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Cercasi camerieri: ma gli annunci sono da fame

Qualche settimana fa passavo lungo la via Bafile di Jesolo, una delle vie piu lunghe d’Europa con alberghi locali negozi ristoranti, e non ho potuto fare a meno di notare come ogni due metri ci fosse un cartello con scritto “Cercasi personale”. Ve ne posto qui solo alcuni, perché in realtà ce ne sarebbero molti altri.
Così dopo qualche giorno ho provato a chiamare rispondendo ad alcuni annunci e vi giuro, dinanzi alle offerte, mi sarei levata le palle, che non ho.
Uno mi ha proposto una prova con un contributo, un piccolo rimborso spese, senza vitto manco alloggio, e un “se sei brava, magari investiamo su di te”.
Un altro mi ha detto che avrei dovuto lasciare il mio curriculum, e che l’orario di lavoro andava dalle otto del mattino, a oltranza – qui sai – questo lavoro è così – non puoi tenere famiglia -. La paga? 1500 euro al mese. Il costo dell’affitto? A mio carico ovviamente.
Un altro ancora mi ha detto che intanto cominciavamo, in nero si intende, e che per il prezzo eravamo “intorno” – dico intorno – intorno a cosa? Imbecille. Ecco intorno ai 6 – 7 euro, ma che “ci possiamo venire incontro”. Solo una, di quelli chiamati, mi ha risposto che era tutto regolare tramite contratto.
Così sono andata a parlare con dei titolari che conosco e mi hanno detto che sì, effettivamente loro non trovano personale nemmeno quest’anno. Uno che prende la tizia e la tizia non si presenta. Un altro che dice che si presentano tutti svampite. Un altro ancora che ha problemi perché qualsiasi giovane a cui fa il colloquio, dopo un po’ gli chiede: “Scusi ma il fine settimana sono libero?”. La verità è che, non me ne vogliano gli onesti (perché ce ne sono!), in questo mondo della ristorazione, c’è ancora tanta merda in giro. Di gente non ancora strutturatache tira a campare pretendendo di fottere gli altri. Perché va bene la gavetta, quella l’ho fatta pure io, ma i giovani fortunatamente si sono svegliati e non rinunciano ai propri sogni per soddisfare quelli degli altri.
Non si può far lavorare un ragazzo sette giorni su sette, 15 ore al giorno, e pagarlo 1200 euro al mese. Così come non si possono pagare i camerieri 5 euro l’ora. Così come non si possono prendere per il culo bengalesi e indiani (perché tanto non parlano l’italiano e poverini hanno bisogno) e metterli a spazzare le scale o a pulire i cessi in notturna dandogli sempre 6 euro l’ora. Perché basta. Insomma. È ora di finirla. Anche perché voglio dire, mi pare che bar e ristoranti si facciano pagare. L’altro giorno a Venezia sono entrata in un bar, perché dovevo fare la mia classica pipì, e un caffè, manco in centro, l’ho pagato 4 euro. Quando ho guardato la titolare e le ho fatto capire che avrei gradito lo scontrino, questa mi ha perfino guardato male. Un primo, in un ristorante del menga, costa 36 euro. Una colazione in un bar marcio di un paese costa 13 euro. E poi se chiedi di venirti a pulire i tavolini, i “dipendenti” – alcuni non saranno manco in regola – storcono pure il naso. Ma tanto son pagati talmente poco che i tavolini io li farei leccare ai loro titolari. Anche perché hanno aumentato tutti. Tutti. Chi il caffè. Chi la pizza. Chi ti porta 4 verdure in croce – giuro mi è successo in centro a Treviso – e te le mette in conto 6 euro, e quando chiedi se son fatte di oro, ti rispondono che “non possiamo farci niente, verdura e frutta poi, hanno aumentato tutto”. È per questo che mi incazzo quando leggo storie come quella di oggi, dove a Pordenone una tizia sono 20 anni che lavora in cucina e da 20 anni viene pagata 4 euro l’ora. Vergognatevi. Ma poi mi raccomando. Poi riempitevi la bocca. Poi continuate a dire: “I gggiovani non vogliono lavorare”. No i giovani si son svegliati. Non sono di certo coglioni come chi li sfrutta.

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La tragedia di Firenze rappresenta lo sfacelo del lavoro

La tragedia avvenuta nel cantiere di Firenze rispecchia esattamente lo sfacelo a cui sta andando incontro il lavoro nel nostro Paese.
Ossia quella sciagura di un operaio che esce di casa la mattina e non sa che potrebbe anche non rientrare la sera.
Venerdì 16 febbraio, ore 8.52 del mattino: alcuni operai stanno lavorando nel cantiere di via Mariti della catena dei supermercati Esselunga, a Firenze, per costruire un nuovo supermercato, quando all’improvviso uno dei piloni crolla e travolge otto persone. Otto persone. Otto. Tre muoiono sul colpo, altri tre saranno ritrovati qualche ora dopo sotto il cumulo di macerie e due risultano dispersi, ora il disperso è uno. Tutto attorno è il caos.
La polvere che si solleva da terra, il fragore, il boato, lo schianto il botto come fosse un tuono, tremendo, pareva il terremoto, e quella nuvola grigia di polvere di morte che sovrasta l’aria.
E poi le sirene, le ambulanze, i vigili del fuoco, i soccorsi. Sembra l’Apocalisse.
Nessuno sa cosa esattamente sia accaduto, perché il solaio non abbia tenuto, perché il pilone sia crollato; nessuno sa se i lavori erano stati compiuti a regola d’arte, se sia stato eseguito prima lo scavo o prima le gettate dei pilastri, o viceversa, ma quello che si sa è che lì sotto stavano lavorando alcuni operai e questi sono morti.
I sindacati attaccano e sostengono che quegli operai erano inquadrati, come metalmeccanici per risparmiare e quindi non erano propriamente edili.
E già qui ci sarebbe un capitolo da aprire. Gli operai infatti, romeni, rappresentano tutto il collasso e il disfacimento della “Aaa manodopera cercasi” nel nostro Paese.
Quanti idioti ho intervistato che mi dicevano che avevan bisogno degli immigrati, poi quando chiedevi loro quale fosse la specializzazione richiesta ti rispondevano: “Basta che abbiano voglia di fare”. E infatti, questi sono i risultati. Questi la voglia ce l’avevano. Tanto che già prima delle nove del mattino erano sul posto di lavoro a girare malta, non propriamente un lavoro leggero che si risolve in quattro cagate da scrivere su Facebook.
Ma rappresenta lo sfacelo – emblematico il crollo specchio della distruzione della cara vecchia manodopera pagata oro – perché ora ci sono alcuni datori di lavoro che cercano migranti per farli lavorare, (alcune volte in nero sia ben chiaro) e ai quali poco importa se questi prima erano idraulici, muratori, magazzinieri, trasportini delle pizze con incorporate le bibite, l’Italia accoglie questa gente per farla lavorare al ribasso, perchè ovviamente un italiano non lo fai lavorare per 5 euro l’ora – sparo una cifra a caso – e invece un migrante meglio ancora se parla poco italiano, poco poco, puoi farlo lavorare anche a 3 euro e pochi centesimi perché tanto ha bisogno. Ecco cosa ha portato l’immigrazione incontrollata, alla va là che va bene.
Nessuno si chiede se ci siano le competenze, se qualcuno abbia preso un patentino o fatto un corso per stare sotto un ponteggio, così come nessuno si chiede se i migranti passino dalla consegna delle pizze alla raccolta dei pomodori a quella degli asparagi a quella dei broccoli fino alla betoniera che gira loro davanti con tanto di malta fina da gettare per terra. Chi segue la ruvidezza e la scabrosità della cronaca, sa che in questi casi in genere si trova sempre qualcosa che non quadra. Infatti. E il paradosso è sempre quello: che gli addetti ai lavori non erano proprio addetti, che nessuno aveva controllato?, che “si poteva forse evitare?”, che la colpa non è mai di nessuno perché gli operai avevano seguito un ordine dato dal direttore dei lavori a cui l’aveva dato il vicedirettore del direttore dei lavori che aveva a sua volta preso ordini dal capo cantiere che si era interfacciato col capo del capo del vicecapo cantiere. E così via. E sempre puntualmente dopo la tragedia, chi deve cavalcare l’onda dei morti, balla sui cadaveri ancora caldi. Punta il dito senza sapere – vedi Landini – spara sentenze per sentito dire – trae conclusioni affrettate, formula teoremi basati su sospetti, su pregiudizi, su conclusioni a cui giunge troppo frettolosamente. E su queste intuizioni costruisce l’informazione e chi gli va dietro, danzando sul sangue e sulle lacrime delle vittime.
Ogni volta che accade un fatto del genere, si dice sempre che si farà qualcosa, ma lo si fa sempre post e mai pre. Ma ogni volta non cambia nulla. sì. Il crollo del pilone rappresenta sì il crollo del lavoro nel nostro Paese.
Lì in un ammasso di detriti tra polvere, grida e urla di rabbia e disperazione.

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La mia giornata è partita su una Tesla

Non so nemmeno che giro abbia fatto. Ho fatto in tempo ad andare a Como. Migrare a Bologna. Rientrare a Venezia. Salire su un’auto proseguendo per le Marche. Passare lì alcuni giorni. Starmene lì, all’aria aperta. Il mare. Il sole. La temperatura mite. Io abituata al freddo del nord. Le cene. E poi ho ripreso una vettura per tornarmene a Venezia.
Ma la mia giornata la mattina prima dell’ultimo dell’anno è partita presto. Su una Tesla. È passato a prendermi il transfer alle sette in punto del mattino. Che dico in punto. Diamine era pure in anticipo. Cinque minuti prima dell’orario stabilito era già sotto casa mia che mi attendeva. “Buongiorno, io sono qui, quando vuole”. Ero balzata giù dal letto facendo una doccia fredda e calda in estrema velocità, avevo messo su il caffè, quello che puoi sciogliere la polvere per fare prima, ed era una di quelle mattine dove in cucina vedevi solo il blu della fiammella del gas.
Mi trucco alla svelta, un filo di rimmel, ombretto nero, una botta di phon ai capelli, pantaloni, maglia, borsa e cappotto che mi copre la testa. Salgo sull’auto nera fiammante e dentro ci sta uno schermo che è grande quanto la mia televisione. Indica il percorso da seguire, la mappa, la carta, la piantina, più in basso in fondo a sinistra ti compare la faccia del cantante di cui sta andando la musica. Non so manco chi abbia cantato. Nel giro di un baleno mi pare di aver intravisto l’immagine di Natalie Imbruglia e quella di qualche altro che ora non ricordo.
L’auto, calda. Nera. Silenziosa.
Arrivo alla stazione con le occhiaie che mi toccan terra. E il barista della carrozza numero 3, quella dove ci sta il bar, è pugliese. Guarda fuori dal finestrino che lentamente come in un film muto percorre velocemente il paesaggio che si sussegue fuori. E sbotta: “Vedi il tempo che ci sta qua”. “Come fai a non svegliarti con le palle girate”, gli dico io. “Tu bravo uomo del Sud, stattene giù no?”. Il lavoro, il lavoro ci chiama. Come chiama me in questa vigilia dell’ultimo dell’Anno. Ma questo è il lavoro che amiamo. Arrivo a Milano centrale, destinazione Monza Brianza, devo fare una casa occupata. Ci fermiamo al bar all’Angolo. Non toglietemi caffè e sigaretta prima di iniziare a girare. L’adrenalina sale. Gli occupanti sono ecquadoregni. E come in un susseguirsi di immagini mi trovo catapulta ovunque. Passo dal taxi nero fiammante. Al treno. Alla stazione Centrale dove ci stanno i disperati che dormono fuori. A un posto carino dove ci fermiamo a mangiare ma alla tipa napoletana non sto tanto simpatica. Mi rimetto in viaggio. Rientro. Il giorno dopo riparto per passare il Capodanno in piazza a Milano…
E questo ve l’ho raccontato…

sbetti

Gli abusivi possono pure menarti. Sotto gli occhi di tutti

Questo è il livido di un pugno che sarebbe arrivato a me in faccia, se l’uomo della vigilanza non mi avesse difeso.
Questo è quello che fanno gli occupanti abusivi di case. Provateci voi a difendervi in casa vostra e rischiate di finire in galera o indagati per lesioni tentati omicidi e altre figure applicate in maniera folle.
Tanto gli abusivi sono consapevoli e forti che nessuno farà mai loro niente, protetti e tutelati dai giudici, dallo Stato, dalle leggi, quasi perfino dalle forze dell’ordine. Arrivo in questa casa occupata che è quasi ora di pranzo.
L’occupante mi fa il favore di uscire inconsapevolmente, ignaro che ci avrebbe trovato. Rimaniamo tutti in auto. Non scendiamo. Lo osserviamo venire avanti. Il cameraman prepara la camera. Io il gelato. Mette in rec. Io schiaccio on. La lucetta verde si accende e in una frazione di un secondo, quando ormai è in bocca a noi, scendiamo dall’auto. In quei momenti ti giochi tutto. Tutto in una manciata di secondi che svapora via se non ti muovi. Avviene tutto in un attimo. In un attimo devi bloccarlo, fargli domande, chiedergli o chiederle conto del perché diamine sia ancora in quella casa magari con un’ordinanza di sfratto. In un attimo gli vuoi chiedere se non si vergogna a stare in una casa senza pagare l’affitto, manco il condominio, le bollette e tutto quello che ci sta dietro e se sa che in Italia la gente per bene e che lavora l’affitto se lo paga o la casa se la compra. In quel momento un vortice di emozioni ti si riversa addosso. Piomba come piomba la lava sul vulcano accesso. Non senti caldo. Non senti freddo. Non ti accorgi se piove. Se c’è il sole. Se è giorno. Se è notte. È un misto di adrenalina, energia, paura, impeto. Puoi sentire il cuore in gola. Come le gambe tremare. Puoi sentire le mani fredde. Come i piedi partire. Anche perché non sai come l’occupante possa reagire. E qui ha reagito male. Inizio a fargli domande. Non mi risponde per mezz’ora. Ma a un certo punto. A un certo punto quando capisco qual è il tasto dolente, sbrocca. Fa per tirarmi un pugno e la scorta si mette in mezzo. In un baleno lo para quel pugno. Lo ferma. Lo blocca. E se lo prende giusto qui sul collo.
Ora queste sono le reazioni sempre più violente degli occupanti abusivi. L’arroganza. La supponenza. La delinquenza. La convinzione di fottere lo Stato e nonostante questo essere nel giusto. Tanto sanno che a loro nessuno farà mai niente. Carabinieri che arrivano per far domande ai giornalisti. E non agli occupanti. Ordinanze di sfratto mai eseguite. Giudici irraggiungibili. E ufficiali giudiziari introvabili. Signori questa è l’Italia.
Invece se ti entrano in casa o in gioielleria o in tabaccheria per rapinarti mentre stai dormendo o stai lavorando logorandoti di un lavoro che ti porta ogni giorno a farti il culo, e questi ti minacciano o ti legano la moglie e i figli, non puoi fare niente, perché se per caso ti azzardi ad alzare un dito, poi se non ti ammazza il ladro ti ammazza lo Stato.
E quindi i proprietari in casa loro non possono difenderti. Invece gli occupanti abusivi – una ha minacciato perfino una mia collega davanti al carabiniere che è rimasto muto – ecco dicevo gli occupanti abusivi possono fare tutto. Possono tirarti pietre. Sassi. Coltelli. Bottiglie rotte. Possono sputarti addosso.
Menarti. Darti calci. E minacciarti.
E questo sì. Questo è sotto gli occhi di tutti.

sbetti

La mosca sopra la tavoletta del cesso

Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio. Arrivo a Bologna che è mattino. Devo girare una casa occupata ma nel frattempo mi scappa. E devo andare in bagno. Entro in un locale. E per accedere al bagno c’è bisogno della chiave. Sulla porta noto che c’è una storiella sul Tiro di Bologna. Il tiro è quella cosa per cui noi diciamo suona, invece a Bologna ancora dicono “Tira”, e sul campanello ci sta scritto proprio questo. Il modo di dire deriva dal fatto che una volta per suonare si usava una cordicella. Mi accorgo che sulla tavoletta del water c’è una mosca. E mi fa parecchio schifo. Esco. Bevo il caffè e ci mettiamo in cammino. Vado su per le montagne. Su per i monti. Su per le colline. Ci sono i tornanti. Cerco di concentrarmi sulla strada. Dicono che se guardi un punto. Sempre quello. Sempre fisso. Non ti fa male la macchina. Mi guardo attorno perché fissa e immobile non riesco a stare e attorno a me si apre un ventaglio di colori, una tavolozza di acquerelli dai colori pastello che pare che ci abbia messo le mani un pittore ingenuo. Ci sono alberi abeti pioppi cipressi verdi rossi gialli alcuni mi sembrano anche violacei. Anche l’accendino che ho comprato è violaceo. E forse non avrei dovuto comprarlo.
Arriviamo su in cima e ci fermiamo con l’auto perché ci stanno aspettando gli uomini della scorta. Siamo lungo i colli bolognesi. Andiamo su e ci appostiamo. Ma non appena arriviamo ecco che la donna esce. Ha il volto del colore del marmo. Vestita con una maglia aderente che le fa intravedere i seni, indossa dei fuseaux che paiono tinti dei colori pastello da un pittore schizofrenico, in testa indossa una cuffia.
Gli occhi marroni incavati non lasciano trasparire niente di buono. Sembrano quelli di una cavalletta che si apposta sul muro di casa in attesa della propria preda. Attorno a lei ci sono i cani. Scendo dall’auto facendomi violenza. I cani sono decisamente troppi per me. Lei ne ha cinque liberi e in più ci sono tre cani grandi brutti e grossi nel giardino accanto che continuano ad abbaiare forsennatamente. Non penso ai cani. In una frazione di secondo cerco di scindere la mente in due parti. La prima deve rimanere concentrata su quello che voglio dire e chiedere alla donna. La seconda parte cerco di distrarla dal pensiero che i cani ci possano far del male. In un’altra frazione di secondo cerco di staccare la mente dal corpo. Non voglio permettere alla paura dei cani di paralizzarmi. Le gambe vanno da sole. Avanti come un caterpillar la affronto. Le chiedo perché diamine continui a stare in quella casa. E lei non risponde. Torna indietro per la stradina e io la seguo. Ma in un baleno. Ecco che mi volto e vedo i cani ringhiare. Azzannare la rete. Azzuffarsi. Scagliarsi contro. Lei fa per andare ad aprirli come a metterci paura e in un attimo mi passa davanti la vita. Mi vedo azzannata. Acciuffata. Aggredita. Cerco di non pensarci e mi scatta qualcosa che la fa sclerare. Lei sclera. Inizia a inveirci contro. Alza le mani. Mi minaccia. Ci minaccia. Ci dà dei figli di put. Figli di troi. Teste di cazz. Chi cazz siete. Mi avete rotto i cogl*. Le dico che si dovrebbe vergognare a stare in una casa che non è la sua. E in quel momento, come a voler sfogare tutta la sua rabbia, alza il pugno per sferrarmi un gancio giusto in faccia. L’uomo della scorta si mette in mezzo, tra me e lei, e il pugno colpisce il collo di lui. Dopo il parapiglia, ce ne andiamo. A me tremano ancora le gambe. Più che altro per i cani. Di lei sostanzialmente me ne fotto. Ci è venuta fame. Entriamo in un ristorante. Io spizzico qualcosa. Ancora lo stomaco si deve aprire. Ordino il caffè americano, ma l’oste di quella osteria incallita non riesce a trasportare il vassoio e il caffè finisce tutto sparso. Lo guardo. Lui mi guarda. Gli faccio una faccia schifata. Lui mi dice: “È un po’ gocciolato”.
Sì decisamente. Quella mosca sopra la tavoletta del cesso non era di buon auspicio.

sbetti

ladridicase

Picchiatore seriale. La realtà in bianco e nero

Dal diario di Facebook. 28 settembre 2023

L’aggressore seriale a Venezia.
Questa sera ho preso e sono uscita per fare una lunga passeggiata. All’inizio non voleva essere tanto lunga. Poi lentamente si è allungata. E si è fatta estesa. Distesa. Andava come vanno i tempi della televisione. Lunghi ma serrati. Prolungati ma fitti. Stretti. Ma veloci.
È una settimana che sto sotto una storia di un seriale a Venezia che vi giuro mi è venuto il voltastomaco a vedere come la gente sostanzialmente se ne frega. Anzi non la gente normale. Quella?
Quella povera soffre. Mi è venuto il voltastomaco a vedere come le istituzioni e chi dovrebbe proteggerci se ne fregano allegramente.
Ma soprattutto ho raccolto le voci di quella gente, della gente normale, di quella che ogni giorno lavora. Va a scuola. Va ad allenamento. Va in ufficio. E ha paura. Ha paura a rincasare la sera.
Mi chiedo come in un Paese che voglia definirsi normale si possa avere il terrore di tornare a casa la sera senza finire con una coltellata piantata nell’addome. Orbene.
A Venezia si aggira un seriale. Un aggressore. No. Non è finzione. Non è fiction, non è montaggio. Non è fantascienza.
Il mio servizio lo trovate su Fuori dal Coro (link nei commenti). È realtà. A Venezia si aggira da mesi e da anni un pazzo che va in giro a colpire e aggredire la gente. Che potrebbe realmente aggredire e colpire chiunque. Che entra in azione di notte. Si aggira col buio. Cammina con un coltello in mano. E nessuno, nessuno fa niente. Mi chiedo che mondo sia quello dove chiedi aiuto e nessuno fa niente. Le stesse forze dell’ordine si sentono impotenti, devono aspettare che agisca. Ma quando agisce è troppo tardi. E di vittime ormai c’è ne sono parecchie.
Con la riforma Cartabia poi è diventato tutto una barzelletta. Devi denunciare prima della decorrenza dei termini e per sporgere devi prendere l’appuntamento. E se prendi appuntamento magari i termini decorrono veramente. Così devi attendere che qualcuno ti molli una coltellata e poi ci vuole la querela di parte. E nel frattempo quello se ne sta libero, in giro, capace di colpire chiunque.
Ma mi ha fatto venire il voltastomaco la messa a tacere del fatto – shh silenzio – che facciamo brutta figura – La gente si allarma poi – i turisti – che dicono i turisti. Suvvia Venezia è la città che se ti tuffi da un ponte ti fanno un daspo (con tutto il rispetto per carità) ma se accoltelli qualcuno rimani libero. Fino a che. Fino a che non ci scappa il morto.
Poi dicono che non facciamo niente. Che non c’è sicurezza. Eh no. Infatti.
La sicurezza non c’è. E non è finzione. Non è fiction. Non è immaginazione. Non è la percezione del cittadino come ha osato dire qualcuno.
È la realtà. La dura e nuda realtà. E la realtà non è colorata. Non presenta sfumature, non ha dissolvenze, effetti speciali.
È tutto terribilmente a colori. O bianco, o nero. Ma è tutto nitido. E sta lì davanti agli occhi di tutti.
Questi giorni ho fatto appostamenti. Sono stata fuori la notte. Ho fatto ricerche, ho raccolto le testimonianze dei giovani aggrediti e ci ho visto negli occhi l’impotenza. Il terrore. Il senso di colpa. La tragica consapevolezza che non puoi far niente, che quello che ti sta capitando pare sia un incubo senza fine. Quando stasera ho decollato le mie gambe e mi sono accesa una sigaretta e poi le sigarette sono diventate due tre quattro, era tardi. Era buio. Ero sfinita. Sentivo le gambe che andavano da sole. Agli auricolari andava la musica. Mi sono rivista davanti a quelle persone che per un attimo si sono affidate a me per avere un aiuto, e mi sono detta che è questa la vita che ho scelto, quella che ho deciso, quella che dà voce alla gente che non ha abbastanza amplificatori per poter urlare. Quella che raccoglie le storie. E le fa proprie. E dopo averle vissute. Le racconta. Senza dissolvenze. Senza effetti speciali. Senza sfumature. In bianco e nero. E a colori.

sbetti

fuoridalcoro

Ma sei pro o contro?

Mi si avvicina un ragazzo. C’avrà all’incirca trent’anni. Che dico un ragazzo. È un uomo. C’ha gli occhi incavati che fuoriescono dal bulbo oculare. Il suo iride è a metà tra il verde e il marrone. Dipende. Se fa la faccia sorpresa gli occhi si irradiano di verde. Altrimenti si irraggiano di marrone. Spruzzano una tonalità tendente al marroncino. Il suo corpo sembra quello di un’ antilope spelacchiata che non mangia da giorni. Magro. Affossato. Incavato. Indentro. Intarsiato come si intarsia un santo nel legno. Me lo immagino velocissimo nella corsa. Ottimo saltatore. Che vive in branchi, in mezzo ad altre persone. Sorseggia una birra. Alle dita indossa degli anelli. Mi guarda con due occhi verdi spalancati e mi chiede cosa stia facendo. Gli dico che sono una giornalista. E che sto facendo un servizio sull’immigrazione. Mi risponde perché. Come mai. Qual è il senso. Il senso. Quello che ho sempre cercato in tutto quello che facevo. L’andare oltre. Il non fermarsi mai, dinanzi a nulla. Far sì che il nostro Servizio appunto Servisse agli altri.
Mi chiede se sono pro o contro i migranti. Gli rispondo che non c’entra pro o contro. C’entra che non è questo il modo di gestirli i migranti. I poveracci. I disgraziati che sbarcano sulle nostre coste pagando fior di quattrini. Mi dice perché, come mai, in fondo c’è bisogno di queste persone.
Ma perché non si possono ammassare duecento trecento persone e stiparle come polli in batteria dentro un centro perché questa non è accoglienza, è chiudere dentro un ghetto persone semplicemente per il fatto che sono straniere. Gli dico che chi non ha diritto deve tornarsene da dove è venuto e che le cooperative hanno sempre lucrato sulle spalle di questi poveracci giunti da noi credendo di trovare l’Eldorado.
Mi dice: sì ma il tuo servizio deve essere pro o contro.
Ma no ancora. Non capisci. Inutile parlare allora. Non c’è un pro o contro, serve raccontare la realtà delle cose, dar voce alle persone, è per quello sto in mezzo alla gente.
Gli dico anche che lui in un centro del genere non ci starebbe mezzo secondo dato che consuma liberamente al bar la sua birra. Mi dice che non è vero, che lui in centri come quello c’è stato. Ah sì? “Sì. Io sono di Trieste. Ho vissuto un periodo per strada. Nei dormitori, in quei posti che tu denunci”.
Lo guardo. Allora sai di cosa sto parlando. Poi d’improvviso due urla. Sta scoppiando una rissa.
Un ragazzo che sfida un vecchietto…

sbetti

Un euro per un bicchiere. Ma la paga ai camerieri l’avete aumentata?

Chiederete anche un euro per un bicchiere di plastica ma non mi risulta che abbiate alzate lo stipendio ai camerieri che sgobbano.
Questa roba dei piattini di condivisione a due euro è una roba di un disonore immenso. Per la categoria. E per l’Italia. Anche perché adesso il popolo si è svegliato. C’è internet. Hai voglia a nascondere simili obbrobri lucrativi.
L’altro giorno per dire sono andata al bar a bere un caffè e ho ordinato un caffè americano. Siccome dovevo prendere una bustina di vitamine, mi sono fatta dare dalla cameriera anche un bicchiere d’acqua. La stessa cosa ho fatto il giorno seguente in un altro bar. Nel bar del primo giorno, l’acqua mi è stata servita calda del rubinetto e quando ho detto che avrei gradito averla fresca e che l’avrei pagata me l’hanno messa in conto a un euro.
Nel secondo bar invece l’acqua mi è stata servita fresca e di bottiglia. Anche qui volevo pagarla ma non hanno voluto. Anzi. Vedendo che dovevo mescolare le vitamine con il cucchiaino, io mi stavo accingendo a mescolare la miscela con quello del caffè perché nella mia vita ho sempre evitato sprechi e da quando vivo a seconda di dove sosto, ti subentra quel principio salutare che è quello dell’economia domestica. Così ho detto alla cameriera che avrei usato lo stesso cucchiaino e lei mi ha detto: “Grazie”. Che parola sconosciuta.
Ora, questa cosa dei due euro a piattino per tagliarci un toast o per dividerci un piatto di pasta che costa 20, è una roba alquanto calunniosa e lugubre.
E non è questione di servizi. È questione di buon senso. Di rispetto per i clienti. Di rispetto per tutti quelli che ti danno da mangiare perché decidono di portare il proprio culo nel tuo ristorante. Non è la storia della torta Sacher a 10 euro e se non ti comoda puoi andare da un’altra parte. Qui è onestà professionale. Onore intellettuale.
Ho fatto la cameriera in un periodo della mia vita quando lo studio legale dove lavoravo mi sfruttava e di avvocati non ne volevo più sapere e anche uno stupido capisce che la pietanza fatta pagare 20 euro, in realtà costa 8 e il titolare, giustamente ci guadagna. Niente da dire, si paga il nome, il servizio, la pietanza, si paga l’arte e la maestria di chi compone e preparare quel piatto. Ma il piattino di condivisione. Ma il bicchiere di plastica. Ma l’acqua calda.
Ma tanto alcuni sono abituati così. E potrei dare una carrellata di esempi simili. Anzi forse è il caso che vi diate una frenata.
Locali che se chiedi di tenerti un dolce per festeggiare il compleanno della zia di Danimarca, il deposito te lo fa pagare 18 euro, con tanto di taglio ovviamente.
Locali dove se chiedi un bicchiere in più te lo mette in conto a un euro. Bar dove se chiedi un caffè americano te lo fanno pagare 10 euro. E vabbè ci può stare. Paghi il nome. Ma ci sono anche locali marci in paesi che sono buchi di culo e che se chiedi un caffè con un po’ d’acqua calda te lo fa pagare 3 euro e 50.
A Venezia ci sono locali dove se sentono che sei veneto il caffè lo paghi un euro e 10 e se sentono che sei straniero – una volta ho usato il mio dialetto innato marchigiano – te lo fanno pagare 4 euro. Quattro euro per un caffè manco buono. Così come ci sono locali che il coperto te lo fanno pagare 3 euro, da un euro sono aumentati di due. E altri locali dove se chiedi la ciotola per il cane ti fanno pagare pure quella. Ora, va bene le bollette, i rincari, la guerra, la crisi, il surriscaldamento globale e il fatto che non riusciate a raffreddare i locali; va bene anche la gente che ci scorreggia e ci respira dentro e appanna i vetri e non avete i deumidificatori o costringete le cameriere a lavorare senza aria condizionata, ma alcune di queste persone sono le stesse che col covid si lamentavano perché erano chiusi e avevano bisogno dei clienti.
Alcuni sono gli stessi che quando riaprirono le gabbie fecero le ferie, si presero il giorno di riposo, aumentarono i prezzi; questa gente – alcuni si intende ma una mela marcia nel vaso rovina anche il resto – è la stessa che non faceva uno scontrino manco a pagarlo oro e che quando ci fu la storia dei rimborsi pretendeva di percepire anche i soldi non dichiarati.
Ora va bene, la gente con voi è solidale, i commercianti, i gestori, siete l’anima dei nostri cuori così mondani e insoddisfatti, ma dinanzi a tutti questi aumenti, le paghe ai vostri dipendenti le avete aumentate?
O li fate lavorare per 7 euro l’ora e se consumano il toast per cena – ai miei tempi era così – gli scalate pure quello dallo stipendio?

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Faccio il meccanico. La mia compagna è precaria. Qui in Italia non c’è futuro

Il ragazzo che mi sfreccia davanti in moto indossa una tuta da meccanico. Una salopette blu. E sotto ha una maglia gialla.
Mi sbuca da dietro in sorpasso, e sorpassandomi, sorpassa anche quelli davanti. Me lo ritrovo al bar quando mi fermo dopo all’incirca dieci minuti. Abbiamo scelto lo stesso posto. Manco farlo a posta. Non indossa più il casco e i capelli nero corvino, più neri della notte, gli scendono lungo il volto. Gli occhi sono scuri. Impavidi. Vivi.
Le dita sono quelle di chi durante il fine settimana indossa tanti anelli e di giorno si mangia le mani a suon di cacciaviti e bulloni. Le mani sono annerite dal nero dei fumi. E lui sorseggia il caffè tenendo la tazzina tra il pollice e il dito medio. È giovane. Avrà all’incirca la mia età. Mi guarda. Lo guardo. Mi dice: “Fa caldo oggi”. Gli rispondo: “Bè dai sopportabile ancora”. “Sì in effetti hai ragione”.
E cominciamo a parlare. Chi sei. Cosa fai. Da dove vieni. Dove vuoi andare. Accade tutto in cinque minuti. Cinque minuti rubati alla sua concessa pausa pranzo di un’ora.
“Ho 35 anni faccio il meccanico. Sono sotto padrone e lo vedi come sono preso. Che devo scappare perché non ho manco tempo per mangiare”.
Ma come non avete la pausa pranzo? “Sì ma il tempo di tornare a casa un attimo, mangiare, ed è già finita”.
E quanto ti pagano al mese. “Al mese prendo 1800 euro, la mia compagna fa la centralinista – precaria – da casa dove le dicono perfino quello che deve dire quando non sa cosa rispondere”.
Sì accade veramente. Se sei in difficolta, qualcuno dall’altra parte della cornetta, mentre sei in pigiama interviene e ti dice cosa devi dire. Prende 700 euro al mese. Con mutuo, assicurazione auto, bollette, spesa aumentata, qualche sfizio perché vivaddio qualche piacere nella vita bisogna anche goderselo, con un figlio in cantiere vivere diventa difficile. “Sai che c’è?”, mi dice lui. “Non mi sento motivato. Sento che non cresco. Dove vado? Sto pensando infatti di andarmene all’estero. Un mio amico l’ha fatto e si trova bene”.
Eccolo, penso. Eccolo là. Eccolo là il giovane tradito dalla vita, emblema di quella gioventù bruciata arsa viva perduta affranta e derelitta. Eccoli lì i giovani che non hanno prospettiva, che non vedono futuro, che non investono su se stessi perché investire su di sé vorrebbe dire passarsi sopra con la macchina. I giovani insoddisfatti. Fragili. Delusi. I giovani non ancora giovani. Ma non ancora vecchi. Caduti in braccio tra le due crisi. I giovani che guardano all’estero. Che se ne vanno. Che migrano. Sradicando ogni punto di riferimento. Ogni legame. Ogni sentimento. “Se la mia ragazza non vuole, faremo su e giù. Oppure ci si divide”. Ci si divide. Quante volte ci si divide per vite diverse. Distorcendo quello che poteva essere.
Nel 2041 mancheranno 3,6 milioni di occupati. Con una popolazione sempre più vecchia che invecchia ogni giorno e non rinasce. Non si fortifica. Non si rigenera. Vanno altrove a seminare i propri frutti. E quelli altrove vengono da noi.

sbetti

Primavalle. Anche qui ci scorre la vita

Settembre 2022.

La tipa che scende dall’auto dinanzi a me, sulla gamba destra, all’altezza del polpaccio, ha un tatuaggio. Ci sta raffigurato un uomo anziano che le sorride. Le somiglia. Credo sia suo padre. Il tatuaggio le copre tutta la parte che dal polpaccio le scende fino a giù verso la caviglia. Sgattaiola via con fare frettoloso. Sbrigativo. Spavaldo. Si vede che è insoddisfatta dalla vita. Qualcuno gliel’ha resa difficile. Qui siamo nei quartieri malfamati. Nei quartieri poveri. Nelle case popolari. Scenari di vite ai margini. Sobborghi di periferia. Intelaiate dalla malavita. Ci stanno vie ripide e scoscese che conducono a piazze che rievocano fatti di cronaca nera. La più brutta. Qui ci sono i bambini che giocano a pallone nei lotti immensi di cemento tra un palazzo e l’altro.

I vestiti appesi alla rinfusa dai balconi evocano donne insoddisfatte, buchi nella stoffa da carpentiere, felpe lunghe larghe da non far trasparire niente, asciugamani che ancora sanno di sudore. Qui si annida l‘emarginazione sociale. Le favelas. Qui i bambini in mezzo ai palazzi alti quanto navi, vociano, vociferano, chi non ha padri o madri cresce in mezzo alla strada. Fanno rimbalzare il pallone che provoca enormi tonfi. Bam. Bam. Urlano. Giocano. Si dilettano. Crescono. Troppo in fretta per essere piccoli. Accanto ci passa un gruppetto di ragazzi. C’avranno all’incirca 16 anni. Hanno tutti lo sguardo da macho, da duro. Sono tutti vestiti uguali. I jeans strappati che col cavallo toccano terra. Le catene ai piedi. Alle gambe. I capellini da baseball. Le magliette larghe, chi rossa chi nera chi bianca. Ti guardano con quell’occhio intrepido che sa di sfida verso il mondo. Scende un ragazzo. È pieno di tatuaggi. Gli chiedo se vuole fare due parole. Mi risponde che non vuole. Blatera qualcosa. Mi manda a fareinculo.

Il signore che mi apre la porta invece è gentile. Somiglia al topino delle Tartarughe Ninja. Al Maestro. Ha gli occhi incavati più incavati di un cava tappi. Le borse violacee sotto gli occhi gli rigano il volto. Ha gli occhi freddi fermi verdi. Non esprimono nient’altro che rassegnazione totale. Un uomo tradito dalla vita che la vita l’ha spremuta poco, gettandola via tra pasticche ed ecstasy. Ai piedi nudi indossa un paio di ciabatte. Dei pantaloni azzurri scoscesi che gli stanno su a malapena. Mi apre la porta con fare disinvolto. Buongiorno. Permesso. Scusi. Uscita dal quartiere è un labirinto di case. Di vie scoscese. La luce del sole riscalda i palazzi. Questi enormi colossi verdi gialli grigi e bianchi. In giro è un incrocio di culture. Droghe. Allucinogeni. Allucinanti. Il coreano che accompagna il figlio. Il messicano che lo tiene in braccio. Il marocchino che si gira la cicca alla fermata dell’autobus. È un incontro di donne nere bellissime africane con i capelli preparati e i corpi perfetti. Un incontro di market, supermercati, farmacie con le saracinesche abbassate; di suore che cercano di far del bene. Di bar che echeggiano gli stivali dei cowboy. I cigolii delle porte. È un incrocio di culture diverse. Di giovani che provano a crescere. A inventarsi qualcosa, sorvolando dai tetti ai garage delle auto. Luci psichedeliche. Cervelli sbiaditi in fumo. Allucinazioni. Ragnatele. Sale da musica rock. Gente da borghi di periferia che vuole emergere. Sui muri scrivono poesie. Frasi. Dipingono cuori. Anche qui ci scorre la vita.

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Maturità al via. La vostra strada sarà quella che vi stravolgerà la vita

La notte prima degli esami.
Ieri durante un’intervista che mi hanno fatto per l’inchiesta sulla Bibbiano dei nonni, il giornalista Antonino D’Anna a un certo punto mi fa: “Serenella cosa farai domani?”. Io ci ho pensato qualche secondo, che in radio pare un’eternità e gli ho risposto: “Domani studio”. Sto facendo un’altra inchiesta e domani studio. Io me la ricordo la notte prima degli esami. Era il 2003. L’estate torrida. Quella calda afosa. Quella che ti mancava l’aria. Quella che l’afa la sentivi che ti cappiava il collo. Te lo stringeva. Te lo stritolava. Te lo ingolfava. Quella che ti facevi la doccia e ti pareva di non essertela fatta. Mica c’erano i condizionatori potenti in ogni stanza come oggi.
Quella che ti lavavi le mani e sudavano sudavano sudavano. Erano unguenti, pingui, lasciavano la scia sulla carta che pareva il lardo di un maiale sopra il tavolo del banconiere.
Io avevo già le dita ribelli. Dio se le avevo. Avevo capito che se volevi lottare potevi farlo con le parole. Assaporavo quei suoni che le parole e la musica mi regalavano e ringraziavo sempre Iddio quando qualcuno mi insegnava una parola nuova. Era l’estate calda e afosa dove i piedi ti si incatramavano per terra. Sentivi le gambe pesanti galleggiare, te le portavi appresso come fossero croci. Così dimagrita e scarnificata da stress e notti insonni. Arrivai al tema di italiano con quattro vocabolari in mano. Garzanti. Zanichelli. Sinonimo e contrari. Il vocabolario vecchio di mio nonno passato a mia madre che glielo aveva passato a suo fratello a mio zio che lo aveva passato a me dove mio nonno ci aveva studiato all’Università. Ero lì vestita di nero, con i capelli legati, dimagrita di quattro cinque chili, gli occhi annebbiati dal sonno, ingigantiti dalle occhiaie. E quelle dita che volevano scrivere. La sera prima l’avevo passata con le mie amiche a casa dei miei a mangiare olive ascolane, quante risate a volte isteriche, l’ansia. il dubbio. Il traguardo. Il confine. Il conforto. Quanti sentimenti tutti nello stesso giorno. La falsa illusione di diventare grandi. Quella mattina la sigaretta prima di entrare fu la più bella.
Al tema presi 15/15. Un tema perfetto. Fuori le righe. Non una riga fuori posto. Parlavo di diritti. Di diritti umani. Avevo trovato un professore fuori dagli schemi che apprezzava le mie teorie. Ci sono dei diritti universali dicevo, che diamine! Che vanno al di là delle bandiere. Destra. Sinistra. Blu. Verde. Rosse. Fucsia. Vanno al di là delle ideologie. Vanno al di là della religione. Mi ero incaponita poi con questi diritti umani perché credevo che da lì provenisse l’etica. Quella che cercavo. La cercavo negli sguardi della gente. Nel lavoro. Nello studio. Nella danza. Negli amici.
Feci il tema. Gli esami passarono. Feci l’orale e da lì iniziò un altro mondo. E quanti altri ancora. Gli esami continuarono. E non finirono mai. Mai, nemmeno ora in ogni pezzo, in ogni servizio, in ogni parola. Nemmeno prima quando cercavo la mia strada.
Poi un giorno la tua strada arriva. Ti si presenta davanti e ti stravolge la vita. Te la prende e te la rovescia la vita. Ci fa le capriole. Le acrobazie. Le spaccate in aria. Inizi a calpestarla. E capisci che quello che stai facendo era quello che avevi sempre cercato. A chi oggi ha la maturità – mi piace ancora chiamarla così – dico: cercate sempre la vostra strada. E quando l’avete trovata abbiatene rispetto, trattatela con cura. Perché sarà l’unica che darà un senso alla vostra vita.

sbetti

Se cercate una trattoria a due passi dai Fori Imperiali

Affisse sul muro di una strada in salita, due parole mi balzano agli occhi. “Why not”. Perché no.
Osservo la scritta e continuo a farmi mille domande. Mi serve un posto dove mangiare.
“Se cercate una vecchia trattoria, a due passi dai Fori Imperiali, nel quartiere Monti e non siete super super sofisticati, questo è il posto giusto”, dice la recensione su TripAdvisor.
Dopo vari scarpinamenti, senza rendermene conto, ci sono arrivata. La vecchia trattoria si chiama Vecchia Roma.
Il tipo che mi accoglie ha l’accento romano. Hai presente quello romanesco romanaccio o solo semplicemente romano?
Nel locale, sopra appeso al muro, quello che fa da arco per accedere all’altra sala, c’è una sciarpa che ha i colori della Roma.
C’è scritto “Che Dio ve furmini”. Non proprio un bell’augurio quando entri dentro in un posto, ma rende bene l’idea dell’aria che si respira.
A Roma non si fanno tanti problemi, una volta ho visto un cameriere uscire fuori da una piadineria che al tipo che gli stava davanti gli diceva: “Aooo te la magni ssa piadina”.
Non mi piacciono le trattorie quelle super sofisticate dove la gente sta impettita e ti guarda mentre mangi e se per caso prendi i grissini con le mani ti fulmina con gli occhi. O quelle trattorie dove ti portano le pietanze su grandi piatti ma le portate sono talmente minuscole che fatichi a trovarle e infilzarle con i rebbi della forchetta.
Questa trattoria di Roma invece era il posto giusto. Ci sono stata una sera. Il personale era tutto cortese, il menù te lo dicono a voce e se non capisci devi fartelo ripetere, se loro arrivano a fine lista e tu hai dimenticato i piatti in cima, loro te li elencano di nuovo e ci mettono in mezzo qualche battuta. “Che sci magnato oggi? Pane e dimenticanza?” “Madò quanti anni c’hai? Pppe dimenticà cussì in fretta le cose”…
Poi esci. Fai quattro passi. Pensi.
Ripassi davanti a quelle due parole: “Why not”.
Sulla lavagna di un locale invece ci sta scritto: “La vita è come un libro. Quando qualcosa va storto non chiuderlo, semplicemente volta pagina”.

sbetti

Eppure nessuno vuole abbattere i cani

Qualche tempo fa mi sono occupata di lupi. E mi avevano colpito le parole di un esperto che avevo intervistato sull’Appennino tosco ligure.
Mi aveva detto che ogni anno, in Italia, ci sono oltre 71 mila ricoveri per ferite provocate dai cani.
E che non per questo ci mettiamo a sterminare tutti i cani del mondo.
Una posizione abbastanza condivisibile soprattutto col fatto che alcune volte i padroni degli amici a quattro zampe sono quattro zoticoni impressionanti.
Mi riferisco a quelli che detengono i cani come allarmi di sicurezza per le loro egregie ville. Ultimamente, infatti, ne vedo di qualunque stazza liberi.
Liberi di girare in mezzo ai giardini frequentati dai bimbi. Liberi di andarsene a zonzo in mezzo ai campi e di correre per strada in mezzo ai runner. Sono cani aggressivi, dobermann, rottweiler. Che se proprio uno deve tenere un cane di queste dimensioni e con questa carica aggressiva, abbia almeno la compiacenza di tenerselo chiuso in casa, in giardino, al cesso, dove gli pare, ma non in giro. Per non parlare poi delle merde di cane che finiscono per strada e anche qui ci sarebbe un capitolo da aprire.
La vicenda dell’orsa Jj4 è più o meno la stessa cosa.
Purtroppo per una mia predisposizione innata nutro una IMMENSA scarsa fiducia nell’umanità intera. Gli esseri umani sono quattro zoticoni presuntuosi arroganti incivili e cafoni che credono di poter cambiare la natura perfino facendo nascere i bambini a destra e a manca.
Che credono di avere in mano le redini del mondo e invece non sanno nemmeno tirare la cordicella del water nei bagni pubblici (E forse nemmeno in quelli di casa).
L’orso, come qualche altro esemplare, in Italia è stato importato. Importato con quei grandi bei progetti, acchiappaturisti, di cui i politici e gli studiosi si riempiono la bocca.
Tutti piani finanziati con i soldi pubblici ossia con i nostri e che mancano di piani di contenimento. Ossia questi progetti funzionano così: si importano gli esemplari, li si immettono nell’ambiente, li si lascia liberi di pascolare, questi si riproducono e all’improvviso ci ritroviamo invasi e la situazione sfugge di mano.
Così una volta scoppiata l’emergenza, si dice così ora, l’essere umano cosa fa. Crede che per risolvere il problema basti abbattere un orso che ha avuto la sfiga di incappare in un runner che stava correndo in mezzo al bosco.
È accaduto con i lupi. I daini. Con qualunque animale creiamo, importiamo, partoriamo, facciamo arrivare perché ci crediamo padroni di poter rovesciare e manipolare la natura come ci pare e piace.
Ecco la vicenda dell’orsa in Trentino è proprio questo. Lo specchio della grettezza e della bassezza della nostra società. Che ti usa e poi ti getta via. Che ti sfrutta e poi ti ammazza. Che se ne serve e poi se ne disfa.
Che si crede lupo e invece è agnello.
Che si crede padrona del mondo e invece non sa nemmeno controllare le merde dei propri cani per strada.

sbetti