Quando a un popolo tolgono la libertà la colpa non è del tiranno

Questa sera ero a rete veneta a parlare di covid. Sono rientrata da Roma e sono andata in studio. Allora mentre andavo a Rete Veneta pensavo a una cosa. Questa non è la guerra. Ma ci va vicino. Non lo so. Il clima rapportato al secolo che stiamo vivendo è lo stesso. Snaturati di tutto. Ridotti alla mera sopravvivenza. L’era dei tempi andati sembra essere di un altro pianeta. Un altro tempo.
Ci svegliamo la mattina. Uno lavora. Va a lavorare. Fa colazione. Fa il suo dovere. Pranza. Torna al lavoro. Poi. Poi va a casa.
La gente non ha nemmeno più voglia di comprarsi da vestire. I soli momenti di svago sono i social. Quelli che prima consideravamo essenziali. Ora sono diventati l’ultima spiaggia per non rimanere tagliati fuori.
Allora per chi vive da solo ok. E anche qui ci sarebbe da dire. Per chi sta bene in casa e ha una bella famiglia pure. Ma per chi in casa ci sta male oppure non sta male, ma ha bisogno semplicemente di trovare uno svago, di fare attività fisica cosa fa. Per chi ha bisogno perché veramente ha bisogno di muoversi. Di rigenerarsi. Di fare terapie cosa fa.
Questo virus ci ha tolto pure quello. Non c’è ricreazione. Ricreatività. Condivisione. Socialità.
C’era gente che la sera usciva a bersi l’aperitivo. Si ritrovava con gli amici. Le amiche. Un caffè. Ma tanto chi più c’ha voglia. C’era gente che andava in palestra. In piscina. A danza. A fare ginnastica. Gente che dal movimento del corpo trae la giusta cura per il movimento dell’anima. Traghettatore delle nostre emozioni. C’era gente che andava al cinema. A teatro. A scuola di flauto. Al corso di yoga. Meditazione. Reiki. Arti marziali. C’era gente che aveva intrapreso corsi di pittura, cucina, lettura. Perché questa vita che fa un male del cazzo devi pur bertele le cose se vuoi vivere. Prenderti del tempo per assaporarle.
Allora questa sera un esponente del Pd, Enrico Doc Scacco, in studio ha detto che il provvedimento del governo va accettato senza se e senza ma. Che dobbiamo subire zitti in silenzio. Cioè nel senso ok le proteste purché pacifiche ma poi dobbiamo stare zitti. E accettare.
Allora mi sono un po’ incazzata. Mica per gli aperitivi. Quelli possiamo pure fare a meno di farli. Peccato che dietro a un aperitivo ci lavorano persone. Ragazzi. Giovani. Nemmeno per il nuoto. Ma perché a me non va tanto bene questa storia dell’accettazione passiva. Non mi va. Non siamo esseri incapaci di intendere e volere, poppanti, che non sappiamo quando va usata la mascherina o che abbiamo bisogno di un decreto per farci dire se possiamo o non possiamo andare a teatro. Manca un piano. Un progetto ben fatto. Un criterio. Mancano quelle soluzioni per le quali il ministro Roberto Speranza ci aveva tanto rassicurato. Se mi limiti le attività produttive, i ristoranti, i locali, le palestre, i cinema, le piscine e i teatri voglio sapere perché. Con che criterio. Non bastano più i morti al giorno. I positivi. I dati. Se leggete quel dato in senso contrario scoprirete che i negativi sono molti di più. Se mi chiudi le attività alle sei di sera voglio qualcosa che mi dimostri che la gente si contagia dalle sei di sera in poi. Le cose vanno fatte con criterio. Con cognizione di causa. Se aumentano i contagi nelle case di riposo dubito che quelli in casa di riposo la sera vadano al ristorante. La gente non prende l’autobus per andare a teatro. Su quello dovevate intervenire.
Abbiamo avuto un governo che nella gestione di questa epidemia ha fatto schifo. Ha tappezzato l’Italia di controlli e non di tamponi. Ha controllato gli italiani tutti e ha liberato i delinquenti. Non potevamo andare a fare 280 passi perché non erano 264 e avevamo gli spacciatori che spacciavano anche durante il lockdown. Vedi a Padova. I pusher non vanno in quarantena titolava Striscia. Allora questa sera mi sono un po’ incazzata durante la trasmissione. Perché quando un popolo perde la libertà non è perché il tiranno gliela toglie. Ma perché il popolo SERVO! si affida al tiranno credendo che lo proteggerà da un male maggiore. E come diceva Kant, l’essere umano è l’unico animale che ha bisogno di un padrone per vivere.

#sbetti

#conlavaligiaaipiedidelletto

Questo è il tempo di tutti

Oggi sono stata al mare. Con le dovute precauzioni.
Non ho capito chi vogliono, vorranno, ancora chiudere questi. L’uomo non credo sia più gestibile. Dato che una coda di mezz’ora a ottobre per andare e tornare dal mare non l’avevo mai fatta. A Jesolo oggi c’era il mondo.
Faceva pure caldo.
Oggi non era un giorno qualunque. È il giorno in cui tutti gli italiani hanno in testa il nuovo Dpcm. Quello che entra in vigore domani. Quello che fa ripiombare l’Italia nel baratro e nello sconforto. La disperazione di titolari di ristoranti, bar, palestre; la disperazione di chi vede i cinema e i teatri chiusi. Hanno chiuso pure questi. Ci fossero mai andati a teatro questi che ci comandano. Ci fossero mai andati.
Alla radio in auto “Non è tempo per noi e forse non lo sarà mai”, canta Ligabue. Faccio zapping e qualcuno improvvisa già i buoni propositi per il nuovo anno. In strada le auto corrono come fosse la vigilia di Natale. Una corsa. Come a voler acchiappare quest’ultimo sole, quest’ultima cena fuori, quest’ultimo aperitivo. E perché no quest’ultima festa in spiaggia. I colori delle foglie degli alberi sono diventate arancioni, gialle, rosse. Incredibile andare al mare a ottobre e trovare mezz’ora di coda per arrivare.
Appena arrivo alle porte di Jesolo, auto ferme, incolonnate, moto che sfrecciano via verso il mare, camper, alcuni hanno pure issate sul tettuccio le biciclette.
Arrivo in centro e sembra festa. Gente in piazza. C’è una mostra di auto. Ragazzi che prendono la via della spiaggia, intere famiglie con cani al guinzaglio, bambini, padri, madri, nonni. Tutti sul bagnasciuga per godere di questa giornata ancora libera. Tutti indossano rigorosamente la mascherina. Anche i giovani. Quelli che scavalcano le dune di sabbia per andare vicino all’acqua.
A Jesolo hanno fatto così. Per prevenire l’alta marea hanno formato dei cordoni tutto intorno alla spiaggia. Sicché per vedere il mare devi andare dall’altra parte. Arrampicarti lungo la parete e scendere. Si fa. Con estrema facilità.
Ma arrivati in spiaggia, musica a tutto volume. Qualche chiosco improvvisa una festa. Tavolini. Perfino lettini fuori dove potersi sistemare. Qualche famiglia stende gli asciugamani. I bambini giocano felici. Alcuni fanno jogging. Movimento. Chi cammina velocemente da solo. Chi mangia un gelato. In compagnia. I bar aperti sono pieni. Molti invece sono chiusi.
Così come gli alberghi. Dalla spiaggia giri il volto verso il lungomare e vedi questi enormi palazzi con le persiane abbassate, le insegne nascoste, i catenacci come lucchetti. La spiaggia è stata passata e ripassata. Ma oggi è piena di impronte. La gente vuole uscire. Le persone si riprendono il loro posto. Non importa se molti chioschi sono chiusi. Basta un tavolino. Uno sdraio. Una birra da casa. E gli amici giusti…
“Non è tempo per noi”, cantava Ligabue quando siamo partiti. Alla fine questo è il tempo di tutti. Che la gente si riprende…

#sbetti

#journalistlife

Una miserabile scala di grigi

Quando studiavo Legge credevo ci fosse una Giustizia. O per lo meno che ci fosse un’idea di giustizia. Ricordo che i primi anni, quando era ancora tutto bello e le lezioni venivano tenute in aula alzandoci in piedi quando il docente entrava, guardavo quei film che parlavano di detenuti ingiustamente e mi dicevo: “no ma non può essere vero. Non può essere che uno finisce in galera e non ha commesso niente. Qualcosa deve pur aver fatto per meritare la galera – mi dicevo – nessuno viene sanzionato se non lo merita”.
Così sono cresciuta i primi tre anni di Giurisprudenza con questa idea. Con l’idea di giustizia. Di una giustizia giusta.
Con l’idea che il mondo fosse governato tra yin e yang, notte e giorno, nero e bianco, e che il bene trionfasse sempre sul male. Mi iscrissi a Legge con in testa i miti di Falcone, Borsellino, Chinnici; Dio quanto ho divorato quelle videocassette, quanto quei dvd; sognavo di fare il commissario di polizia, la poliziotta o il pubblico ministero. Volevo riportare i delinquenti alla giustizia, e far prevalere l’interesse delle vittime.
Fino a che un giorno. Un giorno conosco un medico. Molto bravo. Bello. Me ne innamoro e un giorno lui mi fa: “sei proprio sicura che tra giustizia e legalità ci sia sempre coincidenza?”. Ricordo ancora quel giorno. Ero appena uscita dalla facoltà di Giurisprudenza a Padova, l’incantevole Palazzo del Bo, c’era la nebbia, faceva freddo. Era febbraio. Era buio. Palazzo del Bo era illuminato dai candelabri appesi fuori.
Lui era venuto a trovarmi dopo l’esame. Era venuto a “prendermi” e insieme facemmo un giro per la città.
Così parla che ti riparla mi disse quella frase. Ma non lo disse per farmi stare male. Per infrangere i sogni di una ragazzina di dieci anni più giovane di lui, che prende 26 in diritto tributario e sogna di fare il pubblico ministero.
Lo disse perché mi voleva bene. Ero contenta quel giorno. Contentissima. Avevo fatto l’esame. Lui era venuto a prendermi. Per me prima dell’amore è sempre venuto lo studio. Il lavoro. Pure adesso. Pure adesso è così.
Ma quella sua frase cominciò a rimbalzarmi in testa. Non ci pensai subito, ma dopo tornando a casa, con il buio, lo scuro, attraversando le vie di Padova, ripensai a quella frase e a cosa maledettamente volesse dire. Vedevo come una parte dei miei sogni infrangersi. Segretolarsi. Come se una parte colasse a picco sul mare vittima di ingiustizie. Ricordo ancora quel naso freddo, quel cappotto fin sotto le ginocchia, quei guanti, gli stessi bucati le dita di adesso, che sanno di fumo e tabacco. Avevo i capelli lunghissimi e ricordo mentre pensavo e il naso si freddava che una nuvola di fumo mi avvolgeva. Avevo una borsa bella, me l’aveva regalata un amico e mi aveva detto: “ti auguro di metterci dentro tutti i tuoi sogni”.
E veniamo a quattordici anni dopo.
Io non ho più i sogni di una ragazzina che studia Legge. La borsa del mio amico è finita in soffitta a casa dei miei. I miei capelli sono diventati corti. Il naso freddo però che gocciola e si incatrama di tabacco c’è ancora. I guanti, stesso modello, ma diverso.
Ma quella frase che continua a rimbalzarmi in testa: “sei proprio sicura che tra giustizia e legalità ci sia sempre coincidenza?”. No. Non sono sicura. Credevo fosse impossibile che qualcuno venisse punito per non aver fatto niente. O per aver fatto ma non preterintenzionalmente.
E invece. Invece so come ci si sente. Ti senti addosso un cappio al collo che stringe stringe stringe ma non ce la fa.
Allora ora non guardo più quei film di detenuti ingiustamente con gli occhi di una ragazzina che crede che il mondo sia yin e yang yang e yin, giorno e notte notte e giorno, bianco e nero nero e bianco.
Ora mi guardo attorno e vedo una miserabile scala di grigi.
Ah per la cronaca: questa in foto sono io.

#sbetti

#nevergiveup

La gente è cattiva

La gente è cattiva. La vita è miseria. Rabbia. Dolore e sofferenza. Sul più bello che hai trovato un lavoro che ti appaga e ti fa stare bene, qualcuno dall’alto si arroga il diritto di toglierti.
Ritirando fuori una storia tra l’altro della quale si è persa l’attualità. Dov’è finito il vostro diritto all’oblio? La privacy? La riservatezza? Riesumare così il dolore degli altri.
Allora oggi sono andata al supermercato a far le spese. E mi guardavo attorno. Sembrava la guerra. In giro non c’era nessuno. I negozi erano tutti vuoti. C’erano solo le commesse con la mascherina a passare l’aspirapolvere. Quale polvere poi. Quale. Nei bar non c’era nessuno. Ci saranno state sì e no tre persone. Tutte sedute. Nessuno al banco. Nemmeno le tovagliette e le bustine di zucchero. Zero. Niente di niente. Per chiedere una salvietta ho dovuto scavalcare una transenna di nastro isolante, tenendomi in bilico su una panchina che prima stava nell’atrio e ora è adibita come deposito fusti di birra finita. Pure le panchine hanno tolto. Siamo nel regime comunista di anni e anni fa. State attenti a quanto producete. I vostri beni saranno requisiti.
All’interno del supermercato poi ci saranno state venti persone. Tutte con un carrello triste. Tristissimo. Dopo le 18 poi non puoi comprare nemmeno alcolici. Non ti puoi nemmeno ubriacare in questa vita che ti ha tolto tutto.
Il negozio di calze poi era vuoto. Il mio scontrino marca numero due. Per aver comprato due paia di collant che mi servono per girare una trasmissione. Di cui uno di scorta. Nel negozio di ottica la commessa si girava i pollici guardandosi i ricci allo specchio. Nel negozio che vende chincaglieria cartelli enormi col 50 % per cento di sconto perché ora non si riesce a vendere nemmeno più con questo. Nei quattro negozi di vestiti giuro non c’era nessuno. E nel negozio di borse men che meno. Una agenzia di viaggi però ha avuto il coraggio di aprire tra il bar e un negozio. La tipa se ne stava lì seduta con il computer davanti. All’esterno tanti cartelli con le mete che prima noi italiani consideravamo da sfigati: “Toscana”, “Trentino Alto – Adige”; “Sardegna”, “Roma”, “Firenze”, “Mercatini di Natale”. Non ci stanno più i viaggi in Egitto, a Sharm o nelle Isole Galapagos. Ma dentro comunque non c’era nessuno.
Mi ha fatto tenerezza però la tipa. Perché ho pensato alla titolare di quell’agenzia viaggi. Aprire adesso ai tempi del covid. Perché forse però è vero. Oggi sono entrata in uno studio e ho trovato scritta sul muro questa frase: “Il tuo lavoro riempirà gran parte della tua vita, e l’unico modo di essere davvero soddisfatto è di fare ciò che credi sia un buon lavoro. E l’unico modo di fare un buon lavoro è di amare ciò che fai. Se non l’hai ancora trovato, continua a cercare. Non stare fermo. Saprai di aver trovato quello giusto non appena ce l’avrai davanti”.
Firmato Steve Jobs.
Così mi sono avviata verso l’uscita. E pensavo a quanto belli erano i tempi in cui si poteva comprare di tutto, si poteva andare dappertutto, ai centri c’era casino, prendevi le cose colorate, quelle buone da mangiare, era un clima di festa, con genitori ragazzi e bambini. Mi sono detta quanto erano belli i tempi in cui potevi lavorare.
Allora io l’ho trovato il mio lavoro. Quello che amo fare. Quello che secondo me è un buon lavoro.
Quello che mi fa sentire viva. Non può arrivare qualcuno che dall’oggi al domani te lo prende e te lo strappa dalle mani. Non può.
Io mi batterò per questo.

#sbetti

#nevergiveup

Quando si diventa grandi?

L’altro giorno sono andata a farmi una corsa e mi sono seduta a fumare una sigaretta sull’argine di un canale. Mi sono seduta, la sigaretta tra le mani, prima una, poi un’altra, poi un’altra ancora, poi mezzo pacchetto, poi il pacchetto intero e mi sono chiesta: ma se la vita non mi avesse reso così forte, se la vita per certi aspetti non mi avesse fatto conoscere i suoi lati più oscuri, come avrei reagito ora? Come? Come reagisce una donna di 36 anni, con la vita davanti, che si trova a dover affrontare procedimenti, giudici, atti, verbali, deposizioni, notifiche, audizioni, memorie difensive, termini. Come reagisce una donna di 36 anni con il futuro davanti, con la carriera che con le sue mani ha messo in piedi, ha costruito e che qualcuno pretenderebbe di sgretolare dall’oggi al domani. Come?
Ed è perché io applico la teoria dei cocci rotti sapete, quella giapponese, quella che uno dei miei ex compagni mi insegnò, cioè tu prendi un vaso rotto, i cocci a terra, li riappiccichi e ci dai nuova vita; poi colori i punti di rottura dei cocci e così appare una vaso nuovo, un nuovo vaso, ma più forte, più duro, più bello, pure più colorato.
Così fanno i giapponesi. La chiamano l’arte del kintsugi (金継ぎ AFI: [kʲĩnt͡sɨᵝɡʲi]), o kintsukuroi (金繕い), letteralmente “riparare con l’oro”. Cioè i giappo quando rompono un vaso, non buttano via i cocci, anzi. Li rincollano e valorizzano le crepe. Ed è quello che farò. Ripartirò dalle crepe. Anzi vi ringrazio pure, per averle valorizzate.
Allora dicevo, mi sono seduta sopra l’argine, e tra una boccata di tabacco e l’altro pensavo, ma come reagisce un imprenditore che si vede portare via tutte le sue cose, i suoi beni, che vede da un giorno all’altro l’azienda fallire, come. Le sue macchine portate via. La fabbrica chiudere. I sigilli mettere. Come. E lui magari c’ha anche i figli a cui dare da mangiare. Lui c’ha le famiglie che campano sulle sue spalle.
Come reagisce mi sono chiesta una donna giovane a cui togli l’aria per respirare, a cui togli l’ossigeno, a cui togli quello che lei aveva costruito. Giorno dopo giorno. Riga dopo riga. Notizia dopo notizia. Penna dopo penna. Nottate dopo nottate. Con la tensione sui polpastrelli che palpitava tutta. La sentivi. La temevi.
Perché vedete ieri sono andata a mangiare sushi a pranzo con dei colleghi – è soprattutto nei momenti di down che bisogna volersi bene e risollevarsi, basta piagnistei- e una persona a me molto amica ha chiesto: “sai quando capisci di diventare grande? Quando ti rendi conto che non è più come prima e ti senti addosso delle responsabilità”.
Allora io non è che faccio la giornalista da chissà quanti anni, è dal 2013 che indosso questo mestiere, con passione, dedizione, voglia, desiderio; mi piace, lo amo, lo sposo ogni giorno. Ma nonostante i miei sette anni di servizio, mi sembra di fare questo mestiere da trenta. Quando mi dicono erano quattro anni fa, io rispondo che in quattro anni ne ho fatta di strada. Senza presunzione. Né arroganza.
Ho fatto in tempo a vedere tornadi, morti ammazzati, incidenti, rapine, suicidi, scandali giudiziari, marce dei migranti, storie dolorose contorte che quando la sera torni a casa nemmeno ci dormi, inchieste, pianti, gioie dolori. Sono andata in Kosovo. In Bosnia. In Bosnia Erzegovina. In Serbia. Ho fatto la rotta balcanica. Mi sono finta musulmana. Ho seguito le inchieste dei foreign fighters poi sfociate in un libro. Ne ho scritto uno sui migranti. Quello sul covid. Ho preso e perso aerei treni vaporetti. Sacrificato affetti. Ho fatto in tempo a vivere un “licenziamento” perché all’editore di un quotidiano locale con cui collaboravo non andava bene il mio pensiero. Ho fatto in tempo a essere tacciata di chissà quale aggettivo o epiteto che tanto va di moda adesso. Uno di quelli che vi piace. Che ci andate a nozze.
E adesso pure questo.
Perché allora alla domanda “quando capisci che sei diventata grande”, io ho risposto che mi sento già vecchia, mi sento già terribilmente vecchia. Mi sento vecchia. Piena di affanni. Pensieri. Ma carica di energia. E’ così che si deve rispondere quando tentano di tagliarti le gambe. Mi sento seria. Piena di grinta. Combattiva. Guerriera.
Scusate se mi do della seria da sola, ho detto stasera a un gruppo di amici. Un’amica mi ha risposto: “fai bene, bisogna sempre credere in se stessi… è una lezione che si impara troppo tardi, o a volte non si impara mai”.
Io.
Io l’ho già imparata e ve ne sono grata.

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