Viaggio su Roma – first part-

Ok. Comincia qui il mio racconto su Roma. Un breve diario di viaggio di quello che è questa fantastica città.
A Roma ci sono cose che non puoi fare a meno di vedere, e cose che non puoi fare a meno di sentire.
Sirene, clacson, antifurti, allarmi, pompieri, ambulanze e suoni di polizia riempiono le giornate romane e le notti da diventare un normale sottofondo. Quasi ti preoccupi se non ci sono. Ogni giorno è scandito da un qualche ululato di antifurti tale da tenerti compagnia. E’ la Roma che vive avvolta da luci, suoni e colori. I Romani hanno saputo talmente tanto valorizzare questa bellissima città che ogni paese dovrebbe prendere esempio da qui. Poi diciamocelo qua, Roma è bella di per sé,anche se non ci fossero le luci e i lampioni. Fontana di Trevi per esempio, un imponente scultura ricavata e scolpita nella parete di un enorme palazzo.
Ci sono finita davanti davanti una sera, quando era in ristrutturazione e anche se spenta, mantiene la sua autorevolezza, il suo fascino.
Poi c’è la Roma con la gente che urla, quella dei romani che se ti scontrano ti chiedono scusa, quella dei romani strafottenti che se ne sbattono, quella che riempie le orecchie del suono Sce, scia, accio; un suono e una cadenza che risuonano presuntuosi nelle teste di visitatori e turisti come fosse l’unica lingua parlata. L’unica lingua al mondo.
Gli altri suoni e accenti dialettali di fronte a quello romano perdono di importanza. Sabato sera finché aspettavo l’autobus, oltre al freddo che mi stava facendo lentamente morire, c’era un gruppo di palermitani attorno a noi alla fermata. Anche loro ad aspettare un bus che non arrivava mai; era una scolaresca ma mancava un pezzo. Si erano persi un ragazzo a Piazza Navona. Il loro dialetto palermitano che ti entra nelle vene con quella erre pronunciata e con quella cadenza appuntita da incutere timore, quel dialetto che su a Venezia risuona come forestiero, a Roma perde di importanza perché l’unica cantilena che esiste è quella romana.
I romani hanno sempre avuto questa presunzione che Roma sia un po’ il centro del mondo. E hanno ragione.
Lo testimoniano anche quelle auto della polizia locale che sfrecciano per le vie con scritto Roma Capitale. Ogni azione, ogni guardia, ogni operazione ha la sua etichetta: Roma Capitale. Del resto come dar loro torto? Roma è talmente bella che mozza il fiato. I Romani attorno a questo ci hanno costruito un impero, a Venezia i turisti li ringraziamo perché vengono a visitare la città, anzi li rispettiamo fin troppo quando d’estate, mentre tu sei preso da mille scadenze e pratiche tra uffici lagunari, questi sostano beati e pacifici sopra i ponti per godersi lo spettacolo, causando un enorme traffico. Già il traffico, quello romano è micidiale, la gente passa a destra e a sinistra con la facilità con cui l’acqua scivola nel collo della bottiglia. Non si fermano, le auto sono tutte sbattute e hanno parcheggi alquanto artistici.
Detto questo, noi a Venezia siamo onorati della presenza dei turisti; a Roma invece sei tu, che devi ringraziare i romani perché ti hanno aperto le porte della loro magnifica città.

Sbett
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La mia esperienza con i bimbi. Raccontare loro com’è scrivere per un giornale.

Ok cominciamo. Tutti seduti a ferro di cavallo. Pronti? Mezza? Via!
E così per una volta le domande non le ho fatte io ma le hanno fatte loro.
Tutti in semicerchio e tu in centro, sotto esame.
Dalla domanda più banale alla più difficile, tutti a cercare di capire com’è questo lavoro e come si comincia a scrivere per un giornale.
Mettersi a nudo dinanzi ai bambini è stata un’ esperienza bellissima; dopo un po’, se ti lasci trasportare dal loro entusiasmo, ti ritrovi in un mondo stupendo dove quello che ti viene chiesto è puro, senza mezzi termini, senza secondi fini.
Dal “perché fai la giornalista?”, a “perché ti piace?”, da “qual è l’articolo più bello che hai scritto o la storia più difficile che hai raccontato” a “quante ore dormi a notte, dove mangi, dove scrivi, quanto tempo impieghi a scrivere?” fino a “perché hai scelto di fare questo mestiere?”.
Tutte domande alle quali rispondi con la naturalezza e l’ingenuità di un bimbo. In un mondo lavorativo dove in tutto ciò che dici devi dosare le giuste parole; in un mondo dove se ti viene chiesto o detto qualcosa, devi innanzi tutto chiederti perché ti viene chiesta quella cosa; respirare un’ora di pura e sana libertà, in mezzo ai bambini di una curiosa classe V, è stato un toccasana. Parlare di quello che fai, di quello che sei, con degli occhi immensi che ti guardano incuriositi ha avuto i suoi risvolti positivi. Sapere che hai trasmesso la voglia a qualcuno di intraprendere questo mestiere, ti fa capire che vale la pena crederci.
Mi hanno chiesto: “Perché l’ho scelto?”
In realtà credo sia lui che abbia scelto me. Anche se, tuttavia, io, ora, lo scelgo ogni giorno.
Ai bimbi che, oggi alla domanda “a chi da grande vuole fare il giornalista?”, hanno alzato la mano, dico, dal basso bassissimo della mia esperienza, se volete farlo, credeteci sempre, fino in fondo, mettendo sempre voi stessi in qualunque riga scriviate, in qualunque punto mettiate.
Abbiate sempre il coraggio di chiedere, di fare, di proporre e di scrivere la verità.
Fare il giornalista è un po’ come preparare un dolce, hai tantissimi ingredienti, devi scegliere quelli giusti, senza dimenticare i più importanti; magari aggiungendo quello che da un tocco in più alla tua torta, che la rende bella. A volte la torta è già fatta e per poter capire qualcosa devi spezzarla, tagliarla, ridurla in tanti pezzettini per capire di che pasta è fatta.
Però, anche quando la matassa vi sembra insormontabile, vi sembra difficile da tagliuzzare, non arrendetevi.
Mai.
Provate tutte le strade possibili immaginabili, non perdete mai di vista il vostro obiettivo, quello che dovete cercare e anche quando il filo che state seguendo si ingroviglia: sedetevi, respirate, chiudete gli occhi e sgrovigliatelo; fino a farlo diventare limpido, lucente e chiaro come la verità.
Solo così diventerà, ogni giorno, la storia più bella che abbiate mai scritto.

Una buona fortuna e che il vento vi sia sempre favorevole.

Serenella

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La 36esima edizione di Noale in Fiore si colora dei toni della primula rosa.

Conto alla rovescia per la 36° edizione di Noale in Fiore, la mostra mercato regionale di fiori, piante e attrezzature da giardino. Già oltre 100 gli espositori e il numero è destinato ad aumentare. Una manifestazione solo per i pollici verdi? No. Una fiera che coinvolge tutti e che conta ogni anno quasi 60mila presenze. Mongolfiere, giostre, gelati, dolciumi e tanti, tantissimi fiori. Questi giorni la Pro Loco sta lavorando con i motori a più non posso e a vele spiegate per portare una mongolfiera di una delle flotte più importanti d’ Italia che permetterà, dal prato di via Vecellio, di poter vedere la città dall’alto, a circa 30/40 metri. Poi ancora, un’antica giostra in piazzetta Dal Maistro con una zona divertimento per i bimbi e, grazie alla collaborazione con le contrade, una mostra medievale nella torre delle Campane. Inoltre “con l’aiuto dei gruppi musici – dice il presidente della Pro Loco, Enrico Scotton, organizzatore dell’evento – segneremo alcuni momenti della giornata attraverso lo squillo delle chiarine dai merli della torre”. Un vero e proprio balzo nel passato per la Città dei Tempesta che si prepara a vivere anche un’altra delle sue più grandi manifestazioni. Noale in Fiore, infatti, servirà da lancio per il famoso Palio del 20 e 21 giugno prossimi. “Stiamo inoltre lavorando – continua sempre Scotton – a un allestimento particolare di Piazza Castello, con dei giardini creati da alcune aziende, sotto le querce che il Comune sta sistemando. Inoltre,lavoriamo ad una sorpresa che per il momento rimane top secret”. Ma un’altra novità quest’anno è la locandina dell’evento, opera della Pro Loco e di Officina 1.4 – studio fotografico noalese – con l’immagine di Vittoria, una bimba di dieci anni, di Noale, che siede sopra le lancette di un orologio e tiene in mano una primula rosa. “Dopo tanti anni – dice Enrico Scotton, presidente della Pro Loco – abbiamo cambiato per dare un’ immagine di una comunicazione nuova e più moderna. Un’immagine che riassume il nostro pensiero, cioè una città a misura di famiglia. Vogliamo fare gioco di squadra – spiega Scotton – perché unendo le forze si possono fare tante cose. Divisi si va solo verso il declino”. Le riprese del set fotografico sono state fatte mercoledì 11 marzo in piazza Castello, proprio sotto la torre dell’Orologio. Al via le lancette quindi. Il conto alla rovescia è già partito.
Serenella Bettin
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La testimonianza di Padre Beppe Pierantoni, in mano ai guerriglieri islamici per 172 giorni

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“Era un mondo talmente bello che era impossibile credere alla morte; ma io in quel mondo non potevo nemmeno tenere carta e penna perché i guerriglieri islamici lo consideravano pericoloso”.

É la dura testimonianza di Padre Beppe Pierantoni, 58 anni, dehoniano, rapito il 17 ottobre del 2001 da un gruppo fondamentalista islamico nelle Filippine e rilasciato dopo sei mesi di prigionia. “Ho vissuto da povero nel loro mondo – racconta Pierantoni il 9 marzo in una sala gremita di persone, a Noale – sono stato rapito una sera finché stavo cucinando, qualcuno mi ha preso da dietro e mi ha costretto a guardare il soffitto. Credevo fosse uno scherzo, poi mi hanno messo le manette e mi hanno ordinato di seguirli. All’inizio non capivo, poi mi sono ritrovato nel loro mondo. Di giorno vivevamo sugli alberi, le mangrovie, mangiavamo poco e cucinavamo poco per non fare fumo. Di notte ci si muoveva. Per gli spostamenti mi mettevano la divisa militare, mi coprivano di passamontagna e mi costringevano con i fucili ad andare avanti. Mi chiedevano anche di imbracciare le armi, ma io non le ho mai impugnate. Un giorno uno dei miei rapitori mi ha chiesto se a noi preti era proibito toccare un’arma; ho apprezzato perché era segno che lui aveva notato. Sono persone che hanno i nostri sogni – racconta – ricordo che insegnavo loro l’inglese e un giorno un rapitore mi chiese di scrivere una lettera d’amore che doveva far avere a una ragazza. Lì capii che essi cercano quello che cerchiamo noi. Ma sono popolazioni che vivono nel dolore e io credo che il mondo occidentale abbia le sue responsabilità”.

Pierantoni spiega di come per lui il rapimento sia stato un cammino spirituale e una ricerca di un dialogo con sé stesso e con l’altro; un dialogo non sempre facile da trovare. “Si crea un muro – dice – perché quando vieni violato ti senti in dovere di respingere il male e di rivendicare il tuo diritto di libertà perché credi di essere nel giusto”. Come lo credevano i rapitori.

“Credo- continua Pierantoni – che un dialogo, non è che si possa trovare, si deve trovare”. Ma il problema principale sembra essere la fabbricazione di armi. “Quelle armi – spiega l’ecclesiastico – vendute dai soldati filippini ai miei rapitori, erano tutte di fabbricazione americana o filippina su licenza americana. Quando chiedevo cosa volessero da me, mi rispondevano che volevano scambiarmi con del denaro per la loro causa e noi fino a che consentiremo ad alcune nazioni potenti di distribuire armi che permettono a piccoli gruppi di fare grandi caos non ci sarà mai pace”. Padre Beppe Pierantoni, verrà poi rilasciato l’ 8 aprile del 2002 in seguito a un negoziato concluso dal governo filippino.

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