una risposta.
Ora la Corte costituzionale ha ritenuto inammissibile il quesito referendario perché – sostiene – se si abrogasse la norma dell’omicidio del consenziente – seppure parzialmente – “non sarebbe preservata la tutela minima costituzionalmente necessaria della vita umana, in generale, e con particolare riferimento alle persone deboli e vulnerabili”.
Per carità. Non dico nulla in merito. Ma ancora una volta si preferisce non decidere e lasciare la disposizione del bene primario ossia la vita, alla mercè di giudici e pubblici ministeri che filosofeggiano e sermoneggiano sulle vite degli altri. Anche i preti.
Quando mi sono occupata per la prima volta di quel paziente a Trento che aveva rifiutato di essere intubato dopo aver contratto il covid, sono rimasta ore a parlare una sera con il primario dell’ospedale, esprimendo il più totale disappunto.
Ossia non si capisce come una persona per la quale non c’è più niente da fare non possa decidere di andarsene, e invece si è permesso che persone, che avrebbero potuto salvarsi con una cura salvavita, morissero per un capriccio. Facendo perdere un sacco di tempo ai medici che ogni volta impiegavano giorni e ore per convincerli.
Se la vita è un bene indisponibile, allora lo è sempre.
Ma come ogni volta in Italia a seconda delle leggi in cui incappi sei disgraziato o meno.

#sbetti

La deriva del politicamente corretto. La Pravda

Non ho molta fiducia nel genere umano. Sarà perché a certa gente fai prima a metterglielo in testa che nel sedere, ma credo che il genere umano sia di fondo imbecille.
Me compresa.
Ultimamente noto però che il grado di imbecillaggine sta aumentando. Non so se sia il covid che ci ha reso imbecilli tutti. O se sia la mia persona che non riesce più a tollerare certi esseri eunuchi servili e ignoranti. Pure sciocchi e presuntuosi.
Noto che ultimamente va di moda l’adesione al politicamente corretto. Il politically correct. Dove gente che non sa manco scrivere un telegramma si diletta in pensieri filosofici di alta tensione.
Il servilismo ci ha ingrigito tutti.
La gente non ragiona più con la sua testa. Ma ogni qual volta deve esprimere un pensiero e si batte il petto in chiesa per la libera manifestazione di esso, si chiede se sia opportuno o meno.
Questo per aderire ai canoni che ci vorrebbero tutti quanti omologati appiattiti esseri piatti e molli. Qualcuno ci sta già riuscendo nell’impresa. Non essendo manco in grado di partorire un’idea che sia sua o di scrivere in un italiano corretto. E mi rendo conto che in taluni ambienti dominati da pensatori rossi il pensiero viene talmente manipolato al punto tale da farti credere che sia davvero tuo.
La cancellazione della cultura. Il catastrofismo culturale. Lo strozzamento delle idee. Il perbenismo dilagante.
La solo cultura ammessa è quella del politicamente corretto, che predica libertà pace amore e gioia e arcobaleno, che scrive tutt anziché tutti, che accetta i Babbo Natale gay, ma che aderisce ai canoni tali per cui ogni qual volta esprimi un pensiero diverso, ti sfotte.
La Pravda.

#sbetti

Non capisco lo scandalo dell’appello di chi prega “per le figlie vestite da troie”

Da cittadina e da donna non capisco lo scandalo per la frase del professore che prega “per chi manda le alunne a scuola vestite da troie”. Non vedo lo shock ecco.
Un modo sicuramente irrispettoso, ma che a modo suo vuole fotografare la situazione.
Io ricordo ancora quando mio nonno mi diceva: “Ndo vai a Ponte Nina?”.
Ponte Nina per i marchigiani è la via dove ci stanno le mignotte.
Sinceramente non l’ho mai vista come un’offesa. Anzi era un modo buffo e onesto per dirmi: “Stai attenta perché in giro ci sono uomini che prima di ragionare col cervello, ragionano col pisello”. Non sono mai rimasta scioccata da tali parole. Anzi. Mi hanno svegliata.
Del resto. È molto vero. Se ti vesti troppo scoperta e usi le calze come pantaloni e i top sotto il seno come magliette, passi per mignotta. Inutile fare gli ipocriti. È così.
Non è roba da vecchi. Censura. O essere bigotti. È che per andare a scuola ci si veste in un modo appropriato. Si chiama rispetto. Questa parola così sconosciuta. È rispetto per una istituzione ormai ridotta a un colabrodo, dove si fa passare di tutto. La scuola in Italia è diventata uno scolapasta dove gli insegnanti sono talmente tanto resi goffi da presidi troppo accondiscendenti che esasperati ricorrono a similitudini stucchevoli. La scuola negli ultimi anni l’hanno scoperchiata. Soverchiata. Stuprata. L’hanno resa una Troia. La scuola. Quella con la S maiuscola. Quella senza Q.
Ci hanno infilato dentro i dogmi del politicamente corretto, questa più grande arma di distruzione di massa e ne hanno allargato le maglie come si allarga una maglia raggrinzita di ciniglia, e l’hanno slabbrata. Ma la scuola fino a prova contraria rimane un luogo dell’educazione. E della formazione. Ai miei tempi (ma nemmeno accadeva, perché il telefono si lasciava spento) l’alunna che durante l’orario scolastico – non me ne frega nulla se ci fosse il prof in classe o meno, era comunque orario di scuola – si fosse azzardata a girare un video con la pancia all’aria per postarlo su TikTok sarebbe stata sbattuta dalla vicepreside. E poi con ancora i denti da bimba sarebbe finita dalla preside. Avrebbero chiamato i genitori. E sarebbe stata sospesa. Invece adesso basta dire un semplice “No” ai ragazzi per vedersi arrivare a scuola i carabinieri. Il sindaco. L’esercito.
Genitori sempre più permissivi che riprendono gli insegnanti per i troppi compiti per casa. Quando andavo a scuola io, i compiti erano il quintuplo e si risolvevano in una maniera molto efficace: ci si muoveva. Punto. Non si perdeva tempo. La mia scuola stava a trenta chilometri di distanza. Facevo danza. Sono cresciuta a suon di un libro da leggere a settimana, una tavola di tecnica ogni sabato, un elaborato di artistica ogni domenica, versioni di latino ogni tre giorni e 50 esercizi di matematica tutti in una botta. Eppure io e i miei compagni siamo cresciuti sani (alcuni).
Mai andata a scuola con i compiti da fare. A costo di non dormire la notte.
Poveri questi ragazzi che non conoscono la bellezza che recano la fatica e il sudore. Se al posto della ragazzina ci fosse stata la professoressa con la mona al vento, gonna inguinale e pancia di fuori, tutti i genitori che fanno comarò sul cancello, l’avrebbero epitetata sicuramente come una persona che sta sulla Salaria e che mette in vista la propria mercanzia. Era accaduto anche quando andavo alle medie. Una professoressa era stata ripresa dalla preside, perché avezza a indossare la gonna troppo corta e le calze a rete. Concetti semplici. Lineari. Chiari. Così come se entri in Vaticano non ci puoi andare con i calzoni inguinali. Ora l’accusa per questo psicodramma nazionale, che pare aver tolto i riflettori perfino sull’Ucraina, è sessismo. Che non si capisce bene che roba sia. La gente vede sessismo ovunque, anche nei semafori che cambiano colore dove ci sta l’omino anziché la femminuccia. Ma questa è la deriva del politicamente corretto. La smania di concedere tutto. L’Italia che allatta i figli fino alla menopausa. Gli studenti che danno del tu ai professori. Ai miei tempi ci si alzava in piedi perfino quando entrava il professore e tanto basta. Perché in questo mondo di codardi, disarmati, imbroglioni, pagliacci, il messaggio che ora è passato, ad asciugare le lacrime di una ragazzina con la maglietta troppo corta, è che la prof ha sbagliato. Tanto che a essere finita nel circo della gogna progressista e a essere sottoposta a procedimento è stata lei.
Cioè il problema nei nostri cervelli cerebralmente stuprati da tutt e asterischi, non è l’alunna mezza nuda che gira un video a scuola per metterlo sui social; no, è la prof che allude alla Salaria.
Con il beneplacito del popolo fucsia. Chapeau.
Una cittadina, ex studentessa, fiera di essere politicamente scorretta.

#sbetti

In Italia la cultura è roba da cesso

Questa sera ho conosciuto una coppia di giovani. Lei aspetta un bambino. Appena li ho visti ho subito capito che nelle loro vite stava avvenendo qualcosa di importante. Lui aveva gli occhi che gli brillavano. Ma di un bagliore immenso. Dentro c’avea la vita che gli scorreva. Fuori c’avea il mondo che a morsi si prendeva.
Lei bellissima. Due occhi che sembravano due fari. Se la guardavi bene aveva la pancia. Che portava con garbo e delicatezza.
Queste due persone fanno i ricercatori universitari. Ma per campare si dovranno trasferire all’estero. E stanno mettendo al mondo un figlio.
Lei mi ha spiegato che in Italia è impossibile campare di ricerca. Che in Italia è impossibile campare di didattica. Che in Italia è impossibile campare di cultura.
Mi ha detto che un laureato in Italia che si addentra nel mondo della carriera universitaria, prende una miserabile borsa di studio con la quale è impossibile pagarci perfino l’affitto. Mi ha detto che un ricercatore appena laureato a Londra prende perfino di più di uno che in Italia sta a un livello più avanzato.
Eccerto.
Qui il lavoro intellettuale non viene considerato. La ricerca nemmeno. Qui il lavoro intellettuale è roba da cesso.
Lo vedo anche nel campo della comunicazione. Politici che predicano natalità figli e famiglia e poi ti chiedono di lavorare per duecento euro al mese. Vanno in piazza a prostituirsi con i giovani, a fare promesse e poi quando è ora di pagare i poveri cristi che seguono le agende, le comunicazioni, i tweet e i post, danno compensi talmente irrisori che non ci paghi nemmeno gli assorbenti.
La gente non arriva a comprendere che dietro un lavoro di testa ci sono anni di studio, di esperienza, di preparazione, di relazioni, di contatti. Gente che ti chiede se in cambio di una presentazione gli puoi regalare dieci libri. Regalare? Dieci libri?
A questa coppia di giovani ho detto che li comprendo. Che li capisco. E che li ammiro perché hanno coraggio nel mettere al mondo un figlio. E che sinceramente fanno bene ad andarsene all’estero.
Qui in Italia se fai un lavoro accademico o di ricerca sei praticamente morto. La gente non ti considera. Pensa che tu sia l’eterno sfigato che vuole fare il professore solo per sentirsi chiamare ordinario. Quelli che ti pagano duecento euro al mese sono quelli che mandano le mogli dall’estetista a fare trattamenti rassoda glutei di 500 euro a seduta a cui non chiedono sconti. O sono quelle che non ti pagano e spendono 400 euro dal parrucchiere.
Qui non ha senso studiare. Vengono lautamente retribuite le estetiste. Le parrucchiere. Le massaggia culi e tette.
Se fai il ricercatore invece sei un poveraccio che tira a campare. Poi venitemi a dire perché gli italiani non fanno figli. Vi prego venite. Venitemelo a dire.
Pagliacci.

#sbetti

“Stai sulla Salaria?” Se non è più ammesso chiedere di coprirsi. In giro è un porcaio

Ho letto che una professoressa di Roma è stata linciata perché avrebbe chiesto a una sua alunna se stava sulla Salaria.
La Salaria per chi frequenta Roma – ma non ci vuole un genio per capirlo – è la via delle mignotte e di quelli che a mignotte ci vanno.
Ossia di quelle che la danno via come il pane, a volte non perché lo vogliano.
Ora sinceramente, da donna, non vedo cosa abbia detto di male la professoressa. Dato che nella società attuale si sono persi tanti filtri e pudori e quindi mi meraviglio di quei giovani recalcitranti incapaci di accettare un commento di fuori, a meno che non rientri nei loro ranghi.
Siccome però ci è ancora consentito commentare, io commento che in giro è un porcaio.
Quando andavo al liceo a Treviso, se qualcuna indossava la minigonna troppo corta, qualche professore se ne usciva con la battuta: “Non siamo mica sul Terraglio”. Il Terraglio come la Salaria è la via di quelle che la danno via come il pane, a volte non perché lo vogliano, solo che sul Terraglio le “battone” ci stanno anche di giorno. Del resto le mignotte esistono perché qualcuno ci va. Ma tornando al discorso della prof, me la immagino la classica prof di Roma, stile bagni Ostia Lido, che con accento romanesco e quasi cagnesco, con quell’accento che allunga le O e ti spalma le A, ti dice: “Aho!!! Che stai su la Salaria?”.
Ai miei tempi nessuno mai si sarebbe sognato di chiamare la CIA, l’esercito, i caschi blu, i radical chic, le forze dell’ordine, i giornalisti, per un commento del genere.
Anche una volta all’Università, al mio primo esame, Facoltà di Giurisprudenza, Padova – una di quelle che se non hai le palle te le fa venire – alla tipa che stava prima di me il professore le chiese gentilmente se poteva togliersi il piercing dal naso perché non era consono a una seduta d’esame. Nessuno chiamò i giornalisti, l’Ansa, Sky Tg 24, i parlamentari, i senatori, il rettore, il cane e il gatto. Semplicemente la tipa tornò al posto, si tolse il piercing e andò a sostenere l’esame. Poi siccome non ricordava na mazza. La bocciarono. Ma non avrebbe ricordato nemmeno se avesse avuto il pendolo al naso. (Io ho il piercing premetto).
Ora non capisco perché tanto clamore. Sono andata a guardarmi la pagina Instagram della scuola di questi ragazzi e ho capito che sarà l’ennesima protesta usata per non fare scuola e perdere tempo. I collettivi. Le assemblee. “Domani venite prima ci organizziamo per decidere cosa fare in merito ai gravosi fatti successi oggi”. “Vestitevi contro il dress code e portate cartelloni sul tema”. “Oggi alle 21.30 riunione su zoom per capire come muoverci”. “Non resteremo in silenzio”. “Atti del genere sono inaccettabili. Chiediamo un intervento immediato della scuola”.
Cose così destrutturate senza senso, con ancora i denti da latte, fatte per perdere tempo. Dove sembra sia successo chissà quale avvenimento e invece non è successo un fico secco. Una volta si rideva per un commento del genere. Si passava via.
Del resto ci vuole l’abito. Se vai a fare un esame o un’udienza o se vai in televisione non ci puoi andare con i calzoni corti, i bermuda, le infradito, vestito da “Ciao Bello, tu sei mio fratello”.
Siamo arrivati al punto in cui una professoressa non può chiedere a una ragazza di coprirsi, e un professore viene bersagliato perché si rifiuta di fare lezione ai maschi in gonna.
Vi rendete conto vero di che razza di dementi siamo diventati?

#sbetti

L’alternativa è il burqa ?

Emma – Sanremo 2022

Io però non ho capito dove sia il problema.
Ricordo ancora quell’ amministratore insulso che con i suoi secondi fini, mi disse che da una mia foto notava le mie gambe un po’ ingrassate, da paffutella. Cosa che non è nemmeno vera.
Dato che quando mi scattarono la foto le mie gambe poggiavano su una ciambella da piscina e anche uno stupido avrebbe capito che se appoggi la coscia questa si spiaccica.
Ma sinceramente non mi sognai di dire che mi sentivo vittima di body shaming eccetera eccetera.
Mi limitai a deriderlo come lui aveva deriso me.
Sempre per la storia che se mi arriva una sberla io ti mollo un calcio in mezzo alle palle.
Insomma è accaduto che il giornalista Davide Maggio abbia pubblicato un video riferendosi a Emma dicendo: “Se hai una gamba importante eviti di mettere la calza a rete”. Non mi pare che in una frase del genere ci siano offese. Vessazioni. Insulti. Vilipendi.
Mi pare un parere di uno che oltre alla canzone commenta il costume.
Perché Sanremo è anche questo. È arte. Musica. Scena. Costumi.
Così Emma ha risposto: “Buongiorno a tutti dal Medioevo, il body shaming con linguaggio politically correct non so se è più imbarazzante o noioso, ma non commentiamo questo. Mi rivolgo soprattutto alle ragazze, a quelle giovanissime. Evitate di ascoltare e leggere commenti del genere. Il vostro corpo è perfetto così com’è, dovete amarlo e rispettarlo e soprattutto dovete vestirvi come vi pare, sia che abbiate le gambe importanti o meno. Anzi, con le calze a rete abbinate anche una bella minigonna e mostratele queste gambe importanti”.
Ora. A prescindere dal fatto che sinceramente non vedo la gamba di Emma così importante, cioè secondo me sta benissimo, ma i termini usati mi sembrano un tantino esagerati.
Anche perché le donne non sono esseri menomati che hanno bisogno delle parole di Emma per indossare una minigonna. Avete mai sentito dire un uomo: “Uomini indossate i pantaloni attillati così vi si vede il pacco bello delineato?”
Se qualcuno sentisse na roba del genere lo scambierebbero per matto.
E soprattutto non fa bene alle donne che tanto vogliono la parità ma non hanno capito che uno siamo diversi perché uno ha il pacco, l’altra la patata; due per avere la parità bisogna andare oltre.
Anche ad Achille Lauro hanno commentato la pancia e nessuno si è sognato di chiamare in causa il bodyshaming. Non vedo perché se accade con una donna sì.
Non è che siamo dei panda, dentro un’area protetta e dobbiamo sempre fare la parte delle vittime e il body shaming e il Me Too, eccetera eccetera. Rischiando anche il paradosso che chi ha difeso Emma qualche ora dopo abbia attaccato Belen che si è presentata a Le Iene dicono cambiata. Dicono. (Ma anche lei da Dio, stava benissimo).
Ma è così fortunatamente, i corpi delle donne e degli uomini sono fatti per essere guardati e pure commentati. Non ci vedo niente di male in questo. Perché l’alternativa è metterci un gran burqa ma non mi pare sta gran roba.

#sbetti